Phoenix

di ___MoonLight
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Let the flames begin ***
Capitolo 2: *** It could've been worse ***
Capitolo 3: *** In dream ***
Capitolo 4: *** One way road ***
Capitolo 5: *** As Always ***
Capitolo 6: *** Get off my cloud ***
Capitolo 7: *** Heart of steel ***
Capitolo 8: *** Another brick in the wall ***
Capitolo 9: *** Time is running out ***
Capitolo 10: *** Stumbling ***
Capitolo 11: *** Falling ***
Capitolo 12: *** Sinking ***
Capitolo 13: *** Psychosocial? ***
Capitolo 14: *** Hysteria ***
Capitolo 15: *** Scar tissue ***
Capitolo 16: *** Twist and shout ***
Capitolo 17: *** High hopes ***
Capitolo 18: *** Another family reunion ***
Capitolo 19: *** It's gonna be OK, someday ***
Capitolo 20: *** Close to the bottom ***
Capitolo 21: *** Tiptoe higher ***
Capitolo 22: *** Rage against the machine ***
Capitolo 23: *** Unsustainable ***
Capitolo 24: *** Message in a bottle ***
Capitolo 25: *** Your bridges are burning down ***
Capitolo 26: *** Hycarus ***
Capitolo 27: *** Apocalypse, please ***
Capitolo 28: *** Of storms, shells and shattered dreams ***
Capitolo 29: *** Innervision ***
Capitolo 30: *** In noctem ***
Capitolo 31: *** Iron and bones ***
Capitolo 32: *** Chasing cars ***
Capitolo 33: *** It can only get better ***
Capitolo 34: *** Stay hungry ***
Capitolo 35: *** Stay foolish ***
Capitolo 36: *** Friends will be friends ***
Capitolo 37: *** Show and tell ***
Capitolo 38: *** No man is an island ***
Capitolo 39: *** Smoke and mirrors ***
Capitolo 40: *** Kintsugi ***
Capitolo 41: *** Dancing in the dark ***
Capitolo 42: *** Showbiz ***
Capitolo 43: *** Legacy ***
Capitolo 44: *** Supernova ***
Capitolo 45: *** Neutron star ***
Capitolo 46: *** Highway to Hell ***
Capitolo 47: *** Knockin' on Heaven's door ***
Capitolo 48: *** The show must go on ***
Capitolo 49: *** Sometimes you can't make it on your own ***
Capitolo 50: *** Stand by me ***
Capitolo 51: *** Walk of life ***
Capitolo 52: *** Epilogo - Phoenix ***



Capitolo 1
*** Prologo - Let the flames begin ***






PHOENIX

"Non voglio dire che dalle ceneri di una barbara prigionia
non si sia mai personificata metafora più grande
della Fenice nella storia dell'uomo!"
[Tony Stark - Iron Man 2]


*

.

Prologo

.

.
Let the flames begin



"Dark shines
Bringing me down
Making my heart feel sore"

[Dark Shines - Muse]



Forse è solo svenuto.
È buio e non scorge un singolo barlume di luce a parte la vaga luminescenza del reattore arc. Pochi secondi e anche quella si dissolve tremolando, lasciandolo sprofondare nell'oscurità più assoluta e facendogli perdere un battito, atterrito dalla consapevolezza che il suo cuore potrebbe fermarsi da un momento all'altro.
Non accade.
Fa per muoversi e si accorge dall'insolita leggerezza del suo corpo che non indossa più l'armatura. È nudo, vulnerabile e indifeso.
Non riesce a capire come sia possibile. La sua mente sembra girare su se stessa nel tentativo di orientarsi, di rievocare un'immagine familiare e rassicurante. L’ultima cosa che ricorda è che fino a poco fa era su un tetto, in un'armatura semidistrutta e con Iron Monger deciso a ucciderlo.
Barcolla come i pensieri che gli sfrecciano caotici in testa, senza riuscire a formulare una spiegazione coerente. Cerca di guardarsi le mani, ma è così buio che non ne distingue nemmeno il profilo. Non ha la percezione dello spazio attorno a sé: è come se fosse incorporeo. Sembra che faccia molto freddo, perché ha l'impressione che il suo respiro si condensi in vapore, ma il buio gli impedisce di esserne certo. Compie infine qualche passo incerto, temendo di incontrare il vuoto sotto di lui. Un senso di nausea lo assale quando a tratti non riconosce più il sotto dal sopra, la destra dalla sinistra...
“Ho perso i sensi?”
Le vertigini lo fanno quasi crollare in ginocchio ed è costretto a fermarsi, pregando che il mondo, qualunque esso sia, smetta di vorticare attorno a lui.
“Sono morto?” è il successivo pensiero che lo assale, così chiaro e definitivo che se ne sente quasi schiacciare.
Improvvisamente sente un forte click, che associa istintivamente a un qualche meccanismo che non riesce a vedere, e pochi istanti dopo un vago bagliore illumina quella che identifica come una specie di parete. Non riesce a capire da dove provenga la luce: non vede lampade, non ci sono globi luminosi, né neon. Esiste e basta. E dopo qualche istante nota, con un'inquietudine che non sa spiegarsi, che ha una tenue sfumatura azzurra.
Acquista un poco di visuale, che gli dà solo un'idea più precisa di quanto sia immenso il luogo in cui si trova: un ambiente sconfinato, avvolto di nero, con un soffitto che non riesce a distinguere e che non è neanche sicuro ci sia, come se si trovasse nello spazio profondo.
Non riesce a stupirsi.


***

Pepper premette il pulsante con foga disperata, sentendo il richiamo di Tony che somigliava più a un grido di dolore.
Un improvviso boato le riverberò nelle ossa, facendola sobbalzare, e vide i flussi di energia del reattore accumularsi nel fragile involucro di vetro, sfrigolando e sprizzando scintille mentre si caricava sempre più, diventando incontenibile.
Spinta dall'istinto si gettò dietro a un mucchio di casse in acciaio, appena in tempo per ripararsi dall'onda d'urto che si sprigionò di lì a pochi secondi. Rimase immobile per istanti interminabili, rintronata dal tintinnio dei resti del lucernaio andato in frantumi.
Represse la paura solo quando realizzò che Tony era ancora sul tetto, solo, ferito, forse...
Annullò il pensiero e scattò in piedi, uscendo dal suo nascondiglio. Scorse qualcosa di molto grosso e molto pesante cadere dal tetto, diretto proprio nel cuore del congegno. Riconobbe con uno spasmo di terrore l'armatura di Stane, e rimase paralizzata sul posto, gridando alle proprie gambe di muoversi. Scattò verso l’uscita nell’istante in cui il corpo esanime di Stane sprofondò nell’energia liquida che ancora ribolliva nel reattore. Registrò appena l'agente Coulson che la afferrava per un braccio costringendola a correre più veloce.
Uscì nell’aria fredda della notte e sentì il calore dell’esplosione bruciarle la schiena e il ruggito delle fiamme dietro di lei. Si girò di scatto verso l'edificio, ridotto ormai in macerie, e corse di nuovo dentro ignorando la paura che la attanagliava e i richiami allarmati di Coulson.
Il calore era soffocante, ma non vi badò, addentrandosi nella struttura ed evitando i focolai brucianti che avviluppavano le apparecchiature. Era appena giunta in vista dei resti fumanti e carbonizzati della sala del reattore quando accelerò il passo, allarmata da un clangore metallico, come se qualcosa si fosse appena schiantato dal... tetto. C'era una sola altra persona in quell'edificio oltre a lei, e sentì un morsa di panico stritolarle lo stomaco. Sbucò infine davanti al reattore, col respiro corto. Una sagoma, avvolta dai resti contorti di un'armatura rosso-oro, era abbandonata inerte sul pavimento irto di vetri.
Per un attimo non riuscì neanche a pensare, a muoversi, a respirare. Poi il fiato che aveva trattenuto si riversò in un grido straziato:
«Tony!»


***

Si accorge che quello che aveva scambiato per una parete è in realtà uno specchio. Fissa il suo riflesso, accigliato, e la perplessità inizia a farsi largo in lui: dovrebbe avere un taglio sulla tempia e uno squarcio sulla gamba destra, ma la pelle è intatta, il reattore arc al suo posto, anche se spento. Nota una macchia vermiglia che gli sfigura il volto, indefinita, di un rosso così scuro da sembrare nero. Ruota leggermente il capo per vedere meglio, ma ora il suo viso è perfettamente normale e integro. Forse era solo un'ombra. Forse sta impazzendo. Forse è già impazzito.
Ticchetta sulla piastra metallica del reattore in un gesto abituale. Cerca di riflettere ma la sua mente è vuota e indolente, offuscata da una nebbia oscura e venefica.
Non riesce a capire.
Sente il velo della paura posarsi sulla sua pelle.


***

Il suo volto era una maschera di sangue, tanto da essere quasi irriconoscibile. La gamba era piegata in un’angolazione innaturale, una massa indistinta di metallo e carne che la fece rabbrividire. Il reattore arc nel suo petto lampeggiava irregolarmente, e il braccio... il braccio.
Sentì un vuoto allo stomaco, mentre continuava a chiamare il suo nome con tutte le forze che aveva e tentava invano di fargli aprire gli occhi.


***


Uno strano pizzicore gli irrita il braccio e lo guarda d'istinto. Spalanca gli occhi, esterrefatto: la sua pelle si sta ritirando, come onde dopo essere scivolate sulla spiaggia.
Grida, orripilato, ma non sente dolore, solo una sorta di fastidio e prurito; guarda il resto del suo corpo, ma è intatto, a parte la gamba destra, che sta subendo la stessa sorte del braccio. Grida ancora, inziando a respirare affannosamente, senza sapere come fermare quell'orrore. Avverte un vago prurito anche all'occhio sinistro e scorge per un attimo se stesso nello specchio, ma distoglie immediatamente lo sguardo. O almeno vorrebbe distogliere lo sguardo, ma è come ipnotizzato.
Riesce a scorgere vene, tendini e legamenti all'interno del suo corpo, in modo così dettagliato da poterne rimanere quasi affascinato, se un cieco terrore non avesse preso il controllo della sua mente.
Il processo si blocca e rimane a fissare il suo braccio scarnificato. Ha il respiro corto e gli sembra che il suo petto stia per collassare.
All'improvviso, una sottile patina argentea ricopre l'osso, poi pian piano il resto dell'arto, facendolo rilucere debolmente nella penombra. Sobbalza e si volta, cercando di ritrarsi, di scappare, ma dietro di lui è apparso un altro specchio che gli restituisce la stessa immagine proiettata all'infinito. Al posto dei legamenti si stanno formando altre componenti dall'aspetto metallico, e le vene e le arterie sono di un blu e un rosso troppo acceso per essere naturali.
Lo stesso accade alla gamba e, immagina, anche alla parte sinistra del volto, che si rifiuta di guardare e scorge solo come un alone rossastro e indistinto. Paradossalmente si calma, ma il cuore gli martella le costole e i pensieri sembrano voler schizzare via dal cranio per quanto sono numerosi.
Sta diventando veramente un “uomo di ferro”? Tra poco toccherà forse al suo intero corpo diventare un automa di metallo?
Non prova ancora dolore, e forse è la cosa che lo spaventa di più.


***

Le parole di Rhodes risuonavano lontane, incomprensibili. Coulson che tentava di allontanarla dal corpo di Tony sembrava una presenza incorporea, perché lei non voleva muoversi, non voleva lasciarlo . Si divincolò dalla sua stretta, incapace di parlare, e lui la lasciò, dicendole qualcosa che non comprese, ma che sapeva essere importante. Si lasciò infine portare un poco più lontano per lasciare spazio ai soccorsi. Si sentiva avvolta da una spessa nebbia che sembrava isolarla da tutto ciò che le accadeva intorno.
L’urlo di Tony la riportò alla realtà e si girò di scatto, vedendolo contorcersi in preda a un dolore convulso. Fece per precipitarsi da lui, ma Phil la trattenne con fermezza per le spalle, e lei non poté fare altro che rimanere a guardare mentre gli agenti dello SHIELD cercavano di trasportarlo su un elicottero. Non riusciva più a parlare e si sentiva come se qualcosa le avesse risucchiato ogni energia, così si lasciò scivolare a terra, improvvisamente annientata dal dolore e dalla fatica.
Phil le parlava in tono gentile e rassicurante, ma lei escluse le sue parole e chiuse gli occhi, esausta.


***


Il dolore divampò nel suo corpo facendolo ripiegare su se stesso.
Era troppo, più di quando gli era esploso quel missile addosso, più di quando gli avevano impiantato il reattore, più di quando erano morti i suoi genitori. Si sentì annichilito dalla sofferenza e spalancò la bocca in un grido muto, mentre i polmoni ardevano per la mancanza d'aria. La testa sembrò implodere dalla sofferenza. Il mondo diventò un concerto di lampi psichedelici, un abbraccio rovente che lo avvolse e lo soffocò prima di gettarlo nel buio.
Sentì il clangore degli arti metallici che toccavano terra, poi un grido.
Un altro.
Un boato ovattato e infine un mormorio lontano...
«Dove sono?»




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AVVISO [11/05/2018]
Questa storia è stata completamente revisionata. In alcuni casi le modifiche sono superficiali, in altri i capitoli hanno subito pesanti rimaneggiamenti per far fronte all'evoluzione della storia nel corso di questi anni. Se c'è qualche anima pia che ancora segue e capita da queste parti, si consiglia la rilettura completa della fan-fiction prima di leggere i capitoli nuovi – dal 30° in poi :)
(Le note di fine capitolo sono rimaste inalterate, salvo chiarimenti relativi alle aggiunte/modifiche.) 

[_Lightning_]


Note Delle Autrici:


N.B:
- L: _Lightning_

-S: MoonRay

Dopo quattro mesi di assenza da EFP risorgiamo dalle ceneri. E non c'è da ridere, stavolta: Tony soffre! Che intuito, davvero.
Dunque, dunque, dunque. Che dire? Non diciamo, perché sta a voi scoprire cosa è successo a quel povero cristo. Eh, già, niente spoiler in questo primo capitolo. Fatevi forza e, se siete intrepidi/e, passate al prossimo!
Sappiate solo che, toccato il fondo, non si può che risalire. Quante, quante volte ripeteremo questa frase nel corso della storia... tenetevi forte.
Vi lasciamo all'inizio di questo sclero con tanti baci e abbracci, per quanto lo possa consentire un capitolo del genere.
Un grazie a chi leggerà/recensirà :)

Moon&Light 

P.S.: Le altre nostre storie sono sui nostri account separati, of course. Chi avesse voglia di sorbirsi un po' d'angst/scleri vari, è invitato a prendere il depliant e iniziare la visita guidata del magico mondo di Moon&Light! Per ora, la nostra è una convivenza temporanea
 [L:"Mi ha chiamato, Watson?"] (S: Sherlock, a cuccia! èwé) *sclero-time* Glaucopis capirà...

EDIT 08/05/2019: In seguito al ritrovamento di un appunto comune datato 2014 (fare una rilettura completa di tutto, e dico TUTTO, prima del gran finale si è rivelato cruciale) ho apportato delle modifiche al capitolo, cambiando layout e tempi verbali. A dispetto delle apparenze, è una modifica molto rilevante.

 




 

© Marvel

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Capitolo 2
*** It could've been worse ***






Parte Prima


FLAMES

.

"L’uomo non è fatto per la sconfitta.
Un uomo può essere distrutto, ma non sconfitto."
E. Hemingway

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-

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.

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-.

1


It could've been worse




"On this bed I lay
Losing everything
I can see my life passing me by
Was it all too much?
Or just not enough?
Wake me up,
I'm living the nightmare..."


[Time Of Dying – Three Days Grace]



5 Gennaio 2009, L.A. General Hospital

Dove sono?”
La prima cosa che percepì fu un'intensa ondata di freddo che gli attraversò fastidiosamente il corpo. Poi la sensazione – più una supposizione che una certezza – di essere sdraiato, forse su un letto – ed in quel caso era anche piuttosto scomodo. Un odore acre lo prese alla gola, e solo allora si rese conto di respirare a stento e che ogni respiro era una stoccata nei polmoni.
Un irritante
bip risuonava in sottofondo, lontano...
Aprì di scatto gli occhi, senza ben sapere come avesse fatto e nemmeno se l'avesse davvero voluto. Venne subito accecato dalla luce troppo forte per le sue retine sensibili, così fu costretto a sbattere più volte le palpebre prima di mettere a fuoco dove fosse. Si ritrovò a fissare uno spazio bianco e indefinito. Gli ci volle qualche secondo per riconoscere un soffitto.
Non fu un bel risveglio, perché a breve distanza gli si rovesciarono addosso in un sol colpo tutte le sensazioni rimaste sopite fino a quel momento: un forte senso di oppressione al petto, un vago prurito al braccio e alla gamba destra, l'ago di una flebo nell'incavo del gomito e una zona d'ombra sull'occhio sinistro...
Capì di avere una fasciatura intorno alla fronte che passava anche sotto il collo, impedendogli così di muoversi e rendendolo cieco da un lato. Si sentiva girare la testa e faticava a restare cosciente: doveva essere l'effetto dei sedativi. Percepiva il bordo fastidioso di una mascherina per l'ossigeno premergli sul naso, ma non aveva la forza per spostarla.
Ruotò l'occhio scoperto – anche quello era uno sforzo titanico – fino a scorgere una figura seduta nella poltroncina accanto al letto. La riconobbe all'istante, con un indicibile sollievo.

Pepper”, provò a chiamare, ma emise solo un gemito roco e incomprensibile; bastò a far alzare di scatto la testa alla donna, con un'espressione a metà tra lo speranzoso e il diffidente, come se avesse già vissuto troppe volte quella scena. Quando incrociò i suoi occhi rimase interdetta, e Tony, incapace di parlare, si limitò a forzare un lieve sorriso, un po' sghembo per via del labbro spaccato.
«Tony!»
Gli fu subito vicina, come rianimata, e si aspettò che iniziasse a tempestarlo di domande su come si sentisse e su ogni minimo doloretto che provava, invece gli poggiò solo una mano sulla fronte, con uno sguardo che gli trasmise la sua inquietudine. Invece delle mille domande intelligenti che avrebbe potuto porre, si limitò a gracidare un'unica parola, soffocata dalla mascherina:

«Acqua.»
Si sentiva la gola secca e la lingua di carta vetrata: quando parlò ebbe la netta sensazione che le sue corde vocali stessero per spezzarsi.
«È sotto sedativo: non può ancora bere,» rispose Pepper con voce tremante.
«Ah. Bene. Cioè male.» Tossì forte e gli sembrò di avere del sangue in bocca.
Pepper gli scostò i capelli dalla fronte, sempre con uno sguardo indecifrabile, come se stesse aspettando una catastrofe che tardava ad arrivare, e questo non faceva che agitarlo di più. Possibile che fosse stato così male?
«Pepper?»
Il sorriso con cui la donna tentò di rispondere assomigliava più a una smorfia di dolore. Decise di sdrammatizzare come solo lui sapeva fare: si sarebbe irritata a morte, ma almeno avrebbe capito che adesso stava bene. Si scostò la mascherina dal volto, concludendo che riusciva a respirare abbastanza bene anche senza.
«Devo aver mangiato pesante ieri sera... » esordì con un mezzo ghigno.
“Ahia,” protestò dentro di sé, quando una decina di muscoli si tesero dolorosamente insieme al sorriso.
«... perché ho fatto un sogno tremendo. Era assurdo e assolutament–»
Si bloccò, interdetto.

Non si era ben reso conto di cosa l'avesse fatto interrompere, poi capì: aveva cercato di sistemarsi la benda sull'occhio con la mano destra, e l'aveva fatto... ma la benda era rimasta al suo posto, come se non l'avesse mai toccata. Provò ancora, e stavolta si accorse di non percepire la stoffa sotto ai polpastrelli. Pepper lo stava fissando con occhi lucidi, come se capisse quello che stava accadendo, al contrario di lui. Spostò lo sguardo verso il suo braccio e fu travolto da un'ondata di gelo.

Vuoto. Il suo braccio non c'era.
Pepper iniziò a piangere sommessamente.

«Merda


***

«Pepper...» rantolò, cercando di issarsi sui cuscini con un braccio solo.
"No. No.
No."
«Stia fermo!»
Pepper tentò di farlo sdraiare nonostante le sue proteste, ma Tony era ora smanioso di sapere cos’altro lo aspettasse; lei gli coprì l’occhio, ma scostò bruscamente la sua mano, sollevando il lenzuolo che avrebbe dovuto nascondere la gamba destra.

Vuoto. La gamba era troncata sopra il ginocchio.
Si lasciò ricadere all’indietro, portandosi la mano al moncherino inferiore nonostante il dolore che gli causava anche solo sfiorarlo. Respirava affannosamente, mentre Pepper cercava di catturare il suo sguardo vacuo, parlandogli senza che lui riuscisse davvero a sentirla.
«Cos’è successo?» si sentì dire come da molto lontano.

Non è possibile. È impossibile. Sto sognando. È ancora un sogno, vero?”
«È stata colpa... di Stane, lui ha... ha fatto questo,» cercò di evitare la domanda, e si interruppe non volendo scendere nei dettagli che sembrava ricordare ancora così bene.
«Che cos’è successo?» ripetè Tony, più forte, chiedendosi come facesse a rimanere ancora così calmo.
«Penso che sia meglio rimandare la...»
«Mi dica che diavolo è successo!» inveì infine, e fece come per sbattere il pugno destro sulla brandina... gesto che non avrebbe mai più potuto compiere e che gli inviò solo una scarica di dolore in tutto il corpo.
Pepper sussultò, colpita dalla sua veemenza e dai suoi occhi lucidi di frustrazione che esigevano una spiegazione. Da lei, non dal medico di turno.
«Si calmi. Lo so che è sconvolto, ma non ho passato qui le ultime due settimane per vederla stare male di nuovo,» ribattè, in un tono più duro di quanto intendesse.

«Due settimane!»
«Sì...»
Tony lanciò un’occhiata ai due arti mancanti, ancora in stato confusionale.
“I conti tornano.”
Il suo sguardo era come calamitato dalle sue ferite, ma lui non voleva guardare. Non doveva, perché quel sogno era già abbastanza vivido senza doversi imprimere nella memoria ogni particolare.
"Questo è un sogno," si ripetè disperato, ma le fitte di dolore che lo tormentavano erano più che reali.
Un pensiero più definito degli altri emerse dalla massa confusa che gli ottenebrava il cervello, e risuonò nella voce di Pepper: doveva rimanere calmo. Lasciare che quel panico che sentiva occludergli il petto trapelasse non l'avrebbe aiutato. Serrò il pugno, l'unico che gli rimanesse, respirando a fondo e a fatica.
Si sentiva come quando si era svegliato in quella grotta, terrorizzato, al freddo e attanagliato da un dolore accecante, con dei cavi che sporgevano dalla macchina infernale che era diventata suo cuore di fortuna. All'epoca non aveva lasciato che il panico avesse la meglio su di lui, anche se era circondato da uomini armati che lo volevano morto. Aveva combattuto ed era riuscito a trovare una soluzione a ciò che avrebbe dovuto ucciderlo nonostante la situazione tutt'altro che favorevole.
Adesso era in un ospedale, al sicuro, assieme all'unica persona al mondo che tenesse a lui – e alla quale tenesse. Riusciva a percepire i suoi occhi cerulei che lo trapassavano mentre gli stringeva la mano, che l'aveva cercata inconsciamente aggrappandosi a lei con forza, quasi potesse aiutarlo a uscire dal turbinio dei suoi pensieri e strapparlo da quell'incubo.

Guardò di nuovo i moncherini, bendati strettamente, e di nuovo non capì. Gli sembrava che i suoi arti fossero lì, ancora attaccati al suo corpo. Piegò il gomito, ne percepì il movimento, ma c'era solo aria al suo posto. Fece lo stesso col ginocchio, provò a sollevare il piede, ma il lenzuolo rimase al suo posto, immobile.
Scosse la testa, chinando il capo fattosi pesante come piombo. Il suo cervello si stava rifiutando di elaborare quello che era successo e non riusciva a far combaciare le discrepanze tra ciò che sentiva e ciò che vedeva. Si sentiva sprofondare in una sensazione di vuoto confuso, come se fosse sollevato a qualche metro da terra sul punto di schiantarsi, ma ci fosse ancora un esile filo a trattenerlo che lo faceva ondeggiare qua e là.
Strinse la presa su quella calma momentanea e sulla mano di Pepper, rimasta in silenzio fino ad allora. Si voltò a guardarla e notò solo allora i segni delle lacrime sulle sue guance. Quel dettaglio gli sembrò improvvisamente molto più preoccupante delle sue condizioni fisiche. L'unica volta che l'aveva visto sul punto di piangere era stato al suo ritorno dall'Afghanistan. E quelle, si rammentò con una stretta al petto, erano state lacrime di gioia, arrivate dopo non sapeva quante lacrime di paura e preoccupazione per lui. Non riuscì a celare il suo turbamento nel guardarla, ma si sforzò di ricacciare indietro la disperazione che sentiva premere dentro di lui, pronta a traboccare.
Non poteva farla preoccupare ancora con le sue scenate. Si limitò ad ancorarsi nei suoi occhi, cercando di riprendere il controllo del suo corpo e dei suoi pensieri. Lei restituì il suo sguardo con fermezza, facendogli capire con quel semplice silenzio che non era solo.
Sentì sciogliersi uno dei mille nodi di tensione stretti nel suo stomaco.

"Respira. Quello puoi ancora farlo, almeno."
E respirò, per molti minuti, fino a sentirsi la testa leggera e il corpo pesante, o forse il contrario. Aveva sicuramente incamerato troppa aria, ma Pepper rimase lì, a fargli da àncora per evitare che iniziasse a fluttuare per davvero. Si concentrò su quel semplice atto meccanico, estraniandosi da tutto il resto, preferendo le fitte acute alle costole al dolore sordo ai moncherini. Quando iniziò a credere di poter percepire ogni atomo d'ossigeno che entrava nei suoi polmoni e ogni molecola di anidride carbonica che ne usciva, si convinse di essere abbastanza padrone di sé stesso per aumentare il suo raggio di percezione, e si accorse di quanto fosse fredda la stanza, con solo la sottile veste ospedaliera a coprirlo. Avvertì la pelle d'oca sulle... sul braccio, e represse un piccolo brivido. Strinse le dita e, oltre alla pelle liscia di Pepper, avvertì il tessuto ruvido delle lenzuola contro i polpastrelli. A quel punto mise a fuoco anche la propria vista, rimasta annacquata fino ad allora, e perse altri lunghi minuti a contare i fitti pois che decoravano la stoffa del suo abito. Deglutì, concludendo che non voleva concentrarsi troppo sullo sgradevole sapore di medicinali e sangue che aleggiava sulla sua lingua, e raccolse il coraggio per procedere col check-up attivo del proprio corpo, dopo quello passivo. Il suo secondo cuore gli sembrava un ottimo punto di partenza. Portò subito la mano al petto, sul reattore, grato di poter indirizzare i suoi pensieri su qualcosa di familiare:
«E tu? Almeno ci sei ancora,» osservò, allentando la veste fino a scoprirlo per poi estrarlo cautamente dal supporto; lo squadrò in controluce, sotto gli occhi ancora arrossati di Pepper.
Il blu illuminò fievolmente il suo palmo, rasserenandolo almeno in parte. Era vivo, Pepper era viva, il suo cuore batteva ed era ancora Tony Stark. Non era cambiato nulla.

Poteva far finta di star bene ancora per un po'.

Calmo. Doveva stare calmo.
«L’ha fatto sostituire... almeno stavolta non l'ha dovuto fare lei,» articolò a fatica, riuscendo a strapparle un sorriso sottile al ricordo della prima,improvvisata sostituzione del reattore.

«
Rhodey ha recuperato uno dei prototipi dal laboratorio,» la sua voce tremolò, ma non si ruppe.
«
E quello vecchio? Dopotutto è un suo regalo. Un regalo molto utile,» aggiunse, realizzando che Pepper gli aveva inconsapevolmente salvato la vita.
Se non fosse stato per quel vecchio e obsoleto reattore, sarebbe morto d'infarto. Si trovò a serrare il pugno nel pensare a Stane e a come l'avesse lasciato agonizzante nel suo salotto, condannandolo a morte certa. I suoi pensieri tornarono a farsi burrascosi. Lo "zio Obie" l'aveva pugnalato alle spalle. Chissà da quanto tempo progettava di farlo fuori, dietro tutti quei sorrisi amichevoli e quella sorta di atteggiamento paterno... si era lasciato raggirare come un bambino.
Fu lieto che la voce di Pepper lo distogliesse da quelle riflessioni:
«
Mi ha sempre detto di non essere un tipo nostalgico,» disse piano, forse per non far tremare ancora la sua voce «Ma ho tenuto il reattore vecchio, giusto per sicurezza,» concluse in tono lievemente canzonatorio.
Tony volle dimenticarsi per un momento dell’orribile situazione in cui si trovava per soffermarsi sul timido sorriso Pepper, forse rincuorata dal suo sfoggio di spavalderia. Si limitò a stringerle un poco la mano, in un gesto grato, per poi farsi più serio quando lo sguardo gli cadde inevitabilmente sul moncherino della gamba. Rughe di preoccupazione tornarono a disegnarsi sul suo volto.
«Posso ritenermi fortunato?» esalò, temendo di perdere il controllo da un momento all'altro.
«Direi di sì. Mi creda,» replicò lei, senza guardarlo.
«Non so se ritenerlo rassicurante,» appoggiò la testa al braccio rimasto ed iniziò a parlare come se pensasse ad alta voce, mascherando non seppe come il tremito della sua voce e dei suoi pensieri. «Ricapitoliamo: ho perso una gamba, e anche un braccio. Grandioso. Non ricordo assolutamente nul– anzi! Un lampo blu. Questo lo ricordo... ma non mi dice niente.»
“Memoria offline. Ci mancava questa."
«Non ho idea di quanto ancora resisterà il reattore, visto che è un prototipo mal riuscito, e probabilmente ho una ventina di lesioni interne. E ho ancora sete. Conclusione medica: prognosi riservata. Conclusione personale: sono finito in un letamaio, e sto cercando di essere delicato. Ma tutto sommato... poteva andare peggio,» sospirò infine, senza fiato e con una fitta alle costole probabilmente rotte.
«Poteva diventare ancora più irritante, scansafatiche ed egocentrico di quanto non fosse già,» concordò Pepper, in un debole tentativo d'ironia.
«
Quello sarebbe stato un guaio,» le diede corda lui, sollevato che si fosse ripresa, anche se aveva ancora gli occhi rossi e sembrava celare la sua preoccupazione nello stare al suo gioco: fingere, finché possibile, sarebbe stato meglio per tutti e due.
Scese un silenzio assoluto, ma non teso. Un silenzio necessario.
In quel mentre entrò di corsa nella stanza un medico; si bloccò così in fretta sulla soglia che quasi gli traboccò il caffè dalla tazza che teneva in mano.
«Salve,» salutò Tony con un debole cenno della mano buona.
Il medico ebbe un’attimo di esitazione, interdetto dall'apparente vitalità del paziente.
«Bentornato tra noi, signor Stark,» esordì con fare professionale.
Poggiò il caffè sul comodino e si avvicinò al letto.
«Oh, grazie.» Tony fece per prendere la bevanda, ma Pepper gliela soffiò appena in tempo sotto al naso.
«Questo è per me,» specificò lei, ringraziando il medico con un cenno del capo, che lui ricambiò appena.
«Sono il dottor Ian Mitchell, l’ho seguita durante la sua permanenza qui, anche se non può saperlo,» si presentò intanto l'uomo, piuttosto alto, con corti capelli grigio ferro e le lenti degli occhiali a schermargli gli occhi chiari induriti dalle rughe.
Tony gli tese la mano:
«Sa già chi sono. E scusi la sinistra,» borbottò, mentre il medico gliela stringeva con delicata fermezza.
«Ma le pare... si faccia dare un’occhiata,» disse infilandosi lo stetoscopio, lanciandogli uno sguardo vagamente sospettoso.
«Non mi sembra che ci sia molto da dire...» commentò lui, rassegnato, ma acconsentì a farsi visitare.
Fece cenno a Pepper di rimanere; dopotutto, l'aveva vegliato da incosciente per due settimane e poteva sopportare di farsi vedere senza quell'orrendo camice da ospedale. Sperò solo che il medico non dovesse scoprirgli le ferite, ma questi sembrava solo voler constatare le sue condizioni generali. Mitchell sembrò contrariato quando gli auscultò il respiro, e spostava in continuazione lo sguardo sul reattore.
«Non sto per andare in autocombustione, Doc,» sbottò infine, irritato anche per i mille dolori che scopriva di avere su tutto il corpo.
«Quel coso ci ha causato non sa quanti problemi con la risonanza magnetica,» borbottò lui, lanciando un'occhiata astiosa al congegno.
«Risonanza?!
Questo "coso" svolge il ruolo di un magnete! È un miracolo che non si sia guastato...» s'interruppe con un lamento quando gli sfiorò l'ennesima contusione.
Pepper intanto fissava assente il pavimento, persa nei suoi pensieri che molto probabilmente lo riguardavano. Anche lei aveva rischiato la vita, ma non sembrava ferita, a parte qualche cerotto superstite sulle mani.
Non ricordava nulla dello scontro... ma l'aveva salvata, di questo era certo. E poteva forse considerarla l'impresa migliore che avesse mai compiuto in vita sua. Si sentì talmente felice nell'averla lì con lui, sana e salva, che gli si formò un groppo in gola al solo pensiero di non averla lì.
Per una volta in vita sua non aveva fallito, anche se aveva pagato un caro prezzo. Aveva la consapevolezza di quanto sarebbe stata difficile e dolorosa la propria vita d'ora in poi, ma sapeva anche che non avrebbe mai rimpianto di aver sacrificato ciò che aveva perso per proteggerla. L'aveva messa in pericolo lui, in fin dei conti. E glielo doveva, almeno per averlo sopportato nel corso di tutti quegli anni invece di abbandonarlo in una pozza d'alcol e sangue. Le doveva la volontà che l'aveva spinto a uscire da quella grotta un anno prima.
Senza un paio d'arti poteva ancora cavarsela. Senza di lei... non ne era così convinto. Ma era , con lui.
Il panico allentò finalmente la sua morsa.

***


Finalmente Michell pose fine a quella tortura legalizzata e si piantò di fronte a lui a braccia conserte, serio.
«Per quanto riguarda la gamba e il braccio non c’è molto da fare, ma con l'aiuto di un chirurgo plastico potremmo riuscire a sistemare l'occhio, almeno dal punto di vista estetico,» annunciò, monocorde.
«
L’occhio?»
«Sì, l’occhio.»
«
Anche l’occhio?»
«Anche l’occhio,» confermò mestamente Mitchell, abbassando il capo.
Tony tastò rassegnato la benda e sentì con un sobbalzo lancinante l’orbita vuota sotto le dita, assieme alla sensazione di qualcosa che si lacerava da qualche parte nel suo addome.
«Anche l’occhio,» sospirò.
«Mi dispiace.»
«Non si preoccupi, il sinistro è sempre stato il mio profilo peggiore,» commentò assente, sentendosi distruggere da quell'ultima scoperta ma deciso a non mostrarlo al medico, e soprattutto a Pepper, che continuava a mantenere un religioso silenzio.
Mitchell gli scoccò un'occhiata dubbiosa, come se temesse che gli antidolorifici gli avessero dato alla testa. Tony non reputava la cosa improbabile; era sicuro che se non fosse stato sedato avrebbe come minimo avuto un attacco isterico. O forse sarebbe solo svenuto per il dolore, che per ora rimaneva un'ombra tagliente conficcata al posto dei suoi arti mancanti, impossibile da ignorare ma sopportabile. Si trovò a ringraziare la sua soglia del dolore decisamente più alta in seguito alla prigionia, prima di rendersi conto che ciò non era comunque un fatto positivo.
«Dicevo, dovremmo poter ricostruire senza troppi problemi la parte di viso sfregiata dalla scheggia,» riprese Mitchell, quasi con cautela.
Tony sussultò nel sentirsi definire
"sfregiato", ma resistette all'impulso di portarsi di nuovo una mano al volto. Si limitò ad annuire rigidamente.
Prima che Mitchell potesse aggiungere altro, un infermiere si affacciò nella camera.
«Dottor Mitchell, la attendono in corsia.»
«Arrivo.»
«No, no, aspetti!» Tony si agitò sul letto, suscitando la preoccupazione di Pepper «Tra quanto potrà dimettermi?»
«Ha così fretta di morire ancora?» replicò secco il medico, senza scomporsi.
«Voglio solo uscire da qui. Subito,» sottolineò Tony, sollevando appena il busto nonostante l'urlo di protesta della sua schiena contusa.
«Signor Stark, la prego, ascolti il dottor Mitchell,» intervenne Pepper, ora chiaramente messa in allarme dalla sua irrequietezza.
«Non sarà in grado di lasciare l'ospedale per almeno un mese: le servono le nostre attrezzature,» le venne in aiuto il medico, già sulla soglia.
«Mi prende in giro? Le produco io, le vostre attrezzature; mi basta un attimo per trasferirle a casa mia,» s'incaponì l'altro.
«
Vedremo. Per ora stia buono e non stressi la povera signorina Potts con richieste assurde. Sì, mi ha avvertito del suo caratteraccio,» lo anticipò Mitchell, uscendo dalla stanza.
A quel punto Tony si abbandonò sui cuscini, sentendo che parlare lo aveva stancato molto più di quanto aveva previsto. Chiuse gli occhi – l'occhio, in effetti. Aveva solo una gran voglia di dormire e fingere per qualche ora che non fosse successo niente.

Sentì la mano di Pepper sfiorare la sua, come per controllare se fosse ancora sveglio, e sospirò sfinito. Gli era rimasta accanto per due settimane; aveva notato le profonde occhiaie che le solcavano il viso, e nonostante le proprie condizioni fossero ben più gravi non riusciva a fare a meno di sentirsi in colpa per averla fatta preoccupare.
Avrebbe dovuto ringraziarla, ma era così stanco...

***



Un gran trambusto nel corridoio lo riscosse dal dormiveglia. Pepper s'incupì all'istante.
«Di nuovo,» disse, visibilmente irritata.
Si rivolse poi a Tony:
«Permette?»
«Tutto quel che vuole,» replicò lui, assonnato.
Aveva appena finito di parlare che la donna gli sistemò il lenzuolo in modo da coprire del tutto le ferite, per poi spiegarvi sopra anche la coperta.
«Non si muova e non si lasci vedere. E stia calmo.»
La guardò senza capire, ora un po' più presente a se stesso. Da fuori arrivò la voce furibonda di Mitchell:
«Questo non è un reality-show! Via di qui! Ho detto
via
Si sentì ancora un tramestio di passi, poi la porta si spalancò, vomitando un fiume di telecamere e giornalisti che invasero la stanza.
«È sveglio!» esclamò qualcuno, la cui voce acuta gli trapassò i timpani sensibili.
Subito fu inondato da una sfilza di domande ininterrotta, che gli fecero tornare il cattivo – ovvero pessimo – umore rimasto sopito fino a quel momento e gli fecero anche comprendere la preoccupazione di Pepper nel coprire il suo corpo mutilato. Badò bene a rimanere ben sotto lo strato di stoffa che lo copriva e piegò la gamba sana, così da non rendere troppo evidente la mancanza dell'altra. Non aveva mai avuto problemi ad offrirsi a foto e telecamere in circostanze più che scandalose, anzi, ma in quel momento avrebbe voluto avere di nuovo addosso l'armatura per polverizzare ogni obbiettivo nel raggio di dieci metri. E anche i giornalisti, visto che c'era.
«Come sta, signor Stark?»
«Cos'è successo?»
«Sente dolore?»
«Quando riprenderà il suo ruolo nelle Stark Industries?»
«Lei è davvero l' "Iron Man"?»
«Che fine ha fatto Stane?»
Pepper cercava come poteva di scacciarli, bombardata anche lei di domande che non intaccarono minimamente la sua cordiale compostezza, ma una decina di giornalisti erano troppi anche per lei e sembrava sul punto di usare i tacchi come armi improprie. Mitchell era impegnato a confabulare con una guardia della sicurezza, che sembrava convinta di non poter fare niente per respingerli, e Tony si trovò a chiedersi quante mazzette gli avessero passato.
Domande... domande...
ancora domande. Si sentiva scoppiare la testa. E neanche lui aveva la più pallida idea di cosa diavolo ci facesse su un maledetto letto d'ospedale col proprio corpo ridotto a metà.
Chiuse gli occhi, ignorò il mondo contando fino a diec–
cinque, e poi esplose:
«FUORI DI QUI!»
Tutti tacquero per qualche istante e lui si sentì girare la testa per lo sforzo. I suoi polmoni protestarono debolmente.

Silenzio.
«È in diretta,» azzardò una giornalista imprudente.
«È così divertente mandare in diretta persone in coma?»
«Ma...»
«Signor Stark...»

«Sparite.»
Il suo tono fu così secco e glaciale da far sprofondare di nuovo la stanza nel silenzio. Stava per dire qualcos'altro, ma un lampo blu gli esplose in testa e il reattore, per ora celato agli occhi dei giornalisti, tremolò emettendo un sibilo preoccupante, strappandogli un lamento di dolore che lo costrinse a sprofondare di nuovo la testa nel cuscino.
Pepper diventò una furia. Non ricordò mai con esattezza cosa avesse detto, ma di sicuro
non doveva essere mandato in diretta. Sentì un miscuglio indefinito di grida, proteste e qualche sporadica domanda lanciata nel vuoto. Percepì una voce maschile che parlava sommessamente con Pepper. Non sembrava quella di Mitchell, ma aveva un che di familiare. Le sue orecchie erano rintronate e gli arrivava solo un mormorio ovattato e indistinguibile.
Percepì un ago affondargli nel braccio e subito dopo i suoi muscoli si rilassarono. Scivolò in un quieto dormiveglia, cullato dal chiacchiericcio di fondo ininterrotto. Rinunciò a cercare di cogliere le parole, preferendo concentrarsi sulla voce pacata di Pepper.
Poi tornò la calma. Il dolore gli annebbiava la mente, in un flusso incessante che scaturiva dalle sue ferite.
Alzò lo sguardo stanco su Pepper, ancora rossa di rabbia, e sentì di ammirarla immensamente.
Sospirò, pensando ad un altro mese su quello scomodo lettino, con una flebo nel braccio e orde di giornalisti da tenere a bada...
«Andiamo a casa,» riuscì a mormorare.
Poi il mondo sfumò intorno a lui e cadde in un sonno profondo.




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Revisione effettuata l'11/02/2018

Note Delle Autrici:

Ordunque... ecco il primo capitolo vero e proprio!
Iniziamo subito col dire che l'apparente "leggerezza" con cui Tony accetta quel che è successo è, appunto, apparente.
Volevamo mantenerci IC, ispirandoci anche alla sua reazione quando ha scoperto di avere un magnete impiantato nel petto. Pensiamo che, conoscendo il suo carattere, l'avrebbe probabilmente buttata sul ridere, o almeno mascherato ciò che provava.
Aspettatevi prossimamente un crollo emotivo!

A parte questo... siamo sadiche, sì; Tony soffre, sì; Pepper si dispera e Mitchell è importante.
Speriamo che vi sia piaciuto e ringraziamo alliearthur e sofy96 che hanno aggiunto la storia alle seguite (un commentino ci farebbe piacere per sapere che ne pensate ;)

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Capitolo 3
*** In dream ***




2

-

-

In dream



"I don't know what to take,
Thought I was focused but I'm scared.
I'm not prepared.
I hyperventilate, looking for help somehow somewhere,
But no one cares.
I'm my own worst enemy."

[Given Up – Linkin Park]




15 Febbraio, Villa Stark

Si risvegliò con il mormorio lontano del mare che si infrangeva sulla spiaggia. Non aprì ancora gli occhi, cullato da quel suono familiare. Percepiva la penombra in cui era avvolta la stanza e una fievole lama di luce che filtrava dall'ampia finestra elettronica scaldandogli appena il volto. Doveva essere l'alba. Socchiuse gli occhi, ancora assonnato e senza la minima voglia di alzarsi.
Quell’incubo l’aveva distrutto ed era molto rassicurante svegliarsi a casa sua come ogni mattina e non in un qualsiasi letto d’ospedale.
Il mio braccio?”
Era lì. Lo sentiva.
“La gamba?”
Anche la gamba.

Sospirò: erano lì. Era tutto come prima.
E l’occhio?”
La parte sinistra era ancora buia.

Ho una fasciatura: è ovvio che non veda.”
Era solo un taglio doloroso, ma era ancora in grado di vedere perfettamente.
Si tirò su a sedere un po’ indolenzito, girandosi subito verso la finestra. Si voltò per alzarsi, a sinistra – perché a sinistra, poi? Scendeva sempre a destra...
No. Oggi scendo a sinistra,” si disse, suonando poco convincente persino a se stesso.
Poggiò il piede per terra e si alzò senza sforzo; mosse un passo... ma gli mancò il secondo appoggio e rovinò a terra di peso. Parò le mani – la mano –avanti, ma urtò comunque la testa dal lato ferito e fu come se un petardo gli esplodesse nel cervello. Lanciò un gemito soffocato sentendo un bruciore atroce in tutto il corpo e i moncherini che pulsavano violentemente per l’impatto. La voce elettronica di JARVIS risuonò nella stanza, spiacevolmente squillante:
«Signor Stark, è ancora troppo debole per...»
«
Muto!» ordinò tra i denti, stringendo il pugno fino allo spasmo per non mettersi a urlare dal dolore.
Percepiva ogni muscolo del suo corpo in tensione, come sul punto di spezzarsi. La mandibola gli cigolò per quanto era contratta. Poggiò la fronte per terra con le lacrime che gli appannavano la vista, incapace di muoversi.

Rimase a terra con i muscoli contratti e gli occhi serrati per un tempo che gli sembrò infinito, finchè il dolore non iniziò a scemare. Non scomparve: la sua stretta continuava a torturargli le ferite, ma divenne sopportabile quel tanto che bastava per permettergli di formulare un pensiero coerente che non fosse il desiderio di svenire.
Ora doveva rialzarsi. Si sentì mancare, tanto che rimase bocconi qualche altro minuto prima di osar muovere un dito.
Forse avrebbe dovuto chiedere aiuto. Era sicuro di non essere solo a casa; sicuramente c'era qualche infermiere a prendersi cura di lui. Si trovò a stringere nuovamente il pugno, sentendosi avvampare.
Le settimane trascorse in ospedale stavano riemergendo dalla sua memoria annebbiata, scuotendo il suo orgoglio già ferito. Non si sarebbe fatto accudire come un bambino anche in casa propria. Fece appello a tutte le proprie forze e si trascinò penosamente ai piedi del letto, facendo leva sul gomito come un soldato che striscia tra il filo spinato; da lì vi salì con uno sforzo immane, aggrappandosi con un braccio solo alle coperte e sentendosi svenire. Un'improvvisa debolezza lo assalì e fu sul punto di lasciare la presa e ricadere a terra, ma con un debole colpo di reni riuscì finalmente a issarsi sul letto. Si abbandonò stremato sul materasso, boccheggiando in cerca d'aria e percependo un acuto dolore al petto, dove era incastonato il reattore. Era assolutamente incapace di muoversi ancora, anche solo per raggiungere il cuscino.
Fu solo allora che la verità lo colpì come uno schiaffo.
Era stato rassicurante fingere che non fosse successo nulla. Finché era rimasto in ospedale tutto quello che gli era accaduto aveva mantenuto dei contorni irreali, come di un miraggio che per quanto sembri avvicinarsi rimane sempre ancorato all'orizzonte. Fingere era stato facile. Bastava ignorare tutto ciò che accadeva attorno a lui, inclusi gli sguardi colmi di preoccupazione di Pepper.
Aveva finto fino ad allora, cosciente o meno, ma non poteva negare ciò che era successo: aveva perso un braccio, una gamba e un occhio. Se lo ripeté mentalmente più volte e quelle parole, da spaventose e ineluttabili, sembrarono perdere pian piano di senso, come una filastrocca recitata troppe volte fino a diventare una semplice sequenza di suoni privi di significato. La sua mente si stava chiudendo a riccio, respingendo i concetti nascosti dietro a quel mantra monocorde. Li respingeva con violenza, negando, e negando ancora; e mentre la vera proporzione di ciò che gli era accaduto continuava a sfuggirgli, altre riflessioni si facevano largo tra le fitte di dolore.
Forse quella era la punizione per aver stroncato tanto vite nel corso della propria: quante persone erano rimaste mutilate, o peggio, a causa sua? Portò d'istinto la mano al reattore, avvertendone il lieve ronzio.
Allora non era quella, la sua punizione. Doveva aver sbagliato qualcos'altro anche quando pensava di aver finalmente imboccato la strada giusta. Forse si era solo voluto convincere di ciò.
Ma adesso? Non doveva sprecare la sua vita, ma come avrebbe potuto anche solo pensare di
viverla in quelle condizioni?
Quei pensieri non fecero che acuire la sua disperazione. Non voleva rinunciare all'unica cosa che avesse dato un senso alla sua esistenza futile. Non voleva abbandonare la sua nuova immagine di ferro.
Rimase a fissare il soffitto, una mano ancora sul reattore, e gli sembrò che le ombre che si allungavano pian piano col sorgere del sole scorressero come un diorama, proiettandogli ciò che avrebbe dovuto affrontare da allora in poi. Probabilmente non sarebbe più stato neanche in grado di camminare. Non avrebbe più potuto lavorare senza sosta in laboratorio, con un braccio solo. Non sarebbe riuscito a guidare le macchine d'epoca che amava tanto. La sua fama di dongiovanni sarebbe diventata una macchietta risibile, così mutilato e sfigurato. Non riusciva neanche a immaginarsi di indossare l'armatura, di volare e combattere, di fare l'unica cosa giusta che sentiva di aver fatto.
Chiuse l'occhio e gli sfuggì un sospiro tremante di frustrazione.
Che senso aveva sprecare così la sua vita?


***


Si riscosse dal dormiveglia, frastornato. Era così sfinito che si era addormentato senza accorgersene. Era più calmo adesso, o forse solo più rassegnato.

Si tirò a sedere sul letto, lisciandosi i capelli scompigliati con un'espressione ferrea sul volto. Tutto era cambiato. Ma tutto doveva continuare ad essere come prima.
Era abituato a portare maschere che non gli appartenevano. L'aveva fatto per anni, così a lungo che ormai erano diventate parte di lui. Non sarebbe stato difficile farlo anche adesso.
Rialzò lo sguardo, incontrando quello del suo riflesso nello specchio di fronte al letto. Si costrinse a non distoglierlo.
La benda sull'occhio era una chiazza bianca sul suo volto, picchiettata di rosso. Gli arti amputati erano bendati strettamente e spuntavano brutalmente dalla t-shirt e dai pantaloncini, impossibili da celare. Aveva ancora una loro vaga percezione, nonostante la sua parte razionale gli dicesse che era impossibile. Mosse la gamba destra e gli sembrò di sentire l'articolazione del ginocchio piegarsi, il muscolo che si tendeva, i legamenti che scivolavano tra le ossa. Il moncherino si limitò a un fremito doloroso che lo fece sobbalzare, scacciando quell'illusione.
Il suo riflesso lo fissava smarrito, e si chiese se apparisse davvero così indifeso, così
spoglio. La luce del reattore trapelava sotto la maglietta scura, ma non lo rassicurò.
"Come faccio a vivere così?"
Avrebbe dovuto affidarsi totalmente a qualcuno, diventare un peso...
Non poteva sopportarlo. Si accorse di essere scosso da brividi: la sola idea della vita che lo attendeva annientava la sua determinazione e incrinava la maschera che aveva appena deciso di indossare.
G
uardò ancora lo specchio, e vide solo il corpo di un... non sapeva come definirsi. Un mezzo uomo?
Fu un pugno nello stomaco: lui, sempre così sicuro di sé e con un ego smisurato, ora incapace anche di camminare e descriversi. Non riusciva a ricordare com’era prima. Sapeva come sarebbe dovuto apparire, ma non riusciva a cristallizzare l'immagine, sfuggiva alla sua vista pronta ad essere dimenticata.
Esitò, colpito da un’idea improvvisa, un’idea così poco sensata da accettarla a braccia aperte... si incupì per quell’espressione. Mormorò un ordine preciso a JARVIS, che obbedì dopo un paio di obiezioni atone. Persino lui si rendeva conto che non era una buona idea.

L’immagine riflessa nello specchio cambiò. Il suo gemello gli restituiva ancora il suo sguardo disperato, ma con una gamba, un braccio e un occhio in più, creati da un reticolo olografico proiettato sul suo corpo. Fece più male di quel che si sarebbe aspettato; vedersi così, normale. Fece per toccare il braccio virtuale, ma le dita passarono attraverso la proiezione aumentando l’intenso senso di perdita. Cercò la forza di sfuggire a quella forma di masochismo, senza però voler realmente sottrarsi a quella tortura.
Vide un movimento nello specchio dietro di lui e la porta si aprì con uno scatto metallico. Pepper fece capolino nella stanza esitante, come temendo di svegliarlo. Nel vederlo seduto sul letto, avvolto da quelle proiezioni azzurrine e con lo sguardo fisso davanti a sé, si bloccò sulla soglia.
«Signor Stark?»
Lui n
on rispose, continuando ad ammirare il suo spettacolino autolesionista. Voleva davvero mostrarsi così debole e incapace di accettare la realtà? Era ancora in tempo per annullare l'ordine a JARVIS, per dire "basta".
Ma Pepper ormai era entrata e potè vedere i suoi occhi intristirsi sulla superficie lucida dello specchio. Abbassò lo sguardo, colpevole e conscio di averla delusa.
Non aveva la minima idea di come avrebbe reagito; sperava che non lo trattasse come un bambino bisognoso di comprensione. Era una cosa che non avrebbe sopportato: almeno lei doveva rimanere se stessa, se lui non ne era in grado.
La sentì avvicinarsi e fermarsi accanto a lui, scrutando gli arti olografici che tremolavano leggermente. Tony avrebbe voluto dire qualcosa, tirar fuori una delle sue osservazioni sarcastiche come aveva ininterrottamente fatto durante il suo ricovero, ma le parole si persero prima che potesse pronunciarle.

«JARVIS, basta così,» ordinò lei al posto suo.
Gli ologrammi si dissolsero, scoprendo nuovamente i moncherini.

Tony
rialzò la testa, incontrando i suoi occhi e notando che erano leggermente velati, ma si mantenne ferma accanto a lui, senza parlare.
«Il signor Stark ha attentato alla sua incolumità,» intervenne a sproposito JARVIS, rompendo però quel silenzio pesante.
Pepper si accigliò e guardò interrogativamente Tony.
«Sono caduto,» mormorò lui, riprendendo una parvenza di autocontrollo.
«E quella?» gli indicò qualcosa accanto al letto che prima gli era sfuggito.
Una sedia a rotelle?”
Un guizzo di vitalità lo rianimò, riscuotendolo dallo stato catatonico in cui era scivolato. Alzò la testa verso Pepper, con sguardo gelido.
«Quel trabiccolo infernale?» lo apostrofò «Io non ci salgo,» s'impuntò, assumendo la sua solita espressione da “neanche per sogno”, ma con una voce tetra che non gli apparteneva.
I cupi pensieri di prima si erano d'un tratto tramutati in una fiera ostinazione che gli impediva categoricamente di abbassarsi a tanto. Essere scarrozzato in giro senza la minima libertà era troppo
.
«E come pensa di muoversi?»

Tony parve pensarci, spiazzato da quella domanda così banale e dando fondo alla sua inventiva per trovare una risposta adeguata. Cercò di smorzare il suo tono troppo serio per non destare sospetti. Si stampò in faccia un'espressione che sperò fosse neutra e si schiarì la gola prima di parlare.
«Con...» l’immagine di se stesso con un solo stivale dell’armatura gli attraversò la mente. «Con il mio...» l’immagine si tramutò in lui che sbatteva dolorosamente la testa al soffitto. «Come non detto. Un paio di– una stampella andrà bene,» sbottò infine.
Pepper lo fissò un momento, dubbiosa di fronte alla sua improvvisa leggerezza e indecisa se accontentarlo o meno, ma vinse il suo senso del dovere. Avvicinò con un gesto perentorio la carrozzella al letto in modo da permettergli di scendere, ma Tony continuava a pretendere la sua stampella, insistendo di "non essere un invalido". Dopo una lunga ed estenuante discussione Pepper dovette quasi sollevarlo di peso per farlo sedere sull'"infernale trabiccolo" per accompagnarlo al bagno.

«Signor Stark, almeno per i primi tempi dovrebbe cercare di abituarsi.»
«Non voglio abituarmi,» mormorò lui di rimando.
Pepper non seppe come ribattere; Tony non era mai stato molto collaborativo, ed era un lato del suo carattere estremamente difficile da sopportare, ma in quella circostanza era sicuramente giustificato.
Arrivati in bagno, uno sguardo glaciale da parte sua le fece capire che,
no, non aveva bisogno di aiuto anche per quello e, no, anche se ne avesse avuto bisogno, non lo avrebbe chiesto né accettato. Pepper chiuse la porta alle sue spalle sperando che riuscisse a destreggiarsi per conto suo senza troppi danni.
Tutta quella situazione le era assolutamente estranea e non sapeva assolutamente come interagire con lui. In ospedale le era sembrato il solito irriverente, sboccato e arrogante Tony Stark. La cosa l'aveva inizialmente turbata, ma poi aveva voluto accettarla senza porsi altre domande. Non era sicura di poter gestire anche quell'improvviso cambiamento. Era peggio, molto peggio di quando era tornato dall'Afghanistan. Almeno allora si era costruito qualcosa per cui vivere, ma adesso anche quello era distrutto.
Non era in grado di prevedere cosa sarebbe successo, ma volle convincersi che non sarebbe stato peggio di ciò che era già accaduto.


***


«Oggi ha un paio di visite da fare: tra poco arriverà il dottor Mitchell.»
«Grandioso, immagino che passerò la mattinata a sentirmi dire tutto ciò che non posso fare.»
«Il dottor Mitchell è altamente qualificato e troverà di certo il modo migliore per...»
Tony si passò una mano tra i capelli mentre perdeva le parole che Pepper pronunciava. Che cosa avrebbe potuto dirgli Mitchell che già non sapeva?
Signor Stark, si sta riprendendo molto bene...” scimmiottò mentalmente.
In quel momento, disperato com’era, l'addolcire la pillola non avrebbe fatto altro che irritarlo ancor di più. Aveva sempre pensato che avere un reattore nel petto fosse la cosa peggiore che potesse capirargli, ma evidentemente si era sbagliato. Questo era di gran lunga peggiore.
Si era sempre reso conto di essere un egocentrico con un'autostima sproporzionata e lo aveva accettato quasi con orgoglio, tanto per ribadire il concetto di amor proprio. Il fatto di non essere più normale lo metteva in difficoltà, costretto a scontrarsi col suo corpo e con la sua mente, ed era una guerra persa in partenza. Per vincerla non poteva far altro che inculcarsi in testa la realtà, e nonostante tutto non la capiva.
Non poteva essere altrimenti, ma una parte di lui doveva per forza accettarla come una nuova legge a cui non poteva opporsi neanche lui. D'altra parte, seduto su quella carrozzella, sentiva di non potersi opporre proprio a nulla.
Si guardò intorno con frustrazione, sentendosi opprimere dalle mura della sua stanza nonostante l'ampia parete di vetro affacciata sul mare.
Era una giornata ventosa, a giudicare dalle foglie delle palme che si agitavano come fruste nelle folate improvvise, ma il cielo era terso e luminoso. Avrebbe potuto essere un
giorno qualunque di gennaio, ma non lo era, almeno non per lui.
Tony distolse lo sguardo dal mondo esterno apparentemente immutato, realizzando che lo faceva solo sentire più impotente.
Pepper era impegnata a dare un'occhiata alle sue cartelle mediche, un numero spropositato, prima della visita. Ne approfittò per sbirciare ancora nello specchio, ben sapendo quanto poco saggia fosse quella mossa.
Click.
La stanza sprofondò di colpo nel buio.
"Cosa?"
Non vedeva assolutamente nulla.
"Anche i blackout mentali? No, grazie," sospirò, rassegnato e inquieto.
Gli bastavano i disturbi motori, senza aggiungerci pure quelli psichici.
Lo specchio c'era ancora. Ed era assolutamente certo di essere ancora seduto sulla sua maledetta sedia a rotelle, ma il suo riflesso era in piedi, e sorrideva col suo solito sogghigno beffardo e con tutti gli arti al posto giusto.
Era un'allucinazione? Quanti sedativi gli avevano somministrato?

Fece appena in tempo a focalizzare l'immagine che il suo clone alzò un braccio, come in un cenno di saluto. Ammiccò con complicità e fece un giro su se stesso, mettendo ben in vista gli arti che dovevano essere mutilati nel suo corpo reale. Gli si mozzò il respiro in gola, mentre imprimeva a fuoco nella mente quell'immagine, in ogni suo dettaglio. Percepì chiaramente le sue sinapsi, apparentemente sedate fino a quel momento, riavviarsi e mettere in moto un treno di pensieri. Da qualche parte vicino al reattore percepì un'orma di calore, come scintille che si levano da un fuoco morente.
La figura fece infine un mezzo inchino, come di un presentatore che saluta il proprio pubblico, e fu come risucchiata in un tunnel alle sue spalle. Tony chiuse l'occhio, sentendo crescere uno strano senso di eccitazione del tutto irrazionale che lo investiva a ondate. Poco ci mancò che scendesse di corsa dalla sedia a rotelle; la sua mente stava lavorando a velocità febbrile.
Solo dopo un po' si accorse di essere di nuovo nella sua stanza, con Pepper che lo scuoteva il più delicatamente possibile per farlo rinvenire da qualunque limbo onirico l'avesse risucchiato.
«Tony? Tony, la prego, risponda!»

«Pepper!» gridò, quasi non riconoscendo la propria voce rotta dall'emozione.
«Mi ha fatto prendere un colpo!» esplose Pepper, perdendo definitivamente la propria compostezza «Sembrava svenuto e...»
«Ascolta! Ascoltami!» le afferrò il polso per bloccare i suoi movimenti agitati e per la prima volta dopo anni spazzò via ogni formalità tra loro, in uno stato di esaltazione che non aveva mai provato.
«Tony?» lei s'interruppe, presa in contropiede da quel gesto «Ma che le...»
«Un foglio! Mi servono un foglio e una matita! Sa disegnare?! No, no, non importa, ma faccia presto prima che...»
"Ora, maledizione!" imprecò, sentendo i dettagli sfumare nella sua memoria e formule e calcoli che si sovrapponevano e rimescolavano rischiando pericolosamente di perdere senso, di svanire nell'oblio confuso della propria mente.
Non gli importava se fosse stato un colpo di genio, un lampo di follia o l'effetto dei sedativi: sapeva cosa fare.
Sapeva cosa fare!




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Revisione effettuata il 12/02/2018

Note delle Autrici:

Rieccoci! Con sommo anticipo, di solito pubblichiamo... sì, praticamente ogni mai.
Ma questa storia ci sta prendendo più delle altre... colpa di Light marvel-fanatica, ovviamente. Ed grazie anche a
 sofy96 e a alliearthur che continuano a seguirci e che hanno recensito lo scorso capitolo.Ci ha fatto davvero molto contente ricevere dei pareri e sapere che siamo sulla retta via verso l'IC!
A presto!

Moon&Light

P.S.: Altre storie scritte individualmente le trovate sulle nostre rispettive pagine di EFP :)
P.P.S. (Light): Il titolo è stato scelto per due motivi: 1) È il titolo di un altro film in cui ha recitato Robert Downey Jr., 2) Ci sembrava adatto perché, come avrete notato, il confine tra realtà e sogno, o allucinazioni, se vogliamo, è piuttosto vago e continuerà ad esserlo sporadicamente.



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© Marvel

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Capitolo 4
*** One way road ***



3

 

One way road



"Some might say they don't believe in Heaven
Go and tell it to the man who lives in Hell
Some might say you get what you've been given
If you don't get yours I won't get mine as well"

[Some Might Say – Oasis]



«Pepper, mi ascolti, la prego!»
«Lei non sa quello che dice. Sembrava in trance, almeno credo, ed è meglio che stia tranquillo fino a che...»
Tony stava per alzare la voce, esasperato, completamente euforico e allo stesso tempo disperato, ma il campanello elettronico trillò con forza proprio in quel momento.
«Il dottor Mitchell è arrivato e chiede di poter conferire in privato con la signorina Potts,» gracchiò JARVIS.
«Aspetti qui e stia calmo. Torno subito,» disse Pepper, facendo già per lasciare la stanza. «E per favore, non faccia sciocchezze.»


***


«Signorina Potts, purtroppo la situazione non è delle migliori,» inziò subito Mitchell, «e in quanto medico non posso edulcorare i fatti.»
Pepper lo ascoltava attentamente, cercando comunque di rimanere positiva. Mitchell aprì una ventiquattr'ore e ne tirò fuori alcuni fascicoli che poi le porse. La donna li aprì anche se li conosceva praticamente a memoria, avendo passato l’ultimo mese in ospedale e quindi perfettamente consapevole delle condizioni fisiche di Tony.
«Oggi farò una visita di controllo, principalmente delle analisi generali, ma verificherò ovviamente che i moncherini si stiano rimarginando senza complicazioni e che l'occhio non si sia infettato.»
Pepper annuì rigidamente, scorrendo i documenti con aria assente.
«È possibile, direi anche molto probabile, che il signor Stark cada in depressione post-traumatica; in tal caso bisognerà ricorrere a un supporto psicologico. Inoltre avrà sicuramente bisogno di assistenza giorno e notte, almeno per il primo periodo di convalescenza,» elencò velocemente, continuando a frugare nella valigetta nera.
«A quello provvederò io,» rispose prontamente lei, e il medico interruppe il suo tramestio di scartoffie per rivolgerle uno sguardo sorpreso.
«Signorina Potts, è un incarico piuttosto duro, forse sarebbe meglio qualcuno di più qualificato dal punto di vista medico e...»
«Ho già provveduto a informarmi adeguatamente riguardo al caso del signor Stark,» lo interruppe, «e sto anche cercando di acquisire qualche conoscenza medica di base per essere d'aiuto. Ma il signor Stark d'ora in poi avrà solo bisogno delle sue medicine e di qualcuno che lo supporti,» incrociò lo sguardo di Mitchell, che continuava a fissarla con innegabile scetticismo. «Sono anche l’unica persona su cui il signor Stark possa contare, e soprattutto l'unica di cui si fidi.» Si sentì quasi presuntuosa nel pronunciare quelle parole, ma era consapevole della loro veridicità. Non le importava cosa avrebbe pensato di lei il dottor Mitchell.
«Capisco...» Ian guardò mestamente Pepper e il suo volto stanco e tirato per le notti insonni: era chiaro come Stark non fosse l'unico a soffrire per quel grave incidente.
«E poi è meglio non coinvolgere altre persone "esterne", lo sa anche lei,» aggiunse Pepper, guardinga.
«Sì, purtroppo ne sono stato informato,» rispose lui, sbrigativo e apparentemente seccato da quel commento «Può contare sulla mia discrezione,» aggiunse subito dopo, notando il suo sguardo preoccupato. «Non ho alcun interesse a ledere la privacy del signor Stark, anche se lui non mi sembra esattamente l'immagine della riservatezza...»
«Decisamente no,» sospirò Pepper, «ma è importante che non trapeli nulla né delle sue condizioni né del
resto,» ribadì, consapevole di mettere pressione al medico, ma senza riuscire a frenarsi.
«Mi creda, non è la prima a farmi questo discorso e devo dire che gli "altri" sono stati molto più minacciosi e molto meno cordiali di lei,» Ian scosse lievemente la testa. «Lo sapevo che quel giorno avrei dovuto cedere il turno di notte a Stephen,» borbottò tra sé, a metà tra il rassegnato e l'incredulo, e chiuse con un gesto secco la valigetta.
«Le posso assicurare che verrà adeguatamente ricompensato per tutto ciò che...»
«Signorina Potts, non ho intenzione di affrontare la questione del mio compenso "extra" adesso,» la fermò subito lui. «Sono un medico e sto facendo il mio lavoro. Non mi interessano le circostanze particolari in cui mi trovo a svolgerlo. Ne parleremo a tempo debito,» concluse con decisione.
Pepper rimase leggermente spiazzata da quella risposta, ma anche positivamente colpita dall'atteggiamento professionale di Mitchell.
«La ringrazio.»
Lui si limitò a scrollare le spalle, per poi riprendere a scorrere come se nulla fosse i dati clinici del suo paziente.
«Dunque, le fornisco un breve riepilogo,» esordì infine, chiudendo le scartoffie e guardandola con gravità. «È un bene che il signor Stark sia rimasto più o meno volontariamente in ospedale fino ad ora. Dovrebbe aver dato modo ai moncherini di rimarginarsi quel tanto che basta per scongiurare possibili infezioni al di fuori da un ambiente sterile,» riportò brevemente gli occhi a un foglio occupato da una tabella. «Dalle ultime analisi del sangue risulta qualche valore anomalo, ma di questo dovrò discutere direttamente col signor Stark. Etica professionale.» aggiunse a mo' di scusa.
Pepper si limitò ad accigliarsi appena, senza però insistere. Mitchell stava già facendo uno strappo alla regola nel condividere con lei le informazioni personali di Tony, e si sentiva già abbastanza in colpa per quello.
«In generale è una situazione molto più rosea delle aspettative, considerata la gravità e le
circostanze dell'incidente,» concluse volutamente vago. «Quello che posso dirle e che avrà credo intuito, è che il signor Stark non potrà più camminare, almeno per un lungo periodo, ma spero che quando si sarà ripreso a sufficienza potrà ricorrere a qualche protesi all’avanguardia. Si parla di un periodo minimo di riposo di un anno.» Il modo in cui lo disse faceva intuire quanto dubitasse della capacità di Tony di "stare a riposo" per tutto quel tempo.
Anche Pepper era molto scettica al riguardo.
«Per il resto, purtroppo, non c'è molto che possiamo fare,» concluse mestamente.
Pepper annuì appena, tirata. Si costrinse a smettere di tormentarsi le mani e a mantenere un atteggiamento composto.
«Capisco. Adesso dovremo informarlo,» disse con titubanza.
«Avevo intenzione di farlo io, ma le volevo chiedere se non preferisse farlo lei, dato che è la persona più simile a un familiare che il signor Stark abbia al momento. Se vuole sarò comunque presente, nel caso avesse bisogno di un supporto medico,» Ian la guardò, cercando di confortarla in qualche modo.
«Lo farò io,» rispose lei, con fermezza «E le sarei grata se fosse presente anche lei.» Esitò, abbassando fugacemente lo sguardo prima di parlare di nuovo e odiandosi per la sua indecisione:
«Non so come prenderà la notizia. Ciò che mi preoccupa veramente è che lui non sembra rendersi conto della gravità della cosa. Fa quasi finta che non sia successo nulla.»
Ian giunse le mani davanti a sé, come a raccogliere le parole giuste.
«Il caso del signor Stark è estremamente delicato,» disse dopo qualche istante. «È comprensibile un rigetto dell’accaduto ed in particolare delle conseguenze. Mi ha accennato di avere un'amnesia riguardo a ciò che è accaduto e ciò rafforza l'ipotesi di un trauma, come le dicevo prima. Per ora ha solo bisogno di tempo,» aggiunse, nel tentativo di rassicurarla «Ma in seguito le consiglio vivamente di fargli prendere in considerazione un consulto psicologico.»
«Sarà difficile... li ha sempre rifiutati categoricamente,» Pepper incrociò le braccia.
«Sempre?»

«Anche in seguito al... al suo rapimento, un anno fa.» Le era difficile ripensare a quei tre mesi di assenza proprio in quella situazione così delicata.
Ian diede segno di essere al corrente della cosa – d'altronde la scomparsa di Tony aveva coperto i notiziari per settimane.
«Vedremo di persuaderlo al più presto, allora,» disse Ian. «Se non ne ha ancora dato segno, è probabile che in seguito a quest'ultimo shock emergano anche i sintomi dello stress post-traumatico accumulato,» si bloccò nel notare l'espressione preoccupata di Pepper, che dal canto suo era scivolata in riflessioni contorte e poco piacevoli.
L'armatura e ciò che comportava poteva essere considerata un'esternazione di quello stress? Fu riscossa dalla voce cordiale ma risoluta del medico:
«Non pensiamoci adesso. Per ora dobbiamo solo esporgli i fatti.»
«Non so se li accetterà mai.»
«
Dovrà farlo, se vuole continuare a vivere. E non mi sembra affatto il genere di persona che si lascia abbattere facilmente, dopo tutto quello che gli è successo,» concluse con fare incoraggiante.
Pepper sorrise tristemente, volendo però credere a quelle parole, e restituì le cartelle a Mitchell.
«Signorina Potts?«
«Mi dica.»
«Riterrei più prudente tenerlo all'oscuro degli ultimi eventi: un ulteriore accumulo di stress in un frangente così delicato sarebbe insostenibile per lui.»
«Sono d'accordo, cercherò di informarlo quando si sarà ristabilito; dopotutto abbiamo ancora un mese... spero che nel frattempo avrà raggiunto una situazione di stallo.»
Ian si limitò ad annuire, e Pepper capì che anche lui era dubbioso al riguardo. Il medico esaminò con cura gli strumenti che aveva con sé in previsione della visita.
«Sarà meglio andare; ci starà aspettando,» disse chiudendo con uno scatto la valigetta e seguendo Pepper verso la camera del suo paziente.


***


Pepper si era appena chiusa la porta alle spalle che Tony si fiondò come poté verso la scrivania addossata alla parete. Afferrò un foglio, dissestando la risma ordinata in un angolo, e riuscì a recuperare una matita con la punta. Il braccio sano gli doleva per lo sforzo di spingere la sedia a rotelle, ma iniziò a scrivere con impeto, maledicendo di non essere mancino. Zittì JARVIS che si intromise tentando di offrirgli aiuto con la progettazione e si trovò a scrivere sempre più freneticamente. Più in fretta, prima che tutto svanisse, prima di perdere di nuovo la speranza...
Stava ancora scrivendo e disegnando quando Pepper e Ian rientrarono nella stanza, spezzando lo stato di estrema concentrazione nella quale era sprofondato. Si girò di colpo, stringendo nel pugno trionfante un mazzo di schizzi, bozze e appunti a stento decifrabili.
«Signor Stark, non dovrebbe neanche muoversi dal letto nelle sue...» cominciò Mitchell, avvicinandosi esterrefatto.
Tony non gli diede neanche il tempo di finire che piantò le carte a un palmo dagli occhi stralunati del medico, bloccando la sua avanzata:
«È possibile?!» proruppe, a metà tra un grido e una domanda, con la voce che rasentava il panico.
Mitchell tentennò, strizzò gli occhi dietro gli occhiali squadrati e prese con cautela i fogli; prese ad esaminarli con sguardo assorto, mettendo momentaneamente in secondo piano l'inattesa esuberanza del suo paziente mentre Pepper si fermava accanto a lui allibita. Distinse il disegno mal riuscito di una sottospecie di macchina, o almeno credeva che assomigliasse ad una macchina: era un medico, non un ingegnere. Richiamava vagamente un albero spoglio, ma con le radici dalla parte sbagliata. Lo schizzo era confuso con appunti di formule meccaniche e leve per lui incomprensibili, bozzetti di altri componenti indecifrabili e, più in basso, quella che sembrava un'accurata selezione di elementi chimici –
quelli li riconosceva, almeno – molti dei quali sbarrati, altri collegati con freccette, altri ancora cerchiati e con un punto interrogativo accanto. Ancora sotto, una fitta serie di formule semicancellate si protraeva fino al margine estremo del foglio, per poi continuare sui successivi, sui quali campeggiavano ulteriori disegni di circuiti e di quelli che sembravano reattori arc – li riconobbe solo perché ne vedeva uno vero in quel momento, infisso nel torace del suo paziente, altrimenti li avrebbe presi per dei congegni alieni, visto il modo maldestro in cui erano disegnati.
«Che cosa dovrebbe essere?» chieste infine cautamente, sistemandosi meglio gli occhiali.
«Una protesi!» replicò entusiasta Tony.
«Protesi?» Mitchell capovolse il foglio, cercando di dare un senso a quell'accozzaglia di forme, e in effetti distinse delle dita, quelle che aveva scambiato per i rami di un albero; le "radici" erano in realtà una miriade di fili e cavi.
«È la protesi di un braccio,» riprese velocemente Tony, «attraversato da nervi artificiali, cioè dei cavetti di un materiale conduttivo, ma non troppo, altrimenti finirei fulminato, e... e insomma, svolgono la funzione di terminazioni nervose ad impulsi elettrochimici collegate al sistema nervoso. Ma non direttamente: non posso farmi fare una lobotomia, ci vorrebbe un... un microchip alimentato con un mini-reattore a sua volta collegato col reattore cardiaco... e qui sorgono i problemi, perché il palladio... forse con un catalizzatore!» ragionò interrompendo il suo fiume di parole e tormentandosi il pizzetto mentre rifletteva. «Insomma,
so come realizzarlo, ma non so se funzionerà, ma... ma se funzionasse potrei recuperare completamente l'utilizzo degli arti!» parlò senza quasi respirare, farfugliando mentre rincorreva i suoi pensieri già alla ricerca di un modo per realizzare la sua idea.
Non dovette fare una bella impressione ai suoi due ascoltatori, perché si scambiarono un'occhiata perplessa, credendolo probabilmente preda di un
delirium tremens dettato dall'astinenza dai sedativi.
Fece per riprendere a parlare, ma il medico lo interruppe, frastornato:
«Signor Stark, per l'amor del cielo, si esprima nella
mia lingua! Sono un medico, non un ingegnere!» Ian espresse ad alta voce il suo precedente pensiero, mentre cercava di seguire il ragionamento del suo paziente.
Sembrò capire il riferimento al sistema nervoso, ma era evidentemente dubbioso. Dopotutto, stava blaterando riguardo a una tecnologia inesistente.
«Tony, per favore,» intervenne Pepper stancamente, decidendosi a intervenire; sembrava seriamente convinta che stesse delirando.
«No,
dovete ascoltarmi!» tuonò lui.
Ian e Pepper ammutolirono, cogliendo l'estrema urgenza del suo tono, e aspettarono che continuasse.
«Lo so che vi sembro impazzito, e magari lo sono,» confessò, lottando con la sua stessa lingua per formare quelle parole, «ma ho passato settimane a vegetare in ospedale pensando di non avere scampo. Adesso invece sento di aver trovato una via d'uscita. Questa è l'unica possibilità che ho adesso, e devo almeno provare a metterla in pratica.» Si fermò, guardando direttamente negli occhi Pepper «Non posso trascorrere il resto della mia vita su una sedia a rotelle. Lei sa che non posso,» disse, quasi implorante, sperando che lei capisse e ripensasse a quel giorno di sei mesi prima, quando le aveva chiesto di sostenerlo nell'unica cosa giusta che sentiva di aver fatto in vita sua.
«Lo so,» riuscì a dire lei, sostenendo il suo sguardo, e fu tutto ciò di cui aveva bisogno per sentirsi di nuovo saldo nelle sue convinzioni.
Ian era rimasto in un rispettoso silenzio, cogliendo la gravità di quello scambio a lui solo vagamente comprensibile.
«Allora, è possibile?» sospirò ancora Tony, accennando ai progetti.
Non aveva assolutamente preso in considerazione l'evenienza che il suo progetto fosse irrealizzabile. Aveva semplicemente buttato su carta ciò che gli era parsa un'illuminazione folgorante, spuntata da chissà quale recesso del suo inconscio. Ma potevano sorgere mille complicazioni contro le quali non avrebbe potuto fare nulla. Dopotutto, al contrario di Ian, lui non era un medico. Era un genio, ma sapeva poco e nulla di anatomia: lo stretto indispensabile per adattare l'armatura alle sue esigenze e per medicarsi da solo.
"L'armatura..." gli fece capolino nella mente il problema di come esattamente avrebbe continuato la sua attività di "supereroe" – anche se al momento era ancora solo un consulente – ma lo scacciò: una cosa alla volta. Doveva prima diventare normale; poi avrebbe pensato a diventare anche super. Forse poco tempo prima avrebbe affrontato i problemi contemporaneamente, ma adesso non poteva permettersi di sbagliare qualcosa facendo tutto troppo in fretta.
Mitchell guardò ancora una volta ciò che ora per lui era un semplice scarabocchio su un foglio spiegazzato, e che per l'uomo che aveva di fronte poteva diventare una ragione di vita.
Esitò prima di rispondere.
«Mi presenti un progetto più dettagliato e vedrò di giudicarlo dal punto di vista medico.»
«Ma
pensa che sia possibile?» chiese ancora Tony: voleva una risposta netta al più presto, perché illudersi nella situazione in cui si trovava sarebbe stato devastante.
Ian sospirò, ripiegò con cura il foglio spiegzzato e lo infilò nella tasca della giacca, poi incrociò le braccia, come preparandosi a spiegare qualcosa di molto complesso a un bambino lento di comprendonio.
«In linea teorica
sarebbe possibile,» esordì, facendo trattenere il respiro a Tony, in attesa del continuo «Per quanto riguarda la sua applicazione... devo ammettere che non ne ho la più pallida idea. Protesi del genere sono state ideate da anni, ma mai realizzate, prima di tutto per l'enorme costo umano ed economico che comporterebbero i vari test e i materiali...»
«I costi non sono un problema. Io sarò la cavia, ci sono abituato,» e diede una schicchera al reattore con fare indifferente. «E ho un impero finanziario che... Pepper, ho
ancora un impero finanziario, vero?» sobbalzò, girandosi verso di lei.
«Fortunatamente per tutti noi, sì. E andrebbe anche a gonfie vele...»
Ian le rivolse un'occhiata gelida, e gli occhi di Pepper saettarono a loro volta nella sua direzione.
«... se il suo proprietario ritornasse ad occuparsene,» completò in fretta.
Tony li osservò per qualche istante, accigliato.
«Benissimo, c'è qualcosa che non devo sapere, vero?
Ovviamente,» si rispose, bloccando con un gesto Pepper che stava per ribattere. «Non mi interessa, o almeno, non ancora. Mitchell, mi stava dicendo delle protesi attualmente esistenti.»
«Sì, giusto. Dicevo che il problema sono innanzitutto i materiali: la fibra di carbonio o vetro va bene per le protesi fisse. Sono l'ideale per arti amputati sotto l'articolazione, ma nel suo caso...»
«Gomito e ginocchio sono andati, lo so,» completo piattamente Tony, sentendo uno strano senso di distacco nel parlare del proprio corpo.
«Per quanto riguarda le protesi per gli arti superiori, sono ancora del tutto teoriche: finchè una protesi deve sostenere solo il peso corporeo e permettere a qualcuno muoversi non ci sono grossi problemi dal punto di vista tecnico. Se si passa a parlare di mani, dita e capacità motorie proprie, il discorso cambia. Si tratta di congegni estremamente rudimentali, che consentono di svolgere le basiche funzioni ed azioni quotidiane. Per quanto riguarda una protesi collegata ai nervi umani e rispondente con precisione agli impulsi nervosi, non c'è ancora stato alcun progresso tangibile. La protesi è un prolungamento inanimato del corpo, non una sua parte integrante.»
«Quindi per me quelle "normali" non sarebbero applicabili.» concluse Tony, accigliandosi pensieroso.
«Sfortunatamente sì. L'idea dei nervi artificiali non è nuova, ma per ora non esiste un materiale adatto a sostituirli. E anche se ci fosse, ciò implicherebbe ricreare l'arto in tutte le sue componenti: tendini, muscoli, legamenti, cartilagine e quant'altro. È estremamente complesso.»
«Ho progettato un'armatura con un'interfaccia che risponde ai miei movimenti, perché non dovrei riuscirci con una semplice gamba o un braccio?» commentò infine Tony, sovrappensiero.
Ian sospirò e si scambiò un'occhiata con Pepper: aveva ragione sul fatto che Tony e la discrezione si trovassero agli antipodi, considerando che gli aveva appena confessato esplicitamente di essere lui il supereroe corazzato di cui il mondo parlava da sei mesi. La donna gli fece un impercettibile cenno di diniego col capo:
non adesso. L'identità segreta di Tony era l'ultimo dei loro problemi.
Ian prese a raccolta i suoi pensieri, cercando di elaborare una risposta di senso compiuto dal poco che sapeva riguardo all'armatura: da qualche tempo era comparsa a più riprese in zone di guerra, ponendo fine a svariati conflitti armati. Paradossalmente non c'erano video che lo testimoniassero, se non quelli sgranati del recente scontro alle Stark Industries, principale fonte d'informazioni al riguardo. Si passò una mano tra i capelli grigi, mettendo insieme i pochi pezzi di cui disponeva.
«Premettendo che non capisco assolutamente nulla di robotica...» sospirò, «E che non so niente di certo sulla sua armatura, se non che vola e spara raggi laser...»
«Sono propulsori,» lo corresse in automatico l'altro, per poi rendersi finalmente conto di ciò di cui stavano parlando. «Merda, aspetti. Lei non dovrebbe sapere...» s'interruppe e si voltò verso Pepper, che si limitò a fissarlo scura in volto.
«Ormai è un po' tardi per pensarci, non crede?»
Tony emise un verso indistinto, muovendosi a disagio sulla sedia a rotelle.
«Mh. Mi sono lasciato trasportare. Doc, non lo dica troppo in giro, ok?» tentò di sdrammatizzare, agitandosi appena al pensiero che la sua identità segreta diventasse pubblica.
Lui scosse la testa e decise di continuare come se nulla fosse accaduto.
«Dicevo... dal poco che ho intuito, cioè molto poco, lei non invia segnali neurali all'armatura, ma essa si limita ad assecondare i suoi movimenti... dico bene?»

«Più o meno, sì, è un po' più complicato di così,» concesse Tony, un po' seccato dall'estrema semplificazione del medico.
«Ne sono convinto; comunque, per qualcosa di esterno non sorgono problemi: l'armatura riceve i suoi impulsi motori e si muove di conseguenza. Come pensa di collegare, e soprattutto alimentare, un qualcosa di inerte che fa parte del suo stesso corpo? Per inciso, l'ipotesi di un rigetto non è da escludere: succede con gli organi, è possibile che sia lo stesso per gli arti.»
Tony soppesò la domanda, assorto e cercando di mettere ordine nei suoi pensieri. Comprendeva benissimo la difficoltà del collegare i nervi artificiali a quelli recisi – sempre che esistesse un materiale in grado di riprodurli – e di far sì che rispondessero al suo volere.
«Per l'alimentazione, c'è il reattore arc,» ragionò lentamente, portando d'istinto la mano al petto e picchiettando sul cilindro metallico.
Gli sembrava quasi scontato affidare alla tecnologia che gli aveva salvato la vita il compito di risollevarla. Lo sguardo di Ian esprimeva invece tutta la sua scetticità riguardo a quello che considerava un attentato alla salute. E forse non aveva tutti i torti.
«Non dovrebbe essere troppo complesso, dopotutto il prototipo di questo l'ho costruito con un mucchio di rottami. Non ho mai pensato a potenziarlo o modificarlo perché andava benissimo così. Non ci vorrà molto a miniaturizzarlo ulteriormente, ha visto i progetti,» concluse, additando la tasca dove il medico aveva riposto i fogli.
«Signor Stark, lei è probabilmente in grado di progettare e realizzare senza problemi qualunque cosa le venga in mente, ma non si dimentichi dell'applicazione pratica. Sarebbe necessaria una drastica operazione chirurgica anche a livello microscopico.»
«Lei è un neurochirurgo ed è stato lei ad operarmi, quindi se le fornissi un prototipo completo, con tutte le informazioni e i dati necessari...»
«Rimaniamo coi piedi per terra,» tagliò corto Mitchell, evidentemente colto alla sprovvista da quella richiesta prematura.
«Lo farei, se potessi,» buttò lì Tony con leggerezza, muovendo appena il piede superstite.
Ian si schiarì la gola a disagio, rendendosi conto della
gaffe.
«Potrei riuscire ad operarla in futuro, ma dipende esclusivamente da quel che riuscirà a concludere coi suoi progetti strampalati,» riparò infine, con circospezione.
Tony non si sentì particolarmente oppresso da quella responsabilità: almeno riguardava unicamente se stesso, non come quando produceva armi.
«Signorina Potts, lei che ne pensa?» chiese, senza guardarla direttamente.
Lei esitò, combattuta, ma Tony sorrise nel scorgere la sua espressione: ormai la conosceva troppo bene e sapeva che l'avrebbe appoggiato.
«Dico che è una follia, ma appunto per questo potrebbe funzionare,» disse, con un sorriso sottile, il primo spontaneo che le aveva visto in volto da quando si era svegliato: si sentì rianimare solo a vedere quel piccolo gesto. «Basta che non mi costringa a compiere altre operazioni semi-chirurgiche poco ortodosse...» aggiunse lei, guardandolo storto con fare ironico.
Tony sogghignò al ricordo dell'ultima sostituzione del reattore, mentre Ian alzava un sopracciglio, perplesso, senza però indagare ulteriormente.
«Molto bene, dopo quest'esauriente chiacchierata, che si è conclusa all'opposto di come pensavo, dovrò sottoporla lo stesso a un controllo,» disse poi, schiarendosi la voce e cacciandosi lo stetoscopio nelle orecchie dando quindi inizio alla visita.
Pepper posò gentilmente una mano sulla spalla di Tony, ma lui ci badò a malapena, troppo occupato a elaborare formule, ad annotare mentalmente percentuali e proporzioni e a sviluppare quel progetto per ora effimero che avrebbe potuto rimetterlo letteralmente in piedi.
C'era una via d'uscita: non doveva far altro che crearla.




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Revisione effettuata il 12/02/2018


Note Delle Autrici: 

Hurrà! Dopo tanto angst, non poteva mancare un capitolo di "risollevamento morale" per il povero Tony... e altri seguiranno :)
La parte più tragica è passata (anche se non sarà l'ultima) [Edit: non è neanche la più tragica, in effetti] e ora le cose si fanno -per quanto possibile- più leggere.

Dunque. abbiamo dovuto istruirci sulle basi fondamentali di: ingegneria biomedica, chimica, tra poco anche un po' di fisica e anatomia. Non siamo medici (magari!) e sono conoscenze superficiali, quindi se notate stronzate fate un fischio :'D
D'ora in poi i capitoli conterranno sempre parti un po' "tecniche", visto che implicheranno la realizzazzione delle protesi, e ci sbizzarriremo con le varie funzionalità di JARVIS.
Speriamo che le parti non risultino troppo pesanti; se sì, fatecelo notare.

Infine, ringraziamo tantissimo sofy96, alliearthur e Rogue92 che hanno aggiunto la storia tra le seguite ed hanno recensito gli scorsi capitoli.
Grazie :) <3

Alla prossima!

Moon&Light




© Marvel

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Capitolo 5
*** As Always ***



4

 

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As always





"And I don't want the world to see me
'Cause I don't think that they'd understand
When everything's meant to be broken
I just want you to know who I am"

[Iris – Goo Goo Dolls]



17 Febbraio, Villa Stark, 11:30

Tony fissò con disappunto i resti dell'armatura, poco più che un blocco di metallo semifuso che aveva poco a che vedere con le splendide cromature rosso-oro che ricordava. La gamba destra era completamente accartocciata e piegata in un'angolazione innaturale; il braccio mancava del tutto, come tranciato di netto. Si portò istintivamente la mano al moncherino: non riusciva a capire come diavolo fosse successo. Aveva solo frammenti confusi di quei momenti, anche se ricordava con chiarezza di essere stato pestato a sangue da Stane già prima di finire sul tetto. Riusciva immaginare, anche se con sforzo e riluttanza, di essersi ferito la gamba in modo irrimediabile durante un qualche tipo di colluttazione con Iron Monger, ma non si spiegava comunque l'assenza totale del braccio, i cui resti non erano neanche stati rinvenuti.
Scosse la testa e voltò la sedia girevole per spostarsi alla sua scrivania: meglio rimanere nel presente. Prima o poi avrebbe ricordato, e non era neanche così sicuro di volerlo fare.
Adesso doveva concentrarsi e dare fondo a tutte le sue conoscenze per uscire dalla situazione in cui si era cacciato.
Prima di tutto, doveva rendere comprensibili i suoi appunti e schizzi, che erano decisamente senza capo né coda e del tutto campati in aria. Li esaminò per qualche minuto, raccapezzandosi a poco a poco in quel miscuglio di linee e bozzetti. La rozzezza di quei progetti gli riportò alla mente quelli della Mark I, ma scacciò il pensiero, preludio di ricordi poco piacevoli. Si concentrò nuovamente sul suo lavoro, riuscendo ad estrapolare un abbozzo di progetto vagamente plausibile, sebbene ancora lacunoso. Per ora aveva uno schizzo grossolano della struttura meccanica del braccio, che avrebbe poi tramutato in un modello virtuale più preciso e dettagliato. Avrebbe interamente dedicato un'altra sessione di lavoro alle parti circuitali ed elettroniche, decisamente più complesse.
Per prima cosa doveva trovare dei materiali che fossero idonei: non fu semplice, e dovette ripassare la tavola periodica e le leghe esistenti più di una volta prima di decidersi ad appuntare qualcosa sul foglio, in una grafia piuttosto incerta. Sbuffò sconsolato: non aveva problemi ad usare la sinistra per lavorare, ma era un'impresa riuscire a scrivere, e procedeva a rilento.
Decise comunque di non sfruttare JARVIS, per il momento: la progettazione era sempre più fruttuosa quando non si affidava completamente all'intelligenza artificiale nelle prime fasi.
Il telaio doveva essere sicuramente di un materiale robusto, inossidabile e che garantisse un minimo di elasticità, così da non spezzarsi con gli urti. Prese per un attimo in considerazione l'alluminio temprato, ma sarebbe stato troppo fragile e soggetto alle alte temperature, così optò per il titanio. Iniziò a stilare una serie di calcoli, distribuendo il metallo sul volume approssimativo delle ossa del braccio, ma si accorse che così avrebbe avuto un peso complessivo di quasi sei chili... decisamente troppi per un braccio umano. Si bloccò con la punta della matita a qualche millimetro dal foglio, picchiettandovi appena mentre raccoglieva le idee.
"Titanio cavo," si risolse infine.
Il peso totale sarebbe stato di quattro chili e mezzo, comunque più del normale, ma se fosse stato meno la struttura avrebbe ceduto. I vari cavi di collegamento sarebbero passati all'interno del telaio, al posto del midollo osseo. Sospirò quando si soffermò sullo snodo della spalla, trovando difficoltà ad eseguire calcoli così approssimativi: avrebbe dovuto progettare prima la piastra d'aggancio, ma per quella aveva bisogno dell'assistenza di Ian, che al momento era troppo occupato col suo lavoro vero per tener testa anche al "lavoro extra". Si diede comunque da fare, lavorando con ciò che aveva, e si trovò infine a fissare un bozzetto della struttura di supporto, pur schematico, in fase embrionale e corredato da appunti in un calligrafia pessima.
Il problema minore era risolto: ora doveva decidere come ricostruire i "muscoli". Doveva realizzare il braccio nei minimi dettagli, o avrebbe avuto difficoltà a controllarlo. Si rese conto che non avrebbe mai potuto riprodurre fedelmente la consistenza di un braccio reale, per quanto la cosa sarebbe risultata più gradevole, così decise di usare semplicemente della fibra di carbonio. Inutile crearsi più problemi del necessario: si sarebbe abituato al fatto di avere un braccio più rigido dell'altro. Le articolazioni gli diedero filo da torcere, ma dopo molti fogli cestinati e colorite imprecazioni riuscì ad abbozzarne un modello, sicuramente migliorabile.
Certo, il tutto doveva sfruttare l'alimentazione del micro-reattore che doveva
ancora progettare, ma poco importava: sapeva già come fare e non gli avrebbe preso più di mezza giornata in condizioni normali; adesso era questione di un giorno al massimo. Se ce l'aveva fatta in una grotta con gli scarti dei suoi stessi missili, adesso sarebbe stato un gioco da ragazzi, nel suo laboratorio iper-accessoriato.
Gli restava da fronteggiare l'ostacolo più grande, che aveva appositamente lasciato per ultimo: i nervi.
C'erano decine di leghe ed elementi conduttori, ma quanti potevano essere compatibili con dei nervi umani? Ian gli aveva parlato del rischio di rigetto: doveva prestare estrema attenzione nella scelta, perché avrebbe avuto un solo tentativo a disposizione. Se si fosse impiantato un materiale incompatibile avrebbe anche potuto morire d'infezione o andare in shock.
Si arrovellò sul problema per ore, scartando ogni soluzione che gli veniva in mente; provò persino a immaginare elementi inesistenti, ma si ritrovò solo con un gran mal di testa.
Rimase quasi tutto il pomeriggio nel laboratorio, pensando, scrivendo qualche elemento-campione per poi cancellarlo e distraendosi sempre più spesso nonostante la concentrazione che si era imposto di mantenere, interrotta sempre più spesso dalle spiacevoli fitte ai moncherini: l'effetto degli antidolorifici stava scemando e in teoria non avrebbe dovuto lasciare il letto per altre due settimane.
Iniziava a scoraggiarsi: forse Ian aveva ragione quando diceva che non era ancora possibile riprodurre il funzionamento del sistema nervoso. Aveva già preso in considerazione l'idea di costruire delle protesi che non fossero collegate direttamente ai suoi nervi, ma comandate a impulso come faceva con l'armatura, ma quell'idea lo disturbava. Gli sembravano troppo fragili e non riusciva a immaginarsele come vere e proprie parti di sé. Senza contare che, in quel caso, sarebbero state molto imprecise e propense a staccarsi in situazioni più dinamiche, e lui non voleva vivere in una teca di cristallo per il resto della sua vita. Aveva semplicemente accantonato l'idea, in una presa di posizione che sapeva essere rischiosa.
Questo significava che doveva davvero inventare lui una lega o addirittura un nuovo elemento che potesse essere utilizzato per i suoi scopi. Si rendeva conto di quanto fosse azzardata quell'impresa, oltre che molto probabilmente impossibile da realizzare e era ancor più improbabilmente applicabile.
Prese a sorseggiare con fare distratto un bibitone di clorofilla, assorto nei suoi ragionamenti anche per ignorarne il sapore nauseante. Ian gli aveva fatto notare che c'era una percentuale anomala di palladio nel suo sangue, e che avrebbe fatto bene a disintossicarsi prima che raggiungesse valori preoccupanti. Tony aveva sudato freddo per un istante, ma se l'era aspettato: era consapevole delle possibili ripercussioni del reattore sul suo corpo e aveva iniziato ad assumere clorofilla e integratori non appena rientrato dall'Afghanistan. A Pepper aveva spacciato la cosa come una semplice precauzione, cosa di cui era abbastanza convinto anche lui. La percentuale di palladio era molto bassa e sicuramente imputabile al fatto che si era dimenticato di assumere il suo "succo d'erba" durante il mese di ricovero. Si sentiva ridicolo a bere quegli intrugli, ma viste le sue condizioni di salute già precarie non aveva intenzione di rischiare.
Poggiò disgustato la bottiglia e tornò a scervellarsi per venire a capo del problema dei nervi. Dopo un'altra ora buttata, decise di dedicarsi alla miniaturizzazione del reattore: era decisamente più semplice, e poteva comunque essere riutilizzato per qualcos'altro, oltre ad alimentare degli arti meccanici.
Era consapevole di star evitando le difficoltà, ma in quel momento sentiva il disperato bisogno di fare qualcosa di concreto, o sarebbe impazzito. Si spostò al banco di lavoro slittando con la sedia e lo trovò in disordine come l'aveva lasciato un mese prima. Osservò il progetto abbandonato sul tavolo: il potenziamento dei propulsori dell'armatura. Sbuffò, accartocciò il foglio e lo cestinò all'istante. Era l'ultima cosa a cui voleva pensare.
«Tu, ferrovecchio. Vieni qui,» ordinò, rivolgendosi a Dum-E fermo in un angolo.
Al suono della sua voce il robot telescopico si rianimò all'istante e si portò vicino al tavolo con un ronzio, in attesa di ordini.
«Bene, vedi di fare esattamente quel che ti dico, o ti formatto la scheda madre e ti degrado a robot-spazzino. Mi serve palladio, tanto palladio; è in quelle cassette là in fondo. JARVIS, tu recupera un modello del mio reattore e proiettane un esploso dettagliato.» Esitò brevemente prima di continuare: «E tieni conto che non ho né una visione bifocale, né due mani, quindi organizza le schermate e gli ologrammi di conseguenza.»
«Ovviamente, signore.»
Tony si convinse di aver solo immaginato la punta di compassione che aveva animato la voce metallica del maggiordomo virtuale.
Mentre parlava, il robot era già arrivato in fondo al laboratorio, dove in delle casse blindate erano custoditi tutti i materiali di cui Tony aveva bisogno per costruire qualunque cosa desiderasse.
«Ha deciso di riaffidarsi alla tecnologia?» commentò a un tratto JARVIS, con un sottotono ironico teoricamente impossibile per un computer.
Proiettò un ologramma sul piano di proiezione accanto a lui, rappresentante il suo reattore arc. Tony gli diede una schicchera e i vari componenti si separarono, mostrandone tutti i particolari interni.
«Non vedo alternative...» mugugnò tra sé. «Evidenzia i componenti base.»
Il nucleo, il rivestimento esterno e un cavo si illuminarono; Tony passò una mano sulla proiezione e le parti superflue furono rimosse. Ingrandì il nucleo con una lieve pressione delle dita, studiandolo attentamente.
Il robot gli aveva intanto portato il palladio che gli serviva ed emise un lieve cigolio metallico quando concluse il suo compito.
«Bravo, sei riuscito a non rompere niente. Adesso torna all'angolo della vergogna e ripulisci quel macello.» Accennò ai resti della Mark III. «Fondila, disintegrala, scomponila molecolarmente: non mi interessa, basta che sparisca dalla mia vista,» ordinò secco, senza smettere di studiare il nucleo del reattore in cerca del modo per renderlo più compatto. «JARVIS, proiettami una clavicola.»
Il computer eseguì e Tony ingrandì l'osso per poi farlo ruotare su se stesso.
«Il reattore dovrebbe impiantarsi qui, il più vicino possibile alla protesi per evitare di disperdere energia,» indicò l'estremità dell'osso che avrebbe dovuto congiungersi all'òmero.
«Signore, la protesi...»
«Penserò dopo alla protesi in sé, adesso disattiva i chip vocali e fa' parlare me,» afferrò il nucleo con la mano e lo compresse, riducendolo alle dimensioni di una noce. «Squadralo; una forma curva è difficile da adattare.»
La pallina luminosa diventò un prisma esagonale. Tony sospirò.
«Ok, lasciamo perdere la geometria e dagli la forma di un microchip,» ordinò infine.
JARVIS eseguì e gli fece assumere la forma desiderata. Tony valutò l'ipotetico progetto con aria critica.
«JARVIS, togli quel cavo di alimentazione aggiuntivo: sarà un'unità autosufficiente.»
«Pensavo volesse alimentarla con il suo reattore cardiaco,» considerò l'altro, eseguendo però la richiesta.
«No, meglio non sovraccaricarlo troppo,» disse, picchiettando con l'unghia sulla piastra metallica nel suo petto. «Con un'unità autonoma dovrebbe ridursi il rischio di malfunzionamenti. E poi devo già cambiare un nucleo di palladio a settimana quando utilizzo normalmente l'armatura, meglio limitare il dispendio di energia,» ragionò, seppur restio a includere la sua "attività extra" nei calcoli.
Osservò il modello che galleggiava a un palmo dal suo viso, e, potendo, avrebbe incrociato le braccia con soddisfazione.
«Bene, mi sembra una buona struttura di partenza. Poi Ian deciderà se è congeniale alla zona in cui deve impiantarla. Ora, calcola quanto palladio servirà per alimentarlo e considera che deve essere in grado di funzionare da sé per almeno cinquant'anni. Vorrei arrivare alla vecchiaia,» aggiunse sarcastico.
JARVIS non iniziò nemmeno ad eseguire i calcoli:
«Signore, non posso calcolare il palladio necessario senza la...»
«Protesi, ho capito,» sbuffò lui. «Ragiona indipendentemente dalla protesi, voglio solo farmi un'idea.»
«Calcoli eseguiti. Palladio necessario: 0.50 grammi.»

«Così tanto? Mi fiderò...»
«Signore, le consiglio di trovare un'alternativa al palladio perché...»
«... a lungo andare mi intossicherà. Smettila di ripetere cose che
già so, e ti ricordo che se tutto va bene mi ritroverò a breve con due arti meccanici; l'intossicazione è il mio ultimo problema. A proposito, ordina altre scorte di clorofilla, devo recuperare l'astinenza,» borbottò seccato, richiamando con un gesto Dum-E. «Adesso, seguimi alla lettera, o farai la fine dell'armatura. Devi fondere il palladio; fatti aiutare dal tuo amichetto.»
Lanciò un fischio leggero e U si mosse appena, quasi rallegrandosi. Tony inserì una chiavetta USB in Dum-E, sulla quale aveva trasposto il progetto.
«Ora, collega i circuiti e prendi tutto il materiale necessario,» continuò, rivolgendosi poi a U. «Tu invece prendimi gli occhiali protettivi, un guanto e i soliti attrezzi. Intendo
adesso, non tra un'ora... marsc'!» li incitò, vedendoli esitare, e quelli schizzarono all'opera.
Tony si accomodò meglio sulla sedia, osservando ora il modello che ruotava lentamente davanti a lui, ora il banco di lavoro pronto all'utilizzo. Si sentiva di nuovo padrone della situazione, nonostante adesso sarebbe stato costretto a lavorare con un braccio solo, affidandosi ai robot per sostituire quello mancante.
«JARVIS, intanto proietta sull'altro schermo la tavola periodica e un elenco di tutte le leghe esistenti... giusto per essere sicuri che non mi sia dimenticato nulla. Poi combina tra loro tutti gli elementi in tutte le combinazioni possibili e testale su questo modello di protesi.» Sollevò il foglio con la bozza e il computer lo scannerizzò. «Perfezionalo, questo è una schifezza; togli i difetti, analizza la grafia e memorizzala: non la cambierò per un po'.»
Lanciò un'occhiata all'angolo cucina e si rivolse di nuovo all'IA:
«E fammi un caffè. Hai dieci minuti.»


***

-

17 Febbraio, 18:45, Villa Stark

Quando Pepper entrò nel laboratorio, richiamata dagli improperi e dagli schianti che ne provenivano, non si aspettava di vedere quello che le si parò di fronte: Tony era seduto al banco di lavoro con DUM-E di fronte e inveiva pesantemente contro il robot che, stando alle parole del suo ideatore, non notava la differenza tra destra e sinistra.
«La sinistra è
questa! La destra è quest'altra! Per te è il contrario, ma non dovrebbe essere così difficile!» si sgolò, gesticolando contro di lui. «No, maledizione...» si lamentò esausto, quando il robot scattò in quella che era presumibilmente la direzione opposta al volere del suo creatore.
Lo scatto della porta richiamò la sua attenzione:
«Salve, Pepper,» la accolse, improvvisamente calmo.
«Buonasera, signor Stark,» esordì lei, trattenendo un sorriso nel vedere come cercasse di mascherare la sua evidente irritazione nei confronti del robot, a cui continuava a scoccare occhiate risentite.
Era una scena a cui era decisamente abituata, al contrario dell'aspetto di Tony, che come sempre le causò un moto di dolore, tristezza e ammirazione nel vederlo comunque attivo e dedicato ai suoi progetti.
«Ho pensato di portarle un caffè.»
Tony s'illuminò in volto a quella notizia e accolse la tazzina con la stessa reverenza che avrebbe riservato a una reliquia sacra.
«Grazie, non ne posso più di bere quella roba.» Additò le due borracce di clorofilla vuote sul bancone dell'angolo-cucina e prese un rapido sorso della bevanda, sobbalzando quando gli ustionò palesemente la bocca.
Pepper fece finta di non accorgersene, per amor del suo orgoglio.
In quel momento Dum-E si ritrasse leggermente dal banco di lavoro, attirando la sua attenzione.
«Tu! Non credere di averla scampata! Quello-va-a-destra.
Destra,.» sottolineò infine.
«La vedo estremamente preso dal lavoro,» osservò Pepper, sorridendo appena.
«Sì, infatti, forse tra una decina d'anni l'avrò anche completato, di questo passo,» sibilò, riservando un'occhiata velenosa ai suoi robot, nonostante Pepper sapesse che in fondo li adorava.
Scosse la testa: la pazienza non era mai stata una delle sue doti migliori.
«Bene, se è tutto, signor Stark...»
«Non è tutto,» la contraddisse lui; schioccò le dita e le schermate che gli aleggiavano intorno scomparvero.
Si fece improvvisamente serio, ma mantenne un'espressione serena, come se stesse per tenere un discorso davanti a qualcuno.
«Pepper, dolcezza, venga qui,» iniziò con un sorrisetto sornione, facendole cenno di avvicinarsi.
«Tony,
qualunque cosa lei abbia in mente...»
«La farò comunque, quindi mi risparmi la predica.»
«Come sempre...» sospirò lei, decidendosi però ad affiancarlo.
«Mi serve una mano. Anzi, due,» si corresse con un'ironia che Pepper non era certa di come dovesse accogliere.
«Basta che non mi chieda di operare a cuore aperto,» ribatté severa.
«Basta con quella storia, le
giuro che non le chiederò mai più niente del genere,» sospirò teatralmente lui.
Pepper attese pazientemente che arrivasse al dunque.
«Mi aiuterebbe a togliermi la maglietta?» disse infine lui d'un fiato, rivolgendole la sua famigerata espressione da cane bastonato.
Pepper non tentò neanche di mascherare la sua esasperazione:
«Tony, capisco che abbia degli istinti da sfogare, ma li sfoghi
in solitudine
«No, no! Ha frainteso! Lo sapevo, dovevo essere più chiaro, ma non ci riesco. Non deve
spogliarmi... ma deve spogliarmi,» disse con due differenti inflessioni di voce che non avvalorarono esattamente la sua causa. «Non so se sono stato chiaro, in effetti...» meditò poi, un po' scoraggiato.
«Lampante, direi.»
Pepper si prese la radice del naso tra le dita, imponendosi calma e compostezza.
«Vuole spiegarmi perché vuole che io la spogli? E che sia una
buona motivazione che non implichi risvolti improbabili,» lo avvisò, glaciale.
«Le assicuro che c'è un motivo assolutamente valido che non implicherà alcun divieto ai minori, quindi...»
«
Tony.» Pepper cominciava seriamente a spazientirsi, oltre che a provare un sottile senso di disagio.
«Insomma... può aiutarmi?» sbottò lui, facendosi più serio per qualche istante. «Se si scandalizza sono sicuro di poter rintracciare un po' di "spazzatura" che...»
«
Questo non volevo sentirlo,» commentò lei, avvicinandosi e aiutandolo un po' bruscamente a sfilarsi la maglietta.
«... e i pantaloni,» aggiunse Tony, con una voce piccola che non gli si addiceva.
«Anche?!»
«Non la sto invitando ad azioni sconsiderate, signorina Potts. Anche se... Come non detto!» si corresse rapido, notando l'occhiata omicida della donna.
«Almeno può sbottonarseli da solo?» gli chiese, nervosa.
«Se il braccio collabora, sì,» sospirò lui, iniziando a trafficare con la zip dei jeans e concludendo che forse d'ora in poi avrebbe fatto meglio a indossare solo tute e pigiami.
Nonostante il suo sarcasmo spigliato iniziava a trovare la situazione altrettanto imbarazzante.
Nei giorni che aveva passato a casa finora aveva tentato di essere il più autonomo possibile, ma era stato inevitabile accettare l'aiuto di Pepper anche per gesti quotidiani come abbottonarsi una camicia o calarsi in una vasca da bagno senza rompersi l'osso del collo. Cercava sempre di buttare la cosa sull'ironico, canzonando le reazioni imbarazzate di Pepper, ma in fondo lo trovava umiliante. E lo sarebbe stato ancora di più se avesse dovuto affidarsi a un infermiere sconosciuto; Pepper sembrava averlo intuito e non aveva avanzato la proposta di assumerne uno. Aveva apprezzato immensamente quella tacita intesa.
Anche adesso fingeva disinvoltura, ma si rendeva conto della situazione anomala in cui si trovavano a navigare entrambi.
«Bene, ora... non si agiti,» la avvertì scalciando il pantalone e la scarpa dalla gamba buona, trattenendo una smorfia quando la stoffa strusciò sul moncherino.
«Sono calmissima,» Pepper chiuse brevemente gli occhi in un gesto che diceva tutto il contrario.
«Sicura di essere pronta?»
«Ma che cosa diavolo mi deve chiedere?!»
«Mi tolga le bende.»
Pepper lo fissò per un momento, senza capire.
«Cosa?»
«Ha capito bene. Prima l'occhio e poi le altre. Anzi, meglio il contrario,» si corresse dopo un momento.
«Lei si è fatto spogliare per qualcosa che
non farò?» incrociò le braccia lei, fissandolo minacciosa.
«Dov'è il problema?»
«Il problema, signor Stark, è che non mi sembra nelle
condizioni...»
«Pepper, in un mese di ricovero non sono mai riuscito a guardarle quando mi medicavano, e anche qui l'ho sempre evitato. È capace, l'ha già fatto una volta e mi fido di lei.» Fece una breve pausa, comprimendo le labbra, e Pepper abbassò gli occhi a quella confessione insolitamente esplicita. «E credo che sia il momento di guardare in faccia la realtà, no?» voltò leggermente la testa, così da porre la donna nel suo angolo cieco per non dover vedere i suoi occhi colmi di preoccupazione.
«Credo che ci siano modi meno scioccanti per farlo,» finì per mormorare lei, e il suo tono addolorato lo fece avvampare di verogna.
Non voleva essere compatito.
«Cosa c'è? Mi ritiene forse instabile?» sbottò, troppo duramente.
«Non intendevo
questo. Ha subìto un trauma e questa non è una buona idea per superarlo. Non è assolutamente una buona idea,» concluse decisa, tentando di farlo ragionare.
«Si sta preoccupando per qualcosa che dovrebbe preoccupare me,» si ritrovò ad alzare un poco il tono lui.
«Come sempre, del resto.»
«Neanch'io intendevo
questo
«Per favore, lo dico per lei,» insistette ancora.
«Anch'io lo dico per me!» sbottò Tony, innervosito, e Pepper sobbalzò. «Non vorrà mica farmi prendere un raffreddore,» aggiunse più conciliante, nel tentativo di mitigare il suo scatto.
Pepper era ancora titubante, indecisa se assecondarlo o meno, come era accaduto in mille altre occasioni molto più spensierate di quella.
«Se proprio non vuole aiutarmi lo farò da solo,» stabilì lui, tornando a guardarla con sguardo deciso.
Era chiaro che nessuna menomazione fisica avrebbe mai potuto intaccare la sua incrollabile testardaggine. Pepper sapeva che lo avrebbe fatto veramente, a costo di farsi male... e non voleva sentirsi responsabile
anche per quello.
«Stia fermo,» si risolse infine, avvicinandosi.
La donna iniziò a sciogliere la benda della spalla con delicatezza, notando che Tony si mordeva il labbro pur di non lamentarsi; doveva costargli molta fatica, poiché artigliava con la mano il bracciolo della sedia. Anche Pepper doveva sforzarsi per compiere quel lavoro ingrato che le aveva praticamente imposto, ma provava anche pena per lui e non si sentiva di negargli quello che dopotutto era un favore che non avrebbe potuto compiere da solo.
Quando arrivò a scoprire i punti ancora freschi esitò, perché Tony tremava dal dolore e stentava a rimanere fermo. Tolse con un gesto rapido la benda per porre fine a quella sofferenza, pentendosi di aver accettato la sua richiesta.
Tony teneva la testa girata dall'altra parte; sembrava aver improvvisamente cambiato idea e non fece cenno di voler guardare, ma annuì appena quando la vide esitare, invitandola a non fermarsi.
Pepper passò alla gamba, dandogli tempo di raccogliere le forze per affrontare quell'ennesimo ostacolo. Quando gli aveva cambiato le bende l'ultima volta era decisamente più inibito dagli antidolorifici, e lei decisamente meno nervosa. Adesso era combattuta tra l'ammirarlo e il considerarlo un masochista. Quelle bende furono più difficili da rimuovere: più di una volta Tony si lasciò sfuggire un'esclamazione soffocata a stento; contrasse involontariamente il muscolo e questo gli provocò uno spasmo di dolore.
Pepper si fermò un momento per farlo riprendere, ma Tony la incoraggiò a continuare, così finì di scoprire ciò che rimaneva dell'arto troncato di netto. Si era quasi abituata a quella vista, per quanto dolorosa anche per lei, ma non riusciva a immaginare come avrebbe reagito lui nel fronteggiarla.
Fece per passare alla benda sull'occhio, ma a quel punto Tony la bloccò con fermezza. Si tolse a tentoni il cerotto e sussultò quando sentì l'aria fresca lambirgli la pelle sensibile e martoriata del viso.
Si bloccò con l'unico occhio chiuso, improvvisamente incapace di muoversi. Era smanioso di sapere, ma allo stesso tempo temeva ciò che avrebbe potuto vedere. Temeva di poter odiare il suo corpo in maniera definitiva.
Pepper gli strinse con dolcezza la mano mentre aspettava che Tony riaprisse l'occhio per guardarsi totalmente dopo tutto quel tempo, per vedere ciò che era diventato.
«Pepper... non ce la faccio,» boccheggiò infine lui, incominciando ad agitarsi.
Lei non seppe cosa fare. Non voleva incoraggiarlo, voleva solo che rimettesse quelle dannate bende, non per disgusto, ma per semplice buon senso: non stava soffrendo solo lui a quella vista. Gli fece una semplice, ma incoraggiante carezza sulla guancia, lasciando scivolare la mano sino al collo per trasmettergli un po' di conforto. Solo a quel punto Tony aprì l'occhio per fissarlo nei suoi, incoraggianti e limpidi. Pepper lo fissò di rimando. Lui annuì una volta, come ad autoconvincersi.
Abbassò di scatto lo sguardo verso il moncherino della spalla e si sentì contrarre lo stomaco per lo shock. La pelle era arrossata, i punti gonfi e di un rosso acceso e malsano. Si costrinse a guardare anche la gamba, in condizioni anche peggiori: stavolta fu un pugno nello stomaco. Infine, si voltò alla sua sinistra, verso lo schermo di un computer spento. Pepper era ammutolita e lo fissava in attesa di una qualunque reazione emotiva.

«Specchio,» mormorò Tony a JARVIS, e quello fece sì che lo schermo restituisse la sua immagine.
Portò incredulo la mano allo sfregio che occupava il suo volto, dove un tempo c'era stato il suo occhio sinistro. Lo tastò appena, incurante della scossa di dolore che ciò gli provocò. La ferita si stava lentamente rimarginando, ma era ancora arrossata e repellente alla vista; un taglio profondo gli solcava il sopracciglio per poi perdersi nella massa gonfia e contorta che era diventata la sua palpebra, chiusa per sempre dai punti di sutura. Si coprì cautamente la piaga, celando il suo volto deturpato, e per un attimo vide se stesso, per poi notare gli arti mancanti e terribilmente sbagliati nel suo riflesso. Vide lo smarrimento nel suo stesso sguardo, ora concentrato nell'unica iride nocciola che gli rimaneva.
Guardò di sfuggita Pepper nello schermo.
«Penso che possa bastare,» le disse.
Ammise a se stesso che non era del tutto preparato e chinò il capo.
«Mi aiuti a rivestirmi, per favore,» chiese piano, esitando a incrociare il suo sguardo.
Lei eseguì senza parlare, cambiandogli le medicazioni con cura ed efficienza.
Finito di rivestirsi con qualche difficoltà, si abbandonò allo schienale della sedia, inerte. Sentiva la testa vuota e leggera, come se avesse respiranto a lungo troppo profondamente.
«JARVIS, hai fatto le analisi che ti avevo chiesto?» si sentì dire, come se nulla fosse successo.
«Sì, signore. Ho trovato una lega che forse fa al caso nostro...»
La donna era rimasta impalata di fronte a lui, sentendosi fuori luogo, di troppo e risentita per quell'improvviso cambio di atteggiamento.
«Adesso è tutto, signor Stark?» chiese, gelida.
"Ha finito di farsi del male?" pensò invece tra sé.
«È tutto, signorina Potts. Può andare,» aggiunse, goffamente.
Pepper si voltò senza aggiungere altro se non un atono "buon lavoro".
«Pepper?» la chiamò Tony prima che aprisse la porta.
La donna si voltò appena.
«Grazie. Davvero,» le sorrise incerto e Pepper ebbe l'impressione che le stesse chiedendo scusa.
«È perdonato.»
"Come sempre..." sospirò tra sé.




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Revisione effettuata il 13/02/2018

Note Delle Autrici:

Ok, questo capitolo è un bel miscuglio di generi... si passa dal tecnico all'ironico fino all'angst totale. Per non parlare del fluff... sì, in alcuni punti c'è scappata la mano, ma ci sembrava il caso di stemperare i capitoli precedenti.
Comunque, we're back (in black). Speriamo che il capitolo vi sia piaciuto e ringraziamo Rogue92, AriCastle66, Silvia_sic1995 e alliearthur che hanno commentato e hanno inserito qusta FF tra le seguite... grazie a tutte!
Al prossimo capitolo! :D

Moon&Light

P.S. Ammettetelo: avete TUTTE pensato male... 

 




© Marvel

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Capitolo 6
*** Get off my cloud ***




5

Get off my cloud





"All those signs, I knew what they meant
Some things you can invent
And some get made, and some get sent"


[Speed Of Sound – Coldplay]




21 Febbraio, 9:30, Villa Stark

Tony imprecò per l'ennesima volta contro DUM-E, che sembrava dotato di volontà propria.
«No! Devi fondere
prima il silicio e poi temprare il carbonio! Prima... poi. Tutto chiaro?!»
Il robot emise un ronzio flebile e non molto rassicurante.
Tony tirò un lungo sospiro: stava letteralmente arrostendo, era la terza volta che tentava di fondere la lega e nessuno obbediva ai suoi ordini! Senza contare che iniziava ad affaticarsi: era seduto da ore e il moncherino della gamba gli doleva implorandolo di sdraiarsi per alleviare le fitte. Come se non bastasse, il suo braccio sinistro si stava rivelando più incontrollabile di quanto pensasse, soprattutto quando si trovava a manovrare tenaglie arroventate e recipienti colmi di metallo fuso con l'ausilio di un robot poco collaborativo e con evidenti problemi di coordinazione.
Di quel passo sarebbe impazzito...
«JARVIS, aiutami tu: fai capire a questo ammasso di latta che deve seguire le
mie istruzioni!»
«Signore, le periferiche non sono di mia competenza.»
Tony alzò l'occhio al cielo sentendosi vicino a un crollo nervoso:
«C'è qualcosa che funzioni qua dentro, a parte il mio cervello? Ho bisogno di zuccheri,»
aggiunse, stremato.
Tony si trasferì faticosamente sulla sedia a rotelle, afferrò la stampella che ormai usava come un bastone telescopico tuttofare e si diresse verso l'ascensore, spingendo il pulsante con essa e rischiando di schiantarsi a terra nel processo.
Prima di allora, in tutta la sua vita aveva utilizzato quell'ascensore solo rare volte: quando l'aveva fatto installare, quando era troppo ubriaco per fare le scale, e quando Stane gli aveva estratto il reattore lasciandolo agonizzante sul divano al piano di sopra, a malapena in grado di trascinarsi fino al laboratorio. Adesso aveva molte più occasioni per usarlo. Entrò incupito in quel cubicolo, fissando con vacuità la parete a specchio mentre aspettava che salisse al piano del salotto.
Si sospinse fino in cucina ed aprì il frigorifero come un morto di fame: aveva il fiatone per lo sforzo di spingere la carrozzella e scrutò speranzoso gli scaffali alla ricerca di qualcosa di commestibile, usando la stampella per rovistare ai piani più alti. Trasalì quando si poggiò inavvertitamente sulla piaga della gamba e fu costretto a fermarsi. Il dolore ai moncherini era sopportabile, ma sapeva che era solo grazie agli antidolorifici che riusciva a muovere un muscolo senza urlare. Non appena il dolore scemò riprese a mettere vivacemente a soqquadro il frigo, assumendo un'espressione sempre più contrariata.
Fu così che, quando Pepper entrò in cucina un quarto d'ora dopo, Tony si stava ingozzando di macedonia seduto al tavolo mentre manovrava con inaspettata sicurezza il cucchiaio con la sinistra.
«Da quando in casa mia ci sono solo cibi sani?»
la accolse bofonchiando, quasi strozzandosi con un chicco d'uva.
«Da quando deve seguire una dieta ferrea,»
rispose paziente Pepper, impeccabile come sempre nel suo tailleur oltremare.
Tony adocchiò con sospetto il fascio di documenti che recava in mano. Aveva il netto presentimento che attendessero le sue attenzioni, così si affrettò a continuare il discorso per ritardare quel momento:
«Ma avrei preferito... non so, qualcosa di ipercalorico e assolutamente inadatto a chi è nelle mie condizioni,»
si lagnò, inghiottendo un'altra enorme cucchiaiata di frutta e rimpiangendo i cheeseburger.
Pepper non rispose, alzando gli occhi al cielo come una madre che si trovi a fronteggiare i capricci di un figlio schizzinoso. Tony aveva sempre avuto un rapporto molto particolare col cibo, visto che era raro non vederlo spiluccare qualcosa agli orari più improbabili del giorno e della notte. Considerò il suo ritrovato appetito un buon segno.
«Come va la fusione?»
cambiò argomento.
«Non si vede?»
indicò la sua maglietta da lavoro – una t-shirt degli Aerosmith ormai logora, strappata e bruciacchiata in più punti, a testimoniare il suo poco amore per la band.
I pantaloni erano messi anche peggio ed era persino riuscito a rimediarsi delle scottature superficiali sulla mano, che tentava disperatamente di tenere celata dietro la ciotola, ma non sfuggirono agli occhi attenti di Pepper.
«E adesso a cosa starebbe lavorando?»
gli ricordò, in un richiamo bonario.
«Alla mia pausa, signorina Potts. Gradisce anche lei?»
accennò alla ciotola già vuota a metà.
«Declino l'offerta, ma grazie.»
rispose, togliendogliela poi di mano per evitare che finisse il chilo e mezzo di macedonia procurandosi una gastrite.
Tony sospirò, rimanendo stolidamente col cucchiaio impugnato a mo' di scettro di un re usurpato nel vedersi sottrarre il cibo da sotto il naso.
Il suo sconforto non durò a lungo e ripartì in quarta sulla sedia a rotelle, arrivando a tempo di record in salotto. Pepper sollevò lievemente le sopracciglia di fronte a quella sveltezza: non si sarebbe stupita se Tony avesse improvvisamente deciso di installare dei turbo su quel "trabiccolo infernale" che stava iniziando a disdegnare sempre meno, nonostante a volte lo cogliesse in flagrante a deambulare usando una sola stampella, con scarsi e pericolosi risultati.
Lo tallonò per accertarsi che non ne combinasse una della sue. Inoltre doveva anche firmare molti, troppi documenti. Le cose alle Stark Industries erano precipitate in quell'ultimo mese e lei riusciva a malapena a tener testa a tutte le telefonate e le richieste di meeting e di notizie sulle condizioni del titolare dell'azienda che riceveva quotidianamente.
Per fortuna Rhodes la stava aiutando almeno a gestire la situazione col governo. Il colonnello si era dimostrato molto risentito per il fatto di non poter ancora far visita a Tony, ma era stato costretto a sottostare alle disposizioni dello SHIELD e si stava prodigando per aiutarlo come poteva. Pepper non era nemmeno del tutto certa che fosse a conoscenza delle condizioni fisiche del suo amico e non aveva ritenuto opportuno aggiornarlo. Conosceva la sua caparbietà ed era sicura che si sarebbe fiondato alla porta di Tony non appena avesse saputo i dettagli dell'incidente. E vista la particolare irrequietezza del suo datore di lavoro non era sicura che l'incontro tra due teste così cocciute come le loro avrebbe prodotto risultati positivi.
Osservò Tony mentre si trasferiva maldestramente sul divano, stravaccandosi con sollievo e accendendo la TV con uno schiocco delle dita. Trasmettevano un servizio su dei violenti scontri armati in corso da qualche parte in Medio Oriente, e Tony storse il naso.
«Vede? Vede che cosa succede quando non ci sono io? La gente si scanna!»
esclamò con veemenza, preso da una delle sue solite manie di protagonismo, ma la donna percepì una dolorosa vena di frustrazione nella sua voce. «JARVIS, cambia canale» aggiunse in tono più moderato, iniziando a cercare qualcosa tra i cuscini del divano.
Il robot eseguì, e Pepper raggelò nel veere la nuova successione d'immagini che andò a occupare lo schermo piatto.
«Ed è ormai di pubblico dominio la folle impresa del...»
una foto di Tony campeggiava sullo schermo, ma lui era fortunatamente ancora impegnato a cercare qualcosa perso nei meandri del sofà.
Pepper si fiondò sul telecomando e si affrettò a cambiare canale: il suono delle raffiche di mitra sostituì nuovamente la voce entusiasta della presentatrice.
«Ma che cavolo...
Off ordinò Tony, riemergendo irritato dai cuscini. «Vedere questa roba mi rende solo nervoso,» sbottò, lanciando un'occhiata risentita alla TV e alla donna.
Si trasferì sulla sedia a rotelle senza aspettare il suo aiuto, dopo essersi cacciato in tasca il suo blocco degli appunti appena recuperato; fu quasi sul punto di cadere, ma recuperò miracolosamente l'equilibrio e si diresse di nuovo verso l'ascensore come se nulla fosse successo. Pepper si rassegnò ad aspettare un momento più propizio per sottoporgli i documenti aziendali che stringeva ancora in mano.
In quegli ultimi giorni era stato particolarmente irrequieto, cosa che non giovava affatto alle sue condizioni: passava quasi tutta la giornata in laboratorio, stava accumulando sonno perso, approfittava del fatto di essere costantemente inibito dagli antidolorifici per muoversi più del dovuto ed iniziava a risentire del prolungato periodo senza aver assunto clorofilla. Pepper, messa in allarme sulle sue vaghe ed evasive spiegazioni sugli effetti collaterali del reattore, aveva tempestivamente reagito sostituendo le sue amate bibite alcoliche nel minibar del laboratorio con flaconi di "succo d'erba".
Non ci volle molto prima che la voce infuriata di Tony risuonasse nel salotto dalla tromba delle scale:
«Puah! Cos'è questo schifo!? Ancora clorofilla? È ovunque! Pepper!»
Lei non si degnò neanche di rispondere, sorridendo fra sé segretamente soddisfatta.


***

21 Febbraio, 17:45, Villa Stark

«Ce l'ho... fatta,» sospirò finalmente Tony, volgendo le mani al cielo in un ironico ringraziamento divino: sapeva perfettamente di dover ringraziare solo se stesso.
"Megalomane? A rapporto."
«Sono un genio. Oh, sì. Adoratemi,» esclamò rivolto ai robot accanto a lui.
«Signor Stark, quando avrà finito di venerarsi potrebbe rivolgere a me le sue attenzioni?»
«Oh, ne sarò veramente lieto, signorina Potts,» si girò con un gran sorriso sul volto che si congelò all'istante quando scorse Mitchell al seguito della donna. «Di nuovo lui?» impallidì, coprendosi protettivo i moncherini.
«Buongiorno anche a lei, signor Stark,» ribattè Ian, armato di una pazienza infinita.
«Non ho niente contro di lei, ma sa... non mi ha mai portato buone notizie.»
«Comprendo il suo trauma. Anche per me non è piacevole.»
«Siamo in tre,» commentò Pepper, spazientita.
«Sono sicuro che avete un motivo validissimo per essere qui... ma prima dobbiamo festeggiare: ho inventato una nuova lega. È un grande giorno per la scienza. JARVIS, segna sul calendario.»
Ian fece un mezzo sorriso, non del tutto convinto.
«Bene, vedremo se sarà compatibile. Mi mostri i progetti.»
Tony gli porse un voluminoso fascio di documenti.
«La nuova lega è composta da silicio, carbonio ibridato, acciaio e nichel depurato. Si fonde prima il silicio con il carbonio in base ad un rapporto che...» si interruppe, notando l'espressione del medico che lo pregava di semplificare al massimo le parti tecniche. «...che non sto a spiegarle. Comunque, poi si fonde il carbonio ibridato con l'acciaio e si fondono le due leghe temprandole a varie temperature. Voilà! Abbiamo l'
Unobtanium, che secondo i miei calcoli dovrebbe poter sostituire i nervi in maniera abbastanza fedele. Osservazioni? Commenti? Insulti? Sì, sono preparato anche a quelli, ma li ignorerò.»
«Sarò io a decidere se saranno compatibili o meno. L'unica obiezione che mi sento di farle è...»
«Perché "unobtanium"?» completò Pepper al posto suo.
«Esatto. Di tanti nomi...»
«Oh, le alternative erano "Starkium" o "Badassium", fate un po' voi. Ho deciso di buttarla sul ridere dato che sarà una lega che non andrà in commercio. Per ora.»
«Unobtanium andrà benissimo. Mi servirà un campione.»
«Eccolo qui, solo per lei.»
Tony gli porse una barretta dal colore nerastro racchiusa in una scatolina semitrasparente. Ian parve intuire l'aspetto nocivo della nuova lega, perché lo fissò con uno sguardo eloquente dopo averla osservata in controluce: non sembrava esattamente il materiale ideale per sostituire i nervi di un braccio umano.
«Sì... mi, anzi, gli,» indicò DUM-E, che si agitò con un ronzio «è scappato un po' troppo nichel. Ne consideri circa il 4% in meno; rimedierò con la prossima fusione, questo primo blocco servirà per i test preliminari. Vedremo poi quale dei tre componenti compenserà il nichel in eccesso.»
«E l'alimentazione?»
«Sono lieto che me l'abbia chiesto, così potrò sommergerla con un'altra spiegazione tecnica... o forse no,» tossicchiò.
Prese una specie di microchip dai riflessi azzurrini poggiato sul tavolo.
«Questo è un micro-reattore arc; ancora un prototipo, in effetti. Ha la stessa potenza di questo.» Tamburellò sulla piastra impiantata nel suo petto. «E un'autonomia di circa sessant'anni; direi che basterà... dovrà essere ancorato alla protesi e all'osso. Dove, dovrà deciderlo lei.»
«Tra acromion e clavicola, direi. Almeno, così su due piedi, mi sembra la collocazione più adatta. Mi lasci anche il micro-arc ed una copia del progetto.»
Altri documenti si aggiunsero a quelli che già aveva in mano.
«Grandioso: compiti a casa. Mi sento tornare ai tempi del college,» sospirò Ian, oberato di scartoffie.
«A questo proposito: mi rendo che il mio caso le porterà via la maggior parte del suo tempo lavorativo, così vorrei proporle un impiego fisso nelle Stark Industries, nel settore medico-sanitario,» sciorinò Tony con semplicità.
Ian rimase di sasso, non aspettandosi certo un'offerta simile posta in modo così diretto. Si prese qualche istante per ricomporsi e per riuscire a chiudere la bocca rimasta semiaperta per la sorpresa.
«Sarebbe... fantastico. Decisamente fantastico, ma dovrò... ponderare l'offerta, dopotutto sono anni che lavoro nello stesso ospedale. Accetterei all'istante, ma dovrei prima parlarne con la mia famiglia e informare i miei colleghi,» temporeggiò, per non farsi vedere eccessivamente euforico.
«Ma certo, ha tutto il tempo che desidera. Signorina Potts, lei è d'accordo?»
«Me ne ha già parlato, ripetutamente, e le ho espresso il mio entusiasmo,» gli ricordò, riservando un lieve sorriso al medico, che si schiarì la voce fingendo indifferenza.
«Scommetto che non è solo una visita di piacere,» commentò all'improvviso Tony, notando che nessuno dei due sembrava aver intenzione di andarsene e realizzando che non aveva ancora capito perché fossero venuti a parlare con lui.
"Altri problemi..."
«Che intuito, signor Stark,» Mitchell si mosse un po' a disagio.
«Immagino che lei sia qui come supporto psicologico della signorina Potts.»
«Più o meno,» rispose lui, evasivo.
«Vede, ehm... lei è in una situazione disagiata, ma non solo fisicamente, purtroppo,» iniziò Pepper, titubante.
«E fin qui ci capiamo. Anche mentalmente non sono mai stato messo troppo bene.»
«Sto cercando di dirle che è anche
socialmente compromesso.»
«Mi lasci indovinare: sono coinvolto in una qualche scandalo che ha attirato l'attenzione delle più importanti personalità degli Stati Uniti che adesso vogliono delle spiegazioni convincenti... per vie legali, presumo.»
Pepper lo fissò un po' spiazzata.
«Andiamo, ne parlano tutti i telegiornali! Pensavate che non me ne fossi accorto? Il fatto che non voglia ascoltare non vuol dire che non senta. E mi aspettavo di aver occupato le prime pagine con l'incidente al settore 16, altrimenti perché ci sarebbero stati tutti quei paparazzi all'ospedale?» sollevò la mano come se fosse ovvio e con aria fintamente offesa per il fatto che avessero sottovalutato a quel punto le sue capacità deduttive.
«Ci ha risparmiato la fatica di informarla.» Pepper sembrò enormemente sollevata.
«Come ha intenzione di reagire?» intervenne a quel punto Mitchell, temendo già la risposta.
«Tecnicamente ad ogni azione corrisponde una reazione, ma se io decidessi di non reagire...» notò lo sguardo affilato di Pepper e si affrettò a concludere: «Non presentarmi in tribunale potrebbe essere una soluzione?»
«Signor Stark, è sotto processo, non mi sembra la mossa migliore per ingraziarsi la giuria,» Pepper lo squadrò con severità, consapevole che non stesse scherzando.
«Forse ha ragione... di cosa sarei accusato, esattamente? Questo mi è sfuggito.»
«Ha una quantità esorbitante di accuse, prima di tutto quella di essere... "Iron Man".» Pepper pronunciò quel nomignolo con evidente perplessità.
«E dov'è il problema? Lo sono. Lo dichiaro. Fine del processo e tutti a casa a lavorare sulle protesi,» esclamò falsamente esuberante Tony; aveva modi decisamente migliori per sprecare il suo tempo che passare un'intera giornata a scaldare un banco dei testimoni. «Bel nome, tra l'altro. Impreciso dal punto di vista tecnico, essendo l'armatura una lega di oro e titanio, ma molto evocativo. Ha un che di pesante e potente. Sempre meglio di "Consulente" o "Il Meccanico",» concluse soddisfatto, mettendo a dura prova la sopportazione di Pepper.
«Mi creda, signor Stark, vorremmo tutti che fosse così semplice, ma credo che
qualcuno non sarebbe così contento se confermasse spensieratamente la sua identità segreta.»
Ian fece finta di non stare ascoltando e prese a leggere i documenti che aveva appena ricevuto.
«Identità segreta? Pensavo di essere solo un "consulente", anche se collaboro da mesi con Mr. Pirata e la sua ciurma.» Tony simulò un'espressione sbigottita. «Dopotutto, tecnicamente sono troppo "imprevedibile" e "instabile" per fare parte del Progetto...»
«Signor Stark, le ricordo che sta parlando di informazioni classificate.» Pepper scoccò un'occhiata a Ian, che faceva del suo meglio per mostrarsi disinteressato.
«Non ho alcun dovere nei loro confronti! Non mi sembra che i miei super-amichetti si siano neanche degnati di spedirmi un biglietto di buona guarigione!» esclamò lui, chiaramente seccato e deluso.
«Lei non sa di cosa sta parlando, la situazione è molto più complessa di quanto crede e neanche io...»
A quel punto Ian si riscosse:
«Signor Stark, signorina Potts. Sono perfettamente consapevole di essere invischiato in qualcosa di più grande di me. Ho una famiglia e gradirei non essere messo parte a segreti di Stato e informazioni sensibili che potrebbero metterla a rischio, se non vi dispiace. Sono già abbastanza coinvolto con la storia del processo in quanto suo medico curante e avevo esplicitamente chiesto di rimanere estraneo a queste faccende, per quanto possibile.»
Scoccò un'occhiata significativa a Pepper, che ricambiò con aria di scusa.
Tony alzò la mano in segno di resa come a dire che, se fosse dipeso da lui, avrebbe parlato volentieri di tutt'altro.
«Questioni top-secret a parte... dobbiamo decidere una linea di difesa, e con questo intendo trovare un buon avvocato. Non sarà facile, viste le premesse,» cercò di farlo ragionare Pepper.
Ian scosse la testa e si accigliò; fu sul punto di dire qualcosa, ma Tony lo precedette, rivolgendosi a Pepper:
«Quando sarebbe il processo?»
«Il quattro Marzo; tra poco più di dieci giorni.»
«Così presto? Dovrò sbrigarmi...» commentò tra sé Tony. «Ah, non vuole rendere pubblica la mia attuale... situazione, vero?» aggiunse, serio.
«Non vuole renderla pubblica?» domandò stupita.
«Mi sembrava ovvio.»
«Dovrà farlo, prima o poi.»
«Preferisco poi. Non ora. Meglio se mai. Lo dico francamente: meno di un mese fa ero un simbolo per gli Stati Uniti, e adesso non vorrei distruggere le mie e le loro aspettative e peggiorare ancora la situazione. Tanto più che sono tutti piuttosto convinti che io sia Iron Man...» pronunciò quel nome con chiaro compiacimento, mostrando quanto lo apprezzasse. «Insomma, non farei una buona impressione se venisse fuori che non sono neanche in grado di riprendere la mia "attività in incognito",» disse Tony d'un fiato.
Era chiaro che la sua assistente non fosse assolutamente convinta delle sue argomentazioni, ma non aveva intenzione di discuterne ulteriormente.
«Quindi, visto che non potrò terminare le protesi in tempo per il processo... mi serviranno dei surrogati,» aggiunse con aria distratta, e si volse a guardare Ian.
Mitchell emise uno sbuffo esasperato: quante ne stava passando a causa sua...
«Ingesseremo il braccio e la gamba mancanti. E posso rimediare un paio di rudimentali protesi fisse. L'occhio lo terrà coperto, diremo che in seguito all'incidente ha dovuto sottoporsi ad un intervento di chirurgia plastica ed è fotosensibile a causa di...»
«Come io le risparmio i dettagli tecnici, lei mi risparmi quelli medici. Grazie per la collaborazione,» lo interruppe scherzoso Tony, prima di riprendere: «Ma io dovrò realmente sottopormi ad un intervento di chirurgia plastica. Insomma! Il mio bel viso!» cercò di sdrammatizzare senza successo, sentendo uno spiacevole vuoto allo stomaco nel parlare del proprio volto deturpato.
«Ci penseremo in seguito. Per ora non si faccia strane idee riguardo all'occhio. Ho notato i suoi progetti. E anche se riuscisse ad elaborare una tecnologia ottica non la opererei certo io. Si concentri sulle protesi,» mise subito in chiaro il medico.
Tony lo fissò con aria testarda; "lo farò comunque", diceva il suo sguardo.
«Ok. Se è tutto...» attese qualche intervento da parte loro, che con suo sollievo non arrivò, «...io torno a lavorare.» concluse, indicando il caos di dispositivi, metallo semifuso e congegni attorniati da ologrammi azzurrini dietro di lui.
«Signor Stark...» lo richiamò Ian, estremamente serio.
Tony si girò volgendo l'occhio al cielo.
«Se proprio ha intenzione di presentarsi in tribunale con un arto meccanico, si assicuri che funzioni a dovere. Io non faccio miracoli.»
«Come ha fatto a capirlo?» chiese l'altro con un sorriso furbo, come un bambino colto sul fatto.
«La signorina Potts ha provveduto a informarmi su di lei molto, molto bene. In particolare mi ha messo in guardia riguardo alla sua testardaggine e alle sue stravaganze. Senza parlare della sua autostima spropositata e inopportuna.»
«Ottimo lavoro, Pepper.»
Tony la guardò furbetto, per poi tornare a prendere a male parole il robot:
«Tu, mani di latta! Non ti avevo forse detto di pulire? "Non l'ho fatto"? Male. Fallo ora!» ordinò, rimettendosi gli occhiali protettivi e afferrando il saldatore «JARVIS, torna in vita e proiettami un modello del braccio: oggi lavoriamo sul telaio...»
Pepper ed Ian si defilarono di comune accordo, lasciandolo al suo lavoro.




 
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Revisione effettuata il 15/02/2018
 
Note Delle Autrici:

Ay, ay, ay caramba! Eccoci di nuovo qui con un altro capitolo ancora "leggero" tutto per voi. Non siamo ancora passate alle maniere forti *TREMATE!*
Intanto aggiungiamo problemi su problemi u.u Come se Tony non ne avesse abbastanza...
Ringraziamo tanto alliearthur, Rogue92 e sofy96 che continuano a seguirci e a recensire ^^
Alla prossima,


Moon&Light



 



© Marvel

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Capitolo 7
*** Heart of steel ***




6

-

Heart of steel




"And honey, you should know
That I could never go on without you
Honey you are the rock
Upon which I stand"

[Green Eyes – Coldplay]





26 Febbraio, Villa Stark

«Ne è sicuro, signor Stark?»
«Assolutamente.»
«Glielo chiederò ancora una volta: ha l'assoluta certezza che funzioni, che sia perfetto e che non avrà problemi?»
Tony deglutì, fissando l'intrico di cavi che sporgeva dalla placca di metallo poggiata sulla scrivania e il micro-reattore ancora inerte accanto ad essa. Aveva passato l'ultima settimana a costruire la piastra d'aggancio della protesi, concentrandosi sul punto di giunzione tra il suo braccio e il metallo; era rimasto sveglio intere nottate per essere certo di non tralasciare nulla, neanche il più piccolo dettaglio che potesse causare difficoltà... era sicuro, dannatamente sicuro che funzionasse.
Ciononostante non poté reprimere il brivido di paura che gli percorse la schiena quando rispose:
«Sì.»
Ian annuì, sistemandosi le pieghe dalla giacca: non si fidava così ciecamente di lui, ma aveva imparato che, sebbene avesse un'opinione troppo alta di sé, non avrebbe mai affermato nulla in campo tecnico senza esserne sicuro al cento per cento. O perlomeno convinto.
In quel periodo di progettazione serrata avevano finito per instaurare un rapporto, se non di fiducia, almeno di rispetto reciproco: lui dava per buone le sue supposizioni tecniche e meccaniche e Tony si riponeva completamente nelle mani del medico per la parte anatomica. Tra Tony che stemperava l'atmosfera con la sua battuta pronta e il suo incrollabile ottimismo e Ian che lo teneva a bada con burbera schiettezza e inclemente realismo, avevano formato un team piuttosto equilibrato, arrivando a risultati più che notevoli. Ne era prova la meraviglia biotecnologica dinanzi ai loro occhi.
Ian trasse un respiro profondo:
«Molto bene. Ora non ci resta che applicarla e sperare che tutto vada bene. Quando vuole operarsi?» chiese, aspettandosi già la risposta.
Tony non rispose subito, perso nei suoi pensieri, ma quando parlò lo fece in un tono assolutamente deciso:
«Domani.»
Ian sbuffò: come previsto.
«Domani sarà difficile. Le ricordo che ho ancora una vita al di fuori di qui. E mille pratiche da sbrigare prima di poter lasciare il mio posto al General.»
«Allora il prima possibile.» Tony alzò le spalle a camuffare la sua impazienza.
«Se si sente pronto io non ho problemi a operarla tra tre giorni, durante il finesettimana. Così potrò monitorarla nelle ore immediatamente successive. Ho passato l'ultimo periodo a ripassare ogni singolo passo dell'operazione, e poi posso sempre contare su JARVIS. Anche se degli assistenti in carne ed ossa sarebbero meglio, per un'operazione così delicata,» aggiunse.
«Non sono solo io a spingere per la privacy a tutti i costi...» commentò Tony, in tono lievemente accusatorio.
«Non mi metta in mezzo alle sue beghe governative. Io sono un semplice medico.»
Tony scosse la testa, contrariato. Aveva ricevuto un lapidario specchietto da parte dello SHIELD che gli raccomandava di mantenere "la massima riservatezza" in quel frangente delicato, senza poi spiegare come avrebbe dovuto seguire una direttiva del genere. In realtà si era stupito che non si fossero fatti vivi prima. Pepper stessa sembrava sorpresa dal loro silenzio e gli aveva ribadito di non aver ricevuto ulteriori informazioni da parte loro, ma aveva l'impressione che lo stesse volutamente tenendo all'oscuro di qualcosa. O forse erano semplicemente impegnati a gestire chissà quale minaccia incombente, dinanzi alla quale la sua momentanea inattività passava in secondo piano.
La voce di Ian lo riscosse dai suoi pensieri irritati:
«Posso farcela anche da solo, anche se ci metterò molto più tempo, aumentando i rischi per lei. Deve però assicurarmi la disponibilità dei suoi robot: sono bravo, ma io non ho superpoteri.»
L'occhiataccia di Tony gli bastò per capire quanto il suo commento fosse a sproposito e si schiarì la gola prima di continuare:
«Basta che la signorina Potts si tenga a disposizione in caso di emergenza; non importa se non è qualificata: le dirò io cosa fare se sarà necessario,» spiegò, senza nascondere il suo disappunto.
«Sarà felicissima di prendere parte a un'altra operazione chirurgica poco ortodossa...» commentò Tony, lasciandosi scappare un sorriso sotto i baffi. «I robot sono a sua disposizione, ma si assicuri che distinguano la destra dalla sinistra prima di iniziare a tagliuzzarmi,» sbuffò, in un macabro tentativo d'ironia che Ian non sembrò apprezzare particolarmente. «La ringrazio per aver accettato la mia offerta,» aggiunse poi, più serio.
«Potevo forse rifiutare? Per un lavoro così sono anche disposto a passar sopra a qualche dettaglio poco convenzionale... come un'operazione in casa propria,» commentò Ian con franchezza.
Tony alzò le spalle, come a dire che per lui la stravaganza era la norma.
Era contento di aver offerto quel lavoro a Ian. Era una persona competente e capace, oltre che perfettamente in grado di tenergli testa, ed era proprio quella qualità a valergli la stima che provava nei suoi confronti, nonostante si trovasse spesso in disaccordo con lui. In fin dei conti era lo stesso criterio che aveva adottato nell'assumere Pepper e non si era mai pentito di quella scelta.
Inoltre la sezione biotecnologie mediche delle Stark Industries languiva da un po'. Dopo la chiusura del reparto bellico erano stati costretti ad operare una redistribuzione radicale dei fondi, oltre che ammortizzare la perdita di molti dei loro finanziatori. Tony aveva deciso di puntare sull'energia pulita per rilanciare l'azienda, finendo per trascurare molti dei dipartimenti minori al punto da essere obbligato a congelarne alcuni – rimpiangeva ancora la chiusura della sezione spaziale. Magari il contributo del dottor Mitchell non sarebbe stato decisivo, ma era qualcosa. 
Il medico aveva un curriculum impressionante e risultava come mentore di alcuni dei chirurghi più illustri del Paese: Tony si era chiesto a più riprese perché mai una mente come la sua si limitasse a lavorare al General Hospital di Los Angeles, pur in una posizione di rilievo, piuttosto che in una qualche prestigiosa clinica privata in Svizzera. Fissò l'uomo seduto davanti a lui, ingrigito e dal volto che sembrava scolpito in una tavola di legno in cui fossero state incastonate due acquamarine. 
Per ora, Ian rimaneva per lui un enigma.
«Quante possibilità di successo ho?» chiese all'improvviso, anche per rompere il silenzio che si era protratto un po' troppo a lungo.
Mitchell sembrò prendere per un attimo in considerazione l'idea di mentirgli, poi parve ripensarci.
«Di solito non scoraggio un paziente prima di un intervento, ma trattandosi di un'operazione mai eseguita prima d'ora...» s'interruppe, titubante. «Il 45% circa. Né più né meno.»
Tony si aspettava una cifra simile, ma fu comunque un duro colpo.
«La prego, continui a parlare nella mia lingua: probabilità di rigetto e di decesso?» chiese, sforzandosi di mantenere la calma.
«Rigetto più o meno 60%... forse 65. Morte, fortunatamente, sotto al 30%.»
«Fortunatamente? Non capisco nulla di medicina, ma di statistiche ne so qualcosa: è comunque molto alta. Esattamente, cosa potrebbe andar storto?»
«Mille cose, e lo sa bene, ma a meno che non le recida per sbaglio un arteria il rischio più grande è che si infetti la ferita; allora bisognerebbe riempirla di antibiotici o, in casi estremi, asportare e reimpiantare la protesi. Idem, se non peggio, se il suo corpo non dovesse accettarla come tale. Dobbiamo anche sperare che in seguito l'osteointegrazione degli agganci in titanio faccia il suo corso.»
Tony si mosse nervosamente sulla sedia, irrequieto.
«Molto bene... cioè, male. Insomma, detesto non avere la situazione sotto controllo. Non che così cambi qualcosa, ma sapere a cosa vado incontro è già un passo avanti.»
Ci fu un'altra pausa, durante la quale Tony fissò intensamente la protesi e il micro-reattore, come se così potesse svelarne gli eventuali difetti.
Nel suo studio, probabilmente la stanza meno utilizzata a Villa Stark, scese un silenzio interrotto solo dal ticchettio dell'orologio a muro. Tony guardò nervoso fuori dalla vetrata e seguì il profilo della costa californiana che si perdeva all'orizzonte, in cerca di una calma che stentava a trovare.
«Pepper lo sa? Intendo, riguardo alle possibilità di successo,» si decise a chiedere.
«Non ancora, devo...»
«Perfetto, non glielo dica. È già abbastanza preoccupata e si infurierà quando le dirò che mi opero così presto,» commentò, passandosi la mano sul volto tirato.
Ian evitò di rispondere, ma era chiaramente in disaccordo con quella decisione. D'altronde, la parola del paziente era legge. Si alzò dalla sedia sgranchendosi le gambe e prese la piastra d'aggancio e il micro-reattore con accortezza.
«Vuole che la chiami e la informi almeno dell'operazione?» si offrì, volendo diminuire lo stress per Tony: un accumulo di tensione in quei giorni avrebbe potuto ostacolare l'anestesia totale.
«Magari glielo accenni e le dica di venire qui... provvederò io a spiegarle tutto nei particolari. Grazie,» aggiunse in ritardo, ma il medico era già uscito.
"E ora, un bel sorriso. Magari non la prenderà così male."


***


«Il reattore le ha fritto il cervello?»
«Ancora no, per fortuna. Le assicuro che sono nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, un po' meno di quelle fisiche.»
Pepper si morse il labbro, angosciata; ogni suo gesto esprimeva preoccupazione, ansia e nervosismo. Ponderò per un secondo se prenderla in giro per questo, ma ci ripensò rapidamente capendo che farlo sarebbe stato solo crudele da parte sua.
«Pepper, mi sento pronto. Non come vorrei, questo no, ma sono abbastanza calmo per farmi operare tra pochi giorni. Se aspettassi ancora non so come potrei reagire. Forse con un attacco di panico, non lo so. Cerchi di capirmi,» aggiunse intensamente, tentando di catturare il suo sguardo, ma lei continuava a sfuggirlo.
La donna si appoggiò alla scrivania dietro di sé, fissando il pavimento di parquet lucido e stringendo le braccia attorno al proprio corpo come per impedirsi di crollare come un castello di carte. Tony si sporse appena dalla sedia a rotelle, ma era troppo lontano per raggiungerla e fece per rinunciare. Pepper però colse il suo movimento e si accostò appena a lui per permettergli di sfiorarle il braccio, in un gesto che lui sperò fosse rassicurante.
La donna scosse appena la testa, tormentandosi le mani. Era impallidita e Tony riusciva a vedere chiaramente ciascuna delle lentiggini che le costellavano il volto fine. Non riuscì a distogliere lo sguardo. Si rese conto di quanto la stesse facendo preoccupare e di cosa doveva essere stato per lei quel periodo. Aumentò appena la presa sul suo braccio e quello parve riscuoterla; posò una mano su quella di Tony sua, riuscendo finalmente a esprimersi:
«Non può operarsi adesso, è tutto troppo affrettato. Non è pronto, non credo proprio che lei sia pronto per una cosa simile,» disse d'un fiato, parlando con impeto e gesticolando molto, come le capitava sempre quando era agitata.
Tony scosse la testa con un mezzo sorriso.
«È lei che non è pronta,» disse, prendendola in contropiede.
Capiva perfettamente la sua posizione: aveva rischiato troppe volte di perderlo, e sapevano entrambi di non avere nessuno se non l'altro.
«No,» ammise lei. «Non sono pronta a vederla morire sotto i ferri o per qualunque altro motivo, come non ero pronta un anno fa quando...» si lasciò sfuggire, interrompendosi di colpo nel realizzare ciò che stava per dire.
«Pepper...» lo sguardo di Tony si fece improvvisamente più cupo: non voleva che pensasse a quello.
Non era giusto che quell'evento tormentasse anche lei.
«Mi dispiace, non volevo...»
«Va tutto bene, Pep. Anzi, visto che parla dell'Afghanistan...» esitò brevemente per scrutare la sua reazione, concludendo che fosse abbastanza calma per continuare: «... insomma, non vorrei peggiorare la situazione ma là ho affrontato di peggio: mi hanno operato a cuore aperto, senza anestesia e con degli strumenti chirurgici medievali. E sono ancora vivo,» disse d'un fiato, pentendosi di aver voluto continuare per forza.
Non riusciva ancora a parlarne con leggerezza senza sentire una punta di disagio in fondo allo stomaco. Dovette prendere un grosso respiro per calmarsi, ma riuscì a sfoggiare la sua solita aria spavalda.
«Andrà tutto bene: non muoio così facilmente.»
Le fece l'occhiolino, cercando di infonderle un po’ di coraggio anche se era lui il primo ad averne bisogno. La donna non sembrò affatto convinta, ma gli strinse la mano tra le sue, in un tentativo di incoraggiarsi a vicenda.
«Non mi preoccupa solo l'operazione. Anche il... il dopo,» confessò infine Pepper, lasciando intendere il resto.
«Vedo che Ian l'ha comunque informata,» commentò lui seccato.
«Ho minacciato di impedirgli l'operazione se non mi avesse detto chiaramente quali erano i rischi. E lei dovrebbe sapere che non può nascondermi nulla.»
Tentò un sorrisetto nervoso senza molto successo e Tony lo ricambiò con spontaneità: tipico di Pepper. Riusciva ad essere terrificante, quando voleva. E lui lo sapeva molto bene.
Pepper fece per tornare a tormentarsi inconsciamente le mani, ma Tony la trattenne con fermezza, intrecciando le dita alle sue per impedirglielo, pur consapevole dell'estraneità di quel gesto nel loro rapporto. Intuì lo sguardo perplesso di Pepper posarsi su di lui, ma lo sfuggì, concentrandosi sulla gamba dei suoi pantaloni vuota e annodata all'altezza del ginocchio. Lei non si sottrasse al contatto e Tony si sentì stupidamente felice.
«Si impianterà tutto il braccio?» chiese infine Pepper per rompere quel silenzio, e sciolse infine la stretta che la univa alla mano di Tony; lui la lasciò andare subito, ritraendosi un po' a malincuore.
«No, solo la piastra di base, quella che si collega ai nervi, e il micro-reattore. Il resto lo impianterò dopo da solo,» spiegò poi con disinvoltura; mentre parlava fece un cenno verso la propria spalla mutilata. «Ah, un'altra cosa che la farà infuriare,» aggiunse, sbirciando di sottecchi lo sguardo ora esasperato della donna. «Non mi operano in ospedale. Si ricorda la stanza inutile?»
«L'ex-camera di suo padre?»
«Esatto... eviterebbe di pronunciare la parola "padre"? Lo sa che mi irrita. Comunque, dovrà essere smantellata e sterilizzata da cima a fondo in modo che sia linda e pinta entro venerdì. Basterà equipaggiarla con le apparecchiature mediche che avevamo ordinato tempo fa e sarà una sala operatoria funzionale in tutto e per tutto. Almeno è servita a qualcosa, alla fine,» commentò acido, senza riuscire a trattenersi. «Entro lunedì potrò iniziare a lavorare sul serio,» concluse poi sorridendo ottimisticamente.
Parlava come se niente fosse, sovrappensiero. Pepper lo osservò con attenzione, cercando di leggere la sua espressione impertinente, ma oltre intravide solo una serena noncuranza.
Non sembrava veramente preoccupato, e forse era quello che preoccupava di più lei.


***


29 Febbraio, Villa Stark

«Signor Stark, se è pronto possiamo cominciare l'anestesia. Si assicuri di essere calmo e rilassato, o potrebbero sorgere complicazioni,» lo informò Ian, facendosi loro incontro con una flebo per nulla rassicurante in mano.
«Ricevuto. Sono calmissimo,» lo rassicurò lui.
Pepper lo fissò esitante.
«Sono pronto,» le ribadì Tony, con una sicurezza che non sentiva sua.
L'ago fece più male di quanto si fosse aspettato, tanto che gli strappò un'esclamazione di sorpresa, più che di dolore. Sentì subito il braccio intorpidirsi e un velo freddo che gli avvolgeva il resto del corpo. Non percepiva già più la flebo.
«Dovrebbe addormentarsi entro dieci minuti al massimo. Non si agiti, deve abbandonarsi al sonno,» lo avvertì Ian, notando lo sguardo di puro panico che Tony rivolse a Pepper.
Ian indossava mantellina e grembriule sterili, mascherina e cuffia; solo i suoi occhi azzurri schermati dagli occhiali erano visibili, e si fissarono penetranti su di lui.
«Io sono di là, sterilizzo gli strumenti, controllo che sia tutto in ordine e torno. Signorina Potts, si assicuri che stia calmo e tenga a portata di mano l'abbigliamento chirurgico: non si sa mai,» le ingiunse a voce più bassa, sparendo oltre la porta a tenuta stagna che Tony aveva fatto installare a tempo record.
Pepper sperò con tutto il cuore che Ian non avrebbe avuto bisogno del suo aiuto. Non era assolutamente in grado di affrontare la visione di Tony sotto i ferri.
Questi era sdraiato sulla brandina, con un panno a coprire fianchi e inguine e lo sguardo rivolto al soffitto. Respirava affannosamente e non sembrava affatto sul punto di addormentarsi. Pepper spostò la sedia accanto a lui, senza cercare di nascondere la sua ansia, ma quando vide che era più teso che mai assunse un'espressione che sperava fosse rassicurante. Gli strinse la mano, sperando che la sentisse ancora, e lui ricambiò la stretta con forza, come aggrappandosi a lei.
«Non funzionerà. Andrà storto qualcosa, me lo sento... ho sbagliato sicuramente qualche calcolo,» sussurrò concitato, sentendosi invadere dalla paura che trapelava dal velo allentato del proprio autocontrollo.
«Tony Stark che dubita della sua genialità?» chiese ironica Pepper, cercando di tranquillizzarlo e di tranquillizzare anche se stessa. «Non ha sbagliato niente; non ricordo sinceramente una sola volta in cui abbia sbagliato qualcosa nel suo campo,» ribattè lei, decisa, ma le sue parole non parvero fare effetto.
«Ma che mi è venuto in mente? Potevo vivere benissimo anche senza quest'assurda idea delle protesi... mi sento una cavia da laboratorio! Dannazione, sono un idiota!» imprecò, tremante.
Stavolta Pepper si accigliò. Forse il sedativo lo stava disinibendo più di quanto si stesse rendendo conto, e si chiese se quello che stava parlando fosse il vero Tony, quello che aveva intravisto solo raramente oltre la sua maschera di spavalderia.
«Lei ha la possibilità di ricostruirsi una vita, al contrario di molta altra gente: non la getti via così alla leggera,» lo rimproverò infine.
Tony emise un sospiro sibilante, annuendo appena.
«Giusto. Ho... ho fatto una promessa,» farfugliò, e per un attimo non sembrò neanche essere cosciente di dove fosse. «Ormai non posso tirarmi indietro,» mormorò appena, sentendosi chiudere l'occhio man mano che il sedativo faceva effetto. «Se penso che dovrò rifarlo anche per la gamba...» rabbrividì, non sapendo se ne avrebbe avuto il coraggio e, soprattutto, se ne sarebbe stato in grado.
Spostò lo sguardo appannato su Pepper e si sentì crudele per lasciarsi andare a simili scenate di panico davanti a lei: la stava solo facendo soffrire. Si impose, per l'ennesima volta, la calma, anche se già si sentiva fluttuare in uno strano limbo di grigia oscurità.
Era semplice, dopotutto: doveva solo addormentarsi e poi si sarebbe risvegliato senza problemi, cercò di autoconvincersi. E se anche non si fosse risvegliato, non si sarebbe comunque accorto di nulla.
Giusto?
«Signorina Potts... la proposta di trasferirsi qui in pianta stabile è ancora valida,» sorrise a fatica, tentando di distrarsi da quello che stava per accadere.
Pepper sembrò per un momento spiazzata dal repentino cambio di tono e argomento, ma poi assunse un'espressione più tranquilla.
«Credo proprio che accetterò, signor Stark, ma...»
«Avrà una sua camera, non si preoccupi,» la anticipò con un debole sogghigno ironico. «Basta che quando mi sveglio lei sia qui,» aggiunse piano, come parlando da una grande distanza e chiedendosi se il sedativo non lo stesse facendo delirare.
Pepper per tutta risposta gli strinse un po' più forte la mano.
Ian rientrò in quel momento, armato di una torcetta elettrica. Si avvicinò a Tony e gliela puntò nell'occhio, osservando la pupilla, che reagì debolmente alla luce.
«Ho freddo...» bofonchiò Tony; sembrava momentaneamente distaccato dalla realtà e aveva l'occhio semichiuso.
Mormorò qualche altra frase sconnessa, prima di addormentarsi docilmente e con un'espressione serena sul volto. Ian lo trasferì con attenzione in sala operatoria, rivolgendo un cenno d'intesa a Pepper. Lei si sedette di nuovo, poggiando il viso tra le mani e preparandosi a una lunga attesa.


***


«Non va bene! Non va affatto bene! Lo sta rigettando! Il bisturi cinque, Potts, il cinque!»
«Mitchell, il reattore sta...»
«Mi dia quel bisturi! Tamponi qui e prema forte! Non lasci o lo perdiamo!»
«Il cuore! Mitchell!»
«No...»
«Tony!»


***


Non era così male essere in anestesia totale, riflettè Tony da qualche parte tra la realtà e l'oblio. L'oscurità era di tanto in tanto inframmezzata da un lampo blu. Non capiva se fosse sveglio o meno. Era sospeso in una dimensione di passaggio non meglio identificata, simile al coma, ma meno profondo. Poteva anche essere morto da quel che riusciva a sentire, cioè niente. Era come scivolare in un pacifico dormiveglia.
Percepì un barlume di coscienza.
"Dove sono?"


***

Luce. Luce ovunque, così forte da trapassargli gli occhi; la sentiva quasi brillare nella mente, per quanto era intensa. Poi arrivò il dolore, smorzato e soffuso, ma costante. Le macchie di colore che gli danzavano davanti agli occhi assunsero contorni più definiti, e fu in grado di distinguere... un volto?
«Pepper...» rantolò a fatica, ricollegando la chiazza rossastra ai i suoi capelli.
Gli sembrò che stesse sorridendo, ma tutto era ancora sfocato... e gli girava la testa come una trottola impazzita. Sentì la sua voce, distorta e lontana; gli ferì le orecchie e sentì l'istinto di tapparsele, se solo avesse capito dov'era il resto del suo corpo.
"Sono vivo," realizzò in ritardo, quando finalmente avvertì una lontana percezione di sé.
La vista gli si schiarì un poco, e riconobbe il soffitto della sua stanza. Mosse la testa, felice di riuscirci, e scoprì di avere una flebo piantata nel braccio, così evitò di muoversi troppo.
"Dov'è andata...?"
Si guardò intorno confuso e la vide rientrare di corsa nella stanza per sedersi accanto a lui sul letto. Stava dicendo qualcosa, ma le parole erano un'accozzaglia indistinguibile di suoni. Lei dovette rendersi conto che era ancora in stato confusionale, perché smise di parlare, limitandosi a rivolgergli un sorriso raggiante. Tony udì un fischio acuto e fu come se qualcuno avesse finalmente deciso di restituirgli l'udito; strizzò l'occhio, assordato, poi riportò lo sguardo su Pepper restituendole spontaneo il sorriso, ancora un po' intontito.
«Sono vivo!» esclamò con voce gracchiante e stupendosi della sua stessa vitalità, nonostante fosse continuamente assalito dalle vertigini.
«Sì. Sì, è vivo, per fortuna...» disse Pepper con voce un po' rotta dall'emozione.
«Cosa è successo? È andato tutto bene?»
«Sì, è andato bene. Ma ha rischiato tanto... veramente tanto,» mormorò Pepper, improvvisamente seria.
«Ci sono state complicazioni?»
«Molte. Il micro-reattore ha interferito col reattore principale appena Ian l'ha impiantato. Ha rischiato di rigettarlo.»
«Non l'avevo previsto; non... non sarebbe dovuto accadere, il micro-reattore è troppo piccolo per...» gli finì il fiato e dovette fermarsi per riprendere il controllo della sua bocca impastata.
Faticava a decifrare ciò che gli stava dicendo Pepper.
«... poi si è stabilizzato, ma ha avuto un arresto cardiaco. Abbiamo davvero temuto di perderla.»
Tony riuscì ad avere un moto di sorpresa nonostante la spossatezza che sentiva.
«Lei era lì?» mormorò incredulo.
«Ho dovuto aiutare Mitchell; da solo non ce l'avrebbe fatta.»
Tony non poté fare altro che guardarla con sguardo perso, ammirato e allo stesso tempo senza parole. Aprì e chiuse la bocca un paio di volte, per poi rassegnarsi a rivolgerle un semplice, enorme sorriso di gratitudine.
Trovò solo allora il coraggio di guardarsi il moncherino: la piastra metallica che era la base della protesi sembrava aderire perfettamente alla sua pelle, circondata da una fasciatura che nascondeva i punti di sutura esterni. C'era una medicazione che copriva l'estremità distale della clavicola, dove immaginò fosse impiantato il micro-arc.
«Ce l'ha fatta...» mormorò incredulo, sfiorando il bordo metallico con i polpastrelli.
«Anche lei,» lo corresse Pepper, con il sorriso che non riusciva ad abbandonare le sue labbra e gli occhi un po' lucidi.
Tony si sarebbe messo a ridere e urlare dalla felicità se solo ne avesse avuta la forza, ma era veramente esausto, così si limitò ad emettere una risatina, soffocata in un accesso di tosse.
«Gliel'ho detto che ce l'avrei fatta; dovrebbe imparare a fidarsi di me,» commentò con un mezzo ghigno sicuro di sé.
Pepper scosse la testa senza sapere come esprimere il proprio sollievo, ma Tony lo fece al posto suo: ignorando il dolore, si sollevò a sedere e catturò Pepper in un abbraccio improvviso, stringendola a sé col braccio sano e ignorando la sua esclamazione di sorpresa.
Fece male, dannatamente male, ma si sentì scoppiare di gioia quando udì la risata spontanea e un po' rotta dalle lacrime di Pepper risuonargli nel petto.




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Revisione effettuata il 15/02/2018
 

Note Delle Autrici:

Ta-daaa, siamo di nuovo qua. Contente? u.u *parte coro di fischi* coffcoff, comunque, non ci stanchiamo mai di tormentare Tony... non si era notato eh? Ma, dopotutto, adesso sarà felice per un po'... e ora arriveranno gli altri problemi! :D
Dunque, ci siamo date a un fluff spaventoso... speriamo di non aver esagerato ^^'
Ringraziamo come sempre alliearthur, Rogue92 e sofy96 che hanno recensito gli scorsi capitoli <3

Alla prossima! :D

Moon&Light


P.S. Piccola precisazione: Pepper aiuta Mitchell nell'operazione, ma non partecipa in prima persona. Ci spieghiamo: gli passa solo gli strumenti, controlla le apparecchiature e ferma il sangue (insomma, non impugna bisturi e roba varia, sarebbe ridicolo). Per tutto il resto... c'è JARVIS & la sospensione dell'incredulità :D

 



© Marvel

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Capitolo 8
*** Another brick in the wall ***



7

 

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Another brick in the wall



"I know what it takes to move on
I know how it feels to lie
All I wanna do is trade this life for something new
Holding on to what I haven't got"

[Waiting For The End – Linkin Park]




2 Marzo, Villa Stark

Nei giorni che precedettero il processo e non appena fu in grado di alzarsi dal letto contro ogni buonsenso, Tony divenne sempre più nervoso e incostante. Entrò in uno stato di attività febbrile, vivendo prevalentemente in laboratorio e facendosi vedere di rado nel resto della casa, preso com'era dal suo lavoro che sembrava averlo rinvigorito almeno nel fisico dalla spossatezza post-operatoria. Lo stesso non si poteva dire delle sue condizioni psichiche: era soggetto a frequenti e improvvisi scoppi d'ira, seguiti da profonde crisi depressive che però duravano al massimo un paio d'ore, per poi tornare in uno stato di euforica attività. Spesso era tormentato da atroci fitte di dolore al moncherino connesso alla protesi, cosa che lo innervosiva ulteriormente ma che non bastava a imporgli il confino a letto come gli aveva prescritto Ian.
Nonostante questo miscuglio di emozioni altalenanti lavorava sempre fino a sfinirsi, accumulava appunti e schizzi in un caos ingestibile sulla sua scrivania e affidava il lavoro della fusione ai robot, assicurandosi di persona che fosse eseguito alla perfezione. Era diventato quasi ambidestro, ma non si fidava a fondere e preparare la lega di unobtanium con una mano incerta e un braccio incompleto. Aveva realizzato a tempo di record il telaio, incluse le dita, anche se non riusciva ancora a muoverlo se non per pochi, basilari gesti. Passava ore nel tentativo di controllare quel rudimentale abbozzo di braccio, sostenendo che doveva abituarsi a quello prima di riprodurre il resto.
In generale, stava compiendo una lotta contro il tempo per terminare il braccio in modo che fosse funzionale prima del processo: sembrava preoccuparsi più di come sarebbe apparso in aula che non del processo in sé.
Questo clima di tensione influiva anche su chi viveva con lui o decideva suo malgrado di fargli visita.
Rhodey, ancora all'oscuro delle condizioni di Tony e probabilmente andando contro gli ordini della SHIELD, aveva commesso l'errore di disturbarlo mentre stava controllando la fusione dell'unobtanium, impresa non facile con la sola sinistra e in bilico su una sedia a rotelle. Gli era tremata la mano al momento sbagliato quando Rhodey lo aveva chiamato tramite l'interfono e aveva quindi rovesciato il metallo fuso sul banco di lavoro, rischiando di danneggiare irreparabilmente anche la protesi. Era andato su tutte le furie e gli aveva precluso l'accesso al laboratorio all'istante, intimandogli di non mettere più piede in casa sua. Aveva probabilmente perso un importante appoggio per il processo e a nulla erano valse le scuse di Pepper per conto di Tony e i suoi tentativi di accennargli la gravità della situazione: Rhodey se n'era andato stizzito, dicendole di fargli presente quando il suo "amico" avesse deciso di comportarsi da persona civile, e non aveva voluto ascoltare altro. A quel punto era stata Pepper a stizzirsi e a decidere che non aveva tempo né energia per tener testa a due adulti che si comportavano come tredicenni isteriche.
Ian ormai si faceva vedere poco e niente alla Villa a causa dell'intrattabilità di Tony durante i controlli, neanche gli stesse impiantando di nuovo il braccio da sveglio. Si era limitato a prescrivergli degli antidolorifici, dedicandosi anima e corpo al suo nuovo impiego alle Stark Industries nonostante l'indisponenza del suo datore di lavoro.
Fury non si era ancora fatto vivo nonostante avesse finalmente annunciato un'imminente riunione dei Vendicatori per "fare il punto della situazione", così avevano almeno evitato di inimicarsi personalità altrettanto suscettibili come Hulk o Thor. La reazione di Tony era stato di puro fastidio: era evidentemente ancora molto, molto risentito per lo stato di totale ignoranza in cui lo stavano tenendo e per il loro apparente disinteresse nei suoi confronti.
Un paio di settimane prima Coulson le aveva comunicato in privato che il quartier generale era al momento piuttosto in subbuglio a causa di alcuni contrasti col governo, che a quanto pareva non vedeva di buon occhio qualunque "progetto" la SHIELD stesse cercando di nascondergli. Un certo generale Ross aveva avanzato delle pretese discutibili riguardo alla coordinazione del progetto, con enorme irritazione di Fury, già impegnato a gestire un fronte turbolento tra Asgard e Midgard. Sembrava che Stane non avrebbe potuto scegliere momento peggiore per dare di matto e ridurre Tony in quello stato. Coulson l'aveva pregata di non fare parola delle tribolazioni della SHIELD con lui, vista la sua posizione già abbastanza ambigua e precaria nei Vendicatori. Non avevano bisogno di ulteriori colpi di testa da parte sua e Pepper si era trovata d'accordo, nonostante sentisse un lieve disagio nel mentire a Tony. D'altronde, questi era troppo assorbito dal suo lavoro per prestare veramente attenzione a qualunque cosa accadesse oltre le mura del laboratorio.
Happy e Pepper stavano iniziando ad accusare la situazione tutt'altro che serena, essendo obbligati a convivere con Tony ventiquattr'ore su ventiquattro. Il primo aveva risolto il problema prendendosi delle lunghe ferie per una presunta zia malata. Pepper sapeva benissimo che aveva preso il primo aereo per Las Vegas e non poteva biasimarlo, visto che ormai aveva ben poco da fare alla villa in veste di autista e personal trainer di Tony.
E così lei era rimasta da sola a gestire un impero finanziario, in compagnia di una specie di grizzly che usciva una volta al giorno dal laboratorio unicamente per mangiare, quando se ne ricordava, o stare ore nella vasca da bagno – l'unico atto che pareva dargli sollievo dal dolore ai moncherini – con un blocco degli appunti sempre a portata di mano, lasciandole un processo da affrontare e la casa desolatamente vuota.
Tony accettava solo sporadicamente la sua compagnia, costantemente di cattivo umore per un qualche problema tecnico insorto nella costruzione del braccio. Sembrava che tollerasse solo la presenza di JARVIS, che almeno aveva il chip del sarcasmo nei limiti della sua tolleranza.
Da un lato, Tony sembrava rendersi ben conto dell'insopportabilità del suo comportamento scostante e pareva quasi sentirsi in colpa, dall'altra sembrava avere un bisogno fisiologico di stare da solo, dopo aver passato un mese in uno stato di sorveglianza quasi costante. Pepper si era impressa a fuoco nella mente le parole di Ian sullo stress post-traumatico e cercava comunque di non abbandonarlo a se stesso per più di qualche ora.
Fortunatamente le rare volte che riemergeva di sua sponte dal laboratorio per lavorare in terrazzo era quantomeno trattabile e diventava più incline a parlare.
Quella mattina, due giorni prima del processo, Pepper era appunto in terrazzo occupata a visionare vari documenti e registri delle Stark Industries in preda al caos e a cercare di contattare un avvocato disposto a difendere Tony: data la situazione decisamente sfavorevole tutti richiedevano un prezzo esorbitante – non che fosse un problema, ma non era entusiasta di ingaggiare una sanguisuga – o rifiutavano direttamente, temendo di essere trascinati nel turbine dello scandalo che circondava il miliardario. Di questo passo sarebbero stati costretti a ripiegare sugli avvocati delle Stark Industries, che per quanto competenti erano fin troppo suscettibili all'influenza del consiglio d'amministrazione, lo stesso che fino a poco tempo prima aveva avallato le bieche manovre di Stane e che adesso se ne distanziava nettamente come se ne fosse stato all'oscuro. Pepper si era ritrovata da sola a tener testa a quel branco di sciacalli, ansiosi di firmare un'ingiunzione per escludere Tony dalla direzione dell'azienda quanto lo erano al suo ritorno dall'Afghanistan. Il diretto interessato non sembrava ritenersi tale e si era rifiutato ancora di rendere note le sue condizioni, sostenendo, stavolta forse a ragione, che ciò li avrebbe solo convinti della sua incapacità decisionale.
Pepper sospirò, cancellò il sesto numero di telefono dalla lista accanto a sé e si impose una pausa dalla ricerca del legale: aveva comunque una considerevole montagna di scartoffie che l'avrebbe tenuta più che occupata.
Tony si materializzò dal nulla accanto a lei ancora in pantaloncini e canotta del pigiama, con un fascio di fogli sottobraccio. Si sedette al tavolo senza una parola, trovando come sempre grandi difficoltà nel manovrare le stampelle: il braccio era ancora decisamente primitivo e non gli garantiva una gran libertà di movimento, ma si era incaponito a volersi spostare così, rinunciando alla relativa comodità della sedia a rotelle e mettendo a dura prova la pazienza di Ian, seriamente preoccupato per le ripercussioni di quell'abitudine sul moncherino e sulla schiena. Gli aveva proposto di applicare temporaneamente una protesi rigida alla gamba, per permettergli almeno di avere un appoggio e semplificargli gli spostamenti, ma Tony aveva opposto un rifiuto categorico ad "impiantarsi una gamba di legno".
"Mi basta una gamba finta al processo," aveva aggiunto irritato.
«Dormito bene?» chiese Pepper, distratta, ben sapendo che aveva come sempre fatto le ore piccole e che si era probabilmente alzato alle sei del mattino per rimettersi al lavoro.
O forse, più probabilmente, non aveva dormito affatto.
«Molto. Sono crollato ieri sera in laboratorio verso le dieci e mi sono svegliato ora,» rispose invece lui, stranamente calmo e massaggiandosi il collo a riprova della dormita decisamente scomoda.
Pepper alzò lo sguardo: appariva effettivamente più riposato, anche se le occhiaie erano ancora evidenti; tra l'altro si era anche ostinato a non togliersi la benda dall'occhio destro nonostante Ian gli avesse detto chiaramente che avrebbe fatto meglio a iniziare a scoprirla per aiutare la cicatrizzazione. Gli aveva ripetuto più volte che non c'era nulla da fare e che potevano solo affidarsi alla chirurgia plastica per camuffare il danno, magari ricorrendo poi a un occhio di vetro. Lui invece sembrava non volersi rassegnare a quella perdita definitiva, né a "fare un cosplay del pirata irascibile", e Pepper aveva visto di sfuggita qualche schizzo di apparecchi ottici confusi con il marasma di bozzetti che si trascinava sempre dietro.
«Ha preso gli antidolorifici?» chiese, conoscendo già la risposta.
«Le ho già detto che quella roba mi ottenebra il cervello. Non sento dolore, e tanto basta,» sbottò infatti lui, chiudendo lì la questione e mentendo spudoratamente, a giudicare dalle contrazioni involontarie che gli attraversavano il volto ad ogni piccolo movimento.
Pepper evitò ovviamente di dirgli che li assumeva inconsapevolmente attraverso i litri di caffè e clorofilla che scolava ogni giorno, e che nonostante ciò le sembrava che la sua capacità di intendere e di volere fosse rimasta inalterata. Piuttosto, la caffeina lo rendeva perennemente scontroso e iperattivo, ma quel giorno sembrava essere in una delle sue fasi buone: il sonno doveva avergli fatto bene.
Tony fissò con aperto disgusto le pratiche legali sparse sul tavolo, prima di impugnare la matita con la destra e tentare di maneggiarla senza spezzarla: la potenza della protesi doveva ancora essere calibrata. Le dita erano decisamente primitive, quasi dei pistoni, e Tony non si era ancora abituato a gestirla, così finiva per rompere le cose senza volerlo, facendosi male lui stesso se si muoveva sovrappensiero. Sembrava aver fatto progressi notevoli col controllo della protesi, ma era evidente che doveva concentrarsi al massimo anche solo per muovere le dita della mano, perché il congegno sembrava rispondere solo in parte ai suoi ordini. Per ora era solo un telaio di titanio con cavi, fili e chip scoperti in attesa di essere trasformati in tendini e legamenti, collegati da uno snodo di fibra di carbonio direttamente alla piastra della spalla, l'unico pezzo definitivo del congegno.
«Quand'è il processo?» le chiese all'improvviso, le sopracciglia aggrottate nello sforzo di non disintegrare la matita e di seguire allo stesso tempo la linea del righello.
«Il quattro marzo, dopodomani. Quindici.» aggiunse.
«Quindici cosa?»
«Quindici volte che me lo chiede in tre giorni
Tony fece un mezzo sorriso per celare il suo nervosismo al pensiero, prima che la matita si spezzasse di netto tra le sue dita meccaniche. Imprecò tra i denti e provò a scrivere con il mozzicone, ma gli si frantumò definitivamente. Rinunciò a usare la protesi e si arrese a scrivere con la sinistra, nonostante lo trovasse estremamente scomodo.
Pepper smise di osservarlo e ritornò ai suoi documenti, sottolineando le parti che non la convincevano: a sentire l'accusa, Tony era un terrorista in grado di minacciare gli Stati Uniti da solo; aveva sabotato delle esercitazioni militari – dunque Rhodey aveva parlato – e negli ultimi sei mesi si era trovato coinvolto in diversi scontri armati in cui non era stato chiaro per quale parte combattesse. Restavano da chiarire i motivi che l'avevano spinto a far saltare il reattore arc e ad uccidere l'amico e collaboratore Obadiah in una "lotta impari" e l'esistenza di una gigantesca arma robotica non meglio identificata oltre alla famosa armatura.
Almeno, questo era quello che sostenevano le scartoffie che aveva in mano. Vi erano un'altra decina di accuse, riguardanti i vari danni a infrastrutture e edifici pubblici durante lo scontro, attribuiti a "una furia distruttiva senza pari" e ai "postumi del trauma subito in Afghanistan, che hanno portato l'imputato a ricambiare le violenze subite durante la prigionia". Secondo quegli avvocati, Tony era una specie di pazzo criminale che aveva come unico scopo quello di distruggere tutto ciò che poteva.
"Un mare di idiozie," concluse, sbarrando con decisione quei capi d'accusa come se ciò potesse eliminarli anche dalla realtà.
Alzò lo sguardo: Tony le sembrava più inoffensivo che mai, preso com'era a tracciare un abbozzo della sua protesi, con la fronte aggrottata per la concentrazione di scrivere con la sinistra e lo sguardo assorto che celava un velo di sofferenza. Teneva la protesi poggiata sul moncherino inferiore con fare protettivo, e la testa più inclinata del solito per leggere meglio ciò che scriveva. Pepper distolse lo sguardo da lui nel rendersi conto di quanto le facesse male vederlo in quelle condizioni, nonostante tutto l'ottimismo che si era imposta.
Tornò alle sue carte per non soffermarsi su quelle riflessioni: veniva imposto il sequestro immediato dell'arma ribattezzata "Iron Man" e della sua fonte di energia, il che implicava tacitamente la consegna del reattore arc impiantato nel corpo di Tony del quale tutti ignoravano l'esistenza. E l'armatura era ridotta a un ammasso di metallo semifuso: Tony non aveva trovato né tempo né voglia di ricostruirla, visto che non sapeva se avrebbe potuto ancora usarla.
Pepper sospirò scoraggiata: troppi, troppi problemi da affrontare e risolvere, troppo poco tempo e soprattutto troppa poca collaborazione da parte del diretto interessato.
«È difficile,» commentò lui all'improvviso, come esprimendo i suoi pensieri.
«Deve solo farci l'abitudine: prima o poi riuscirà a controllare il braccio come vuole lei,» replicò automaticamente, senza staccare gli occhi dall'ennesima pagina di tiritere legali.
«No, intendevo... questo è difficile.» 
Si sporse verso di lei e le mostrò il progetto al quale stava lavorando: una decina di abbozzi della protesi in varie angolazioni e posture erano stilizzati in alto, e una serie di complessi calcoli occupava il resto del foglio. Pepper si distolse momentaneamente dalla sua occupazione, lieta di potersi distrarre e rallegrandosi in cuor suo che Tony la stesse mettendo parte del suo lavoro.
«Qui,» indicò lo snodo del gomito, «dovrei riprodurre una sorta di cartilagine per ridurre l'attrito, perché l'articolazione si blocca.»
A dimostrazione, piegò faticosamente il braccio verso l'alto e si sentì un sinistro scricchiolio metallico: si era effettivamente incastrato e dovette spingerlo con l'altro per farlo tornare disteso.
La protesi emise uno scatto secco seguito da un cigolio di protesta e il mignolo si afflosciò inerte.
«Ah. Si è di nuovo logorato il cavo di collegamento,» commentò tra i denti Tony.
Provò inutilmente a muovere il dito, cosa che anche con una protesi funzionante doveva essere estremamente difficile, ma quello continuò a penzolare,ignorando i suoi sforzi.
«Ecco, questo è un altro problema dell'attrito: il rivestimento dei cavi si logora, l'unobtanium entra in contatto con gli altri cavi e li deteriora – senza contare che ossida il titanio – e si interrompono gli impulsi nervosi. Mi serve della cartilagine sintetica ma...»
«Non sa come riprodurla.»
«Esatto. Tutti i materiali che ho testato sono troppo poco durevoli. Potrei provare ancora con l'unobtanium, ma preferirei un'alternativa, perché è troppo instabile... e poi ha una forma solida, mentre la cartilagine è più morbida,» commentò, giocherellando sovrappensiero con un cavetto che sporgeva dal telaio.
«Signor Stark, vorrei tanto aiutarla, lo sa, ma non capisco assolutamente niente di robotica e ingegneria biomedica,» osservò gentilmente lei, con un sorriso di scuse.
«Non importa,» ribattè lui. «Devo solo parlarne con qualcuno, esporre le mie idee per ragionare... insomma, essere ascoltato e ripreso se parto per la tangente. Mi basta questo, e lei è sempre stata bravissima a farlo,» concluse, con un sorriso sghembo, facendole abbassare lo sguardo imbarazzata. «Comunque... quante possibilità ho di uscire quasi integro dal processo?» cambiò improvvisamente discorso, un po’ troppo ironicamente.
«Non le nascondo che per ora tutto è contro di lei, ma forse potremmo riuscire a sfruttare le accuse a nostro favore, soprattutto sull'ambiguità dell'armatura intesa come arma. Dovremmo comunque tentare di evitare le domande più spinose e dirigere il processo su zone sicure per noi, così...»
L'attenzione di Tony durò poco. Scivolò con la sedia accanto a lei, ignorando completamente ciò di cui stava parlando e ricambiando a suo volere e piacere argomento per lanciarsi in una dettagliata spiegazione tecnica per risolvere il problema dell'unobtanium, tracciando linee sul foglio e guardandola di tanto in tanto, come in cerca di approvazione. Lei non poteva fare altro che tentare di seguire i suoi ragionamenti intricati, perdendosi inevitabilmente quando lui enunciava teoremi e formule, ma era comunque molto interessata: nonostante Tony fosse un pessimo insegnante, sapeva catturare l'attenzione di chi lo ascoltava. Aveva senza dubbio un magnetismo e un fascino innati, cosa che aveva ampiamente dimostrato sia nei suoi numerosi discorsi pubblici che nella sua disinvoltura nel districarsi indenne da situazioni che volgevano a suo sfavore.
Pepper sperò che riuscisse a fare lo stesso anche al processo.
«... si logorano i cavi interni: quelli esterni non sono un problema, anche perché dovrò sostituirli con qualcosa di meno ingombrante... non posso diminuire i cavi, né spostarli, né modificare quelli che contengono l'unobtanium...»
Pepper lo guardò sconsolata e Tony mordicchiò pensieroso la matita, apparentemente in stallo.
«Però... aspetti. Forse... ci sono! Ci sono. Non devo cercare di risolvere il problema ma... evitarlo, e sfruttarlo a mio vantaggio!» esclamò all'improvviso riprendendo le sue parole e aprendosi in un gran sorriso, il primo spontaneo da giorni.
Pepper non fece in tempo a chiedere spiegazioni che Tony era balzato in piedi, rischiando di uccidersi per la fretta di prendere le stampelle; afferrò i fogli e gli schizzi e le schioccò a sorpresa un bacio sulla guancia:
«Lei è un genio, Pepper!» esclamò entusiasta, avviandosi zoppicando verso il laboratorio e lasciandola sul terrazzo in un misto di felicità e stupore.

***

Il suo cellulare trillò.
«Virginia Potts, mi dica.»
«Molto piacere, signorina Potts. Sono Kyle Andrews, un avvocato. Ho saputo del processo del signor Stark e vorrei offrirmi come difensore.»
«Mi scusi, chi le ha dato questo numero?»
«Sono un ex-paziente del dottor Ian Mitchell, mi ha dato lui gli estremi. Mi scuso per non essermi proposto prima, ma ho dovuto vagliare attentamente la situazione. Sarei davvero disposto a difendere il signor Stark.»
«È assunto,» lo informò subito Pepper, senza pensarci due volte e stentando a credere a quello che poteva senza dubbio dirsi un miracolo.
«Oh, che rapidità!» si sentì una lieve risata all'altro capo del telefono. «Quando potrei avere un colloquio con lei o direttamente con l'imputato?»
Pepper ebbe appena tre secondi di esitazione.
«Oggi, il prima possibile. Mi fornisca il suo indirizzo e la faccio venire a prendere in mattinata.»
«Ah, mi risparmia un'immensa fatica. Grazie.»
Pepper riattaccò e balzò in piedi, diretta al laboratorio.
«Tony!»




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Revisione effettuata il 19/02/2018


Note Delle Autrici:

Ed ecco a voi l'altro capitolo u.u (ma no?)
Ci stiamo rendendo conto che stiamo pubblicando a raffica, ma d'altra parte questa FF sta venendo fuori liscia come l'olio, senza blocchi *incrocia le dita* e cavoli vari quindi... perché aspettare? :D
Questo, come il gentile pubblico può notare, è un capitolo di stallo! *standing ovation* No, seriamente, non proprio di stallo... diciamo "riassuntivo".

Idee o ipotesi per il nuovo personaggio? :) Ci sono un po' di indizi... si aprano i giochi! :D


Ringraziamo come sempre alliearthur, Rogue92 e sofy96 che recensiscono e hanno aggiunto la storia tra le seguite ^_^

Sunset In The Darkness aka Shadow&Light


P.S. Applauso ai Pink Floyd (<3) che ci hanno prestato il titolo XD
 



© Marvel

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Capitolo 9
*** Time is running out ***




8
.
Time is running out




"A young fighter screaming, with no time for doubt
With the pain and anger, can't see a way out
It ain't much I'm asking, I heard him say
Gotta find me a future
Move out of my way"


[I Want It All – Queen]




«Signor Stark, come si dichiara?»
«Innocente, naturalmente!»
Un brusio concitato provenne dalla giuria, poi il Senatore impugnò il martelletto con un sorriso perfido.
«Colpevole. Dovrà consegnare l'arma Iron Man, continuare a produrre attrezzature belliche per l'esercito e consegnare le sue protesi, che sono...»

***


2 Marzo, Villa Stark

«No! Non sono armi!» Tony sobbalzò raddrizzandosi di scatto, facendo scivolare qualche foglio dalla scrivania dove si era di nuovo addormentato.
Si guardò attorno aspettandosi di essere in un'aula di tribunale. Ma era nel suo laboratorio, e l'unica forma di "vita" era lo schermo che lampeggiava davanti a lui. Si portò una mano alla fronte, ravviandosi i capelli scomposti. Quegli incubi iniziavano ad esasperarlo.
«Signor Stark, sono le 11:31 del 2 Marzo. Dopodomani ci sarà il suo processo.»
Tony sbadigliò assonnato, lasciandosi ricadere sul tavolo a braccia conserte.
«Grazie per le belle notizie, JARVIS,» sospirò, passandosi la mano sul volto e cercando di riprendersi del tutto.
Dopo la chiacchierata illuminante con Pepper aveva ripreso con rinnovato vigore il lavoro sulla protesi, ma essendo rimasto sveglio quasi tutta la notte la carenza di sonno cominciava a farsi sentire. Stava veramente impazzendo per rimediare al problema dell’ossidazione del titanio e del logoramento, ma almeno aveva fatto un passo avanti: sfruttando la struttura vuota del telaio poteva evitare che essa si trovasse direttamente in contatto coi nervi ricreati in unobtanium... ma non per tutti era possibile. Infatti nello snodo del gomito entravano inevitabilmente in contatto con l'articolazione in titanio, ossidandola.
Senza contare che i tentativi di riprodurre la cartilagine con la nuova lega erano finora falliti miseramente: non riusciva a trovare la giusta densità di fusione, e forse era semplicemente impossibile. Non conosceva ancora appieno tutte le potenzialità dell’unobtanium, né aveva tempo per analisi così approfondite, e ciò non gli permetteva di sfruttarlo fino in fondo. Anche JARVIS gli era inutile in quel frangente, perché non era in grado di compiere simulazioni su una lega sconosciuta senza una solida base da cui partire.
Aveva definitivamente scartato l’ipotesi di riprodurre la cartilagine del gomito con il silicone: avrebbe dovuto cambiarlo almeno una volta al giorno perché l'energia del micro-reattore lo fondeva dopo al massimo dodici ore.
Tony si lasciò ricadere contro lo schienale della sedia.
Come poteva fare? Aveva troppo poco tempo e semplicemente
troppo a cui pensare.
"Caffè, grazie di esistere," commentò tra sé mentre ne scolava l'ennesima tazza per ricaricare i neuroni.
Si trasferì poi nell'angolo che aveva adibito a "zona-fusione", prima solitamente occupato da una delle sue molte macchine bisognose di riparazioni e miglioramenti stravaganti – un'occupazione decisamente superflua, adesso.
Eppure era
quasi vicino alla soluzione... la protesi era pronta e funzionava! Certo, doveva ancora calibrarne la potenza, ma a meno che non avesse fatto follie al processo nessuno si sarebbe accorto della sua forza un po' fuori dal normale.
Avrebbe solo dovuto tenere il braccio il più fermo possibile, il che non era un grosso problema, considerata la fatica che faceva a muoverlo anche solo di pochi centimetri. Ma era arrivato dove nessuno aveva mai pensato. I problemi tecnici erano solo dei rallentamenti che avrebbe potuto risolvere in poco tempo.
Il problema era appunto quello: il tempo, non il come. Aveva imparato che c'era sempre un "come", per quanto disperata potesse essere la situazione, e adesso non lo era certa più di quando era rinchiuso in una grotta con la consapevolezza di dipendere da una batteria per auto. Poteva concedersi di essere almeno
un po'ottimista, nonostante la situazione decisamente poco rosea in cui si trovava.
JARVIS interruppe il filo dei suoi pensieri:
«Signore, l’avvocato che la signorina Potts ha assunto è appena...»
«Muto.»
"Avvocati. Altri soldi in fumo..."
Ultimamente stava diventando piuttosto conscio delle spese, visto che gli ultimi mille acquisti last-minute compiuti a causa della sua "nuova situazione" gli erano costati un patrimonio. Scrollò le spalle: delle questioni finanziarie si sarebbe occupata Pepper, come sempre, ma non poteva evitare di farci caso. Si sentiva un po' in colpa a delegarle tutto il lavoro, anche se dubitava di poter davvero fare qualcosa per aiutarla. Era una persona intelligente ed estremamente qualificata: era sicuro che si sapesse destreggiare egregiamente nel maremoto che stava scuotendo la sua azienda. Saperla accerchiata dagli squali del consiglio d'amministrazione non lo metteva certo di buon umore, ma
aveva il presentimento che un intervento diretto da parte sua non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione già instabile in cui si trovavano a navigare. In verità si era già ripromesso che, al primo accenno da parte di Pepper di un qualsiasi commento malevolo o fuori luogo su di lei, avrebbe indossato l'armatura così com'era per farlo rimangiare di persona all'incauto di turno.
Il solo pensiero gli fece prudere entrambe le mani, così finì di tracannare il resto della tazza per rimettersi al lavoro, corroborato dalla caffeina. Aprì nuovamente il progetto virtuale e una serie di schermate si materializzò alla sua destra, nei limiti del suo ridotto campo visivo.
Doveva sperimentare lui stesso la malleabilità dell'unobtanium fondendolo a diverse temperature e osservandone i risultati. Era di vitale importanza trovare un modo per ridurre l’attrito ed ottenere finalmente l’effetto di una vera articolazione – così forse i suoi nervi avrebbero smesso di impazzire cercando di muovere parti di lui che non esistevano più.
Intanto fece eseguire a JARVIS alcune simulazioni per nuove, possibili leghe, alla ricerca di un materiale compatibile con l’unobtanium per ricreare la cartilagine, in caso non fosse riuscito ad ottenere alcun risultato dalle sue diverse tempre.
Davanti a lui ribolliva, sigillato in un contenitore di piombo, dell'unobtanium in corso di fusione.
Si umettò le labbra, secche per il calore che emanava la forgia in miniatura, poi si calò gli occhialoni protettivi sul volto – non aveva alcuna intenzione di perdere anche l'altro occhio – e indossò con qualche difficoltà uno spesso guanto di cuoio alla mano sinistra. Era sempre nervoso nel maneggiare il crogiolo perché non si fidava del suo nuovo braccio e non aveva molta stabilità con una stampella sola; per questo teneva sempre a portata di caduta una sedia. Le sue doti di equilibrista erano decisamente migliorate, ma gli richiedevano un notevole sforzo di concentrazione, oltre che un'ottima sopportazione dei crampi.
Il robot telescopico era pronto per assisterlo nella rimozione del crogiolo non appena avesse raggiunto l'esatta temperatura, pochi istanti prima che si liquefacesse del tutto. Dopo un paio di minuti afferrò un manico del recipiente con la mano destra, puntellandosi sulla stampella in precario equilibrio, e con l'aiuto del robot rovesciò con cautela il contenuto nel contenitore più grande dove avrebbe mantenuto la sua temperatura per essere poi temprato.  Il suo braccio tremò e tirò sui punti di sutura, ma resse il peso pur reagendo con rigidezza e in ritardo rispetto ai suoi impulsi motori. Uno dei pochi vantaggi di avere una mano di metallo era il poter afferrare oggetti ustionanti senza conseguenze... magra consolazione.
Lasciò perdere il composto e si abbandonò di peso sulla sua sedia asciugandosi il sudore dalla fronte e rimuovendo gli occhiali, con una smorfia per la pressione che gli aveva irritato lo sfregio. Fissò con impazienza i dati che apparivano sullo schermo davanti a lui, in attesa dei risultati.
Non dovette passare molto tempo prima di sentire il sibilo l’ascensore che scendeva in laboratorio. Doveva essere Pepper.
Curioso: usava sempre le scale, ma quella stranezza fu messa in secondo piano quando due nuove schermate apparvero dinanzi a lui, con informazioni decisamente sgradite.
«No. No... no! Non funziona!» sbottò corrucciato, vedendo contemporaneamente il quinto risultato di compatibilità negativa con nuovi materiali e i risultati fallimentari della fusione appena effettuata.
«Buongiorno, signor Stark. È arrivato l’avvocato, e vorrebbe parlare con lei,» annunciò Pepper, affacciandosi nel laboratorio dalla porta a vetri.
«Ferrovecchio, cerchiamo di recuperare questa brodaglia; abbiamo sbagliato di un grado... di nuovo! JARVIS, non mi sei affatto utile; dovresti evitare di farmi perdere tempo, pazienza e soldi,» la ignorò lui innervosito, senza neanche girarsi.
«Signor Stark, l'avvocato...»
«Ah, l'avvocato, dice? Lo sciacallo della legge?» riprese distratto. «Sono impegnato, lo faccia attendere di sopra mentre risolvo questo macello,» disse, circumnavigando la forgia con la sedia girevole e cercando di capire se valesse la pena aspettare un po' per provare a temprare comunque l'unobtanium.
«Veramente è già qui.»
«Mi sembrava di averle chiaramente chiesto di occuparsi di tutto, per il bene dei miei nervi superstiti. Incluso l’avvocato,» ribattè Tony, sempre più scocciato e distraendosi un istante, il tempo di dare un po' troppo tardi l'ordine di temprare il metallo.
«Signor Stark, il campione di unobtanium sta superando il punto di fusione: si è liquefatto. È in corso la fusione dell’apparecchiatura del laboratorio. Ci sarà una fuoriuscita di unobtanium allo stato liquido.»
«Oh, merda! Pepper, non poteva capitare in un momento peggiore!» esclamò Tony, spingendo via di scatto la sedia con la stampella impugnata a mo' di remo per evitare la pozza di metallo fuso che iniziava ad allargarsi per terra.
«Signor Stark, intendevo dire che l’avvocato è proprio qui...»
«No, dannazione! La macchina è distrutta!»
Tony prese ad imprecare mentre si toglieva il guanto e iniziava a digitare frenetico su una tastiera virtuale nel tentativo di arginare i danni.
«Temperatura: incandescente. L'unobtanium sta fondendo la cassetta contenente il mercurio; rischio chimico imminente,» continuò JARVIS imperterrito.
La lega liquida aveva iniziato a espandersi a macchia d'olio corrodendo il pavimento; raggiunse anche la ruota della sua Tesla, che si afflosciò in una poltiglia densa che emanava un tanfo di plastica bruciata.
«Mannaggia...»
Tony fissò la pozzanghera di metallo rovente, un attimo prima di essere investito da un getto d'acqua vaporizzata emesso da U, adibito a robot-estintore.
Non trovò neanche la forza di mandarlo a quel paese: si limitò a sospirare e a scansarsi con una giravolta della sedia dalla nube che stava cercando di raffreddare il metallo e contenere i danni.
Si alzò con difficoltà, voltandosi finalmente a guardare Pepper sorreggendosi con la stampella.
«Bene, signorina Potts, adesso può anche presentarmi l’avvocato che ha mandato tre chili di unobtanium a...»
«Piacere di conoscerla, signor Stark. Sono Kyle Andrews.»
Un ragazzo piuttosto giovane per essere un avvocato gli si presentò davanti, porgendogli la mano. Tutto sommato poteva essere un tipo qualunque: aveva un'aria sveglia, era sorridente e anche di bell’aspetto, con i capelli scuri leggermente lunghi e un po' scarmigliati, un paio di occhi verdi e intelligenti dietro gli occhiali squadrati e un accenno di rossore sulle guance; sarebbe parso un tipo del tutto ordinario, se non fosse stato per la sedia a rotelle sulla quale era seduto.
Tony si trovò del tutto impreparato: mai e poi mai si sarebbe aspettato di trovarsi di fronte a qualcuno nelle sue stesse condizioni... o quasi.
«Salve,» lo salutò, più freddamente di quanto avesse voluto.

Kyle attendeva cortesemente ancora con la mano a mezz’aria.
«Ehm...» Tony si guardò la mano destra, rigida, immobile e poco incline a collaborare, rendendosi poi conto di avere la sinistra impegnata dalla stampella e trovandosi così impossibilitato a ricambiare la stretta.
Agitò debolmente la protesi in un goffo cenno di saluto.
«Non credo che sarebbe felice dopo averle stretto la mano con questa,» affermò, del tutto impacciato; la protesi cigolò spiacevolmente come a confermare le sue parole.
Il ragazzo abbassò la mano senza dare segno di essersi risentito.
«Mi dispiace averla disturbato mentre lavorava, signor Stark, ma ho bisogno di parlarle con urgenza, e come ben sa il suo processo è alle porte.»
"Chiudetele," si ritrovò a pensare lui, a sproposito.
Lo squadrò interamente, cercando di apparire il meno indiscreto possibile, ovviamente per i suoi standard. Non ci stava riuscendo bene, e percepì lo sguardo di pungente rimprovero di Pepper senza bisogno di vederla.
«Senta, non vorrei sembrarle indiscreto, ma lei è...»
«Paralizzato,» precisò subito Kyle, probabilmente abituato a prevedere quella domanda e continuando comunque a sorridere come se niente fosse.
«Capisco,» commentò Tony. «Beh, piacere, compare.» ironizzò tremendamente.
Non sapeva bene perché, ma si sentiva un po' in soggezione di fronte a quel ragazzo così pacato e sereno nonostante la vita fosse stata chiaramente inclemente con lui – e chissà da quanto tempo, a giudicare dall'aspetto filiforme delle sue gambe. Allo stesso tempo lo spaventava e lo faceva sentire vulnerabile. Il fatto di essere in piedi per miracolo, in un pigiama bruciacchiato, completamente fradicio e con un paio di occhiali da saldatore addosso non migliorava la situazione.
Sarebbe riuscito anche lui, un giorno, ad accettare le proprie condizioni e avere comunque una vita apparentemente serena come lui? Il pensiero gli balenò rapidamente in testa e si chiese con stizza da dove diavolo fosse sbucato.
Non aveva mai neanche considerato
l'idea di accettare la propria "condizione". Stava lavorando senza sosta proprio per cambiarla.
«Il signor Andrews vorrebbe proporle un accordo, signor Stark.» intervenne Pepper, cercando di non compromettere il loro rapporto prima ancora di parlare del processo.
«Uhm, ok. Come vedi sono piuttosto impegnato e sai che ho poco tempo perciò vorrei sbrigarmi. Come hai detto di chiamarti?» Tony lasciò cadere le formalità nella speranza che lui facesse lo stesso, rendendosi conto che doveva avere al massimo ventitré o ventiquattro anni.
Lui aveva passato un'intera adolescenza e giovinezza a sentirsi dare del lei da persone molto più grandi di lui e lo ricordava con un certo disagio; sperava di trarre d'impaccio anche il nuovo venuto abbattendo quelle convenzioni formali che gli erano sempre andate strette.
«Kyle Andrews.»
«Tony, anche se sai già chi sono.»
Riuscì finalmente a districarsi dalla stampella per stringergli la mano con quella buona.
«Piacere di conoscerti, K.»
Kyle fece una buffa faccia a metà tra il sorpreso e il divertito nel sentire il soprannome che il suo cliente gli aveva appena affibbiato. Non sembrava affatto infastidito dall'estrema schiettezza di Tony, anzi. Forse troppe volte era stato trattato con condiscendenza o eccessive attenzioni e l'esuberanza del suo cliente lo metteva a suo agio. Almeno, così si stava ripetendo Tony per smorzare la terribile serie di
gaffe che stava facendo.
Pepper aveva osservato lo scambio di battute con fare guardingo, come chiedendosi se intervenire o meno a porre un freno alla parlantina spudorata del suo capo, ma aveva concluso che non ve n'era bisogno, data la disposizione d'animo positiva di Kyle. Anche se sperava che prima o poi Tony abbandonasse quel vizio dei soprannomi.
«Come mai hai deciso di offrirti come difensore?» chiese Tony, risolvendosi a sedersi di fronte a Kyle nel constatare che la sua gamba non avrebbe retto ancora per molto. «Ti ha contattato la signorina Potts?» continuò interessato, scrollando i capelli bagnati e sfilandosi con cautela gli occhialoni; fece una smorfia quando il bordo premette sulla garza ma riuscì a trattenere un lamento, anche se la cosa non sfuggì al nuovo arrivato.
«No, ma mi ha informato meglio sui suoi studi e sulla sua storia, anche se ovviamente la conoscevo già di fama. In realtà mi ha contattato recentemente il dottor Ian Mitchell: sono un suo paziente di vecchia data,» spiegò in breve Kyle, ancora apparentemente restio ad abbandonare le formalità.
«Ok, conversazione illuminante. Tutti al lavoro adesso! Io ho da fare, voi avete da fare...» cominciò speranzosamente Tony, girandosi a fulminare con un'occhiata il robot-estintore che si era rivolto con aria minacciosa verso di loro, «E tu, a cuccia: sono già abbastanza zuppo.»
«Signor Stark, so che è molto occupato, ma vorrei comunque parlarle della modalità di pagamento per il mio lavoro. A questo proposito io avrei una...»
«Richiesta? Ne parli pure con Pepper, cioè la signorina Potts. Provvederà lei a tutto; chieda pure quanto vuole. Mi sembra piuttosto motivato a vincere la causa e i soldi non sono un problema.»
"Per ora," aggiunse, tenendo per sé le sue preoccupazioni.
«Sì, infatti, ma... in realtà, non vorrei essere compensato in denaro.»
Tony si girò, incontrando il suo sguardo vivo ed allo stesso tempo serio.
«Signor Stark, vorrei che lei mi permettesse di camminare di nuovo,» affermò deciso Kyle, la voce giovane ma ferma che gli dava un tono di solennità nel pronunciare quelle parole.
Tony lo fissò perplesso, ma dovette ammettere che si aspettava qualcosa del genere: un avvocato paralitico che si offriva di difendere un miliardario mutilato con protesi biomeccaniche? Non poteva essere una coincidenza.
«Lo immaginavo. Uno a zero per il mio intuito,» sospirò, pensando intanto a come rispondere. 
Si sfregò i capelli ancora umidi, prendendosi qualche secondo di riflessione prima di decidersi a parlare:
«Per ora non ho intenzione di mettere in commercio ciò a cui sto lavorando, anche perché non ho idea delle possibili ripercussioni di questa tecnologia sul corpo umano. Su di me funziona perché... beh, ho avuto esperienze simili in passato. Forse sono predisposto,» ticchettò a disagio sulla piastra del reattore, che Kyle aveva ovviamente notato. «È tutto in fase sperimentale, ci sono ancora milioni di problemi solo per il braccio; ma non è solo questo. È che... è molto più complicato di ciò che sembra,» scosse la testa, senza ben sapere dove volesse andare a parare.
Certo, aveva remotamente considerato di mettere in commercio le protesi dopo averle testate, ma lo sviluppo a livello industriale avrebbe richiesto anni. Era abbastanza sicuro che l'unico in grado di fabbricare protesi del genere fosse lui stesso, in prima persona; affidare il lavoro a una macchina sarebbe stato immensamente complesso e allo stesso tempo assumere un team di tecnici avrebbe portato i costi alle stelle... e lui, se proprio doveva diffondere quella tecnologia, voleva che fosse accessibile a tutti.
«Capisco, signor Stark, e vedendo il suo lavoro me ne rendo perfettamente conto. Non ha affatto l'aria di essere facile.» Kyle lo distolse dai suoi pensieri, accennando al laboratorio nel caos più totale e al lago di unobtanium che ancora sfrigolava per terra.
«Sì, ehm... quello è un casino,» Tony prese ad indicare la scrivania, «e anche quello. Quello è in disordine, come quello... e quelle sono da ripulire,» accennò ambiguo alle varie armature di Iron Man in fondo al laboratorio, rendendosi conto come le persone al corrente della sua identità segreta aumentassero di giorno in giorno.
Non avrebbe comunque avuto senso mentire su quel punto al proprio difensore, ma si stava convincendo sempre più di quanto fossero ridicoli e inutili i protocolli di sicurezza che gli imponeva la SHIELD. Notò che Pepper si era accigliata alla sua ultima affermazione e sfuggì il suo sguardo inquisitore.
«Insomma, di solito non è aperto al pubblico,» concluse, finendo di indicare con un ampio gesto le componenti meccaniche e scartoffie sparse ovunque.
«Posso immaginare; ma quello che vedo io in questo momento è progresso,» e fece un cenno verso il suo rudimentale braccio meccanico. «Io sono un profano in questo campo, ma se ce l'ha fatta con un braccio dovrà essere possibile anche con delle gambe, no?»
Tony si ritrovò ad annuire appena, incapace di confutare quell'affermazione del tutto logica, e forse volendo crederci lui stesso.
«Quindi, pensa che la mia richiesta possa essere accettabile? Creerà delle protesi per me?»
«K, mi sei già simpatico, ma potrebbe essere difficile. Certo, se Ian ha deciso di contattare te, deve avere le sue buone ragioni. Comunque io non ho
effettivamente degli arti, mentre tu dovresti sottoporti a dolorose operazioni per... l'amputazione. Oltre ad altri interventi altrettanto rischiosi. Molto rischiosi, te lo dico per esperienza...»
«Le difficoltà non mi hanno mai spaventato,» ribatté Kyle, un po’ brusco, e mitigò la sua veemenza con un lieve sorriso.
Tony lo fissò intensamente, combattuto. Forse per una volta avrebbe potuto aiutare qualcuno oltre se stesso. Di nuovo, annuì senza quasi rendersene conto.
«Allora siamo d’accordo.» rispose Kyle per lui, sorridendo apertamente.
Pepper li fissò, sentendosi un po’ sollevata dopo tanto tempo.
In quel momento nessuno dei due sembrava avere dubbi sul fatto che, alla fine di quella storia, si sarebbero probabilmente ritrovati a fare jogging insieme sulle loro gambe.

***

«Signore, l'unobtanium sta reagendo al mercurio.»
La voce di JARVIS interruppe Tony, che stava parlando vivacemente con Kyle riguardo a quel che avrebbe dovuto dire al processo; Pepper interveniva di tanto in tanto quando lui si infervorava un po' troppo, anche perché stava sistemando come se nulla fosse il suo braccio e continuava ad armeggiare con un cacciavite, stringendo varie viti e giunture nel polso tra un gesto e l'altro. Tony stava cercando di convincerli di quanto ritenesse importante mostrarsi col solito atteggiamento di sempre, piuttosto che in modo dimesso e più riflessivo come gli stava suggerendo l'avvocato, ma la sua attenzione si catalizzò all'istante sulla pozza di unobtanium che aveva assunto una sfumatura argentea.
«Reagendo? Come?» chiese interessato, sforzandosi per ruotare l'articolazione del polso e verificare che funzionasse a dovere.
«Il mercurio si è legato all'unobtanium. Ha assunto una densità inferiore a quella dello stato di fusione. Sembra essere malleabile anche senza essere sottoposto ad alte temperature,» spiegò meccanico JARVIS, riaccendendo del tutto l'interesse di Tony.
Scivolò con la sedia accanto al metallo semifuso e si sporse un poco con difficoltà, fissandolo interessato. Lo punzecchiò con una barretta di stagno per verificare che fosse freddo, e...
«Oh, no, non ha davvero intenzione di...» cominciò Pepper in tono allarmato, vedendo Tony che protendeva la mano sana verso l'unobtanium come un bambino curioso di toccare qualcosa di nuovo, ma era troppo tardi.
Tony aveva sfiorato con le dita la superficie apparentemente compatta della pozza, saggiandone la consistenza e trovandola estremamente simile a quella del mercurio, di poco più densa e totalmente asciutta al tatto, quasi fosse gelatina.
«Sembrerebbe un candidato ideale per ricreare la cartilagine. JARVIS, memorizza i dati, esegui dei test e conservane un campione mentre io... signorina Potts, K, smettetela di fissarmi così: questo è niente. Non avete idea della roba con cui giocavo da piccolo. Penso di essere immune a tutto, ormai,» sbottò divertito, ricordando con vaga soddisfazione tutte le volte che aveva sottratto gli attrezzi e i materiali di suo padre per giocare... e farlo infuriare. Che bel ricordo.
Diede qualche ordine secco a DUM-E, ancora vagamente incredulo per quel colpo di fortuna – che non riequilibrava comunque il piatto della bilancia negativo – e due minuti più tardi era nuovamente seduto al tavolo, con in mano un campione di unobtanium in una scatoletta foderata di piombo.
Lo poggiò sulla scrivania dove erano seduti gli altri due.
«È inerte, K, non preoccuparti,» lo rassicurò nel notare il suo improvviso interesse, ma Kyle non sembrava ansioso, anzi, sembrava divorare con lo sguardo l'unobtanium, che rappresentava sì un passo avanti per Tony, ma anche per lui, che aveva già deciso di mettere anima e corpo in quella causa per vincere un riscatto nella propria vita.
«Cosa stavamo dicendo... ah, sì. Desterei solo sospetti se mi comportassi in modo diverso dal solito,» riprese Tony, deciso.
Kyle si distolse dalla sua contemplazione, rivolgendogli uno sguardo accigliato
«Non lo metto in dubbio, Stark, ma ho presente la tua "media comportamentale" in pubblico, e giocherebbe solo a nostro svantaggio.»
Kyle aveva fatto presto ad abbattere finalmente le formalità e a comportarsi in modo più rilassato sia con Pepper che con Tony, e aveva subito sfoggiato un'arguzia pungente quasi quanto quelloa del suo assistito, fornendo ai due un canale di comunicazione piuttosto efficace.
«Proverò a tenere a freno il mio umorismo spinto.»
«Sarà meglio, signor Stark, perché non vogliamo che sia dichiarato colpevole nel momento stesso in cui metterà piede in aula,» lo raggelò Pepper, e Tony si sentì rimpicciolire sotto il suo sguardo.
«No, direi proprio che non è il caso...» le terribili conseguenze della sua condanna non implicavano solo la potenziale pena... ma anche la funesta rabbia di Pepper.
E lui non voleva assolutamente scatenarla.
«Evita di parlare dell'incidente a meno che non te lo chiedano direttamente; e lo faranno, quindi sviali. Dovresti anche cercare di non rivelare subito la tua doppia identità, se ci riesci... meglio ancora se riusciamo a tenerla segreta. Dichiarare al mondo intero che hai interferito con le azioni militari degli Stati Uniti e che disponi di armi molto più potenti di quanto dichiari non è una buona mossa. Tanto più dopo aver chiuso la sezione armamenti delle tue industrie.»
«Da quel che ho capito sono accusato anche di quello...» sbuffò Tony, corrucciato.
«Insistono sul punto dello "stress post-traumatico", ma se hai delle argomentazioni valide a supporto della tua decisione non dovrebbero fare troppe storie: l'azienda è tua. Il fulcro della questione è Iron Man inteso come arma e la morte di Stane. Attieniti ai piani e non ci saranno problemi. Tutto chiaro?»
Tony annuì poco convinto.
«Chiarissimo. Farò del mio meglio... per tutto.» concluse rivolgendogli un sorriso incoraggiante.
Pepper non sembrava affatto convinta e lo fissava a metà tra il minaccioso e l'implorante.
Lui se ne accorse e sfoggiò lo sguardo più languido e innocente che riuscì ad ostentare:
«Non mi guardi così. Le prometto che farò il bravo...»




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Revisione effettuata il 21/02/2018


Note Delle Autrici:

Ed è con allegria che pubblichiamo questo capitolo! :D Finalmente un aiuto dall'alto... povero Kyle: dovrà sopportare Tony per molto, molto, ma davvero molto tempo.
Condoglianze, Kyle, oh nostro OC.
Come sempre ringraziamo Rogue92 e alliearthur che continuano a seguirci e a recensire! <3


Moon&Light


P.S. La fan-fiction si svolge come se l'esame a cui Tony è stato sottoposto dai Vendicatori si sia svolto durante Iron Man 1... esigenze narrative (vedi: volevamo i Vendicatori nella storia). Insomma, lui è già nell'allegra combriccola di squilibrati o, quantomento, vi è in contatto come consulente/agente attivo, anche se di straforo. Il tutto verrà chiarito meglio nei successivi capitoli.


 



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Capitolo 10
*** Stumbling ***




9


Stumbling




"I'll face it with a grin,
I'm never giving in.
On with the show!"


[The Show Must Go On – Queen]



«Io sono Iron Man.»
Il boato del pubblico e della giuria soffocò la sua stessa voce.
Vide Kyle assumere un'espressione serafica per nascondere la sua sorpresa, Ian che strabuzzava gli occhi e Pepper che si stringeva la radice del naso scuotendo la testa.
Tony si girò appena verso di lei e le fece l'occhiolino con un mezzo ghigno divertito. Se lo stava godendo, il suo momento di gloria... per poco.
Pepper strinse il pugno e lo abbattè sul palmo dell'altra mano con sguardo omicida, cancellando il sorrisetto dalla faccia del suo capo, che si affrettò a riportare la sua attenzione al Senatore allibito.
"Ops... Forse ho esagerato."

***

4 Marzo, Tribunale di Washington D.C, due ore prima...

Tony continuava a cimentarsi nell'annodare per l'ennesima volta la cravatta senza ottenere grandi risultati. Pepper fece per aiutarlo, ma lui sfuggì alla sua presa con un'espressione risentita.
«Ce la faccio da solo. Se queste dannate dita rispondessero ai miei comandi sarebbe tutto più semplice!» imprecò sottovoce, fissando con astio la protesi che aveva momentaneamente liberato dal tutore appeso al collo.
Per fortuna si era ricordato di mettere i guanti, uno dei quali leggermente imbottito: le dita erano ancora decisamente primitive e ben lontane dal poter ingannare la giuria.
«Come vuole,» sospirò Pepper, lasciandolo ai suoi nodi. «Vado di là, recupero Kyle e torno. Non combini disastri,» lo implorò, prima di uscire dalla saletta d'attesa per andare incontro all'avvocato, che sarebbe arrivato a breve.
Tony rimase solo con la cravatta che continuava a ribellarsi alla sua volontà.
Erano arrivati a Washington sul filo dei minuti, esattamente dieci prima dell'inizio del processo. Tutto perché Tony aveva avuto una crisi su cosa indossare e aveva infine insistito per presentarsi nel suo sgargiante completo bluette, nonostante Pepper avesse cercato di indirizzarlo verso qualcosa di più discreto. Il ritardo non era piaciuto al procuratore, tale Julien Knight, un uomo slavato sulla trentina che, dal modo viscido in cui lo aveva salutato, sembrava essere una vecchia conoscenza di Kyle.
«Siete un team molto... affiatato, a quanto vedo,» aveva commentato in tono di aperta derisione accennando alle loro sedie a rotelle, subito prima di svicolare via come una serpe per entrare nell'aula già gremita.
Tony l'avrebbe volentieri mandato istantaneamente a quel paese, ma Kyle l'aveva bloccato con una semplice occhiata che la diceva lunga sui loro trascorsi. La cosa non prometteva bene.
Pepper rientrò dopo pochi minuti, fissandolo perplessa.
«Non ha intenzione di entrare in aula conciato così, vero
Tony la fissò imperturbabile, con la cravatta rossa annodata in testa in stile Rambo e i capelli scombinati: si era arreso all'evidenza di non essere in grado di annodarla.
«Ovviamente, Pepper! Speravo giusto di lanciare una nuova moda!» rispose iniettando nella sua frase una buona dose di sarcasmo, dato che avrebbe dovuto rinunciarvi per almeno le successive tre ore.
O almeno, così sperava Pepper.
Ian e Kyle entrarono appena dietro la sua assistente e gli si accostarono in rapida successione sommergendolo di raccomandazioni mediche e legali che lui ascoltò a malapena, troppo agitato e impegnato a districare quella maledetta cravatta per prestare loro orecchio. Appena uscirono per prendere posto in aula, Tony iniziò a sua volta a tempestare la sua assistente di domande, facendosi finalmente prendere dall'ansia:
«Pepper, ho un attacco di panico. Mi fa male il braccio destro, ho un dolore all'occhio sinistro e devo andare al bagno. Ora
«La prego, non dica stupidaggini,» mormorò pacata lei, liberandolo dal cappio che si era stretto in testa.
«Quale delle tre ritiene sia una stupidaggine?»
«Lei è andato al bagno, spero, prima del processo, ha avuto fitte all'occhio dall'incidente e stamattina ha preso gli antidolorifici come sempre.»
«Come sempre?»
«Con i suoi soliti due cucchiaini di zucchero nei tre litri di caffè che beve.»
«Si spiegano molte cose. E magari è anche decaffeinato?»
«Ultimamente sì. Ordini del dottor Mitchell,» concluse lei, finendo di annodargli decentemente la cravatta.
Gli raddrizzò il colletto stropicciato, domò i suoi capelli scomposti nonostante la brillantina e tentò di camuffare con del correttore una leggera ma ostinata bruciatura che si era rimediato sullo zigomo, senza molto successo. Tony si sistemò infastidito il braccio al collo, evidentemente insofferente al tutore, ma non riusciva ancora a muovere abbastanza bene la protesi da poterne fare a meno. Era più saggio far credere che avesse un braccio infortunato.
«Sono presentabile?» le domandò, rassettandosi le pieghe della giacca; si passò poi una mano sul pizzetto, non ricordandosi se si fosse rasato o meno quella mattina, e si tranquillizzò un poco nel sentirne il contorno ben definito.
Ora che ci pensava, aveva controllato la protesi? E aveva oliato per bene le giunture? E la garza sull'occhio era a posto?
"Oh, buon Dio..."
«Come sempre, signor Stark,» la risposta di Pepper attenuò i suoi timori per qualche istante. «Dubita forse del suo fascino?» lo punzecchiò poi, con un lieve sorriso incoraggiante che catturò il suo sguardo.
«Assolutamente no,» rispose sornione, e spinto da un impulso repentino la attirò brevemente a sé, stampandole un fugace bacio all'angolo delle labbra.
Lei non ebbe tempo né modo di reagire, ma quando si staccò rimase paralizzata, non credendo a quello che era appena successo.
«Mi serviva un incoraggiamento, cerchi di capirmi. E poi dovevo ancora farmi perdonare per la serata di beneficenza,» ruppe il silenzio Tony, non provando alcun rimpianto ad aver agito d'istinto e sentendosi ancora più su di giri di prima.
«No, non la capisco affatto.» ribatté lei, serissima, diventando dello stesso colore dei suoi capelli e scuotendo la testa nel tentativo di riprendersi e di convincersi che, no, il suo capo non aveva davvero tentato di baciarla.
Tony la scrutò attento: non sembrava furiosa come si era aspettato... solo colta alla sprovvista, enormemente confusa e decisamente più turbata di quanto ritenesse ragionevole. Dopotutto lui aveva inteso il gesto come un'avance scherzosa. Più o meno. Gli venne in mente solo allora che forse non aveva avuto un ottimo tempismo.
«Cosa non capisce?» la incalzò, agitandosi appena sulla sedia.
«Perché lei debba sempre complicare la mia e la sua esistenza.»
Tony sembrò pensarci un attimo, poi fece un sorrisetto furbo:
«Perché la mia esistenza è ormai abbastanza complicata, e complicarla ancora in questo modo, e quindi intrecciare la mia esistenza con la sua, complicandola a sua volta, le rende entrambe più interessanti. Non crede?»


***


«Ordine, ordine in aula!»
Finalmente il pubblico, che era esploso in una sorta di ovazione da stadio all'ingresso di Tony, si quietò.  
Una schiera serrata di giornalisti occupava le prime file; dietro di loro erano sedute alcune delle personalità più importanti del Paese tra cui molte conoscenze e rivali di Tony, che aveva invece preso posto accanto a Kyle al banco della difesa. Accanto a quest'ultimo sedevano Mitchell e Pepper, un po' distaccati nel tentativo di non dare troppo nell'occhio. Knight sedeva da solo al banco dell'accusa, perfettamente rilassato e con l'aria di essere seduto al bancone di un bar senza una sola preoccupazione al mondo, in paziente in attesa del proprio drink. Qualche fila più indietro Tony aveva intravisto Rhodey, che aveva evitato platealmente il suo sguardo quando aveva rivolto un cenno nella sua direzione.
"Fantastico, adesso mi tiene anche il broncio," pensò, ignorando di avere esattamente la stessa espressione immusonita sul volto.
Come da programma, il giudice era il Senatore Stern, che aveva già avuto qualche contrasto con Tony riguardo alla sua decisione di interrompere il rifornimento di armi all'esercito. Sembrava comunque piuttosto tranquillo, e un'espressione neutra dominava il suo volto da mastino. Tony sperava rispecchiasse il suo modo di giudicare. Introdusse brevemente, con voce monotona, le cause e concause del processo in atto e i membri della giuria, dell'accusa e della difesa, per poi rivolgersi direttamente a Tony.
«Imputato, dichiari il suo nome completo.»
«Tony Stark. Pensavo mi conoscesse...» borbottò tra sé a voce più bassa.
Kyle gli assestò una gomitata discreta, approfittando del fatto di essere seduto dal suo lato sano. Lui trattenne bruscamente il fiato e si tastò la costola ancora contusa.
"Bel colpo. Ahia."
«Qui ci risulta diversamente, signor Anthony Edward Stark.»
«Anthony Edward...» Tony roteò appena l'occhio sano. «Sì, lo so, ci mancherebbe. Ma allora mi conosce!» sogghignò sarcastico.
Il Senatore alzò appena gli occhi dal foglio, evidentemente seccato.
«Signor Stark, per amor della verità l'astio verso suo padre non dovrebbe impedirle di usare il nome con cui l'ha battezzata,» intervenne l’avvocato dell’accusa con fare provocatorio.
Il sorrisetto sprezzante di Tony si affievolì appena prima di congelarsi sul suo viso. Si girò lentamente verso l'avvocato, rivolgendogli un'occhiata tagliente.
Pepper captò il suo sguardo, notando con preoccupazione la mascella serrata dell'uomo: raramente aveva visto Tony adirarsi, ma parlare di suo padre era un ottimo modo per fargli perdere le staffe in tempi record. Scambiò un’occhiata nervosa con Mitchell, che sembrava condividere i suoi timori: non iniziava bene.
«Obiezione, Vostro Onore: l'osservazione, oltre a essere stata posta al di fuori del contro-interrogatorio dell'accusa, non è pertinente al caso ed è chiaramente volta a innervosire il mio cliente,» intervenne Kyle, pacato, con un'occhiata penetrante in direzione del suo rivale.
«Accolta. Signor Knight, non divaghiamo prima ancora di iniziare.»
Knight fece un sorrisetto viscido, scostandosi i capelli chiari dagli occhi altrettanto chiari.
«Scusate, Vostro Onore. Credo che un lieve nervosismo sia comprensibile, date le circostanze...»
«Si prega inoltre l’accusa di non dilungarsi troppo: mi fa male la gamba,» intervenne Tony a voce molto alta nonché nel momento meno indicato.
Qualche risatina provenne dal pubblico e Tony fece un gesto ammiccante verso di esso. Il Senatore era adesso palesemente infastidito dal suo atteggiamento più adatto a un varietà che all'aula di un tribunale, ma fece un ammirabile sforzo per non darlo troppo a vedere.
«Iniziamo con l’indicare le accuse che le si imputano.»
Il Senatore aprì una voluminosa cartella, iniziando a sfogliare i documenti e a leggerli con voce macchinosa.
«Il signor Anthony Edward Stark è formalmente accusato del possesso di armamenti bellici illegali nonché ritenuti potenzialmente pericolosi per l’ordine pubblico; di occultamento di identità; di danni a strutture ed infrastrutture pubbliche e private; del sospetto convolgimento nella scomparsa e presunta morte di Obadiah Stane; è inoltre accusato di...»
«Mi perdoni, Vostro Onore, vorrei proporre di esaminare ogni capo d'accusa separatamente per ordine di importanza, ovviamente a discrezione della giuria,» lo interruppe il più delicatamente possibile Kyle.
«Bravo K, ottima mossa. Iniziavo a sentirmi soffocare,» commentò Tony sussurrando, almeno secondo i suoi parametri.
In realtà lo udì mezzo tribunale, giudice incluso. Kyle rivolse un’occhiata implorante verso Pepper: “lo fermi” sembrò pregare. Lo stress stava decisamente peggiorando l'esuberanza incontenibile di Tony.
La giuria parlottò per un paio di minuti discutendo l'intervento di Kyle, infine il Giudice battè il martelletto.
«Che l'imputato salga al banco di deposizione. Inizieremo dalla scomparsa del signor Stane.»
Mitchell a quelle parole si alzò subito e trasferì la sedia a rotelle nel punto richiesto, sotto gli occhi di una guardia armata che fortunatamente decise che Tony non era nelle condizioni di nuocere a nessuno.
“Si va a spasso,” pensò Tony poco divertito, sentendosi per la prima volta a disagio nell'essere al centro dell'attenzione.
Si impegnò a sfoggiare un'espressione neutrale e una voce ferma mentre prestava giuramento di dichiarare "la verità, solo la verità, nient'altro che la verità", ben consapevole che non l'avrebbe mantenuto del tutto.
Il Senatore riprese a leggere quanto documentato:
«Obadiah Stane è stato visto l’ultima volta il 5 gennaio alle Stark Industries, intorno alle sei di sera, come risulta dalla deposizione della signorina Virginia Potts rilasciata alla polizia quella sera stessa. Conferma?»
«Confermo, Vostro Onore.»
«In seguito si è persa ogni sua notizia ed è dato a credere che sia deceduto in seguito all'incidente avvenuto alla sezione 16 delle Stark Industries, nonostante il suo corpo non sia stato rinvenuto. L'imputato Anthony Stark emerge come unico testimone diretto dell'accaduto. A lei l’interrogatorio, avvocato Knight, può procedere.»
«Grazie, Vostro Onore. Signor Stark,» iniziò Knight, alzandosi e prendendo a passeggiare davanti a Tony con l'atteggiamento che avrebbe avuto un predatore di fronte a una preda messa all'angolo, «potrebbe spiegarci le strane circostanze in cui il signor Stane è venuto a mancare?»
«Varrebbe a dire che si è disintegrato in seguito alla sua accidentale caduta nel reattore arc? Non mi sembra che ci sia molto da aggiungere, ma le posso spiegare le dinamiche chimiche e fisiche dell’accaduto, se necessario.»
«La sua è molto fantasiosa come ipotesi, signor Stark.»
«Peccato che sia la verità.»
Tony appoggiò sovrappensiero le braccia sul banco, sotto gli occhi terrorizzati di Pepper, che seguiva ogni suo minimo movimento.
Un secco
clonk risuonò nell'aula quando la mano metallica urtò il legno un po' troppo bruscamente, e Tony s'irrigidì appena.
«Cos'è stato?» Knight interruppe la domanda che stava per porre, incuriosito.
Pepper afferrò improvvisamente il braccio di Ian, agghiacciata. Sperò ardentemente che Tony non agisse d'impulso; le sue manie di protagonismo potevano giocare brutti scherzi...
Questi esitò per una frazione di secondo, preso in contropiede.
«Oh, il mio Rolex,» rispose poi, alzando le spalle – altra mossa piuttosto pericolosa.
Scrollò il polso sinistro con un ghigno provocatorio, tirando su la manica e rivelando il costoso orologio che aveva avuto l'ignaro buon senso di indossare quella mattina, riuscendo a distogliere l'attenzione dalla protesi, che lasciò scivolare nuovamente giù dal banco, appesa al suo tutore.
Pepper strinse i denti, orripilata: una minuscola parte del polso destro si era scoperta, lasciando intravedere il metallo sottostante; un dettaglio del tutto trascurabile, ma ai suoi occhi appariva come se Tony si fosse appena denudato sul banco dei testimoni. Nessuno ci fece caso, concentrati più sull'orologio che su Tony stesso o sul suo braccio apparentemente infortunato.
«Piace?» chiese lui disinvolto, scatenando risatine da parte del pubblico.
Il giudice sospirò.
«Molto, signor Stark. Ora, se ha finito di pavoneggiarsi, possiamo tornare a questioni più importanti?»
Pepper era sicura di essere stata l'unica oltre a Ian e Kyle ad aver notato il lampo di panico che era brillato per un attimo sul volto di Tony in quel frangente delicato. Questi intercettò di sbieco il suo sguardo: c'era mancato davvero poco.
Knight tossicchiò e riprese il suo interrogatorio:
«Dunque, vuole spiegarci più nel dettaglio come, esattamente, è deceduto il signor Stane?»
«Con estremo piacere,» si lasciò sfuggire Tony, momentaneamente accecato dal ricordo di Obadiah e di cosa stava passando per causa sua.
Colse l'occhiata ammonitrice di Kyle, ma fortunatamente Knight non sembrò notare la sfumatura ostile di quelle parole, interpretandola come l'ennesima provocazione strafottente.
«Prego, allora.»
Tony chiamò a raccolta tutti i dettagli che aveva discusso con Kyle per modificare l'accaduto in modo credibile, poi iniziò a raccontare:
«Eravamo sulla terrazza, saranno state le otto di sera. Stavamo discutendo degli ultimi avvenimenti alle Stark Industries; immagino che ricordiate tutti una delle mie ultime conferenze stampa, soprattutto il Senatore Stern...» rivolse uno sguardo eloquente a quest'ultimo, guadagnandosi un'occhiata astiosa. «Insomma, era una stupenda serata quando ad un tratto c'è stato un malfunzionamento nel reattore arc che potrei spiegare in dettagli tecnici, ma non so fino a che punto vi interessi una lezione di fusione nucleare a freddo...» tentò di svagare Tony, con successo. «La vetrata sul tetto è andata in frantumi...» si bloccò un attimo, folgorato da un improvviso dolore all’occhio.
Sfiorò la benda il più delicatamente possibile lasciandosi sfuggire un lieve lamento; Ian lo guardò preoccupato, così come il giudice.
«Sto bene, era solo una fitta,» minimizzò, sfuggendo lo sguardo perplesso di Knight.
In realtà aveva visto un forte lampo blu. Parlare dell'incidente ne risvegliava anche il ricordo fisico? si chiese preoccupato, ma accantonò il pensiero dopo il primo momento di shock e continuò come se niente fosse, sudando appena per il nervosismo:
«Dicevo: Stane era molto vicino alla vetrata ed è stato investito dall'onda d'urto. È precipitato nel reattore prima che potessi avvicinarmi e si è, come dire... fuso. Letteralmente. E dovete sapere che un corpo umano che precipiti in un qualsiasi reattore nucleare esistente a questo mondo non causa mai conseguenze pacifiche. È esploso mentre ero ancora sul tetto, di qui le mie innumerevoli lesioni. E poi sono svenuto. Il dottor Ian Mitchell qui presente può illustrare un quadro clinico molto dettagliato delle mie attuali condizioni fisiche, ma credo che non vi interessi neanche questo.»
Knight stava per intervenire, ma fu troncato dal giudice:
«Penso che le sue condizioni fisiche siano piuttosto evidenti a tutti.»
“E non ha ancora visto niente!” esclamò tra sé Tony, mordendosi la lingua per non dirlo ad alta voce.
Pepper tirò un sospiro di sollievo e smise di stritolare il braccio di Ian, che aveva a sua volta sudato freddo quando aveva captato il suo nome. Kyle ascoltava concentrato, con due dita a sorreggere la tempia, annuendo di tanto in tanto e fulminando con occhiate omicide il procuratore che, rigidamente in piedi, non sembrava trovare falle nella deposizione. Dopotutto non aveva le competenze idonee per contestare le allusioni tecniche dell’imputato.
«Riguardo a questo può bastare; chiariremo in seguito le dinamiche esatte dell'incidente e convocheremo qualche esperto che possa giudicarle competentemente,» concluse il giudice.
«Consiglierei Justin Hammer; ha già collaborato con...» iniziò Knight.
«... un branco di incapaci.» tossicchiò Tony, seccato.
Il giudice lo guardò interrogativo, al che Tony si ricompose.
«Non rientra nelle mie simpatie, ma invitatelo pure alla festa.»
“Sarà divertente. O forse no.”
«Prenderemo seriamente in considerazione questa possibilità,» ribattè Knight con un sorrisetto perfido.
«Adesso... se la giuria è d'accordo vorrei discutere della sua identità piuttosto controversa.»
Era chiaro che fosse quello l'argomento principale del processo e che tutti non vedessero l'ora che venisse affrontato.
«Non capisco cosa intende.» cadde dalle nuvole Tony
«Se si riferisce alla quisquilia del mio nome di battesimo, posso assicurarle che sono in tutto e per tutto Anthony Edward Stark.»
«Ha letto i giornali, immagino,» insinuò Knight, subdolo.
«Sono stato piuttosto impegnato a salvaguardare la mia salute, avvocato.»
«Dubito che non abbia neanche sentito parlare di...»

«Obiezione. Signor Knight, sta fuorviando l’imputato e ponendo domande irrilevanti. Il signor Stark non è tenuto a informarsi se non lo desidera, soprattutto in quanto convalescente.»
«Obiezione accolta,» gli accordò a fatica il giudice.
«Comunque, si parlava del cosiddetto “Iron Man”. Un presunto supereroe o robot high-tech che spara raggi laser e distrugge beni pubblici. Le rammenta qualcosa?»
«Oh, sì. Ne ho sentito parlare. Era su tutti i giornali per il suo intervento in Gulmira qualche mese fa, se non sbaglio,» rispose candidamente Tony.
Poteva sentire gli occhi di Rhodey trapassarlo, ma non spostò lo sguardo su di lui.
«Quello, e un'altra decina di intromissioni in zone calde o di confine nel corso di scontri armati, a volte accompagnato da altri combattenti di dubbia entità,» puntualizzò Knight, scrutando la sua reazione, ma lui rimase impassibile.
Pepper annuì piano tra sé: poteva andare peggio, poteva andare molto peggio... ringraziò la prontezza della SHIELD nell'aver criptato o eliminato le testimonianze di quegli scontri.
«E cosa c'entra un paladino della giustizia con l'incidente alle Stark Industries?» lo incalzò Tony, con apparente brio.
«Testimoni oculari affermano di aver visto questo "supereroe corazzato", d'ora in poi "Iron Man" per comodità, scontrarsi con un'entità presumibilmente robotica non meglio identificata, proprio in prossimità della sezione 16 delle Stark Industries. Mi dica, lei ha visto o sentito qualcosa?»
«Onestamente, avvocato, ero piuttosto intento a discutere con il signor Stane e il reattore è molto rumoroso; non ho fatto caso a ciò che avveniva attorno a noi.» obiettò lui, piuttosto debolmente.
«Vostro Onore?» intervenne solo allora Ian, facendo sobbalzare Pepper e voltare l'intera aula verso di lui, che riuscì eroicamente a mantenere la sua freddezza nel sentirsi analizzare da poco più di duecento paia d'occhi «Il mio paziente, per sua sfortuna, soffre di una leggera amnesia in seguito al trauma subito. Non è in grado di ricordare esattamente tutto l'accaduto, in particolare suoni, colori specifici o dettagli marginali.»
«Obiezione: il dottor Mitchell non può testimoniare in questo momento,» protestò Knight, piccato per quell'intromissione.
«Obiezione: il dottor Mitchell ha facoltà di testimoniare in quanto supervisore medico nel caso del signor Stark sin dall’inizio dell’inchiesta.»
«Signor Andrews, accolta; signor Knight, respinta,» dichiarò il giudice, battendo un'unica volta il martelletto.
«Tre a zero, Knight; è in netto svantaggio,» commentò ironico Tony, sentendosi più tranquillo.
Kyle non riuscì a trattenere un sorrisetto compiaciuto, anche se avrebbe volentieri messo le mani al collo di Tony per ogni parola di troppo che lasciava la sua bocca.
«Tornando a noi... sembra che lo scontro sia stato molto violento, arrivando a coinvolgere civili, danneggiare veicoli e causare danni alle infrastrutture adiacenti le Stark Industries e la Howard Stark Memorial Lane,» riassunse brevemente Knight «Sembra che entrambe le... unità robotiche, o qualunque cosa fossero, abbiano fatto uso di armi a lungo raggio simili a flussi di energia.»
A quel punto si fermò per fissare Tony negli occhi, come aspettandosi un commentò da parte sua, che puntualmente arrivò:
«Potrebbe anche affermare che un gigante verde ha distrutto mezza città e sarei costretto a crederle, avvocato. Amnesia, ricorda?» Tony si toccò appena la tempia a sottolineare il concetto. «Quale sarebbe il punto?» chiese poi, ignorando l'occhiata di rimprovero che Pepper gli aveva scoccato nel sentirgli nominare indirettamente Hulk.
«L'esplosione del reattore arc potrebbe essere stata una mera coincidenza, oppure causata dal suddetto scontro. Conferma? Intendo, un simile scontro che coinvolga altre fonti di energia avrebbe potuto causare l'esplosione del reattore?» chiese Knight, suscitando la sua attenzione «Mi rimetto alle sue conoscenze tecniche,» lo blandì mellifluo.
Kyle fiutò il pericolo e stava per obiettare, ma Tony iniziò a parlare prima, non dandogliene modo.
«Non posso escluderlo. Per farla semplice potrebbe essere stato un malfunzionamento dovuto a un sovraccarico di energia nel nucleo, oppure lo scontro ha danneggiato qualcuno dei trasformatori, ma è anche vero che la vicinanza tra due flussi di energia arc può originare delle interferenze non trascurabili...» s'interruppe di colpo.
Kyle si morse nervoso le labbra: aveva previsto che Knight avrebbe fatto leva sull'ego di Tony e sulle sue vaste conoscenze scientifiche per spingerlo a dire più del dovuto. A volte detestava avere ragione.
«Signor Stark, ha per caso detto
due?» chiese infatti Knight, falsamente stupito.
"Lo sapeva... sapeva tutto," pensò allarmato Kyle, implorando Tony di non cadere in trappola.
«Due? Ho detto due?» una nota di panico incrinò la voce di Tony, che si sforzò di mantenere la sua proverbiale
nonchalance .«Intendevo dire il reattore e l’ipotetica energia che alimenta l’armatura...»
«Armatura? È già stato usato in precedenza questo termine?» si finse interdetto Knight.
Kyle corse ai ripari:
«Obiezione! Signor Knight, non ne faccia una questione di semantica; quando la smetterà di evidenziare dettagli irrilev–...» tentò di salvare la situazione, capendo di essere vicino a un punto critico, ma lo schiocco del martelletto troncò le sue parole.
«Respinta. Il verbale cosa dice?» chiese il giudice rivolgendosi al dattilografo, che scorse velocemente le pagine del verbale.
«Mai usata, Vostro Onore.»
Knight si girò trionfante verso l'imputato.
«Non avendo mai visto lo scontro, a quanto sostiene, e non essendosi informato, sempre secondo ciò che ha dichiarato, come fa a definire “armatura” questo neo-supereroe, finora identificato come un robot? Tanto più che la descrizione calza a pennello, a detta dei testimoni.»
«Avrò visto qualche immagine di sfuggita e il mio intuito tecnico deve aver fatto il resto,» borbottò Tony, messo alle strette.
«Devo deluderla: non risulta alcun documento fotografico o audiovisivo di Iron Man dai frangenti in cui è apparso nell'ultimo anno. Inoltre le uniche immagini dello scontro a Los Angeles sono state estrapolate da video di pessima qualità, nei quali non è assolutamente distinguibile con chiarezza un'“armatura”, soprattutto se le ha viste di sfuggita; ma secondo i testimoni oculari si tratterebbe proprio di questo: un'armatura. Cosa ne dobbiamo dedurre, signor Stark?»
Pepper si sentì sprofondare, e stavolta si trovò a maledire la solerzia con cui la SHIELD aveva occultato ogni prova tangibile dell'esistenza di Iron Man. Lanciò un'occhiata a Tony, che sembrava sul punto di voler rispondere per le rime a Knight, ma un’occhiataccia di Kyle lo convinse che sarebbe stato più saggio stare in silenzio.
Knight si concesse un sorriso soddisfatto.
«In via del tutto eccezionale dispongo di una foto della suddetta “armatura”,» annunciò, e un mormorio sorpreso si diffuse tra il pubblico.
«Obiezione! Questa prova non è pertinente a...»
«Respinta,» lo troncò di netto il giudice, più interessato alla foto che alla sua attinenza col processo in corso. «Ce la mostri, procuratore.»
Tony si sentì mancare e fissò Kyle in cerca d’aiuto; lui scrollò le spalle, facendogli cenno di mantenere il sangue freddo.
Knight tirò fuori una foto piuttosto grande e un po' sgranata, ma anche perfettamente distinguibile: era senz'ombra di dubbio un’armatura dalle cromature rosso-oro, apparentemente inquadrata dalla telecamera di sicurezza di un'auto che sembrava sospesa a qualche metro da terra, sorretta dall'armatura stessa. Tony poggiò con sconforto il mento sul braccio sano, ricollegando la scena a quel poco che ricordava dello scontro: era abbastanza sicuro che la persona alla guida di quell'auto gli dovesse la vita, e fornire all'accusa prove sottobanco non gli sembrava un gran modo per ringraziarlo.
Si impose il silenzio, assieme a un'espressione distaccata.
«Prego la giuria di prestare attenzione a questo “piccolo” dettaglio.» Knight puntò il dito sulla luce azzurrina che brillava sul petto di Iron Man.
“Merda.” Tony si allentò il colletto della camicia, improvvisamente accaldato.
«Secondo i nostri tecnici, sarebbe proprio la fonte di energia che alimenta quest'aggeggio... signor Stark, cosa le ricorda?»
«La lampadina azzurra che avevo sul comodino da piccolo,» sparò a caso Tony, cercando di mantenere la sua faccia tosta.
«Ah, davvero? E magari gliel’ha costruita suo padre Howard Stark, inventore del reattore arc.»
«Obiezione. Di nuovo fuori tema.»
«Accolta. L'allusione al reattore arc è pertinente, ma si astenga da altri riferimenti ai familiari del signor Stark; al momento non ci interessano.»
«Nemmeno a me, sinceramente,» commentò Tony, nel tentativo di allentare la tensione.
Kyle scosse vigorosamente la testa, intimandogli di finirla con quella sceneggiata.
«Questo sembra indiscutibilmente un reattore arc. In quanto esperto del settore, signor Stark, come lo definirebbe
oggettivamente?» lo incalzò Knight.
«A prima vista direi proprio un reattore arc,» si trovò costretto ad ammettere Tony «Ma ciò non è possibile, perché mio padre e di conseguenza la mia industria ne detengono il brevetto,» aggiunse subito dopo trionafante, credendo di riuscire così a trarsi d'impaccio; notò troppo tardi l'occhiata ammonitrice di Kyle.
«Infatti,» confermò Knight, «secondo i nostri esperti corrisponde unicamente come forma, luce e altri parametri che conoscerà sicuramente, alla tecnologia arc o derivate. E dunque in suo
esclusivo possesso.»
«Vedo che ha fatto i compiti a casa, signor Knight.»
Lui sorrise soddisfatto prima di essere troncato dalla voce di Kyle.
«Obiezione: la sua tecnologia potrebbe essere stata sottratta da concorrenti.»
«Esatto!» Tony colse al volo l'occasione «Da Stane!»
«Ma non era con lei sul terrazzo?»
«Lui era
fisicamente con me, ma la sua tecnologia, cioè quella sottratta a me medesimo, era lì sotto, non-so-perché, a combattere contro un tizio in armatura!»
Un brillio pericoloso si accese negli occhi di Knight.
«Mi perdoni, signor Stark: si sta riferendo all'arma robotica ancora ignota o ad Iron Man?»
Tony ebbe un attimo di esitazione, realizzando ciò che aveva appena detto.
«A... a entrambe.» balbettò infine.
Pepper si mosse a disagio, allibita dal madornale passo falso del suo capo, e il fatto che avesse appena balbettato – lui, Tony Stark, che
balbettava – voleva dire che Knight era finalmente riuscito a metterlo in seria difficoltà.
«È curioso come lei sostenga di non sapere nulla dello scontro ma sia in grado di affermare che anche l'altro robot fosse alimentato da un reattore arc,» commentò Knight con un sorrisetto di condiscendenza. 
Tony ammutolì, consapevole di non poter controbattere con argomentazioni convincenti.
«Lasciamo un attimo da parte le sue accuse infondate verso Stane. Lei ha definito Iron Man "un tizio in armatura"; cosa sensata, visto il nomignolo affibbiatogli dai media e la sua nomea di "supereroe". Ma cosa le fa affermare con tanta certezza che l’armatura non fosse un robot telecomandato o altro?»
«È un sistema di controllo obsoleto! Quell'armatura, o qualunque cosa fosse, è troppo complessa per essere teleguidata.» Tony si sarebbe mangiato la lingua per quello che stava dicendo, ma il suo ego aveva buttato al vento ogni cautela.
«E questo come lo deduce non avendola mai vista coi suoi occhi?»
«Lei è estremamente pignolo. Davvero una spina nel fianco,» sbottò Tony, iniziando ad irritarsi. 
Insomma, era abituato a non essere – quasi – mai contraddetto.
«Dunque?»
«Dunque sono in grado di trarre conclusioni in campo robotico in base a criteri che non devo certo spiegare a lei, a meno che ovviamente non abbia un paio di lauree al MIT, cosa di cui dubito alquanto,» commentò con arroganza.
Pepper si era ormai ancorata al braccio di Mitchell vedendo degenerare la situazione di secondo in secondo e anche lui non poteva fare altro che assistere impotente al loro sfacelo.
Kyle fremeva accanto a loro alla ricerca di una via d'uscita che Tony non si fosse già precluso.
«Signor Stark, la richiamo all’ordine,» gli intimò il Senatore.
«Ma certo, Vostro Onore. Scusatemi enormemente,» ribattè lui con un po' troppa enfasi.
Ribolliva di rabbia repressa nei confronti dell'avvocato e in generale di tutto ciò che l'aveva cacciato in quel vicolo cieco.
E pensare a Stane non lo aiutava affatto.
"Quel bastardo traditore doppiogiochista..." sibilò tra sé, vedendo rosso per un istante e sentendosi i moncherini in fiamme.
«Sto ancora aspettando una risposta, signor Stark.»
Tony lo fissò in modo tanto penetrante che l'avvocato sembrò tentennare.
«Infatti, stavo giusto dicendo che la
mia tecnologia, perché di mia si tratta, è stata banalmente ed indegnamente clonata dal mio "amico" e "collaboratore" Obadiah Stane, che tra l’altro vendeva alle mie spalle armi ai ribelli dei Dieci Anelli, gli stessi che hanno avuto la gentilezza di ospitarmi per tre mesi in Afghanistan su suo diretto ordine. Evidenziamo questo dettaglio nel verbale, grazie.»
Kyle fece il gesto di intervenire, ma ormai Tony era come un fiume in piena.
«Stane da un pezzo voleva sbarazzarsi di me e ottenere le mie industrie e quando ha messo gli occhi sulla tecnologia arc ha trovato un modo perfetto per farlo.»
«Signor Giudice, il mio cliente sembra in evidente stato confusionale.» Kyle cercò con lo sguardo il supporto di Ian, facendogli cenno di confermare, ma prima che il medico potesse intervenire fu zittito dal martelletto.
«Respinta. Il signor Stark mi sembra nel pieno possesso delle sue facoltà decisionali.»
«Che bravo, Vostro Onore, dopo il mio nome si ricorda anche della mia salute mentale. Lo trovo molto gratificante. Comunque sia, questa condotta irresponsabile e scorretta da parte del mio ormai ex-collega mi ha costretto ad intervenire in prima persona.»
«Cosa intende con "in prima persona"?»
«Vedete, Vostro Onore, signor Knight, gentile pubblico...»
"Pepper, respira. Non lo sta veramente per dire."
«Io sono Iron Man.»




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Revisione effettuata il 21/02/2018


Note Delle Autrici:

"Tony è un deficiente.": pensatelo pure, perché avete ragione!
In effetti, ci siamo ispirate abbastanza al processo che si svolge nel secondo film, visto che dopotutto molte tematiche lì presenti verranno affrontate in seguito in questa FF (non credevate mica che se la potesse cavare con un solo processo... vero? Sarà una cosa molto lunga...) 
Comunque, ringraziate se tornerà intero a casa... Pepper vorrebbe scannarlo :3 Ma in realtà lo ama! *scorgono Pepper che affila mannaia* O forse no...
Ringraziamo Rogue92 e alliearthur che continuano a seguirci e recensiscono regolarmente :3 Ci fa davvero tanto piacere :) (Glaucopis, ti aspettiamo... e aspettiamo USQ!)

Moon&Light

P.S. Sappiamo che il capitolo è lunghissimo, e il prossimo lo sarà altrettanto, ma c'è davvero molto da dire e le tiritere legali tendono ad essere lunghe e prolisse, anche se cerchiamo di ridurle al minimo ;)




© Marvel

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Capitolo 11
*** Falling ***



10

Falling



"Stupid me to believe
That I could depend on stupid you
And on the tip of my tongue,
Were words that came out all wrong"

[Kings Of Medicine – Placebo]



«Ordine! Ordine! Esigo ordine!» sbraitò il giudice, pestando con accanimento il suo martelletto senza ottenere risultati evidenti.
La sala era in subbuglio: tutti parlavano con tutti, i giornalisti si rivolgevano direttamente a Tony; alcuni tentavano di salire sul palco per intervistarlo e venivano respinti dalla sicurezza, la giuria si consultava concitata. Knight, dopo essersi ripreso dallo stupore, esibiva un sorriso tronfio e arrogante nell'osservare quel pandemonio. Si era poggiato con fare sprezzante al banco dell'accusa, in attesa che il processo riprendesse: era chiaro che pensava di avere già la vittoria in pugno.
Dopo il primo momento di esaltazione autocelebrativa, Tony si era calmato e aveva assunto un'espressione più seria, attendendo con pazienza che tutti tacessero per riprendere a parlare e rispondere ai miliardi di domande che gli sarebbero state poste di lì a pochi istanti. Tentava di ignorare le occhiate penetranti che gli scoccavano a turno Pepper, Ian e Kyle, rincarate da quelle altrettanto accusatorie di Rhodey poco più dietro.
Kyle aveva assunto una rassegnata faccia da funerale e sembrava aver accettato stoicamente il fatto che avrebbe perso la causa entro dieci minuti. Ian dal canto suo sfoggiava la sua solita espressione corrucciata, ma i suoi occhi mandavano lampi gelidi nella direzione del suo paziente. Pepper non sembrava condividere la loro pacatezza, perché aveva assunto un colorito tendente al bordò e si stava chiaramente imponendo di non alzarsi in piedi per piombare addosso al suo capo e acciuffarlo per un orecchio come un bambino pestifero di fronte a tutti. Tony deglutì a vuoto: l'avrebbe come minimo ucciso non appena fossero usciti di lì.
Però doveva ammettere che, nonostante temesse l’ira dei suoi "compagni di squadra" – veri e metaforici, in realtà – si sentiva molto meglio, come se si fosse tolto un pesante fardello dalle spalle. In più era nuovamente al centro dell'attenzione, e questo non poteva che fargli piacere nonostante il momento critico. Era soddisfacente venire guardato con stupore e ammirazione, e anche invidia, fintantoché chi lo faceva fosse rimasto all'oscuro delle sue vere condizioni, di cui era comunque fin troppo cosciente.
I membri della giuria stavano parlottando tra loro e con Stern, indecisi su come far procedere il processo dopo quella svolta inattesa. Tutti gli occhi erano puntati su Tony che, dal canto suo, fissava con svagato interesse il soffitto. Per passare il tempo si sistemò il tutore al braccio, allentandolo un po'; provò poi a muovere leggermente la protesi per sciogliersi la spalla indolenzita da quel peso inusuale. Ignorò gli sguardi ammonitori del suo trio difensore nell'osservare le sue manovre rischiose, ma necessarie per alleviare il proprio fastidio.
Pian piano il clamore che scuoteva il tribunale diventò un brusio concitato e si affievolì fino a spegnarsi del tutto, ma nessuno diede segno di voler parlare per primo. Stern conferiva sottovoce con un membro della giuria, apparentemente contrariato.
Alla fine, vedendo che nessuno sembrava avere idea di come sbloccare la situazione, Tony decise di farlo per loro:
«Oh, abbiamo finito?» disse con finta sorpresa, riscuotendo l'attenzione dei presenti già ampiamente appuntata su di lui.
«Abbiamo appena cominciato, signor Stark,» replicò di scatto Stern, interrompendo il suo confabulare.
Sembrava molto meno propenso ad essere paziente rispetto all'inizio del processo, e le sue guance cadenti fremevano d'indignazione.
«Conferma la sua ultima affermazione?» intervenne Knight, come se ce ne fosse davvero bisogno.
«Naturalmente. Devo ripeterla? Beh, sono Iron Man, e questo è quanto.»
«Obiezio–...» Kyle si fermò a metà e lasciò cadere nel vuoto la sua protesta, capendo che era completamente inutile ricorrere di nuovo alla scusa dello stato confusionale: così facendo avrebbe solo rafforzato i dubbi sulla già controversa integrità mentale di Tony.
«Voleva forse dire qualcosa, signor Andrews?» lo stuzzicò Knight, che sembrava godersela un mondo.
«Effettivamente sì. Vorrei richiedere una pausa dal processo per...» cominciò, ma Stern lo troncò sul nascere:
«Respinta. Non vedo alcun bisogno di una pausa, avvocato; continueremo fino a che lo riterremo necessario.»
«Capisco,» disse Kyle tra i denti, ma mantenne la sua solita espressione cordiale, anche se dentro ribolliva palesemente di frustrazione.
Ci fu uno scambio di sguardi velenosi tra lui e Knight, prima che a quest'ultimo fosse concesso di riprendere il contro-interrogatorio.
«Signor Stark, in seguito alla sua ultima dichiarazione ritengo necessaria una revisione della sua testimonianza riguardo ai fatti avvenuti il 5 gennaio alle Stark Industries, settore 16,» annunciò formalmente il Senatore, in un tentativo di riportare una parvenza di ufficialità nel tribunale dopo la breve parentesi da talk-show. «Naturalmente il fatto di aver prestato falsa testimonianza andrà a suo netto svantaggio e sarà aggiunto ai suoi capi d'accusa; dovrà pagare una salata multa, a meno che non voglia finire agli arresti per un bel po',» concluse soddisfatto.
«Pagherò quel che devo,» alzò le spalle Tony, noncurante.
Un paio di mesi agli arresti domiciliari non avrebbero mutato più di tanto la sua situazione, visto che non poteva comunque muoversi.
«Adesso, ci dica: cosa è successo veramente quella sera? Inizi pure la sua deposizione. E veda di essere sincero, le ricordo che ha prestato giuramento,» aggiunse aspramente il giudice, siglando le sue parole con un solenne battito di martelletto.
Tony si prese qualche secondo per raccogliere le idee e fu come se un sipario calasse sulla sua espressione giocosa per lasciare il posto ad ombre più cupe.
«Prima di arrivare allo scontro del 5 gennaio scontro devo fare un bel passo indietro. Al mio rapimento in Afghanistan, per l'esattezza,» esordì Tony, scatenando subito mormorii incuriositi dal pubblico.
Non aveva mai raccontato chiaramente quel che era successo mentre era prigioniero dei terroristi, né aveva intenzione di farlo adesso, né mai. La SHIELD si era adoperata per insabbiare l'esatta dinamica della sua fuga e non era mai stato interrogato dalle autorità in proposito, ma sapeva che la cosa sarebbe saltata fuori da sola in correlazione a Stane e voleva togliersi subito il dente per evitare incursioni impreviste da parte dell'accusa. Gli premeva mettre in chiaro che lui, coi sotterfugi di Stane e con quei bastardi dei Dieci Anelli, non c'entrava assolutamente nulla se non nel ruolo di vittima ignara. Ed egualmente colpevole di quei traffici illeciti, ma quello era un pensiero che tormentava a sufficienza le sue notti senza fare un mea culpa pubblico. Presagiva che in futuro avrebbe comunque dovuto approfondire il suo rifiuto di continuare a produrre armamenti, ma adesso gli sembrava una questione di importanza secondaria.
«Vi risparmierò i dettagli più crudi, ma vi basti sapere che, qualunque cosa dicano i miei diffamatori, non è stata affatto una montatura né un viaggio di piacere. Per farla breve: molti si chiedono come abbia fatto a scappare ai terroristi. Semplice: grazie ad Iron Man. L'armatura è nata in quella grotta e l'ho usata per crearmi una via di fuga, l'unica a cui avessi accesso,» spiegò brevemente.
Il pubblico pendeva dalle sue labbra e suo malgrado anche Knight sembrava molto interessato, al di là del lato professionale della vicenda. Non si trattenne comunque dall'intervenire con la sua voce infida:
«Avrei due domande.»
«Non ne dubitavo.» Tony alzò un sopracciglio, ma attese.
«La prima è: come avrebbe fatto esattamente a creare un'armatura così tecnologicamente avanzata in una grotta, con, immagino, strumenti non paragonabili a quelli delle sue industrie?»
«Era molto più rudimentale della Mark III... intendo l'armatura. Quella era la Mark I, l'antenata di quella attuale,» si frenò dal rivelare altri dettagli, ma sapeva che il procuratore non avrebbe dimenticato il fatto che sembravano esserci più armature in circolazione. «Il punto è che usavo effettivamente materiali delle mie industrie. Missili, esplosivi, armi, componenti elettronici...» si ritrovò a stringere il pugno buono, di nuovo fremente di rabbia. «È proprio questo il collegamento con Stane: riforniva i terroristi sottobanco con le mie armi e attrezzature a mia insaputa, e ha organizzato anche il mio rapimento per...»
«Obiezione: ha già affermato questo in precedenza, ma dove sono le prove?»
Tony esitò, serrando appena la mascella.
«Non credo di avere prove che...»
«Obiezione!» intervenne Kyle, appena in tempo. «Abbiamo effettivamente prove del coinvolgimento di Stane nel rapimento del signor Stark,» annunciò, sollevando una chiave USB in modo che fosse ben visibile.
Tony non riuscì a nascondere la sua perplessità: era la chiave in grado di aggirare i suoi stessi sistemi, con la quale Pepper doveva recuperare i dati relativi alle sue industrie e progetti. Non immaginava che avessero trovato anche prove del suo rapimento. Perché non gliel'avevano detto? Certo, non avevano parlato esplicitamente dell'Afghanistan mentre si preparavano all'udienza, ma quello gli sembrava un dettaglio decisamente rilevante, oltre che personale.
Knight si era accorto della sua esitazione, ovviamente, ma prima che potesse farlo notare a tutti intervenne Ian:
«Vostro Onore, il signor Stark non è a conoscenza di questa prova perché è stata raccolta durante il suo periodo di degenza. Potete controllare i registri dell'ospedale, che ho qui con me. Non era materialmente in grado di saperlo e nella concitazione del momento non ne è stato informato,» concluse.
«Esattamente quel che volevo sottolineare.» confermò Kyle. «Inoltre, non pensavamo avrebbe avuto così tanta rilevanza in sede processuale,» specificò, e Knight strinse le labbra piccato.
Tony scoccò un'occhiata eloquente ai suoi tre angeli custodi: gli dovevano un po' di spiegazioni riguardo a quella prova, soprattutto sul vero perché non l'avessero messo al corrente della sua esistenza, visto che gli sembrava tutto, meno che "poco rilevante". Magari pensavano che, qualunque cosa ci fosse là dentro, fosse troppo "instabile" per vederla. Il pensiero lo punse nel vivo.
«Il video qui contenuto potrebbe risultare piuttosto crudo e turbare sia i membri della corte che l'imputato, per cui consiglierei una pausa per permettere alla giuria di visionarlo in privato,» azzardò Kyle, confermando i suoi sospetti.
«Io non ho problemi a visionarlo qui ed ora, in pubblico,» puntualizzò Tony senza nascondere il suo fastidio. «In giro ci sono sicuramente video peggiori con me come protagonista. Almeno in questo dovrei essere vestito,» aggiunse poi in tono forzatamente beffardo.
«Vediamo questa prova decisiva, allora,» li sollecitò Knight, che sembrava sperare con tutto se stesso che il loro fosse un bluff.
La giuria concordò con uno schiocco del martelletto.
Tony intercettò lo sguardo di Kyle, con un'aria che prometteva una lunga discussione dopo il processo. L'avvocato s'incupì di rimando, forse con una vaga aria contrita, e Tony notò il modo in cui guardò di sottecchi Pepper, che stava insolitamente evitando di guardarlo in faccia, quando non aveva distolto gli occhi da lui per tutto il processo.
"Ovviamente..." pensò con amarezza.
Ora sapeva con chi doveva prendersela, almeno.
Ci fu un breve armeggiare con una TV e un pc portatile, nel quale fu inserita l'USB. Pochi secondi dopo Tony si trovò a fissare se stesso proiettato sullo schermo, legato, bendato e tenuto sotto il tiro dei suoi carcerieri mentre una voce che era abituato a sentire principalmente nei suoi incubi accusava apertamente Obadiah di aver mentito riguardo al "bersaglio da eliminare". Smise di ascoltare e guardò lo schermo con aria trasognata, sperando solo che il video finisse presto per non dover continuare a fissare il suo stesso volto sporco di sangue e terrorizzato. Almeno i contorni del primo magnete infisso nel suo petto si distinguevano appena, e ringraziò la scarsa qualità del video.
La giuria si dichiarò soddisfatta della prova e Knight non trovò nulla da obiettare, con suo evidente fastidio.
Tony riprese a respirare solo quando lo schermo si spense finalmente con un sibilo e la chiave tornò nelle mani di Kyle. Adesso poteva percepire gli occhi di Pepper fissi su di sé, ma non si voltò verso di lei, sentendo un bruciore estraneo che gli pizzicava lo stomaco al pensiero che gli avesse mentito... per cosa, poi? Per proteggerlo?
In quella grotta c'era stato in carne ed ossa – torture, privazioni e sofferenze incluse – e Pepper credeva davvero che un video del genere potesse turbarlo? Si riservava il diritto di essere quantomeno offeso, per non dire furibondo, per essere stato considerato così fragile.
Knight gli impedì di elucubrare troppo su quello che stava interpretando come un raggiro da parte di persone che considerava fidate e riprese il contro-interrogatorio con più foga di prima:
«Dunque, stando a quanto abbiamo appena visto, aveva degli ottimi motivi per covare del rancore nei confronti di Stane: la vita in quei tre mesi non dov'essere stata facile.»
«Affatto, signor Knight. Non gliela auguro minimamente,» ribattè Tony lapidario, eliminando per una volta qualsiasi traccia di scherzo dalla sua voce.
«Ma a questo penseremo in seguito; non vorrei dover affrontare troppe problematiche in una sola volta. Vorrei comunque sottolineare alla giuria che l'imputato aveva un movente più che valido per l'omicidio di Obadiah Stane.»
Fece una pausa per permettere a tutti di assorbire l'informazione.
Tony si accorse di aver serrato nuovamente con forza entrambi i pugni e si costrinse a rilassarli, controllando poi con discrezione che ciò non avesse causato danni alla protesi. Le giunzioni delle dita si erano leggermente allentate, e badò bene a nascondere il braccio oltre il bordo del tavolo.
«Passiamo alla mia seconda domanda, prima di divagare troppo. Le forze militari Statunitensi hanno registrato una grossa esplosione nell'area in cui era stato tenuto prigioniero e hanno in seguito confermato la distruzione del covo dei Dieci Anelli...» Knight lanciava di tanto in tanto un'occhiata a quel che sembrava un rapporto ufficiale.
A quanto pare lo SHIELD non era riuscito ad arrivare anche a quelli, o forse non aveva voluto, seguendo chissà quale "procedura standard". Si appuntò mentalmente di chiedere chiarimenti anche a Fury: gli sembrava di essere tenuto all'oscuro di troppi dettagli, ultimamente.
«Sono stati trovati segni di un violento scontro armato, oltre ad alcuni corpi carbonizzati corrispondenti a diversi ricercati e criminali internazionali e a quello di un noto fisico rapito qualche anno fa in...»
«Yinsen?» esalò Tony, senza riuscire a trattenersi.
Non si aspettava che ne avessero ritrovato il corpo: avrebbe voluto esserne informato. Gli doveva la vita e non sapeva nemmeno che avessero trovato il suo corpo. Si chiese se l'avessero sepolto, e dove, ma non era sicuro di voler conoscere la risposta.
Knight lo stava fissando interrogativo.
«Si chiamava Ho Yinsen,» disse Tony, quasi con fierezza e donandogli così la dignità di un nome, per quanto fosse comunque un riconoscimento infimo a fronte di ciò che aveva fatto per lui. «Era il mio interprete e compagno di prigionia. È stato ucciso durante la nostra fuga.»
Omise, dandosi del vigliacco, che l'aveva fatto per fargli guadagnare tempo, regalandogli la vita che non avrebbe dovuto sprecare.
Knight per una volta sembrò incerto su come proseguire, disorientato dall'improvvisa serietà dell'imputato.
«Cosa c'entra la mia fuga con tutto questo?» lo riscosse bruscamente Tony, tentando di allontanarsi da quei ricordi troppo vividi.
«La distruzione della base è stata opera sua, a quanto afferma.» riprese Knight, ora di nuovo impassibile.
«Lo affermo nuovamente.»
«Ha ucciso delle persone. Conferma anche questo?» insistette Knight.
Tony si trovò a fissarlo con sguardo vacuo, mentre una fulminea reminiscenza di quegli attimi gli balenava inevitabilmente dinanzi agli occhi. Rivide Yinsen, crivellato di proiettili e riverso su dei sacchi di sabbia impregnati del suo stesso sangue, con ancora la forza di parlargli un'ultima volta. Un'ondata di nausea gli torse lo stomaco al pensiero di ciò che era venuto dopo: fiamme, urla e spari si sovrapposero nelle sue orecchie. Si obbligò a tornare al presente, ma aveva serrato di nuovo i pugni con tanta veemenza da indolenzirsi la mano buona e aver allentato ulteriormente il polso della protesi.
«Erano... terroristi,» cominciò incerto, senza sapere se quello fosse l'inizio di una confessione in piena regola o una semplice constatazione dei fatti.
In ogni caso, avvertì un senso di nausea ben marcato.
«Obiezione!» intervenne prontamente Kyle. «Vostro Onore, chiedo espressamente che vengano affrontate le problematiche relative al problema "Iron Man". Questi avvenimenti non influenzano in alcun modo diretto quelli del 5 gennaio né la questione della sua identità; ne spiegano solo l'origine,» affermò, notando il profondo disagio del suo assistito.
Stern sembrò pensarci un attimo, poi annuì.
«Obiezione accolta. La questione della sua prigionia non è chiusa, ma verrà affrontata in un altro momento. Vista la quantità delle sue accuse è molto probabile che avremo tutto il tempo necessario per discuterne approfonditamente in futuri processi.
Signor Knight, continui il contro-interrogatorio tralasciando gli eventi in Afghanistan,» sentenziò risoluto, e sia Kyle che Knight sembrarono concordi, per una volta.
Affrontare troppi capi d'accusa insieme non avrebbe favorito nessuna delle due parti e quello in particolare sembrava una questione troppo spinosa per essere risolta rapidamente come volevano entrambi.
Tony deglutì a forza, e per un attimo, impalato com'era sul banco degli imputati, con centinaia d'occhi che lo scrutavano e una condanna che incombeva su dilui, si sentì di nuovo la canna di un mitra puntata alla testa.
E il processo era appena iniziato.


***


Pepper era sicura che Tony stesse soffocando.
Era notevolmente impallidito non appena avevano cominciato a parlare del suo rapimento e adesso aveva un colorito cereo. Si allentava in continuazione il colletto della camicia ed evitava stoicamente di guardare nella sua direzione, in un atteggiamento d'indifferenza decisamente insolito per lui. Se l'era davvero presa così tanto per il fatto di avergli tenuto nascosto quel filmato?
Vista la delicatezza dell'argomento aveva insistito con Kyle per renderglielo noto solo se strettamente necessario, ma mai avrebbero immaginato che sarebbe stato lui stesso a portare il processo in quella direzione. Sperò solo che fosse in grado di sostenere il resto dell'udienza senza ulteriori danni.
Ian sembrava altrettanto preoccupato. A un tratto si accostò a Pepper, bisbigliandole di voler parlare seriamente con Tony del rapimento, se proprio aveva quest'astio verso gli psicologi. Pepper concordò sottovoce, più per cortesia che altro. Apprezzava la buona volontà del medico, ma dubitava che Tony avrebbe mai accettato un'offerta simile, intento a nascondere le proprie paure persino a se stesso.
Riprese a concentrarsi sull'udienza, con un filamento d'angoscia ad annodarle lo stomaco.
«Torniamo a questa sua identità segreta,» dichiarò Knight. «Sa dirci con esattezza quando ha iniziato ad utilizzare la "Mark III" per intervenire di persona in conflitti bellici e perché l'ha fatto?»
«La prima volta è stata in Gulmira. Ho estirpato il gruppo dei Dieci Anelli che era di stanza lì. E ho usato le mie armi solo in casi estremi e per legittima difesa. Ho poi lasciato che gli abitanti del luogo facessero il resto,» sintetizzò, ringraziando mentalmente di non essersi sporcato le mani anche in quell'occasione. «Per quanto riguarda il perché, mi sembrava di averlo chiarito nella mia conferenza stampa un anno fa: ho di meglio da offrire a questo mondo che cose che esplodono. Dopo aver visto le mie armi usate in quel modo, ho deciso che potevo fare almeno questo per cercare di rimediare al mio modo di agire. E a quello di mio padre. Siamo stati mercanti di morte troppo a lungo,» concluse mestamente, per poi riprendere con più vigore:
«I miei interventi successivi in veste di Iron Man erano mirati a distruggere le armi delle Stark Industries che Stane ha contrabbandato sotto al mio naso nei vent'anni in cui ha gestito con me, o meglio senza di me l'azienda.»
Non riuscì ad evitare la stizza che trapelò dalla sua voce a quelle ultime parole, e si costrinse a controllarsi per non dare altri appigli all'accusa.
«Finora sono intervenuto in Afghanistan, Gulmira, Wakanda, Vietnam, Sokovia... e potrei continuare. Non so ancora quante partite di armamenti siano finite sul mercato nero,» ammise, senza celare la sua frustrazione.
Ci fu un mormorio di stupore misto a consenso dal pubblico, come impressionato dalla sua fermezza e insolità gravità, oltre che preoccupato al pensiero che armamenti di fattura superiore quali erano quelli delle Stark Industries circolassero sottobanco nelle mani sbagliate. Le sue motivazioni non sembravano averli colpiti particolarmente, ma lui non vi badò: sapeva perché combatteva e tanto bastava. Non si era mai curato di ciò che diceva la gente di lui e non avrebbe cominciato a farlo proprio ora che sapeva di fare la cosa giusta.
Knight ruppe la sua bolla di confidenza, ricominciando a pungolarlo.
«Un nobile intento, signor Stark, che però ha causato più problemi di quel che aveva previsto... discuteremo in seguito anche riguardo alla sua dubbia scelta di revocare il suo contratto con l'esercito.»
L'affermazione di Knight suonò più come una minaccia, ma Kyle non intervenne: la situazione era ancora stabile e il procuratore non sembrava intenzionato ad affrontare formalmente la questione, ma solo a menzionarla per innervosirli.
«Non ci sono testimonianze attendibili dello scontro avvenuto in Gulmira, né dei successivi, quindi dovremo fidarci della sua parola,» stabilì poi con riluttanza. «Ma cosa ci dice riguardo allo scontro avvenuto con i Whiplash al suo rientro, di cui è stato invece testimone il Colonnello Rhodes?»
Il colonnello in questione si agitò sulla sua sedia ed evitò lo sguardo risentito e incredulo di Tony. Non riusciva a credere che avesse rivelato il suo coinvolgimento in quell'episodio per pura ripicca. E adesso avrebbe dovuto svicolare anche a quelle accuse...
«È stato un malinteso,» spiegò, con un'alzata di spalle distratta. «Mi hanno scambiato per una minaccia, presumo un drone, e mi hanno attaccato; non ho risposto al fuoco e ho usato solo gli anti-missili. Non uso la Mark III per divertimento, Knight, se è questo che sta tentando di dimostrare.»
"Anche se in effetti volare è divertente..." si trovò a pensare con una punta di rammarico.
«Ha comunque dimostrato una certa noncuranza, visto che ha fatto precipitare un pilota della Air Force,» puntualizzò Knight. «È stato un incidente, e comunque gli ho salvato la vita. Il suo paracadute era difettoso, le consiglio di rileggere il rapporto,» continuò con aria di sfida, sperando che il pilota avesse menzionato il suo intervento in extremis.
«Molto eroico, da parte sua,» lo schernì Knight, lasciando comunque cadere quella linea ad'attacco. «Tornando all'armatura... come definirebbe "Iron Man", se non un'arma?»
«Non la definirei affatto "arma", signor Knight. Fa parte di me, è controllata da me. È una sorta di... estensione del mio corpo,» tagliò corto Tony, esitando a utilizzare il termine tecnico.
Lo fece lui al posto suo.
«Quindi sta dicendo che è una specie di "protesi", giusto?»
Pepper trattenne a stento un'esclamazione preoccupata e Kyle s'irrigidì di colpo: sembrava quasi che Knight avesse intuito qualcosa, ma era impossibile, visto che Tony era stato immobile per la maggior parte del processo. La protesi era celata dal tutore e ciondolava inerte appesa al suo collo, invisibile a occhi indiscreti. Comunque fosse, il discorso si stava spostando in una direzione pericolosa.
Tony represse un brivido e il braccio destro sembrò pesare più che mai. Doveva riuscire a sfuggire a quelle domande infide, o avrebbe finito per lasciarsi sfuggire qualcosa, con la sua maledetta parlantina...
S'illuminò all'improvviso quando si rese conto che inconsapevolmente Knight gli aveva offerto una via di fuga.
«Esattamente: una protesi è il termine giusto. Quindi ammetto di essere in possesso di alcune "protesi ad alta tecnologia", ma questo non vuol dire che voglia utilizzarle a scopo offensivo,» dichiarò in scioltezza e riacquistando il suo solito mezzo ghigno; qualcuno dal pubblico ridacchiò.
"Ora tutti sanno che ho delle 'protesi'... ma non di che tipo," pensò soddisfatto, mantenendo un sorriso trionfante sul volto: aveva evitato di essere nuovamente accusato di falsa testimonianza, oltre a sottolineare l'inoffensività delle armature.
«E di quante di queste "protesi" dispone al momento?» lo incalzò Knight, imperterrito.
Tony ci pensò un attimo, contando ostentatamente sulle dita buone; decise di includere solo la Mark II nel conteggio, visto che la I e la III erano distrutte, più la protesi del braccio e della futura gamba.
«Tre, ma al momento solo una è operativa, più o meno. In effetti, non saprei se definirla propriamente "protesi" essendo questa parte intergante del mio corpo, ma...» stavolta un mormorio di risatine accompagnò la sua voce.
Il giudice e Knight sembravano chiedersi se si trovassero ancora in tribunale o in qualche luogo più sconcio.
«No, aspettate, sono serissimo!» Tony alzò la voce per sovrastare la momentanea confusione.
«Ne saremmo convinti, signor Stark, se solo non continuasse a farsi beffe della corte...» commentò il Giudice.
«Continuo a sostenere il termine "arma" per definire Iron Man: non può essere chiamata protesi, considerando che–...» iniziò Knight, deciso, solo per essere interrotto:
«Oh, aspetti, non me lo dica, ho capito dove vuole arrivare: è troppo grande per essere definita tale. Ho indovinato?» lo anticipò Tony con un sogghigno malizioso e scatenando ancora l'ilarità del pubblico.
«... non volevo metterla esattamente in questi termini, ma il concetto è quello,» concesse questi, alzando gli occhi al cielo. «E così torniamo alla mia accusa, cioè che l'unica definizione possibile per "Iron Man" è "arma",» concluse alla svelta, con soddisfazione.
«Obiezione: tecnicamente non può stabilirlo, visto che non ha potuto esaminarla... o sbaglio, avvocato?» intervenne Kyle con un mezzo sorriso provocatore.
«Possiamo sempre chiedere al signor Stark di farcela esaminare,» rispose prontamente Knight.
«Dipende a quale protesi si riferisce e se sarà lei a occuparsi di questo "sporco compito",» tossicchiò Tony, prima di riprendere a parlare in tono semiserio:
«Ciò che mi richiede è comunque impossibile: una è andata distrutta in seguito allo scontro, un'altra è obsoleta e le altre sono difettose o in fase di progettazione. E no, non potreste comunque esaminarle senza un mandato; e no, non potreste chiederne il cedimento perché equivarrebbe a cedere me stesso, e questo mi porrebbe sotto un contratto di schiavitù... o di prostituzione, a seconda dei punti di vista.»
«Non sono un esperto...
» cominciò Stern, arrischiandosi suo malgrado a intervenire.
«
Di prostituzione? Certo che no, andiamo, è un Senatore!» esclamò, battendo col palmo sul banco a dare enfasi.
Pepper nascose il volto tra le mani con un sospiro rassegnato, mentre Kyle tamburellava nervosamente sul tavolo, fissando con intensa concentrazione dei documenti. Era diventato paonazzo. Non bastava che il suo cliente non facesse nulla per aiutarlo a difenderlo, no: doveva anche allestire uno spettacolo di cabaret dai risvolti squallidi di fronte alla corte... si sentiva sprofondare pian piano dietro il banco della difesa.
«Silenzio! Silenzio in aula! Chiudiamo la questione delle "definizioni per Iron Man" e torniamo allo scontro, per carità!» esplose il giudice, anche lui con un colorito che tendeva al rosso acceso.
«Sono d'accordo. Sa, è una questione che mi preme molto affrontare,» dichiarò Tony, leggero, sottilmente compiaciuto nell'essere riuscito a dirottare l'argomento del processo.
Stava cominciando ad abbassare di nuovo la guardia e Kyle gli fece un cenno imperioso: doveva mantenere la calma, ancora per un po'.
«Allora ci dica quel che è successo, visto che è così impaziente,» lo incalzò Knight.
«L'avrei fatto ore fa, se me ne aveste dato modo,» replicò pungente Tony.
Ricevette l'ennesima occhiataccia da parte del giudice, ma non vi badò e iniziò a raccontare tutto da quando Stane aveva dichiarato di aver fatto il doppiogioco. Descrisse l'aggressione subita, tralasciando il dettaglio del reattore estratto dal suo petto e sostituendolo con un suo "prototipo" custodito in cassaforte; omise il congegno che l'aveva paralizzato e descrisse di essere stato minacciato con una banale pistola; dichiarò di essere svenuto dopo che Stane l'aveva tramortito, e che dopo essere rinvenuto si era precipitato alle Industries per fermarlo.
Kyle annuì: tutto liscio, per una volta. Avevano preparato un piano d'emergenza nel caso la sua copertura fosse saltata e per ora Tony sembrava incline a seguirlo, anche se non aveva incluso il soccorso di Rhodes nella narrazione, dettaglio che comunque non incideva sui fatti principali. Pareva aver riacquistato un minimo di serietà, anche se l'avvocato sapeva che sarebbe stata solo momentanea.
«... l'ho raggiunto e poi ci siamo scontrati. Io ho avuto la meglio, ovviamente. Stane è precipitato nel reattore cacciandomi in questo macello e io mi sono risvegliato in un letto d'ospedale. È tutto,» alzò le spalle in conclusione.
Knight si aprì in un sogghigno infido a quelle parole, e Kyle già sapeva dove avrebbe puntato: Tony aveva saltato a piè pari la descrizione dello scontro. Quel procuratore era un pignolo e un perfezionista: avrebbe voluto i dettagli e l'esatto sviluppo del combattimento per perorare le sue accuse di omicidio volontario.
«Non proprio tutto, signor Stark; a mio avviso mancano le dinamiche che l'hanno portata su quel letto d'ospedale.»
«Credo che lei abbia qualche problema d'attenzione, signor Knight, ma mi limiterò a ripetere quel che ho appena dichiarato: ho usato l'arma Iron Man solo per contrastare e difendermi da Stane, non perché mi avesse rubato l’arma... o meglio, anche per quello. Insomma, lui voleva venderla a una cellula terrorista, non mi sento affatto in colpa per aver scongiurato una potenziale catastrofe!» Tony impose alla sua voce più veemenza di quanto avesse mai fatto dall’inizio del processo.
«Quindi noi dovremmo fidarci del fatto che lei, Anthony Edward Stark alias Iron Man, sia un supereroe da ringraziare per aver estirpato la compagnia dei Dieci Anelli e aiutato l'esercito a proteggere tutti, distruggendo Whiplash e interferendo in azioni militari di massima...»
«Esatto, un "grazie" non sarebbe di troppo! E le ho già detto com'è andato l'incidente dei Whiplash e può chiedere a Rhodey se davvero vuole–...»
Knight lo ignorò totalmente e sovrastò la sua voce:
«... segretezza e che il signor Stane, il quale lei afferma fosse in possesso delle sue armi e della sua tecnologia...»
«Devo davvero ripeterle tutto da capo?» sbottò Tony, agitandosi sulla sua sedia a rotelle e facendo un brusco gesto col braccio immobilizzato che per puro miracolo non si disarticolò dalla spalla.
«...delle quali, voglio ricordare, il governo era all’oscuro, sia morto in seguito a una disputa piuttosto accesa tra due congegni robotici all'avanguardia,» continuò Knight, irrefrenabile. «Inoltre lei non è esattamente nelle "condizioni" adatte per poter deporre una testimonianza attendibile, signor Stark.»
«Obiezione! Il signor Knight sta mettendo in dubbio la credibilità dell’imputato: questa è diffamazione!» intervenne Kyle, d'impeto.
«Respinta.» dichiarò stoicamente Stern.
Tony prese un lungo respiro profondo, facendo eco a Pepper: questa volta doveva davvero dare fondo a tutto il suo carisma e alla sua abilità di convinzione. Riottenere credibilità dopo aver ammesso di aver testimoniato il falso non rientrava nel suo piano... se mai ne aveva avuto uno.
«"Condizioni" adatte? Cosa intende per... ah no, aspetti, voglio divertirmi io a indovinare: mi ritiene qualcosa come un pazzo criminale con manie di onnipotenza e furie omicide, non è vero? Credo che abbia sbagliato soggetto: quello è Stane. Certo, concordo sul fatto di essere un narcisista... e magari sì, ho un po' di manie di protagonismo del tutto giustificate, ma massacrare gente per divertimento non rientra nelle mie priorità. Quello lo fanno i "cattivi" mentre io me ne sto seduto qui a sentire voi che blaterate,» concluse seccamente.
Knight fece un gesto di falsa ammirazione che gli fece quasi saltare i nervi, e si sentì ancor più vicino al limite quando l'avvocato riprese a parlare:
«L'esempio che ci sta dando in quest'aula non è esattamente quel che riterrei "nella norma".»
«Sono assolutamente stabile, psicologicamente abile e intendo perfettamente, procuratore Knight. Se ora volesse chiudere questo penoso teatrino per decidere delle mie facoltà cognitive gliene sarei immensamente grato.»
Tony sfoggiò un sorrisino glaciale, che esprimeva chiaramente cosa avrebbe realmente voluto dirgli.
«Ma, Signor Stark, capisce che dopo la sua falsa deposizione non sarà più così facile crederle. Senza contare il fatto che lei continua a dichiarare di essere perfettamente sano di mente quando...»
«Obiezione: questa è diffamazione e lo ripeto per l'ennesima volta, signor giudice.»
«Accolta. Signor Knight, proceda più adagio e moderi i termini verso l’imputato.»
«Scusate, vostro Onore,» rispose Knight, sfuggente. «Volevo dire: i fatti dimostrano apertamente un certo squilibrio nella mente del nostro imputato; squilibrio che potrebbe essere stato dettato dalla sua lunga permanenza in Afghanistan e...»
«Signor Knight, sono perfettamente d'accordo sul fatto che il periodo di prigionia sia determinante nei successivi sviluppi della vita del signor Stark, ma la invito un'ultima volta ad attenersi ai fatti del 5 gennaio fino a discrezione della corte,» lo interruppe spazientito il giudice. «Un'ulteriore domanda non pertinente a questi avvenimenti le causerà un'ammonizione.»
Tony esultò tra sé nel vedere la faccia interdetta dell'avvocato.
Knight sembrò aver appena ingoiato qualcosa di molto amaro e molto bruciante, perché sforzò un sorrisetto non molto convincente prima di riprendere a parlare con una vena d'astio represso:
«E dunque, atteniamoci ai fatti. Quegli stessi fatti che lei sta cercando di evitare dall'inizio del processo, signor Stark, e cioè: cosa è accaduto esattamente su quel tetto?»
Tutti tacquero per qualche istante.
Tony si aggiustò la cravatta, fingendosi disinvolto mentre scavava negli abissi dei suoi ricordi per cavarne fuori qualcosa di credibile. I primi momenti dello scontro erano chiari... la faccenda diventava complessa dal congelamento dell'armatura di Stane in poi.
Era atterrato più o meno integro sul tetto... e poi?
Da lì iniziavano ricordi confusi e frammentari, ma poco importava. Doveva solo restare calmo: il suo pubblico era lì; doveva solo... intrattenerlo.
«Dunque... quando sono intervenuto per fermare Iron Monger, o Stane, che dir si voglia, quel folle stava per incenerire la qui presente signorina Potts.»
Gli occhi di tutti i presenti si spostarono su di lei, che maledisse tra sé Tony per averla messa in mezzo. Fortunatamente riprese subito a parlare per evitarle domande imbarazzanti:
«L'ho fermato appena in tempo, con un po' troppo impeto. Infatti siamo finiti a combattere in mezzo alla tangenziale...» ammise Tony, a disagio.
In quell'occasione aveva davvero rischiato di ferire o uccidere qualcuno. Per fortuna, da quanto ne sapeva, c'erano stati solo un paio di contusi lievi.
«... causando un'infinità di danni a cose, edifici e persone,» concluse Knight, pungente, «Abbiamo un elenco molto dettagliato di quanto le verranno a costare i risarcimenti, signor Stark. Trovo ironico che quella strada sia dedicata proprio a suo padre; immagino sarebbe lusingato nel vedere come l'ha ridotta.»
Tony sorvolò sull'osservazione e ribatté pungente:
«Se c'è una cosa della quale non mi sono mai preoccupato è la mia disponibilità economica. Ora, se ha finito di irritarmi, riprenderei la mia deposizione,» replicò con distacco.
Era troppo occupato a cercare di ricordare qualcosa per prestargli veramente ascolto o per raccogliere le sue provocazioni.
«Poi... poi. Ho cercato di ragionare con lui, cioè Stane, a parole ma... non ha funzionato. Gli ho detto di piantarla e arrendersi e mi ha risposto scaraventandomi contro un autobus, il che credo possa universalmente considerarsi come un "no". Quindi ho continuato con le maniere forti, anche perché lui non aveva nessuna intenzione di lasciarmi vivo e non si preoccupava dei "danni collaterali". Ho cercato di allontanarlo dalla città e di sfuggirgli, ma era riuscito anche lui a far sollevare quell'ammasso di metallo da terra. Anche se era terribilmente lento. E non molto areodinamico... una squallida imitazion,.» prese tempo, passando al setaccio gli avvenimenti di quella sera.
«Volavate sopra la città?» intervenne Knight.
«Sopra il terreno delle Stark Industries. In modo che quando fosse precipitato non avrebbe corso il rischio di ferire o uccidere nessuno, e mi sarei comunque premurato di deviarne la rotta in caso contrario. Soddisfatto? Grazie,» rispose seccato Tony, che s'innervosiva sempre più mano mano che iniziavano a sfuggirgli i dettagli. «La sua armatura non era progettata per resistere alle basse temperature, così è precipitato per un accumulo di ghiaccio sui propulsori...»
S'interruppe, frastornato.
«Il mio reattore... quello dell'armatura,» si corresse in fretta, «funzionava male e ho perso potenza. Credo di essermi schiantato. Ricordo solo una forte botta in testa, poi... non so.»
Emise uno sbuffo di frustrazione: ricordava suoni e sensazioni, ma non quello a cui corrispondevano.
Un forte schianto metallico e un colpo alla schiena: doveva essere stato l'atterraggio sul tetto. Ricordava la gamba che rifiutava di muoversi, poi un dolore lancinante al volto. Infine il nero totale. Trasalì e dominò l'impulso di portarsi la mano alla ferita quando il moncherino si contrasse di riflesso. Prese un respiro, scuotendo appena la testa. Knight gli aveva chiesto qualcosa, ma non aveva colto le sue parole.
«Cosa?»
«Come si è provocato quelle ferite?» scandì di nuovo l'avvocato.
«Vorrei ricordare a tutti i presenti la parziale amnesia del mio cliente,» intervenne Kyle, serafico.
«Dovrà pur ricordare qualcosa, anche solo un dettaglio.»
«Signor Knight, sembra provare gusto a importunare il mio cliente; la prego di...»
«Signor Andrews, l'avvocato non sta facendo altro che il proprio lavoro: porre domande. Terremo conto dell'amnesia del signor Stark, ma questo non lo esonera dal rispondere.» lo interruppe Stern, con più calma del solito.
Lo sguardo penetrante di Knight si fissò su Tony, che si mosse a disagio. Doveva dire qualcosa... qualunque cosa che...
«Ricordo solo un lampo blu. Un forte lampo blu,» ripetè, un po' assente. «E vetri dappertutto.»
scosse la testa, portandosi inconsapevolmente la mano alla benda.
Gli tintinnavano le orecchie e si sentiva ronzare la testa.
«Un'esplosione, forse. Credo ci fosse del sangue, ed ero sicuramente ferito, ma... non lo so,» sospirò infine, confuso, e riportò lo sguardo su Knight, per nulla impressionato da quella che probabilmente riteneva una simulazione per scampare al contro-interrogatorio. «Nient'altro: il mio successivo ricordo è il soffitto di un ospedale.»
«Non è neanche lontanamente soddisfacente, ma ce lo faremo bastare. In ogni caso il suo stato fisico attuale potrebbe illuminarci e chiarire le dinamiche di questo fantomatico scontro.»
Tony annuì rigidamente, imponendosi la calma. Era strano che Knight insistesse così tanto su quel particolare: dove voleva andare a parare?
Anche Kyle era inquieto: tutto ciò non gli piaceva affatto, ma non poteva obiettare perché in teoria dovevano essere in grado di documentare lo stato di salute di Tony... in pratica non potevano assolutamente farlo o almeno, non del tutto e in modo veritiero.
«Che cosa coprirebbe la benda, di preciso?» cominciò il suo esame Knight.
«Un occhio bionico che spara raggi laser, signor Knight,» rispose impassibile Tony, ma non potè evitare di farsi sfuggire un sorrisetto in direzione di Ian, che si limitò a scuotere appena la testa con un mezzo sorriso sotto i baffi.
Il messaggio era chiaro: non aveva ancora rinunciato a quella folle idea...
«Potrebbe fingere un po' di serietà?» lo rimbeccò il giudice, che sembrava aver ormai deciso di non perdonare più le stravaganze di Tony.
«Va bene, va bene, nasconde una chirurgia plastica: il mio bel viso è rimasto ferito da uno dei vetri prima citati e io non ho intenzione di andare in giro con uno sfregio da pirata per il resto della mia vita.»
"Come qualcuno di mia conoscenza..." aggiunse tra sé, non propriamente divertito al pensiero.
«Dottor Mitchell, potrebbe spiegarcelo in termini più specifici?» sospirò Stern.
Mitchell sobbalzò come se avesse preso la scossa, ma si ricompose in fretta:
«Il signor Stark ha subito un delicato intervento. La pelle allo stato attuale è estremamente fotosensibile e l’esposizione a qualsiasi fonte luminosa sarebbe dannosa,» spiegò conciso.
«Il braccio è rotto?»
«Spalla lussata,» replicò Tony, muovendola debolmente senza aver bisogno di simulare la smorfia di dolore.
«E la gamba? Che fine ha fatto?» continuò Knight serratamente, convinto che prima o poi qualcosa avrebbe ottenuto.
La sua pessima scelta di parole accentuò il nervosismo di Tony:
«Me la sono rotta, avvocato. Pensavo l'avesse notato. Sa, non è proprio una cosa che passa inosservata,» asserì acidamente, desiderando che fosse realmente così.
«La caduta sul tetto ha provocato la lesione dei crociati e dei menischi; inoltre ha la tibia fratturata in vari punti, mentre il perone...» Ian stava completamente improvvisando, ma Knight lo interruppe bruscamente:
«Dove sono riportati questi dettagli nella cartella medica? Non riesco a trovarli.»
«Non c'è stato tempo e modo di verbalizzarli,» tentò d'istinto Mitchell, guadagnandosi un'occhiata di rimprovero da Kyle, che aveva invece preparato una scusa credibile su un ritardo burocratico dell'ospedale.
«Beh, non ho di certo un bell’aspetto, devo ammetterlo... direi che la giuria può convenire con il dottor Mitchell riguardo alla mia precaria salute fisica,» intervenne Tony cercando di salvare la situazione, per una volta al momento giusto.
«L'assenza di referti medici è una grave mancanza, avvocato Andrews. In questo caso le prove sono lampanti agli occhi di tutti, ma s'impegni a presentare tutta la documentazione necessaria,» lo rimproverò il giudice, fissandolo severamente.
Kyle si mosse a disagio, ma annuì scusandosi per il ritardo; le cose non si mettevano bene... se avessero deciso di constatare tramite un medico legale le condizioni di Tony sarebbe stata la fine.
«Ah, e potrebbe spiegarci il perché dei guanti? Pare che il dottor Mitchell abbia dimenticato di verbalizzare anche questo...»
Tony guardò istintivamente Ian, allarmato.

Reggimi il gioco.”
«Mi sono ustionato in seguito all’esplosione del reattore. Davvero, non so quanto potreste essere felici di vedere le mie mani in questo momento,» disse, cercando di risultare convincente e allo stesso tempo restio a togliersi i guanti, senza sembrare spaventato.
Non era affatto facile.
«Se era vicino al reattore al momento dell'esplosione, mi spiega perché non ha ustioni e bruciature anche sul resto del corpo?» lo stuzzicò Knight, intuendo di aver imboccato finalmente la strada giusta.
«Pretenderebbe che allestisca uno strip-tease qui in tribunale per "mostrare il mio corpo bruciacchiato"?» tentò di sdrammatizzare Tony, sentendosi sprofondare.
«Mi riferivo al suo viso. A parte l'occhio, è integro e privo di ustioni.»
«Le ricordo che la Mark III dispone di un elmo, rivestito di oro e titanio e resistente ad altissime temperature.»
«Quindi in teoria anche le mani erano protette.» gli fece notare Knight, illuminandosi.
«Mi sono scottato le mani perché le onde del reattore hanno interferito con quelle del mini-reattore causando un surriscaldamento dei propulsori anteriori,» inventò sul momento, rifacendosi alla terribile esperienza del suo interveto chirurgico e dell'interferenza fra due reattori.
«Perché non l'ha detto subito?»
«Obiezione: non l'ha chiesto in modo esplicito. L'imputato ha indicato la fonte principale dei suoi danni fisici, per cui ha tecnicamente risposto alla sua precedente domanda,» intervenne Kyle, convinto.
«Respinta.» dichiarò invece il giudice.
Ci fu un momento di gelido silenzio in cui Tony si trovò a desiderare di poter svanire dal banco dei testimoni in uno sbuffo di fumo.
«Signor Stark, ho la netta impressione che si stia arrampicando sugli specchi aggiungendo sempre nuovi dettagli alla sua deposizione per svicolare alle mie domande, che in realtà ritengo piuttosto innocue... il che rende il tutto ancora più sospetto,» continuò perfido Knight. «E la sua precedente falsa testimonianza non l'aiuta affatto. Dice di essersi scontrato con Stane, ma non è in grado di spiegarci nel dettaglio com'è morto, né come si è provocato tutte queste lesioni, ma è in grado di ricordare interferenze tra reattori e i danni subiti dalla sua armatura senza problemi. Non è ben chiaro il motivo del sovraccarico del reattore stesso, visto che mi sembra improbabile un malfunzionamento nell'istante in cui eravate sul tetto. E per finire, non è in grado di dimostrare di essere stato nel pieno possesso delle sue facoltà mentali mentre si scontrava col suo collega,» terminò con soddisfazione.
Tony si sentì improvvisamente la bocca secca. La situazione peggiorava di minuto in minuto...
Pepper gli aveva detto che era stata lei a sovraccaricare il reattore, su suo ordine, ma non poteva dirlo... non poteva assolutamente dirlo. L'avrebbe coinvolta a sua volta nel processo e lui non aveva intenzione di ripagare così tutto il tempo e la pazienza che gli aveva dedicato in vita sua. Le intimò con lo sguardo di tacere, avendo colto un movimento sospetto da parte sua.
«Vuole aggiungere ancora qualcosa?»
Tony prese un profondo respiro, sforzandosi di apparire fiducioso, e si poggiò con fare spavaldo al banco dei testimoni sporgendosi appena verso il procuratore.
«In realtà avrei qualcosa da aggiungere,» esordì serio, alzando appena il braccio immobilizzato, del tutto dimentico del tutore.
«Lei,» puntò pericolosamente l'indice destro in direzione di Knight, «mi sta mettendo in difficoltà, lo ammetto. Ma se continua a...»
Nessuno, neanche lui, seppe mai come avrebbe voluto finire la frase, perché fu troncata da un secco clangore metallico che riecheggiò nell'aula.
Il tribunale divenne improvvisamente più muto di una tomba. Tony fissava ancora Knight, ma gli occhi di questo erano puntati altrove, allibiti.
Precisamente per terra, ai piedi del banco dei testimoni.
Tony prese un respiro profondo e guardò il polso destro ancora sollevato, provando un tuffo al cuore.
"Oh, cazzo."
Si puntellò sul banco col braccio sano e si sporse per vedere il pavimento, dove giaceva inerte la mano della protesi, sfrigolando appena e animata da un residuo di energia.
Nessuno sembrava avere il coraggio di parlare.
Erano tutti pietrificati; persino i giornalisti erano ammutoliti.
"Parla, Tony. Avanti, di' qualcosa. Qualunque cosa, anche la più stupida!"
«Qualcuno mi dà una mano?»




______________________________________________________________________________________________________________________________________

Revisione effettuata il 21/02/2018


Note Delle Autrici:

Ed ecco un capitolo lungo il triplo dei precedenti... Ops, c'è scappata la mano!
E ora Tony è ancora più nei casini... ma se la caverà, in un modo o nell'altro. C'è ancora tanto tempo... :3
Ringraziamo Rogue92 e alliearthur, che continuano a seguirci e a recensire :D Vi amiamo <3
Alla prossima!

Moon&Light



 



© Marvel

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Capitolo 12
*** Sinking ***




11

Sinking




"Tension is building inside steadily
Heavy thoughts forcing their way out of me
Trying not to break but I'm so tired of this deceit
Every time I try to make myself get back upon my feet"

[From The Inside – Linkin Park]


4 Marzo, 23:30, Villa Stark
La voce di Pepper squillava penetrante nelle sue orecchie, accentuando il suo forte mal di testa. Ci fu una pausa nella sfilza serrata di parole che gli bombardavano il cervello e per un momento pensò che avesse finito e che potesse finalmente godere di un attimo di silenzio. Poi la donna riprese, con più foga di prima ma a un volume paradossalmente pacato:
«Lei non capisce il problema.»
«Non capisco? Con che coraggio afferma che non capisco?»
ribatté lui, decidendosi finalmente a risponderle.
«Tony, si rende conto che non ha seguito
una virgola di quanto avevamo stabilito e ha fatto di testa sua? Come sempre.»
La sua accusa cadde nel vuoto. Lui sprofondò nuovamente nel suo silenzio burrascoso e lei fece altrettanto, camminandogli accanto a passi nervosi mentre lui zoppicava lentamente sul patio antistante l'ingresso. Il ticchettio dei suoi tacchi era quasi tonante nel silenzio del giardino e dava un'idea di quanto fosse irata la donna che li indossava. Era sicuro che la sua testa si gonfiasse sempre più ad ogni passo che raggiungeva i suoi timpani; anche i moncherini non gli davano tregua. Maledisse il momento in cui aveva rifiutato la sedia a rotelle appena sceso dalla macchina, ma piuttosto che chiederla adesso si sarebbe fatto amputare anche l'altra gamba.
Si poggiò un po' sulle stampelle, un po' sul gesso che iniziava a cedere, e premette il pollice sinistro sul touch-screen dell'ingresso per aprire la porta. Accolse lo scatto della serratura con sollievo, impaziente di rientrare finalmente a casa. Entrò nell'atrio inspirando l'aria conosciuta, così accogliente dopo quella stantia del tribunale. Pepper fremeva subito dietro di lui, ed era sicuro che stesse facendo del suo meglio per mantenere un contegno. Ora che ci pensava, trovava irritante che lei riuscisse a rimanere così calma. Non sentiva il bisogno di prendersela con qualcuno? Con lui, per l'esattezza.
Poteva farlo, quindi perché diavolo aveva smesso di rimproverarlo? Almeno lei aveva qualcuno con cui prendersela... lui chi aveva?
Se stesso? Stane?
"Quel maledetto bastardo..."
Chiuse la porta sbattendola e Pepper sobbalzò.
«Dovete piantarla di decidere al posto mio,»
sillabò poi sforzandosi di non alzare la voce, anche se la sentiva sul punto di impennarsi ad ogni parola.
«Siamo tutti preoccupati per lei e stiamo cercando di aiutarla, lo vuole capire?»

Tony voltò un poco la testa, rivolgendole il suo lato cieco per non farle notare che aveva chiuso l'occhio, disorientato da un'inaspettata ondata di dolore che gli aveva attraversato i moncherini e scosso la spina dorsale.
«E mi ascolti quando parlo!»
a questo punto fu Pepper a superare la soglia di decibel che le sue orecchie potevano ancora sopportare.
«Mi sembra difficile non ascoltarla, dato che sta urlando!»
esplose, girandosi di scatto verso di lei e ritrovandosi a gridare a sua volta.
Lei si fermò allibita: non l'aveva mai sentito alzare la voce, tantomeno con lei.
Dopo qualche secondo di silenzio li accolse la voce compassata di JARVIS:
«Signore, ci sono...»
«Muto!»
ringhiò Tony, già abbastanza infastidito dalla ramanzina di Pepper.
«È andato tutto...»
ricominciò lei, affranta, stavolta faticando a mantenere la calma.
«... a puttane? Ha perfettamente ragione, da cosa l'avrà mai dedotto, Potts?»
«Non ne parli come se fosse colpa mia!»
s'infiammò lei. «È stato lei a voler per forza andare al processo con la protesi incompleta! Sapeva che qualcosa poteva andare storto e ha comunque...»
«Le dico io cos'è andato storto: quel dannato procuratore è andato storto; lui e il Senatore! Mi hanno fatto infuriare, se proprio lo vuole sapere! Avrebbero potuto...»
«Non ha neanche lontanamente pensato che il loro scopo fosse proprio quello di istigarla?»
lo interruppe Pepper, gli occhi ridotti a due fessure.
Tony la fissò con improvvisa consapevolezza, ma non avrebbe mai, mai ammesso di aver sbagliato...
«L'accusa punta sul fatto della sua presunta instabilità, e lei gliene ha dato una prova lampante!»
«Ah, quindi adesso sarei
instabile
«Non rigiri come vuole quel che dico! Non è instabile, ma è apparso come tale!»
sbottò esasperata Pepper.
Tony voltò di nuovo la testa, inspirando piano e scosso da una nuova fitta. Prima che Pepper potesse accorgersene tornò alla carica, sentendo le parole che uscivano come bile dalla sua bocca:
«Se davvero pensate che non sia instabile, perché mi avete nascosto quel video?»

Vide Pepper trasalire nella penombra del salotto.
«Abbiamo pensato di evitarle...»

«Cosa? Altro stress?»
completò lui, ironico, accennando a se stesso con fare eloquente. «Mi avete mentito,» stabilì infine, tagliente.
«Sta esagerando, non mi sembra un questione così...»

«Potts, maledizione!
Davvero non capisce?» proruppe Tony, di nuovo ad alta voce e sentendosi caldo in viso.
Pepper ammutolì, sorpresa dall'improvvisa, pura rabbia che trasudava la sua voce.
«Stane mi ha mentito e
tradito! Mi ha ingannato per venti cazzo di anni con un sorriso sulla faccia e poi mi ha venduto ai miei carnefici!» gridò con quanto fiato aveva in gola. «E io mi sono fidato di lui!» riprese fiato, sentendosi bruciare non solo in viso, ma dentro, nel profondo, in un punto indefinito accanto al reattore.
Pepper lo fissava allibita, forse anche offesa da quelle sue affermazioni, ma non gli importava. Era stanco di essere manipolato e tenuto all'oscuro di tutto ciò che non fosse ritenuto "su misura" per lui.
«Noi non faremmo mai nulla del genere,»
replicò in tono piatto, quasi distaccato.
«Come faccio ad esserne sicuro? Oggi è un video, domani cosa sarà?»

«Lei è ridicolo! Come può anche solo pensare che
io possa tradirla?» Pepper alzò di nuovo la voce e Tony volle pensare che i suoi occhi lucidi fossero solo un riflesso della luce fioca.
«Se lo penso evidentemente ho i miei motivi!»

«Allora continui a pensarlo! Mi sembra un ottimo momento per diventare paranoico!»
la voce di Pepper virò sullo stridulo.
Si interruppe, quasi affannata. Si chiese quando fosse stata l'ultima volta che avevano litigato a quel modo.
Mai, ora che ci pensava; non l'aveva mai visto perdere il controllo. E mai,
mai avrebbe pensato di sentirgli dire che non si fidava di lei. Era come ricevere una stoccata al cuore.
Erano ancora nell'atrio, fronteggiandosi furiosi, e stavano gridando decisamente troppo. Era una fortuna che la villa fosse così isolata dal mondo.
Lui scosse la testa e fece per dire qualcos'altro per contrastare la sua ultima affermazione, ma si bloccò con un verso esasperato. Si diresse invece in cucina, dove prese con non poca difficoltà una lattina di birra dal frigo, facendo del suo meglio per non cadere. Pepper lo fissò ancor più furente:
«Bere non...»
«... risolverà nulla, lo so! La pianti, Potts, sono due mesi che bevo solo acqua e clorofilla. Non voglio diventare Howard II: mi bastano i miei problemi, se non se ne fosse accorta,»
la interruppe pungente.
Bevve con sollievo un sorso dell'alcolico.
«È anche colpa di Kyle,»
disse dopo una pausa, liberando anche quell'ultimo bolo di risentimento.
Pepper era convinta di non poterlo sopportare un secondo di più.
«Di Kyle? Perché secondo lei non è stato all'altezza, ovviamente.»

«No, perché l'ha appoggiata nella sua decisione di trattarmi come un bambino,»
ribatté lui con stizza.
«Forse perché ha bisogno di essere trattato così. Ha tentato per tutto il processo di salvare il salvabile a causa sua, nel caso non se ne fosse accorto,»
lo rimbeccò lei, gelida. «Giocare a scaricabarile non aiuterà nessuno, quindi per una volta in vita sua ammetta semplicemente di aver sbagliato.»
«L'ho già fatto "una volta"! Ho ammesso di aver ucciso migliaia di persone per denaro e mi sembra di aver cercato di rimediare! Non mi pare invece che questo fatto sia stato gradito dal resto del mondo, visto come sono ridotto!»
si costrinse a bere un altro sorso per mascherare la vena di disperazione che si era intromessa nella sua voce. «Questa è un'altra faccenda: io ho ragione e loro stanno cercando di mettermi dalla parte del torto. E probabilmente ora tenteranno anche di sequestrarmi la protesi...»
«Non è una faccenda ridotta al suo piccolo: se le Stark Industries dovessero mai cambiare proprieterio interesserà tutti, perché è ovvio che ricominceranno a produrre armi per l'esercito! Ma immagino che non ci avesse pensato.»
Tony incassò il colpo, dirigendosi zoppicando in salotto, con la lattina tenuta precariamente con la sinistra mentre manovrava le stampelle.
«Almeno la smetta di assillarmi con la faccenda di Iron Man. Era più che ovvio che fossi io e negarlo avrebbe solo peggiorato la situazione. E poi a loro interessa solo la tecnologia dell'armatura, non Iron Man in sé. A chi importa di Iron Man?»
«A noi, per esempio,»
rispose una voce profonda dal buio del salotto.
Tony e Pepper si immobilizzarono, come pietrificati. D'istinto lui impugnò un po' più saldamente una stampella, come se potesse usarla come arma. La TV a parete era accesa, ora che lo notava, e trasmetteva in silenzioso una replica del suo processo in differita; una sagoma scura si stagliava nel flebile cono di luce che proiettava. Gli sembrava di conoscere quella voce.
«Chi c'è?»
intimò, sul chivalà.
«Non si preoccupi, Stark. Solo vecchi amici,»
emerse un'altra voce, più compassata della prima e decisamente familiare.
La sagoma si mosse.
«Luce,»
borbottò Tony.
Non era assolutamente preparato a quello che vide: il suo salotto sembrava diventato il quartier generale dei Vendicatori.
Thor era beatamente abbandonato sulla sua poltrona e sorseggiava tranquillo una bottiglia di whiskey stravecchio, avvolto come sempre nelle sue vesti asgardiane, con Mjolnir che pendeva dalla cintura. Steve sedeva più composto su un'estremità del divano semicircolare che occupava il centro della stanza; era in abiti civili e si guardava intorno con fare nervoso, come se si sentisse disarmato senza il suo scudo. Bruce aveva occupato l'altra estremità del divano e sembrava intento ad esaminare un componente delle protesi rimasto abbandonato sul tavolo. Hawkeye se ne stava in disparte vicino alla vetrata, in tenuta da combattimento; a giudicare dal volto tirato ed escoriato sembrava appena rientrato da una missione. Fury era in piedi accanto alla tv, vicino a Coulson semicelato nell'ombra. Mancava solo Nataša.
Tony ci mise un po' a riprendersi dallo stupore e stentò a fatica un saluto malfermo. Scambiò un'occhiata con Pepper e lesse sul suo volto lo stesso sconcerto. Si frappose tra lei e i suoi ospiti inattesi in un gesto istintivamente protettivo: era la prima volta che si trovava faccia a faccia coi suoi "colleghi" e il fatto che potesse essere suo malgrado coinvolta in prima persona nelle loro questioni tutt'altro che ordinarie lo impensieriva.
«Ottima performance, i miei complimenti,»
commentò Fury, indicando col pollice lo schermo dietro di sé, dove si vedeva Tony che rispondeva con un'espressione stizzita a una qualche domanda di Knight.
«JARVIS, ti si sono fusi i sistemi di sicurezza? Perché diavolo sono riusciti a entrare?»
articolò invece Tony, di nuovo in sé e decisamente seccato dall'intrusione.
Cercava di ignorare lo schermo, mentre Pepper lo guardava storto.
«Il dottor Banner ha minacciato di radere al suolo la casa se non li avessi fatti entrare,»
rispose l'intelligenza artificiale, con logica inattaccabile, e Bruce approntò un sorrisetto di scuse.
Tony ondeggiò appena nella posizione di precario equilibrio in cui si trovava. Aveva la terribile consapevolezza di quanto fossero evidenti la mano mancante, il gesso della gamba, la benda che gli copriva il volto...
Non poté evitare che una vampata di bollente disagio gli salisse alle guance.
«Capisco... posso sapere cosa ci fate qui?»
chiese in tono tutt'altro che conciliante.
«Mi sembrava chiaro, Stark,»
intervenne Coulson, arcuando le sopracciglia e accennando col capo alla TV.
«Va bene, va bene, ho capito: altra predica in arrivo. Ma... vi siete presentati qui senza preavviso, e questo mi irrita. Perciò aspetterete finchè non sbrigherò le mie faccende,»
chiarì subito, lasciando trapelare tutto il suo fastidio.
Steve fece una smorfia a quell'annuncio, ma non commentò, assumendo un'aria di superiorità che esprimeva fastidio per tutto ciò che lo circondava, incluso il suo proprietario.
«Dove va?»
chiese Tony subito dopo, rivolto a Pepper che stava per allontanarsi dal salotto.
«Lei si scusa con loro,»
accennò ai Vendicatori, «e io mi scuso con Kyle, visto il modo vergognoso in cui l'ha trattato,» concluse tagliente, mostrando il cellulare.
Tony intuì subito a cosa si riferisse, ma non rispose.
«E cerco un modo per placare il caos in cui verseranno le Stark Industries in questo momento. Sempre che le interessi, ovviamente,»
aggiunse.
Pepper si dileguò nell'altra stanza, lasciando dietro di sé un'aura di tensione. Tony sapeva di avere gli occhi di tutti puntati addosso, e questo per una volta non gli piaceva affatto.
«Fantastico. Davvero fantastico,» borbottò tra sé, spostando le stampelle per equilibrarsi meglio senza farsi cadere la birra di mano.
Almeno la gamba ingessata gli garantiva un po' più di stabilità. Doveva assolutamente riparare la mano della protesi, anche perché i Vendicatori fissavano con malcelato interesse la manica vuota della giacca.
«Ehi, tranquilli. Non sto per cadere a pezzi di nuovo,»
li rassicurò, tentando di rompere la tensione.
Tentativo vano.
«Seriamente: mi sta andando in cancrena il braccio sano, quindi qualcuno mi faccia posto...
adesso disse allora con un tono più autoritario, fissando con eloquenza Thor che occupava la sua poltrona.
Dopotutto era in casa propria.
Lui capì l'antifona e saltò in piedi, mollando il whiskey. Tony si sedette di peso con immenso sollievo e una vaga soddisfazione per aver appena fatto alzare il didietro di un semidio e principe asgardiano con tanta celerità. Non trattenne un sospiro liberatorio quando la pressione del gesso finalmente sparì dal moncherino inferiore: poteva anche essere comodo per spostarsi, ma era decisamente pesante e gli irritava la piaga, senza contare che aveva anche tre o quattro chili di protesi al braccio. Avrebbe davvero dovuto alleggerirla...
Poggiò la lattina sul portabevande della poltrona e spostò la sua attenzione alla sua gamba, o il poco che ne era rimasto. Controllò la fasciatura nel modo più discreto possibile, trovandola pulita e asciutta. Almeno quell'incombenza poteva aspettare. Lasciò ricadere il bordo del pantalone arrotolato a coprirla, consapevole degli sguardi che cercavano di dissimulare il loro interesse.
«Mentre discuteremo amabilmente, io cercherò di riparare questo rottame... ma vi presterò tutta l'attenzione necessaria,
» annunciò ironico, cavando dalla tasca della giacca la mano metallica inerte.
Udì distintamente il sospiro di Fury e un commento che non comprese da parte di Hawkeye, ma nessuno si arrischiò a interrompere i suoi traffici.
«Bruce? Ti dispiace? Quello è importante,»
lo richiamò allarmato, indicando il componente meccanico con cui aveva continuato a giocherellare distratto; lui si affrettò a riporlo sul tavolo.
Tony afferrò a colpo sicuro un cacciavite sepolto tra i cuscini della poltrona e iniziò ad armeggiare con la protesi, insensibile al silenzio imbarazzante che era calato nella stanza.
«Signore, l'effetto dei suoi antidolorifici sta...»
iniziò a gracchiare JARVIS, come sempre al momento meno opportuno.
Era
veramente arrivato il momento di installare un chip avanzato di buonsenso a quel supercomputer.
«Muto. Prova a spacciarmeli ancora nel caffè e ti disabilito la facoltà decisionale,»
lo troncò seccamente Tony, ancora infastidito da quel fatto.
Anche se forse, in quel momento, qualche pasticca non gli avrebbe fatto male... anzi. Si costrinse a ignorare il bruciore ai moncherini. Riuscì finalmente a riagganciare la mano alla struttura portante in modo molto rudimentale: se muoveva l'indice rispondeva il pollice, l'anulare corrispondeva al medio e così via, ma abituandosi a questo schema riusciva a controllarla abbastanza bene, anche se non a ruotare del tutto il polso, e i movimenti erano comunque abbastanza deboli e goffi. Sarebbe bastato, per quella sera.
«Allora? Avete intenzione di abusare della mia limitata pazienza ancora per molto?»
sbottò infine, stringendo il pugno e sciogliendosi l'articolazione meccanica con un cigolio sotto gli sguardi evidentemente colpiti degli altri.
«Tony Stark, non siamo venuti fin qui solo per rimproverarti; molti sono qui anche per accertarsi delle tue condizioni di salute,»
esordì Thor, con voce profonda e il suo solito fare un po' all'antica.
«Posso immaginare chi non sia incluso nei "molti",»
concluse Tony scoccando un'occhiata astiosa a Steve, che si accigliò senza però contraddirlo.
«Non ci aspettavamo questo. Nessuno di noi poteva immaginarlo. Fino a questa sera ne eravamo all'oscuro.»
 
Thor accennò alla protesi e al processo che continuava a scorrere sulla parete-TV. Guardò di sfuggita anche Fury, con una nota di risentimento, e fu chiaro di chi fosse stata la decisione di tenerli all'oscuro.
«Non sono l'unico a cui viene riservato un trattamento speciale per le informazioni, allora... che sollievo. Il vostro stupore è perfettamente comprensibile: non è una cosa che si vede tutti i giorni, immagino... cielo, avevo davvero quella faccia quando mi è caduta la mano?»
commentò poi, vedendosi sullo schermo con il braccio teso e la mano a terra, un'espressione allibita sul viso.
I successivi fotogrammi mostravano l'aula in uno stato di agitazione totale.
«Già, davvero. Pessimo modo per salvare la situazione, per inciso,»
intervenne Fury, fremendo.
Non l'aveva mai visto così irato; sembrava trattenersi a stento dall'ordinare che lo facessero fuori, ma Tony sperò che fosse solo una sua impressione. Bevve un altro sorso di birra come a scongiurare il pericolo e riportò lo sguardo allo schermo: vide se stesso che usciva dal tribunale attorniato dai giornalisti, incapacitato ad evitarli per via della sedia a rotelle, e notò la propria espressione a metà tra la furia e il panico. Non osò immaginare i commenti che potevano aver fatto su di lui, viste le cose irripetibili che si era lasciato sfuggire in preda alla rabbia...
«Ok, basta con questo teatrino.
Off ordinò, non potendosi sopportare un momento di più, e la TV si spense all'istante con un sibilo.
Avrebbe voluto spegnere anche i suoi inattesi ospiti, se solo avesse potuto.
«Per farla breve, caro "Iron Man", la ramanzina della signorina Potts non è ancora finita,»
annunciò Coulson, che non aveva perso la sua sottile vena di giovialità.
«Oh. Avete sentito...»
commentò Tony, adesso decisamente imbarazzato. «Beh, eravamo tutti e due piuttosto nervosi, ecco, ma le cose sono perfettamente sotto controllo,» svagò, liquidando la questione con nonchalance, di sicuro molta più di quanta ne provava in merito al fatto.
Fury continuava a squadrarlo da capo a piedi col suo unico occhio, e per una volta Tony fu in grado di sostenere il suo sguardo: stavolta sapeva dove guardare. Era terribilmente fastidioso essere fissati nell'occhio cieco. In quel momento rientrò proprio Pepper, scura in volto.
«Detesto interrompervi, ma...»
«Non ha ancora interrotto nulla, Pepper, parli pure liberamente,»
la anticipò Tony, vedendola come una provvidenziale ancora di salvezza per ritardare quell'imbarazzante discussione.
Fury fece un rassegnato cenno d'assenso, invitandola a continuare. Pepper sembrava decisamente a disagio, ma parlò con voce ferma:
«Kyle ha espressamente detto che, se farà un'altra “performance” del genere, abbandonerà il caso senza rimpianti. E pretenderà comunque il suo compenso,»
annunciò, mortalmente seria.
Tony sospirò, tamburellò distratto sul reattore sotto la camicia e infine annuì appena.
«Mi sembra onesto,»
concesse, senza troppo entusiasmo.
«E domani dovrò prendere parte a una riunione gestionale straordinaria alle Stark Industries al posto suo. Mi serve la sua delega.»

«Firmo tutto ciò che vuole, a patto che impedisca a quegli squali del consiglio d'amministrazione di firmare ordinanze restrittive,» borbottò lui, massaggiandosi la fronte esasperato.
«Farò il possibile,
» replicò lei, in un tono che sottintendeva che non vi fosse comunque molto da fare. «È tutto. Io non mi sento in alcun modo “super”, quindi credo che...» iniziò, facendo per andarsene, ma fu interrotta da Tony:
«No, rimanga, la prego. Abbiamo bisogno di qualche quota rosa, visto che manca Nataša,»
disse in tono falsamente brioso e appellandosi alla prima motivazione che gli venne in mente.
Si sentiva visibilmente circondato e sotto attacco e una spalla amica gli avrebbe fatto comodo, nonostante il diverbio di poco prima.
Al pensierò si ritrovò ad accigliarsi, sentendosi anche profondamente in colpa nel coinvolgerla nelle proprie faccende "super" andando contro ai suoi iniziali buoni propositi. Pepper ebbe la netta impressione che il suo gesto fosse volto anche a irritare Fury, e fissò quasi implorante quest'ultimo.
«Va bene. Rimanga, Potts,»
concesse lui, distruggendo le sue speranze di defilarsi all'istante.
Si sedette accanto a Bruce, dal lato di Tony ancora sprofondato nella poltrona, sentendosi terribilmente osservata.
«Non mi guardi così; non divento così facilmente un mostro verde rabbioso,»
la tranquillizzò subito Bruce con ironia, e lei annuì con una punta di nervosismo.
Lanciò una breve occhiata a Phil, cercando un minimo di supporto morale, e l'agente Coulson ricambiò il suo sguardo con un sorriso flemmatico ma rassicurante.
Ci fu un momento di silenzio, durante il quale i Vendicatori si guardarono l'un l'altro, aspettando che Fury cominciasse a parlare. Lui sembrò volersi assicurare che non ci sarebbero state ulteriori interruzioni, poi cominciò:
«Ottimo. Se abbiamo finito con i convenevoli, arriverò dritto al punto,
» esordì stentoreo, facendosi avanti fino a portarsi esattamente davanti a Tony. «Stark, devi piantarla di agire di testa tua. Non è la prima volta che lo fai e questo tuo atteggiamento mi ha sempre molto irritato. E sai che non è il caso farmi irritare. Ti avevo già avvertito riguardo alla faccenda dell'identità segreta: doveva rimanere tale. E naturalmente tu hai ignorato di nuovo i miei ordini.»
Tony ebbe la netta sensazione di star ascoltando una delle filippiche di suo padre riguardo al suo scarso senso di responsabilità, ai suoi mille difetti, al suo caratteraccio, al suo essere irrecuperabile...
bla bla bla. Scollegò il cervello per i successivi minuti della predica e poi, approfittando di una pausa nel discorso, intervenne con decisione:
«Voi non vi siete esattamente prodigati per "tutelarmi", se è per questo. L'ho già ripetuto mille volte alla qui presente signorina Potts: era lampante che io fossi Iron Man... insomma, mi hanno ritrovato con l'armatura addosso, qualcuno prima o poi avrebbe parlato!»
Fury scambiò uno sguardo perplesso con Coulson.
«Il Colonnello Rhodes non vi ha informati?»
chiese quest'ultimo.
«Di cosa?» lo incalzò Tony, sorpreso.
«Ho affidato a Rhodes il compito di coordinare e coprire l'intervento di un'unita medica della SHIELD di assoluta fiducia. È stato portato in ospedale solo dopo che le avevano rimosso l'armatura e anche lì è rimasto in isolamento, sorvegliato dai nostri agenti... paparazzi a parte,»
aggiunse con stizza e con uno sguardo grato a Pepper, che era riuscita a tenerli a bada egregiamente. «La notizia non era trapelata,» concluse con fermezza.
Tony lo fissò spiazzato: Rhodey non gli aveva detto nulla del genere!
«Ma io non ne so assolutamente...»
"A meno che..."
Non completò la frase, folgorato da un ricordo improvviso che aveva completamente rimosso: lui che cacciava di casa l'amico dopo che l'aveva interrotto mentre lavorava. Rhodey non aveva visto le protesi e non sapeva nulla della sua situazione. Aveva semplicemente pensato che non volesse il suo aiuto, ed evidentemente non aveva ritenuto opportuno informare Pepper al riguardo.
"Dannazione."
Pepper era arrivata alla stessa conclusione e sembrava, se possibile, ancor più furente di poco prima.
«Io credo che... abbia
provato ad avvertirmi, ma mi ha sorpreso in un momento particolarmente delicato e, insomma...» si sforzò di dire, sentendosi per una volta un vero idiota.
La sua profonda autostima sprofondò di qualche tacca. Come se non bastasse, sentiva che Pepper stava riuscendo nell'intento di incenerirlo con lo sguardo, là dove Fury aveva fallito.
«Non gli hai dato retta: l'avevamo intuito,»
commentò Rogers pungente, rompendo il suo mutismo.
«Ehi, mi ha mandato in fumo mezzo chilo di unobtanium: immagina qualcuno che butta in una caldaia mazzette delle tue banconote, e avrai un'idea della scena,»
sbottò lui, piccato dal suo tono di condiscendenza. «E tutto ciò non sarebbe successo se le vostre direttive fossero state più chiare!» aggiunse.
«"Massima riservatezza", Stark, cosa c'è da capire?»
lo rimbeccò Steve, che sembrava essersi rianimato solo per infastidirlo.
«Vi prego, non ricominciate,»
borbottò Bruce, esasperato dall'ennesimo battibecco tra i due.
Hawkeye mormorò un commento simile alzando gli occhi al cielo, poi alzò la voce:
«Potremmo arrivare al punto?»
«Giusto, Legolas! "Potremmo arrivare al punto?" Sono ore che cerco di capire qual è il punto!»
esplose Tony, che si sentiva crollare di stanchezza e percepiva ogni goccia di stress che si accumulava pericolosamente.
Non era un tipo paziente e quella faccenda l'aveva esaurito nel profondo: ogni stilla di tolleranza rimasta in lui era evaporata non appena aveva sentito la voce di Rogers. Aveva voglia di spaccare qualcosa per la frustrazione. Possibilmente la propria testa, così forse avrebbe smesso di pulsargli dolorosamente. O magari quella di Cap. La birra non stava migliorando la situazione.
«Ho molte, troppe faccende da sbrigare, quindi condensate tutto ciò che avete ancora da dirmi in mezzo minuto, prima che vi sbatta fuori di qui,»
riprese, stavolta glaciale.
Scolò in un sorso l'ultimo goccio della lattina, attendendo che qualcuno si decidesse a parlare.
«Molto bene,»
concesse Fury, a malapena padrone di sé. «Ricordi quando ti abbiamo detto, dopo la tua valutazione, che non eri psicologicamente idoneo al progetto Vendicatori?»
«Oh, certo, come fosse ieri. D'altra parte, ormai sono abituato ad essere definito "instabile". Siete tutti piuttosto ripetitivi.»
A quel punto scoccò un'occhiata sbieca a Pepper, che la sostenne imperturbabile «Ma vedo che continuate comunque a far uso dei miei "piccoli contributi", tipo portaerei volanti, Quinjet e padelle in vibranio,» concluse con un cenno del mento in direzione di Steve, per poi pentirsene nel realizzare le implicazioni.
«Howard ti ha detto...»
cominciò questi, spiazzato, e Tony si rimediò un'occhiata ammonitrice da parte di Coulson.
«Andiamo, pensi davvero che non sappia del Progetto Rebirth? Mio padre mi ha ammorbato con la favoletta del supersoldato per vent'anni. E poi giocavo con una copia del tuo frisbee da guerra quando sapevo a malapena camminare. Faceva davvero una bella figura in laboratorio... un po' meno in mano tua,»
osservò con leggerezza, e vide il soldato stringere con forza la stoffa dei pantaloni, la mascella rigida.
Fury sembrò non dar peso a quell'acido scambio di battute e riprese impassibile il suo discorso.
«Stark, abbiamo deciso che adesso non sei
fisicamente idoneo al progetto Vendicatori. Siamo qui per discutere della tua esclusione definitiva dalla squadra.»
Tony ci mise un po' a comprendere appieno quel che aveva appena detto Fury e un'espressione neutra e assente aleggiò sul suo volto per una decina di secondi, durante i quali calò un pesante silenzio. Infine si udì uno sgradevole stridio metallico che ferì loro le orecchie: Tony aveva stretto con forza il pugno meccanico e deformato la lattina di birra alle dimensioni di una pallina, imprimendovi il calco del suo palmo.
Fece dei respiri profondi per contenere la rabbia.
«
Fisicamente non idoneo?» ripetè, con la testa china e la voce forzatamente calma che sembrava sul punto di esplodere in un grido.
Lasciò cadere a terra il rottame, che rimbalzò con un tintinnio eloquente.
«Ma certo... capisco perfettamente. È bello vedere come ti diano già per spacciato,»
commentò con pesante sarcasmo, rialzando appena lo sguardo.
«Come pensi di riprendere il tuo ruolo conciato così? Tanto più che non sei mai stato davvero un Vendicatore,
Consulente intervenne duramente Steve.
Tony si voltò di scatto verso di lui, non trovando sul momento le parole per ribattere, ma alla fine parlò:
«Non ho assolutamente idea di come farò. Fatto sta che adesso sono qui, a sperimentare una tecnologia inedita che apparentemente funziona a meraviglia,»
commentò, facendo un sospiro profondo per calmarsi.
"Non peggiorare le cose. Non. Peggiorare. Le cose," si ripetè come un mantra, ma riusciva a stento a pensare: controllarsi andava ben oltre le sue possibilità.
Voleva solo uscire di lì, stendersi sul letto e disconnettersi fino al giorno dopo. Coi computer funzionava, no? Si riavviava il sistema e tutto tornava come nuovo. Perché non poteva essere lo stesso anche per gli esseri umani? Non gli sembrava di chiedere troppo, in confronto ai suoi ultimi desideri.
Sentì la mano di Pepper che gli sfiorava discretamente il ginocchio, in un chiaro invito a calmarsi, ma era stanco di sentirsi dire quello che doveva e non doveva fare, come se non fosse già abbastanza limitato dal suo corpo. E chissà quante altre cose gli stavano nascondendo... il solo pensiero gli spalancò un abisso nel petto.
Si sentì in trappola, con le spalle al muro: stava per essere tagliato fuori, scartato dall'unica cosa
giusta che avesse fatto in vita sua. Escluso da quella combriccola sgangherata e instabile che in un certo senso aveva cominciato a considerare come un gruppo di amici. Degli amici molto, molto difficili da gestire, a volte detestabili e spesso insopportabili, ma era meglio che essere completamente solo – o quasi – nel suo guscio.
Ripensò alle parole di Pepper: stava davvero diventando paranoico? A lui quello sembrava cupo realismo.
«Su che basi affermate che io non sia in grado di tornare a essere Iron Man?»
riprese, in tono molto alto.
Magari Iron Man era distrutto. Ma era
lui Iron Man, ed era ancora vivo. Perché si comportavano tutti come se fosse morto insieme a lui?
Forse lo era, realizzò con un sussulto. Quei pensieri sconnessi continuarono a riproporsi nel suo cervello, disorientandolo.
Thor e Bruce non parlavano, ma erano entrambi molto accigliati, come se non fossero soddisfatti della piega che stava prendendo la situazione. Pepper evitava il suo sguardo, ma percepiva con disagio la sua preoccupazione.
«Stark, cerca di ragionare: anche ammettendo che tu ce la faccia, ci vorrebbe troppo tempo, e nel mentre...»
iniziò Hawkeye, nel tono più pacato possibile, ma esitò a completare la frase.
Non che ce ne fosse bisogno: Tony sapeva cosa intendeva. Lo capiva fin troppo bene e sentiva crescere la sua frustrazione di minuto in minuto, sommata a una rabbia cieca e irragionevole, perché in fondo sapeva che avevano ragione... semplicemente troppa per dargliela vinta.
Steve intervenne a completare le parole di Barton:
«Saresti un peso per tutti noi. Non possiamo permetterci di avere tra noi un "mezzo supereroe"...»
Tony
si irrigidì nel presagire il resto della frase.
«... tantomeno un "mezzo uomo".»

«Rogers.»

La voce di Bruce si levò stranamente fredda, ma Tony lo fermò con un'occhiata eloquente prima che potesse aggiungere altro: non aveva anche bisogno di qualcuno che parlasse al posto suo.
«Almeno io mi sono costruito da solo; e non credere che l'abbia voluto veramente. Non ho avuto bisogno di pregare qualcun altro per farmi diventare "super". Vero, ragazzo di Brooklyn?»
ribattè in tono basso e tagliente.
Steve contrasse la mascella, punto sul vivo.
«Tony, calmati anche tu,»
intervenne Banner. «Sappiamo tutti che per te è stata una brutta giornata, ma...» continuò, nel tentativo di stabilizzare il diverbio.
Non gli piacevano affatto le situazioni tese e nervose.
«Brutta giornata?»
Tony alzò le sopracciglia, falsamente stupito. «E perché mai? Una brutta giornata è quando ti svegli una mattina con due arti e un occhio in meno. Ecco, quella è una brutta giornata. Oggi, per i miei ultimi standard, è stata una giornata quasi piacevole.»
Il gelo pervase il gruppo, ammutolito a quell'ultima affermazione.
«Propongo una votazione per decidere la sorte dell'uomo di ferro,»
si levò stentorea la voce di Thor, rimasto ad osservare i loro battibecchi in un cupo silenzio.
Tutti gli sguardi si spostarono su di lui, compreso quello di Tony, sorpreso nel trovare un sostenitore in quel momento. Fury sembrava aspettarsi un'evenienza simile, ma non protestò e si limitò ad annuire.
«Molto bene. Manca all'appello Nataša, ma il suo voto era contrario alla permanenza di Stark nei Vendicatori,»
annunciò Fury, sfidando il diretto interessato a contestare quell'affermazione.
Lui non commentò, ma era decisamente scettico al riguardo, e anche un po' deluso.
«Signorina Potts, voti anche lei,»
disse a sorpresa Coulson, e la donna si guardò attorno, presa in contropiede.
Negli occhi di Tony si riaccese una scintilla di speranza.
«Non credo che sarebbe equo. Insomma, non sono un Vendicatore.»
«Penso sinceramente che qui dentro sia lei la più adatta a giudicare Stark,
intervenne Coulson, annuendo nella sua direzione, e Pepper arrossì appena sentendosi ancor più fuori posto.
«"Contrario" per far uscire Iron Man, "favorevole" per farlo rimanere,
» stabilì Fury. «Agente Barton?» cominciò subito Fury, voltandosi verso l'uomo.
Lui sembrò esitare un attimo, non aspettandosi di essere il primo, poi fissò negli occhi Tony con un'ombra di colpevolezza e rispose:
«Contrario.»
Tony se lo aspettava, ma fu comunque un duro colpo.
«Thor?»
«Neutrale. Penso che dovrebbe almeno tentare di rimettersi l'armatura, anche se dovesse fallire. Ha diritto a una possibilità,»
affermò l'Asgardiano, con decisione.
Tony si sentì un po' più leggero e Thor ricambiò il suo sorriso più rilassato con un cenno del capo.
«Capitano?»
«Contrario,»
rispose lui quasi all'istante, in tono secco.
"Prevedibile..."
«Bruce?»
«Favorevole. Dopo aver visto questo,»
accennò alla protesi, «sono assolutamente convinto che ce la possa fare.»
Tony gli rivolse un gran sorriso, grato. Per ora erano pari. Si morse il labbro in preda al nervosismo: mancavano solo Fury, Coulson e Pepper; il voto di lei era scontato, così come quello di Fury... ma forse Coulson sarebbe stato dalla sua parte.
«Io sono contrario,»
affermò Fury, senza rammarico.
«Coulson?»
Artigliò il bracciolo della poltrona. Pepper evitava il suo sguardo, così come quello di tutti gli altri.
«Neutrale. È troppo presto per decidere,» aggiunse con pacatezza.
Tony lasciò andare il respiro che non si era accorto di aver trattenuto: salvo, per un pelo.
«Potts?»
Tony si girò verso di lei e le rivolse un sorriso trionfante, ma s'impietrì quando vide la sua espressione. Lo guardava quasi sofferente. Combattuta.
«No...»
riuscì solo a sussurrare. «Pepper, che cosa...»
Lei non distolse lo sguardo, e mantenne una voce ferma:
«Sono contraria.»
Fu come ricevere una pugnalata nella schiena.
«Contraria? Lei?!»
esclamò, del tutto sbigottito da quella presa di posizione a lui incomprensibile. «Che cosa significa?» chiese ancora, in tono più duro.
«Significa che sono stanca di vederla quasi morire. Non permetterò che per l'ennesima volta si metta in pericolo. Non dopo quello che le è successo.»
«Ehi! Non l'ho deciso io! Pensa che mi stia divertendo?»
«E lei pensa che mi sia divertita quando era prigioniero in Afghanistan? O quando si è quasi schiantato con l'armatura? O quando l'ho ritrovata in quelle condizioni?»
sbottò lei, a voce più alta del necessario.
Tony non capiva se fosse sul punto di piangere o di prenderlo a schiaffi, ma si sentiva totalmente svuotato, come se gli fosse venuto improvvisamente a mancare un punto di riferimento. Era quasi stordito, ed era sicuro di aver capito male, ma Pepper era seria, terribilmente seria... il suo sguardo non lasciava adito a dubbi.
«E aveva il coraggio di darmi del paranoico,»
sbottò in un sibilo caustico.
«
Non ne faccia una questione di fiducia,» ribattè lei, altrettanto alterata.
«Stavolta sono io a non capire
affermò lui di scatto, fissandola con uno sguardo così carico di significato che lei quasi trasalì.
«Non penso ci sia molto da capire...»
intervenne Steve, nel momento meno indicato.
Tony percepì chiaramente la sottile linea di autocontrollo che era riuscita ad arginare la sua rabbia spezzarsi di netto, e non fece nulla per recuperarla.
«Tu stanne fuori, o ti faccio il culo a stelle e strisce come piace a te.»
«Dovresti starne fuori tu, o ti credi speciale solo perché hai una lampadina nel petto?»
«Smettetela,»
abbaiò Fury.
«Smetterla? Perché smetterla quando abbiamo appena iniziato? Vedo che la Bella Addormentata nei Ghiacci ha voglia di discutere, o sbaglio?»
ricominciò Tony.
«Senti, uomo-scatoletta...»
«Senti tu: quando sarai in grado di costruirti quel tuo bel frisbee da solo potrai insultarmi, nel frattempo dovresti baciarmi i piedi.»
«Dovrei baciarli a tuo padre, intendi. Magari avresti dovuto farlo anche tu.»

«Rogers.»

«Si vergognerebbe di come ti stai comportando.»
«Rogers, un'altra parola su mio padre e quello scudo te lo spacco in faccia.»

«Fallo, Stark. Ciò non cambia che sei fuori dai giochi: hai chiuso.»
Tony a quel punto non ci vide più: balzò in piedi d'istinto, animato da una scarica improvvisa di rabbia e adrenalina, e si scagliò su Steve senza curarsi del gesso e del moncherino che gridò di dolore. L'altro si alzò con un secondo di ritardo, non aspettandosi una sua reazione, e non riuscì ad evitare o a parare il diretto di Tony, o forse fu solo indeciso su come fermarlo senza causargli troppi danni.
Tony non aveva mai usato la protesi a scopo offensivo, né aveva mai pensato di farlo: sapeva solo di avere una potenza fuori dal normale che era più d'ostacolo che d'aiuto, ma non fino a quel punto. Steve fu sbalzato indietro di un metro buono, incassando il colpo in pieno viso;  reagì d'istinto dandogli uno spintone sullo sterno con entrambe le mani, e Tony finì catapultato all'indietro, accasciandosi contro il divano con la sensazione che il reattore gli avesse trapassato il torace. I moncherini gli inviarono una scarica di dolore insopportabile, e non trattenne un lamento acuto quando impattò per terra.
Tutti i Vendicatori si alzarono contemporaneamente per fermarli, mentre Tony si aggrappava ai cuscini per tirarsi su, col respiro mozzo e la testa leggera per lo sforzo. Vedeva dei preoccupanti puntini bluastri che gli danzavano davanti agli occhi, confondendogli la vista già menomata.
Sentiva Fury che urlava fuori di sé, scorgeva Thor che rimproverava a gran voce Rogers e altre immagini confuse che non riuscivano ad acquistare senso. Banner era sparito e Hawkeye si era frapposto tra lui ancora a terra e la baraonda circostante, tenendo sotto controllo la situazione. Coulson si era parato davanti a Pepper, che si era accovacciata accanto a lui e gli stava dicendo qualcosa, ma Tony non la stava ascoltando.
L'unico dettaglio nitido in quel marasma era Steve, sul cui zigomo spiccava un taglio sanguinante lì dove l'aveva colpito con le nocche metalliche. Lo fissava con risentimento, tastandosi la parte lesa, ma si tenne indietro.
Tony, al contrario, sentiva solo una gran voglia di spaccargli anche l'altra parte del viso, giusto per renderlo simmetrico. Non gli importava che Rogers non avesse colpe rispetto a quello che gli era successo, né che tentare un nuovo assalto sarebbe probabilmente apparso come patetico: aveva bisogno di prendere a pugni qualcuno, e al diavolo se quel qualcuno era il simbolo dell'America risorto dai ghiacci. Scansò Pepper da sé e si issò sul divano col braccio buono, afferrando la stampella per acquisire un minimo di stabilità in più, per poi avanzare barcollando verso quello che al momento aveva etichettato come suo avversario.
Rogers non si lasciò impressionare e gli intimò di stare indietro, ma le sue parole erano una cacofonia indecifrabile di suoni, che gli feriva le orecchie stordite assieme ai richiami di Pepper e dei suoi compagni di squadra, che ignorò completamente.
Fu nell'esatto momento in cui caricò il pugno che la sua gamba di gesso cedette, ma se ne accorse quando già aveva fatto un passo in avanti per massacrarlo di botte. Sapeva di non avere speranze, ma volle togliersi la soddisfazione: scagliò il pugno destro mentre già perdeva l'equilibrio, ma l'altro lo parò senza sforzo e lo respinse di nuovo indietro, torcendogli le dita con uno stridore metallico, per poi ripiegargli il braccio all'indietro come fosse di gomma.
Era incredibilmente forte, più di quanto si fosse aspettato, e la protesi non era ancora progettata per sostenere urti di quel tipo: percepì il metallo cedere e non potè evitare un grido quando la pressione aumentò bruscamente sul moncherino. Rogers mollò di scatto la presa con un lampo indecifrabile negli occhi, forse non aspettandosi di fargli male anche tramite quella parte inanimata di lui. A Tony mancò l'appoggio della gamba di gesso, ormai disarticolata, e piombò all'indietro; Steve cercò di afferrarlo per il bavero per evitargli la caduta, ma l'altro malinterpretò il gesto e si divincolò, riuscendo a sfruttare la forza residua della protesi per liberarsi dalla sua stretta.
Impattò di schianto col pavimento e sentì una scarica fulminante di dolore attraversargli la spina dorsale, mentre la sua vista si oscurava di colpo. Lampi blu esplodevano intorno a lui e c'era sangue, sangue sulle sua mani, sul suo volto e per terra. Udì un boato lontano e poi un'ondata ustionante di calore che lo sbalzava in aria... un dolore atroce all'occhio lo riportò alla realtà con un urlo.
Riprese contatto con ciò che lo circondava. Era completamente nel pallone e la stanza ruotava su se stessa. Gli sembrava di essere sott'acqua e sentiva un rombo nell'orecchio destro, così forte da dargli la nausea. Stava morendo dissanguato? Si portò la mano al moncherino della gamba, ma la fasciatura era asciutta, la protesi del braccio al suo posto.
Un'allucinazione, un ricordo o cosa?
L'aria gli tornò nei polmoni e trasse un respiro stentato che si trasformò in un rantolo. Si era morso la lingua nella colluttazione e aveva la bocca piena di sangue; diede un colpo di tosse gorgogliante, sentendosi rivoltare lo stomaco. Si accorse del pesante silenzio che lo avvolgeva, irreale, ma non riusciva ad alzare la testa che gli pulsava dolorosamente. Si sforzò di girarsi sul fianco e inquadrò confusamente il suo salotto e i Vendicatori che discutevano animatamente tra loro, con l'impressione di guardare le scene di un film muto. Non sentiva nulla.
Tentò di rialzarsi facendo leva d'istinto sulla protesi, ma questa cedette di schianto sotto i suoi occhi orripilati, facendolo ripiombare a terra. Tutti i suoi sensi si risvegliarono contemporaneamente, frastornandolo in un caleidoscopio folle di suoni e immagini, in cui l'unica chiara e nitida era quella della sua protesi devastata.
Qualcuno gli si avvicinò, ma non riuscì a metterlo a fuoco così lo allontanò bruscamente, mentre fissava incredulo l'avambraccio che ciondolava all'indietro, completamente disarticolato. Scorse di sfuggita Bruce che si ritraeva di scatto.
«No! No, merda, no!»
gridò, con voce roca, ferendosi la gola, incurante del dolore e di quanto disperata suonasse la sua voce.
Tastò con la mano sana i cavi recisi e il rivestimento graffiato e contorto.
«No! Tutto quel lavoro...»
imprecò tremante; non gli importava che tutti lo stessero fissando mentre discutevano tra loro.
Tutto cò che riusciva a formulare era:
Da capo... devo ricominciare tutto da capo...”
Rialzò lo sguardo e focalizzò Rogers con occhi lucidi di rabbia. Non riusciva a trovare parole per comunicargli quanto realmente lo odiasse in quel momento. Un altro pugno in faccia poteva essere molto più esplicativo, ma al solo pensiero di provare a rialzarsi gli venne la nausea. I suoi pensieri si annebbiarono come per un improvviso blackout e si lasciò scivolare a terra privo di forze.
Udì un'alta voce femminile che trovò estremamente piacevole nonostante quello che era appena successo e il tono irato con cui sembrava parlare. Non riuscì a comprendere quel che diceva, ma dopo pochi secondi – o forse molti di più – sentì che qualcuno lo aiutava a rimettersi seduto contro il divano e gli passava un panno bagnato sulla fronte. Non capiva esattamente dove fosse il pavimento e se fosse veramente seduto, ma accolse con sollievo il freddo sulla fronte bollente.
Riaprì piano gli occhi, dominando il senso di vertigine.
Le poche facoltà mentali e fisiche che gli erano rimaste gli permisero di scansare la mano liscia ed estremamente invitante di Pepper, ma dopo pochi secondi sentì di nuovo il contatto della sua pelle fresca contro il proprio viso accaldato e non ebbe la forza di sottrarsi, preferendo abbandonarvisi contro.
Riusciva a muoversi con estrema difficoltà e ciò gli costava molto dolore. Aveva un sapore ferrigno in bocca e si rese conto che lo spacco sul labbro si era riaperto. Cercò gli occhi di Pepper e li trovò cupi e preoccupati, stranamente scuri nella penombra. Trattenne la sua mano contro la sua guancia.
Voleva dimenticare tutto ciò che era appena successo. Voleva solo fidarsi, ma la voragine nel suo petto schiuse di nuovo le sue fauci minacciando di dilaniarlo.
"Mi fido ancora di te."
Quelle parole non lasciarono le sue labbra. Pepper liberò con delicatezza la mano, premendogli di nuovo la stoffa umida contro la fronte.
Il salotto era deserto, da quel poco che riusciva a distinguere, poi scorse Coulson che si avvicinava a Pepper e si chinava su di lei, sussurrandole qualcosa all'orecchio che catturò immeditamente la sua attenzione, ma, nonostante si sforzasse di ascoltare, le parole si intrecciavano perdendo significato, ordine, svanendo in un bisbiglio inudibile. La sua coscienza riemerse dall'oblio quando fu raggiunta da una voce ovattata:
«Tony... ma che diavolo stai facendo?»
Lui socchiuse la palpebra, riuscì a spostare un poco il capo e incontrò gli occhi di Pepper, ma era come se li vedesse dietro a un velo.
«Non lo so...»
mormorò scuotendo debolmente la testa, e il mondo si trasformò di nuovo in un'immagine sfocata mentre si abbandonava all'incoscienza.




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Revisione effettuata il 23/02/2018
 



Note delle Autrici:

Ed ecco sfornato un altro capitolo caldo caldo, diciamo anche che si è bruciato (basta con questa metafora stupida...)
Vi intratteniamo poco e ci dileguiamo, ringraziando alliearthur e Rogue92 che continuano a seguirci costantemente e a recensire e alla nuova arrivata Sherlock_Watson <3
See ya! :D


Moon&Light

Edit 23/02/2018: è stato inserito il tema/problematica della sfiducia di Tony (come se non avesse già abbastanza grane a cui pensare) perché mi sembrava un "tassello mancante" o almeno non debitamente sviluppato che ritengo fondamentale per tutti gli sviluppi successivi della storia. [-Light-]
Edit 12/05/2019: mi veniva l'orticaria ogni volta che rileggevo questo capitolo per la caratterizzazione di Steve (che, come giustamente, mi fece notare T612 ai tempi, è un filino OOC), quindi ho deciso di "barare" e decidermi a modificare la parte dello scontro con Tony. Verbalmente rimane più stronzo di quanto non sia (ho eliminato le volgarità, a mia discolpa il capitolo fu scritto molto prima del famoso "Language!" di AoU), ma almeno non è più un bruto che picchia a caso la gente. Quello lo fa solo in Civil War *BURN*

 

 

Grazie a Sherlock_Watson che ha gentilmente disegnato questa vignetta :) trovate il suo DA qua-> http://giulialennon94.deviantart.com/



 

© Marvel

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Capitolo 13
*** Psychosocial? ***




12

Psychosocial?




"Yeah, I get it, you're an outcast
Always under attack, always coming in last
Bringing up the past, no one owes you anything
I think you need a shotgun blast, a kick in the ass
So paranoid... watch your back!”


[Sound Of Madness – Shinedown]




4 Marzo, 12:30, Tribunale di Washington D.C.
Il tribunale esplose.
Un boato di sorpresa, confusione e orrore risuonò nell'enorme sala, assordandolo. Si abbandonò allo schienale, come sbalzato indietro dalle onde sonore. Spaesato, ben lontano da quella facciata di spavalderia e sicurezza che aveva ostentato fino a quel momento, cercava freneticamente un appiglio per tirarsi fuori da quella situazione drammatica... ma non riusciva a pensare nulla di coerente, le parole gli sfuggivano prima che potesse focalizzarle e non riusciva neanche ad aprire bocca per provare a pronunciarle: aveva le labbra sigillate e un malsano pallore si allargava sul suo volto già tirato.
Registrò appena il giudice che urlava e intimava la calma, Knight che tentava di sovrastare la sua voce gridando le sue accuse e Kyle che si sbracciava per contrastarlo come poteva, supportato da Ian che millantava referti medici inesistenti. 
Lui rimase pietrificato al banco dei testimoni con il braccio privo della mano, avvolto della sua giacca sgargiante e poggiato mollemente davanti a sé come una confessione di colpa. Cominciava a sentirsi rinchiuso in una gabbia, esposta allo scherno e all'incredulità dei passanti. Percepiva gli sguardi sconvolti del pubblico su di sé, scorgeva mani che andavano a coprire le bocche per contenere le esclamazioni stupefatte, vedeva quelli seduti nelle ultime file che si alzavano in piedi per vedere meglio, come se fosse un fenomeno da baraccone. In sottofondo, tra l'incredulità e lo sconcerto, avvertiva un sottotono di disgusto che gli torceva le viscere; perché alle persone normali non cadevano le mani, e avevano tutti gli arti al posto giusto, e non dovevano ingegnarsi per nascondere un corpo mutilato. Si scoprì a tremare impercettibilmente, al pensiero di non poter più mentire, né nascondersi, e che a quel punto avrebbe dovuto rivelare le sue brutture e il suo corpo menomato.
Cercò frenetico Pepper, in un moto istintivo, ne trovò la chioma rossa e si concentrò su di lei, escludendo tutto il resto. Lei, dopo aver cercato inutilmente di calmare Ian, si voltò finalmente nella sua direzione, forse sentendosi osservata. Non sembrava furiosa, anzi, aveva un'aria quasi rassegnata, il che era anche peggio. Non sapeva esattamente come sentirsi nei suoi confronti: forse dispiaciuto, oppure semplicemente indifferente, ma quel che lo preoccupava era che l'onda di rabbia e frustrazione che sentiva crescere dentro di sé comprendeva anche lei.
Distolse lo sguardo quando scorse un giornalista che si avventava sulla mano della protesi rimasta a terra. Un lampo di terrore lo riscosse al pensiero di quel che poteva succedere.
«Non toccarla!» gridò, e il fatto che avesse parlato di nuovo quietò per qualche istante il tribunale, dandogli modo di insistere, con calma calcolata:
«Non osare sfiorarla o giuro che il prossimo seduto a questo banco sarai tu.
»
Il giornalista esitò il tempo sufficiente per permettere alla guardia di rispedirlo nel pubblico, al suo posto.
Tony tirò un silenzioso sospiro di sollievo, rendendosi conto di avere gli occhi di tutto il tribunale puntati addosso. Ebbe la netta percezione della sua gabbia che si restringeva, e gli parve di scorgere sorrisi di scherno sui volti di chi lo osservava, e di udire risatine appena accennate. Il tremito continuava a scuotergli i muscoli, quasi doloroso, e si tolse il guanto per asciugarsi il palmo sudato sui pantaloni, cercando di controllarsi e di recuperare la sua proverbiale faccia tosta. Ci riuscì in parte, ritrovandosi a parlare in un tono molto più grave di quanto avesse voluto:
«So che quello che avete appena visto può essere abbastanza destabilizzante, ma...
»
«Come spiega quella roba?
» lo interruppe brusco Knight in modo molto meno formale, additando la mano ancora riversa per terra.
«È una protesi, come dovrebbe già aver capito.
»
Un altro brusio fece per alzarsi dagli astanti, ma fu troncato dallo schiocco secco del martelletto:
«Intimo il silenzio. Per l'ultima volta,
» dichiarò in tono perentorio Stern, ancora perplesso per quanto appena accaduto ma evidentemente insofferente all'isteria del pubblico. «Perché non l'ha dichiarato subito?»
«Obiezione. Le attuali condizioni fisiche dell'imputato non pregiudicano...
»
«Ammonizione, signor Andrews! Abbia il buonsenso di capire quando tacere!
» sbottò il giudice. 
Kyle ammutolì, capendo di non poter fare più niente per aiutare il suo cliente.
«Cos'altro ci nasconde, signor Stark? Per una volta presti fede al giuramento di dire la verità,
» aggiunse ironico Knight.
Tony deglutì, col nodo della cravatta che gli stringeva quello alla gola, cercando una via di fuga inesistente.
«Oltre alla protesi? Ecco... niente, in questo senso, anche se ho un... un pacemaker cardiaco poco ortodosso, diciamo,
» cercò di svicolare ancora, suscitando comunque mormorii pettegoli dal pubblico.
Era normale quel senso di oppressione al petto? A parte quello costante del reattore, ovviamente.
«Cercherò di essere più chiaro: le manca qualcos'altro
oltre al braccio?»
Tony tentennò. La sua pupilla fremette, scattando qua e là alla ricerca di uno spiraglio, di un modo per fuggire di lì, ma trovò solo porte sbarrate e gli occhi beffardi di un pubblico che non era certo pronto ad applaudirlo.
Deglutì quel groppo di sabbia e carta vetrata che gli ostruiva la gola e cedette, parlando il più velocemente possibile per non dare senso alle sue parole, volendo percepirle come semplici suoni privi di significato:
«Una gamba e un occhio.
»
Il tribunale esplose un'altra volta, e Tony si concesse finalmente di accasciarsi sul banco degli imputati, con l'unica mano a sorreggergli la fronte bollente e inondata di sudore gelido.
Scrutò da sotto le ciglia Pepper, consapevole di quanto fosse disperato il proprio sguardo e non riuscendo a fare a meno di cercare il suo, agognando quella sicurezza che vi aveva sempre trovato. 
Lei scosse appena la testa e poi abbassò gli occhi, negandogliela.
Tony chiuse il suo, pregando di sprofondare.


***


I giornalisti lo circondavano pressanti, accalcandosi attorno alla sua sedia a rotelle e rievocandogli prepotentemente il periodo d'inferno passato in ospedale a tenere a bada le stesse, insopportabili voci pedanti e moleste.
«Signor Stark, una domanda!»
«Cos'è successo?»
«Come ha fatto a costruire la protesi?»
«Signor Stark, come crede di poter continuare la sua attività in queste condizioni?»
«Tony, come farai a posare per il nuovo numero di Playboy?»
«Stark!»
«Signor Stark!»
«Tony, andiamocene di qui, ora.»
La voce di Pepper lo raggiunse soffocata, mentre lui avanzava a fatica tra la calca. In un impeto di rabbia aveva lasciato indietro la sua difesa; non era stata una bella mossa, considerando che si sentiva il braccio buono distrutto dalla fatica di spingere la sedia a rotelle zigzagando tra i paparazzi. Improvvisamente si trovò separato dall'uscita da una muraglia di telecamere e flash che mandavano ovviamente in mondovisione la sua faccia stralunata e sconvolta, oltre che il suo braccio incompleto. Mezzo accecato, stava per tirar fuori dalla tasca la mano metallica inerte per usarla a mo' di clava, quando colse un lampo di capelli rossi ai margini del suo campo visivo – piuttosto ristretto, a dir la verità. Intravide Pepper che cercava di farsi strada verso di lui, allungando un braccio nel tentativo di afferrarlo per oltrepassare la massa di individui molesti. La sua mano trovò infine la sua spalla, quella sbagliata. Sussultò per il dolore, sentendo il bordo della protesi che stuzzicava i punti di sutura doloranti, ma strinse con forza i denti e non si ritrasse; lei riuscì a mantenere la presa e a portarsi finalmente di fianco a lui.
«Permesso! Permesso! Largo! Fate passare!» sentì la voce tonante di Happy, che si stava facendo strada fino a lui a suon di spallate e gomitate. Prese infine il controllo del suo odiato mezzo di trasporto; dopotutto era il suo autista. L'assurdità di quella realizzazione lo pungolò in modo inopportuno. Happy spintonò da parte la stampa, i fan e i curiosi senza troppe cerimonie, guadagnando un metro dopo l'altro l'uscita del tribunale. Senza ben capire come ci fossero arrivati, Tony scorse la sua Rolls Royce a pochi metri da lui, accanto a quella che aveva fornito a Kyle.
"Kyle..."
Lo vide farsi largo stoicamente tra i giornalisti, che sembravano meno propensi a scagliarsi su di lui, forse a causa dell'espressione assolutamente impassibile che copriva il suo volto. Prima di poter pensare a ciò che stava facendo, con un brusco strattone alle ruote sfuggì alla guida di Happy e voltò di scatto verso il ragazzo, rischiando di far rovinare a terra il suo autista.
«Tu! K, Kyle, Andrews o come diavolo ti fai chiamare!» lo apostrofò, furioso nei suoi confronti per ragioni oscure a lui stesso, ma con l'impellente bisogno di prendersela con qualcuno che non fosse Pepper.
«Stark, calmati, non volevo che..» cominciò il giovane, probabilmente capendo che Tony in quel momento non era in sé.
«Neanch'io volevo, e ora sono nella merda per colpa tua!»
Kyle lo fissò attonito, mentre il microfono di una telecamera pungolava insistentemente la faccia di Tony; questi fece un brusco, istintivo movimento con la protesi per scansarlo e lo ruppe di netto senza rendersene conto.
«Puoi scordarti le tue cazzo di gambe!» riuscì a gridare sovrastando il caos, prima che la portiera dell'auto di Kyle si chiudesse.
A quel punto sentì una presa ferrea sulla spalla sana e fu guidato a forza fino alla sua auto; stava per opporsi ad essere sollevato come un bambino per entrarvi, ma Happy si mostrò sordo alle sue proteste e lo fece comunque, non senza una certa goffaggine. Si divincolò dalla sua stretta al momento sbagliato, umiliato al solo pensiero delle foto che stavano scattando in quel momento, col risultato di sfuggire alla sua presa e trovarsi quasi schiacciato addosso a Pepper, entrata dall'altro lato. Telecamere e obiettivi si affacciavano dal finestrino, fortunatamente oscurato, ma Tony si lasciò comunque scivolare nello spazio tra i sedili, premendo il volto contro la tappezzeria per nasconderlo e privare il mondo di altri primi piani sconvolti della sua faccia. Lei riuscì finalmente a sbattere la sua portiera in faccia ai giornalisti.
Tony ebbe un improvviso, spiacevole flashback di una situazione simile, solo che fuori dall'auto non c'erano delle telecamere e dei microfoni, ma terroristi e fucili decisi a ucciderlo. Sentì il respiro bloccarsi e, da semplicemente spiacevole, il flashback divenne vivido e terrorizzante. Sentì il cuore aumentare i battiti mentre si costringeva a riportarsi in posizione eretta, esponendo il suo volto ora madido di sudore e la pupilla dilatata ai flash impietosi della stampa davanti alla macchina.
Finalmente partirono con un rombo e Tony aprì il finestrino inspirando l'aria fredda, riuscendo finalmente a trarre un respiro completo che non si fermasse tra gola e polmoni. Si ritrovò poi il volto di Pepper a un palmo dal suo, paonazzo di rabbia. Sapeva cosa stava per succedere, e sapeva anche di non poterlo evitare...
«Lei è un grandissimo idiota!»

***


5 Marzo, 02:20, Villa Stark
Quando la sua macchina scomparve dallo schermo, sostituita dagli spezzoni commentati del processo e da titoli del tipo "l'uomo di ferro si scioglie" debitamente corredati dalle sue foto post-udienza, Tony decise di non poterne più e spense finalmente il televisore. Rimase a fissarlo a lungo, ancora stordito dagli acciacchi della giornata, dalla discussione coi Vendicatori e dalla revisione in toto della sua performance di fronte a mezzo mondo.
Si girò verso Pepper, che si era addormentata stremata sul divano accanto a lui, e le tolse con delicatezza la borsa del ghiaccio di mano, che finora aveva tenuto premuta contro la sua testa: era ancora leggermente fredda. Se la premette con sollievo prima sul livido che gli marcava lo zigomo, poi sulla fronte bollente. Gli scossoni di quella giornata gli avevano fatto venire la febbre, ma ciò che lo preoccupava di più era la protesi semidistrutta. Aveva rimosso il braccio meccanico ed era rimasto unicamente con la piastra di aggancio. Fissò la protesi adagiata sul tavolino, inerte e fredda. Vederla separata da lui gli causava uno strano senso d'inquietudine che gli serrava la bocca dello stomaco. Era debilitante vedersi letteralmente a pezzi. Sarebbe sicuramente stato in grado di ripararlo – o riparar
si? – ma avrebbe avuto bisogno di tempo... e non ne aveva e non voleva darsene.
Buttò la testa all'indietro, sentendo qualche vertebra scricchiolare, il che aumentò la consapevolezza di essere uno straccio completo. Oltre che un bastardo matricolato. Entrambe le sensazioni non gli erano nuove.
«Ha finito di assistere alla sua disfatta?
»
La voce di Pepper era flebile, esausta e velata dal sonno, ma riuscì comunque a farlo sobbalzare. Era convinto che si fosse addormentata circa due ore prima.
«Più o meno. La scenata fuori dal tribunale si è sentita,
» aggiunse, a suo rischio e pericolo.
«Ho sentito anch'io,
» sospirò Pepper, troppo stanca per infondere vera durezza al suo tono.
«Però deve ammetterlo: riesco ad essere meraviglioso anche quando secondo lei mi comporto come "un bambino egocentrico bisognoso di attenzioni".
» tentò con un sorrisetto, ma Pepper non raccolse l'ironia e rimase in silenzio.
Parlavano senza guardarsi, Tony ancora abbandonato all'indietro e Pepper rannicchiata contro il bracciolo del divano, stringendo appena la giacca bluette del completo con cui le aveva coperto le spalle.
C'era un silenzio assoluto, cosa strana in quella casa, ma d'altronde erano quasi le tre di notte.
Infine lei si sollevò appena nella sua direzione e fece per parlare, ma Tony parlò nello stesso momento:
«Se se lo sta chiedendo, sto bene,
» mentì.
«Veramente stavo per chiederle di avvertirmi, se ha intenzione di farsi altri nemici oltre Capitan America, lo SHIELD, Kyle e l'intera giuria.
»
«E lei,
» aggiunse Tony a bassa voce, stavolta mortalmente serio.
La donna lo fissò senza troppo stupore. Tony aveva ancora la testa abbandonata sullo schienale ed era scivolato in avanti, con la mano a sorreggersi la nuca; vedeva solo il suo lato cieco. C'era una profonda delusione nella sua voce, e ciò la colpì come un maglio, risvegliando in lei un senso di colpa che non aveva alcun motivo di provare.
«Per favore, non cominci a vedermi come un nemico, perché non lo sono,
» scandì chiaramente.
«Non è neanche un alleato.
» Gli sfuggì una risatina stanca. «Chi diavolo è lei?»
«Non sono Stane, Tony.
» 
Lo sentì trattenere bruscamente il respiro. 
«Questo lo so.
»
La sua voce sembrò scaturire da un luogo profondo, freddo ed estremamente distante dal tranquillo salotto rischiarato solo dalla luce notturna che filtrava dalla vetrata. Un sospiro risuonò lievemente in quella quiete.
«Non so se si è ben resa conto della mia situazione. O di come mi sento in questo momento,
» continuò Tony a bassa voce, sempre senza muovere un muscolo, sempre senza guardarla.
Pepper giudicò più saggio non contestare quel punto: no, non aveva la minima idea di come si potesse sentire e non era neanche sicura di volerlo sapere.
«Mi sono ritrovato improvvisamente inabile, diciamo così, a muovermi liberamente e vengo anche accusato di instabilità mentale da... da
tutti più o meno.» S'interruppe con un sospiro, per poi riprendere: «Tutto ciò per colpa del mio "padrino". È sua, la colpa. Niente Afghanistan: niente stress post-traumatico, né reattore, né Iron Man. E niente mutilazioni,» concluse piattamente.
Scandì con cautela l'ultima parola come a volerne ponderare la pericolosità. 
«Poi c'è la ciliegina sulla torta di non essere più considerato solo un "mezzo supereroe", ma anche un "mezzo uomo". Come se io avessi iniziato a fare ciò che faccio per farmi affibbiare qualche titolo in più. Uomo, eroe, super, genio, Consulente, Iron Man...
» elencò con voce sempre più fiacca. «Non mi è mai nemmeno interessato se ciò che faccio sia eroico o meno. Ho il mio concetto personale di "eroico", ma questo non...» la sua voce si affievolì di nuovo e fece una pausa, impedendosi di divagare e di seguire le volute dei suoi pensieri. 
La sua mano si era spostata nel frattempo sul reattore, appena visibile sotto la camicia. Gli assestò una pacca leggera, come a riscuotersi. 
«Tutto ciò non è affatto bello, né rassicurante, né incoraggiante. Riesco quasi a vedermi legato su un lettino di psicanalisi mentre un novello Freud tenta di scannerizzarmi il cervello. Sono un genio, per la miseria, non uno psicopatico,
» concluse, sbuffando appena.
Nonostante il suo tono apparentemente leggero, Pepper percepiva il suo disagio nel parlare, e questo la sconcertava comunque meno del fatto che Tony stesse esplicitamente discutendo di ciò che provava e della sua salute mentale, oltre che delle sue preoccupazioni riguardanti Iron Man. 
«Ora, immagini di essere in questa situazione. So che è un grosso sforzo di fantasia, ma ci provi.
» 
A quel punto si girò appena verso di lei, lasciandole intravedere il suo occhio stanco e appena socchiuso. 
«Come si sentirebbe se l'
unica persona di cui si fida ciecamente affermasse che non è in grado di riprendersi?» 
Tony sembrò costringersi ad aprire di più la palpebra esausta e la fissò intensamente. Lei non potè fare a meno di sentire quel senso di colpa irrazionale espandersi nel suo petto, facendola rimpicciolire. Fu un istante, poi la sensazione svanì, sostituita dalla certezza di aver agito nel suo interesse, per proteggerlo ed evitargli altro dolore.
«Non ho mai detto che non ne è in grado...
»
«Mi ha fatto escludere dai Vendicatori. Mi sembra una risposta più che chiara, a meno che lei non abbia una strategia che vada oltre la mia comprensione. Il che, come ben sa, è altamente improbabile.
»
Pepper fece per rispondergli a tono, irritata dal suo atteggiamento di superiorità, ma Tony afferrò velocemente la stampella, si puntellò aiutandosi col braccio sano e si trasferì con evidente fastidio sulla sedia a rotelle. Afferrò la protesi e si diresse faticosamente verso l'ascensore senza degnarla di un altro sguardo.
«Dove ha intenzione di andare?
» lo richiamò stizzita, ma anche allarmata e consapevole del suo stato febbricitante.
«A riparare questo disastro.
» 
«Lei non è nelle condizioni di...
» 
«Questo sono
io a deciderlo, almeno a casa mia.» 
«Mi sto
preoccupando per lei.»
Tony chiamò l'ascensore senza rispondere e questo si aprì con un sibilo; vi entrò subito e voltò la sedia nella sua direzione, premendo rapidamente il tasto del seminterrato. Pepper si limitò a fissarlo senza avere la forza di aggiungere altro, anche se con qualche ora di
jet-lag in meno sarebbe probabilmente riuscita a tenergli testa. Si raddrizzò a sedere, trattenendo sulle spalle la sua giacca e percependo il leggero sentore di profumo e dopobarba impresso sulla stoffa, che da piacevole e rassicurante diventò invadente, quasi sgradito. Tony non riuscì a trattenersi e frappose la stampella tra le porte dell'ascensore, impedendone la chiusura.
«E la ringrazio
molto per la sua preoccupazione. Mi è stata molto utile, davvero,» la schernì in tono acido.
«Di niente. Sto solo cercando di salvarle la vita, dopotutto!
» ribattè lei, adesso decisamente furiosa.
Tony emise uno sbuffo irritato prima di lasciar finalmente chiudere le porte.
«Non mi aspetti sveglia!
»

***


9 Marzo, Villa Stark

«E lei chi sarebbe?»
«Robert Orwell. Sono uno psicoterapeuta,
» si presentò un uomo piuttosto avanti con gli anni, con i capelli bianchi ed un abbigliamento fin troppo impeccabile.
Dalla stiratura della giacca, alle scarpe tirate così a lucido da emanare riflessi accecanti, al discutibile
pendant tra i gemelli e la cravatta di un orrendo verde acido: c'erano tutti i segni inconfutabili di qualche sua mania ossessivo-compulsiva di cui probabilmente non era a conoscenza nemmeno lui.
"Incoraggiante." 
Tony continuò a squadrarlo con diffidenza, concludendo che la sua giornata non poteva iniziare in modo peggiore, dopo un'altra nottata insonne passata a mordere il cuscino per le fitte ai moncherini. E dire che avrebbe solo voluto scolarsi un litro di clorofilla e mettere qualcosa sotto i denti per poi tornare a rifugiarsi in laboratorio. Adesso si pentiva anche di essersi preso la briga di alzarsi dal letto. Anche se forse "capitombolare per terra" era un'espressione più calzante.
«E perché uno della sua risma è in casa mia?
» si decise a chiedere alla fine, sostenendosi allo stipite della porta per avere un po' più di stabilità mentre si guardava intorno alla ricerca di un proiettore olografico che potesse motivare quella sgradita presenza nel suo salotto. 
Non trovò ciò che cercava, ma in compenso vide Pepper, che gli sembrava comunque un'ottima risposta alternativa per l'apparizione di uno strizzacervelli in quella casa.
«Tiro a indovinare: è lei la talpa che ha permesso a questo "ospite” di entrare. Mi spiegerebbe perché il mio salotto è diventato improvvisamente un centro di scambio culturale? Vedi Asgardiani in vacanza sulla Terra e uomini fuori dal tempo...
» aggiunse a voce più bassa, come se lo psicologo non esistesse. 
In realtà era più che consapevole della sua fastidiosa, ingombrante presenza che si era addirittura permessa di occupare la
sua poltrona. 
"È un vizio, ormai."
«Ne avrebbe davvero bisogno, signor Stark. Intendo parlare con me,
» intervenne Orwell, apparentemente ignaro delle scintille di tensione che sfrigolavano tra il suo recalcitrante paziente e la donna appena arrivata, nonostante teoricamente avrebbe dovuto avere un intuito non indifferente per quel tipo di dinamiche.
«Ho bisogno della
mia poltrona libera dal suo fondoschiena,» scandì Tony, indicandolo con una stampella e rischiando di compromettere il proprio equilibrio.
«Tony...
» sibilò Pepper, tentata di prenderlo per la collottola per ricordargli le buone maniere come una madre con un figlio indisciplinato.
«La signorina Potts mi ha illustrato nel dettaglio la sua situazione...
» 
«Nel dettaglio?
» ripeté Tony, sentendosi la voce quasi strozzare in gola mentre fulminava Pepper con lo sguardo, che lei evitò. 
«Quanto basta per capire che ha assolutamente bisogno di un supporto psicologico, signor Stark.
»
Tony dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per non farsi prendere dall'agitazione che sentiva crescere dentro di sé.
Cosa diavolo gli aveva detto? Del rapimento? Di suo padre? Di Stane? Dello stress post-traumatico? Cos'altro c'era? Riusciva a malapena a tener traccia lui stesso dei suoi problemi, non aveva davvero bisogno che qualcun altro vi si immischiasse. 
"Alla faccia della 'riservatezza'..." si trovò a pensare, con un folle moto di pena per Fury, mentre Orwell continuava a blaterare riguardo alla sua presunta necessità di un "consulto" – che suonava terribilmente simile a "valutazione", e di quelle ne aveva abbastanza.
«... soprattutto mi preoccupano i suoi frequenti sbalzi d'umore. Una breve terapia o un paio di sessioni potrebbero almeno migliorare questo suo atteggiamento, facilitando il suo recupero psicofisico,
» spiegò pacato.
Tony a quel punto decise che poteva anche fare a meno del filtro che apponeva alla sua lingua per risultare più amabile in pubblico.
«Ehi, non mi parli come un vecchio saggio! So qual è la sua tattica: "sono calmo e faccio l'amicone, poi però ti strizzo il cervello e ti faccio rinchiudere".
»
«Non rientra nelle mie "tattiche" e non sono uno
strizzacervelli,» ribattè il dottore, lievemente piccato, ma mantenendo un atteggiamento professionale di fronte a quella che probabilmente riteneva una crisi isterica.
Pepper fece per intervenire, in palese imbarazzo, ma Tony la anticipò, staccandosi dal proprio appoggio per avanzare di qualche metro verso l'intruso:
«Lo è,
eccome se lo è. Non ho bisogno di farmi vendere la pace interiore. La raggiungo già attraverso tecniche che implicano l'utilizzo di molto alcool e del bagno... ma forse vuole una dimostrazione!» esclamò arzillo, al limite della sopportazione di Pepper, che adesso lo tirava discretamente per la manica.
«Se il problema è l'alcol, signor Stark...
» 
«Nah, mi confonde con mio padre; l'alcol non è un problema, anzi...
» fece una pausa sfoggiando un'espressione ispirata. «Sa... il fatto di cacciare la testa nel cesso per... beh, ha capito, comporta l'eliminazione di agglomerati di neuroni inutilizzati, evento piuttosto frequente anche nella sua testa, a mio modesto parere, che tengo sempre in grande considerazione. Dovrebbe provarci, mi creda.»
Orwell lo fissò come se avesse appena realizzato di essere entrato in un manicomio.
«La situazione è più di grave di quello che mi aveva detto,
» commentò rivolto a Pepper, e il fatto che avesse cessato di interpellare lui lo irritò ancor di più, se possibile. 
«Sono stati giorni difficili...
» ribatté esitante lei, volutamente ambigua. 
Tony si ritrovò a lasciarsi sfuggire un verso di scherno: era abbastanza convinto che il livido ancora stampato sulla sua faccia esplicitasse a sufficienza quanto difficili fossero stati quei giorni.
«Capisco che il signor Stark non abbia voglia di parlare, perciò le lascio solo qualche farmaco generico per...
» provò a continuare, prima di essere interrotto da Tony:
«Fattelo tu un cocktail di farmaci, cervellone,
» sbottò questi, improvvisamente in allarme. «Poi svegliati dal coma e vienimi a raccontare la tua pace interiore dopo averla...» si voltò verso Pepper con aria assorta «... spremuta. Ecco cos'ero venuto a fare qui: mi serve un po' di succo d'erba. Clorofilla, per chi non lo sapesse.» si rivolse allo psicologo, adesso completamente attonito.
«Signor Stark, la prego, potrebbe almeno
cercare di comportarsi in modo...» tentò invano Pepper, vedendo la situazione precipitare, ma Tony aveva già voltato loro le spalle, dirigendosi a balzelloni in cucina.
«JARVIS, voglio questo squilibrato fuori dai piedi. Mostragli la porta.
»
Il computer fece apparire una freccia lampeggiante, indicando l'uscita a Orwell.
«A mai più!
» lo congedò, prima di sparire in cucina.
Pepper parve implorare perdono al dottore, che non la degnò di uno sguardo e seguì indignato la freccia, lasciando Villa Stark e il suo proprietario con una nube temporalesca che lo circondava e preannunciava titoli-scoop riguardo all'instabilità emotiva di Tony Stark.
Pepper si diresse a passo di carica in cucina.
"Pace interiore, eh?” ripetè tra sé, esasperata.
Tony si stava versando flemmatico un bicchiere del suo solito intruglio verdastro, e non sembrava molto entusiasta al pensiero di doverlo bere. Pepper lo fissò per qualche istante a braccia incrociate, rimanendo sulla soglia. Era come sempre impegnato a non perdere l'equilibrio anche mentre svolgeva i gesti più banali e quotidiani come versarsi un bicchiere d'acqua – o clorofilla, in quel caso. La protesi tremava nel tentativo di non perdere la presa sul vetro liscio; l'aveva riparata alla bell'e meglio dopo il suo "diverbio" con Steve, ma era ancora deformata e praticamente impossibile da controllare con precisione. La donna aspettò pazientemente che dicesse qualcosa, ma lui non parlò, nonostante fosse sicuramente consapevole di essere osservato.
«È questo il suo concetto di "eroico"?
» proruppe infine lei.
Il bicchiere esplose in una miriade di schegge che si sparpagliarono su tutto il piano cucina e per terra. Tony sobbalzò scrollandosi la clorofilla dalla mano meccanica e contemplò attonito quel disastro, cercando di decidere se fosse il caso di sentirsi più irritati o rassegnati. Infine, optò per uno sfogo più fisico.
«Me lo dica
lei qual è il mio concetto di "eroico", dato che sembra sapere tutto di me, incluso quando ho bisogno di uno psicologo!» esplose, scagliando la caraffa contro il muro di fronte a sé e frantumando anche quella.
Non si voltò a guardare Pepper e rimase a testa china, sorretto dalle braccia puntate contro il piano metallico della cucina. Era intento a riportare il suo respiro a una cadenza regolare senza riuscirvi. Da dove veniva quella rabbia? Forse dalla faglia dolorosa che si era schiusa nel suo petto qualche giorno prima? Non gli era sembrata così preoccupante. Era solo un'altra ferita, dopotutto aveva affrontato di peggio. 
"Ho affrontato di peggio?" si chiese, improvvisamente smarrito. 
La protesi era un rottame, era stato emarginato e tradito, Iron Man era ancora un miraggio lontano, probabilmente oscillava sull'orlo della follia e adesso veniva preso da accessi di rabbia. Non era affatto sicuro di aver affrontato di peggio. Sentiva di preferire qualche ora a sentirsi tuffare la testa in un barile d'acqua sporca, piuttosto che dover fronteggiare Pepper in quel momento, ma trovò comunque il coraggio di voltarsi verso di lei. Nel muoversi si appoggiò al piano in acciaio del lavello con la protesi, stringendone il bordo tra le dita e imprimendovi involontariamente il calco della mano senza sforzo.
Pepper lo fissava attonita dalla soglia, oscillando alternativamente tra lui e il punto in cui si era infranta la brocca, incapace di parlare. Lui si asciugò a disagio la protesi sui pantaloni, sfuggendo il suo sguardo, ma sentendosi innaturalmente calmo, come se quello sfogo insensato e improvviso gli avesse schiarito le idee.
«Avanti, mi dica lei che cosa devo fare,
» sussurrò infine, senza celare la frustrazione e allo stesso tempo con la vivida speranza che lei potesse veramente dargli una risposta.
Lei non rispose subito, infine sospirò e corrugò le sopracciglia, come se quello che stava per dire le costasse molta fatica e allo stesso tempo stentasse a realizzare la portata di quella situazione:
«Prima di tutto, deve
calmarsi.»
«Sono
già calmo,» la interruppe lui, nonostanto la voce sforzata.
«
Questo lo chiama essere calmo?» proruppe lei, indicando la chiazza di clorofilla stampata sul muro.
Tony abbassò di nuovo lo sguardo, cogliendo una traccia di panico nella sua voce più alta del necessario.
«Glielo concedo: sono agitato e forse sconvolto, ma...
» 
«"Ma" cosa? Pensa che rompere oggetti risolva qualcosa?
» 
«No, che non lo penso! Non volevo neanche...
» 
«Non mi interessa se voleva, l'ha fatto comunque, ed è
questo il problema!» 
Pepper alzò nuovamente la voce, facendolo trasalire. 
«Va bene, ho esagerato! Sono impulsivo e lo sono da sempre, dovrebbe saperlo!
» sbottò lui. «È contenta, adesso? Ora possiamo tornare a...» 
«Sarò contenta quando mi permetterà finalmente di aiutarla,
» lo interruppe lei sempre senza schiodarsi dall'ingresso, come se volesse porre un qualche tipo di divisione tra loro due. 
«È quello che
vorrei, Pepper! Ma lei ha deciso che uno psicologo poteva farlo al posto suo!» la accusò, tornando ad affannarsi.
Si costrinse ad appoggiarsi nuovamente al piano della cucina, imponendosi di riportare la sua voce a un volume accettabile. 
"Non con lei, Tony, non prendertela con lei. Non con lei." si passò una mano sul volto nella speranza di poterne scacciare anche le ombre che lo solcavano.
«Non voglio mai più vedere uno strizzacervelli in casa mia,
» disse in fretta, incrociando le braccia sul petto davanti al reattore, come a proteggersi.
«E cos'è che vorrebbe,
esattamente?» insistette Pepper, che nonotante la sua chiara rigidezza sembrava comunque decisa a risolvere quella questione, o almeno a trovare un punto di stallo.
La sua domanda però suonò in tutt'altro modo alle orecchie di Tony, che si sentì nuovamente avvampare, dimentico di tutti i buoni propositi di pochi seocndi prima.
«La
mia cazzo di armatura e la mia cazzo di vita!» gridò, puntandosi il pollice contro il petto, sul reattore. «Rivoglio indietro tutte e due, mi sto uccidendo per riottenerle e voi non mi state aiutando! Non– non come vorrei...» aggiunse domando la propria voce, notando l'espressione ferita di Pepper, la stessa che gli aveva rivolto quando aveva dubitato della sua fiducia.
«Pensavo che parlare con un esperto potesse aiutarla, non scatenare...
questo.» commentò lei a mezza voce, e indicò con un gesto i pezzi di vetro immersi nella clorofilla.
«Ma porca puttana... non voglio un esperto da prendere a parolacce o con cui fare la mia sedutina di lavaggio del cervello!
» 
Tony si appoggiò di peso al piano dietro di lui e incrociò nuovamente le braccia, stavolta cingendosi il torace in una sorta di abbraccio, come a contenere quel flusso di parole dirompente e confortarsi allo stesso tempo. Pepper si trovò a fare un singolo passo avanti nel vederlo nuovamente a capo chino, svuotato di ogni energia. Lui si risollevò improvvisamente, incontrando il suo sguardo chiaro con la sua unica iride nocciola, un tempo sempre animata da una scintilla giocosa e spensierata che celava solo qualche ombra più cupa. Adesso le ombre sembravano aver preso il sopravvento, rendendola torbida e spenta. Quando riprese a parlare la sua voce era calata di qualche tono, ancora troppo alta, ma priva della sua caratteristica vivacità. 
«Voglio discutere con te! Voglio davvero trovare una soluzione a... a tutto questo, ma con te! Con
te!» ribadì. «Non con uno psicologo,» esalò infine, scuotendo la testa. «Stavo provando a farlo qualche giorno fa. E mi sono sentito meglio, stava funzionando, prima che...» la sua voce si affievolì, ricordando come avesse deciso lui di troncare la conversazione, quella volta.
"Prima che io rovinassi tutto come sempre," completò tra sé, stancamente.
Pepper abbassò lo sguardo, persa in pensieri che non voleva immaginare; ritornò oltre la soglia, di nuovo appoggiata allo stipite, di nuovo silenziosa. Quando parlò, fu in un tono freddo e distaccato che non le aveva mai sentito.
«Quindi tutta questa situazione ricadrebbe sulle
mie spalle... e io a chi dovrei rivolgermi per risolvere le nostre "esistenze complicate"?» chiese con pungente schiettezza. 
Tony si sentì sferzare da quelle ultime parole, non aspettandosi che potesse arrivare a menzionare
quell'episodio in un frangente simile, ma prima che potesse rispondere lei riprese a parlare, con suo immenso sollievo:
«
E soprattutto, come dovrei sopportare da sola tutto questo?» accennò al caos causato da Tony.
Non era evidentemente disposta a passar sopra al suo scatto di rabbia ingiustificato. Sembrava che tutto ciò che riuscissero a vedere i suoi occhi fossero i cocci di vetro abbandonati tra di loro come un tagliente campo minato.
«Dannazione, Pep!
» la voce di Tony si fece stridula, più simile a un guaito, e lottò per riportarla a un'altezza normale. «Puoi parlare con me. Dopo tutti questi anni ancora non ti fidi?»
«Non mi fido
adesso. E mi sorprende che proprio da lei arrivino richieste di questo tipo.» rispose lei glaciale, mantenendo la solita, professionale distanza. 
Tony la fissò smarrito. Non riusciva a capacitarsi di quello che aveva appena sentito. 
«Non ho nessun altro di cui fidarmi,
» mormorò sperduto, ma non riuscì a guardarla negli occhi mentre lo diceva.
Eppure desiderava crederci con tutto se stesso e sentirsi dire che fosse così anche per lei, per quanto egoista potesse essere quel pensiero. Pepper tacque e stavolta fu lei ad abbassare il capo, gli occhi celati dalla frangetta fulva.
Tony esitò ancora: guardò il lago di clorofilla e i cocci di vetro ai suoi piedi e l'impronta nel metallo e la macchia verdastra sul muro che sgocciolava lentamente sul bancone già ingombro di schegge e tutte quelle immagini si trasformarono nei pezzi spigolosi di un puzzle che finalmente si ricompose dinanzi ai suoi occhi. Scosse la testa come a impedirsi di focalizzare ciò che raffigurava, ma infine diede voce alla domanda che racchiudeva:
«Mi considera
pericoloso?»
Non si stava rivolgendo davvero a lei; dal suo tono sembrava più una semplice constatazione, più che una domanda. Teneva l'occhio fisso sulla protesi, ora abbandonata mollemente nell'impugnatura della stampella.
Pepper voleva davvero rispondere che no, non la pensava così... ma si sentì oppressa da un brutto presentimento, un qualcosa che le impediva di mentire e che somigliava terribilmente a paura. Si limitò a uscire lentamente dalla stanza senza dargli una risposta.
Tony ci mise qualche secondo a realizzare che non era più lì, e sentì un doloroso vuoto allo stomaco. Lo sguardo gli cadde sul calco delle proprie dita impresse sul bancone; vi poggiò istintivamente la mano, incastrando perfettamente la protesi nei profondi solchi che incidevano il metallo.
Prese un profondo respiro, fremendo improvvisamente di collera, la mente annebbiata da foschi pensieri.
"Pace interiore, Tony. Pace interiore..."
La credenza fu la prima cosa a schiantarsi a terra.




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Revisione effettuata il 24/02/2018


Note delle Autrici:

Alzi la mano chi ha notato l'aumento del linguaggio scurrile! Noi sì *sventolano le mani insieme a Pepper* Oh, beh... lei se ne è accorta!
Comunque! Da qui Tony inizia, letteralmente, a sbroccare. Ma di brutto. È solo l'inizio come si suol dire... e poi ci piace un Tony violento u.u (Ammettetelo!)
I richiami alla pace interiore alla Kung-Fu Panda non hanno effetto su di lui e Maestro Shifu rischia di dargliele...
Ringraziamo e benediciamo dall'alto dei cieli alliearthur, Rogue92, blackpearl_, Micchi e Sherlock_Watson che hanno recensito/aggiunto la storia tra le seguite :D
Non sapete quanto siamo felici **
Ci sentiamo veramente appagate <3


Moon&Light


 



© Marvel

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Capitolo 14
*** Hysteria ***




13

Hysteria




"And I want you now,
I want you now
I feel my heart implode
And I'm breaking out
Escaping now
Feeling my faith erode"


[Hysteria – Muse]



12 Marzo, Villa Stark

Pepper era appena uscita dal bagno, quando notò che la luce nel laboratorio era ancora accesa. Si bloccò nel salone, stupita, e controllò dubbiosa l'orologio a muro, sussultando: erano le tre di notte.
E dire che non avrebbe dovuto alzarsi dal letto... cosa diavolo stava facendo ancora sveglio?
Rabbrividì appena nel suo pigiama di flanella e scese silenziosa le scale a piedi nudi, evitando accuratamente di voltare lo sguardo verso la cucina quando vi passò accanto. Era davvero troppo tardi per mettersi a riflettere anche su quello.
Digitò rapida il codice di accesso sul vetro e la porta si aprì con uno scatto che ruppe il silenzio profondo della casa. Tony era solito lavorare con un po' di musica in sottofondo anche ad orari improbabili della notte, ma stavolta il laboratorio era avvolto da una calma irreale.
«Ha di nuovo rotto il tasto invio. Calibrare potenza: meno 2.3%.»
La voce di JARVIS la fece sobbalzare.
Sentì un'imprecazione a malapena soffocata risuonare nella sala.
Tony le voltava le spalle, seduto alla sua scrivania high-tech invasa di monitor mentre cercava di digitare con la mano destra su una tastiera olografica senza molti risultati: molti tasti erano colorati di rosso, probabilmente a indicare che le simulazioni per calibrare la potenza non stavano dando i risultati sperati. La riparazione del braccio sembrava a buon punto, ma si intravedevano i circuti interni scoperchiati e le dita erano ancora solo un rudimentale abbozzo metallico, simili a pistoni. Ebbe l'impressione che ne avesse alleggerito la struttura, ma sembrava molto più difficile da gestire della protesi precedente, a giudicare dai movimenti scattosi e improvvisi che non riusciva a controllare.
Intorno a lui galleggiavano varie schermate e due modelli tridimensionali rispettivamente di un braccio e una gamba, oltre ad una serie infinita di altri piccoli pannelli che mostravano dati anatomici e cartelle mediche che Tony esaminava rapidamente sfogliandoli e spostandoli con piccoli gesti precisi della mano sana. Pepper si accigliò: stava già pensando alla gamba?
Le cose più evidenti in tutto quel caos erano l'enorme thermos di caffè e una desolata scatola di cinese take-away che Tony stringeva ossessivamente con la mano sinistra a mo' di pallina anti-stress. Era deformata e semidistrutta.
«Tony, sono le tre...» lo chiamò con voce impotente, sapendo che non la avrebbe neanche ascoltata.
Lui sobbalzò appena al suono della sua voce, ma rispose quasi subito:
«Lo so, ma questo maledetto affare...» imprecò, senza neanche voltarsi, accartocciando la tastiera in una palla elettronica e scagliandola con un bing dall'altra parte della stanza, insieme alla scatola di carta che gettò nel cestino stracolmo.
I suoi gesti erano secchi, nervosi, e Pepper si chiese se oltre al caffè non avesse bevuto anche qualche alcoolico. Sperò vivamente di no: ricordava fin troppo bene il modo in cui si riduceva ai suoi party megagalattici e sapeva quanto poteva essere vulnerabile e al contempo volubile da ubriaco. E non aveva nessuna intenzione di trascinarlo di peso fino alla tazza del water dopo una sbronza epocale.
«Dovrebbe andare a dormire, è molto tardi. Le ricordo che domani, cioè oggi, dovrebbe discutere con Kyle del prossimo processo,» disse in tono calmo e naturale, cercando di non risultare autoritaria.
Le riusciva difficile: dopotutto, anche se tecnicamente era lui il suo capo, era lei a dargli ordini. O meglio, direttive che lui raramente seguiva.
«Ah, sì... Kyle,» replicò Tony, agitandosi al solo sentire quel nome in un misto di imbarazzo e irritazione. «Di questo passo non so neanche se sarò in grado di "pagarlo",» sbottò, accennando al suo lavoro decisamente incompleto.
Pepper quasi sperò che a quel punto rinunciasse, si alzasse e le desse retta, per poi accorgersi che probabilmente, assorto com'era dal suo lavoro, si era già dimenticato della sua presenza. Si avvicinò esitante, ancora non del tutto certa delle sue condizioni, e notò con sollievo che non c'era odore di alcool; solo clorofilla, caffè e la scia del suo solito dopobarba. Tony udì i suoi passi fermarsi accanto a sé e si girò brevemente, offrendole uno scorcio del suo occhio gonfo di sonno e del livido sullo zigomo che non accennava a sparire.
«Un ultimo paio di test e poi vado... non rimanga sveglia,» aggiunse in un mormorio assente, ma con una punta di dolcezza, per poi riprendere il lavoro come se Pepper non esistesse.
Pepper corrugò le sopracciglia, ma non obiettò ed ignorò l'invito, appollaiandosi in tensione sullo sgabello libero accanto a lui. Lui ne prese atto, storse la bocca, ma non disse nulla. Scrutò con fare assorto l'anatomia di una gamba umana, evidenziando con la punta di un dito le parti essenziali e le giunture, tracciando linee che indicavano probabilmente i punti in cui sarebbero stati collocati i vari componenti.
«Ci sono,» ragionò a mezza voce.
Afferrò distratto una borraccia e vi si attaccò, ma fece una smorfia nel riconoscere il saporaccio della clorofilla; la sostituì subito con la tazza di caffè, trovandola però vuota.
«JARVIS, voglio una scannerizzazione precisa e completa del mio arto inferiore sinistro, tessuti molli compresi. E che sia esauriente,» disse, e scolò in un sorso l'ultimo goccio di caffè rimasto nel thermos attaccandosi direttamente ad esso.
Pepper aspettava pazientemente che finisse i suoi esami, per essere certa che andasse a dormire a lavoro finito, ma si sentiva insolitamente nervosa. Ci mise un po' a capire che la ragione di quel turbamento era proprio l'uomo esausto di fronte a lei.
"Mi considera... pericoloso?" le rimbombò in testa, come una puntura di spillo improvvisa.
Non era ancora in grado di darsi un risposta e voleva evitare di ragionarci su adesso. Si accomodò meglio sullo sgabello, pensando che probabilmente si sarebbe addormentata lì.
Intanto, un fascio di luce verde-azzurro scannerizzò la gamba sinistra di Tony con un sibilo elettronico. A scansione completa l'arto emanava un lieve bagliore; bastò un tocco delle dita per separare il modello virtuale dal suo corpo.
«Speculare,» ordinò Tony, e con uno schiocco di dita lo specchiò, trasformandolo in una gamba destra.
Il modello rimase sospeso di fronte a lui, che cominciò ad esaminarlo con attenzione, ingrandendone i pezzi e studiandone approfonditamente la struttura. Ogni tanto intingeva le dita in vari quadratini di vari colori che gli galleggiavano accanto, corrispondenti a lui solo sapeva cosa, ed evidenziava alcuni tratti della gamba che da allora rilucevano di una luce metallica. Fu piuttosto rapido: in un quarto d'ora scarso l'aveva trasformato in un modello meccanico.
Pepper lo giudicò troppo rapido perfino per i suoi standard: non era tipo da fare le cose di fretta, anzi, poteva passare ore e ore a perfezionare un dettaglio insignificante, ma d'altra parte si sentiva chiudere le palpebre dal sonno, quindi ne fu contenta. Tony sembrava invece non risentire dell'ora, probabilmente alimentato da nervosismo, caffeina e disperazione.
«JARVIS, questo è un prototipo,» disse con voce monotona. «Osso in titanio, muscolatura in unobtanium, cartilagine in unobtanium molle...» la sua voce si perse in un mormorio confuso, mentre elencava una decina di altri elementi e il computer reagiva trasformando le informazioni in una scheda dettagliata che si srotolò di fianco al modello.
Quando finì di parlare bevve un rapido sorso di clorofilla, a corto di altre bevande.
«Testala col mio peso corporeo.»
Un modello 3D essenziale con le sue sembianze si materializzò di fronte a lui e Tony vi applicò la gamba meccanica, che aderì al moncherino digitale con un tenue bip. Finalmente si girò verso Pepper con un sorrisetto compiaciuto; lei ebbe l'impressione che le occhiaie gli arrivassero alle ginocchia, ma ricambiò debolmente. Tony battè una volta le mani – facendosi palesemente un male cane per la troppa forza – producendo un suono indistinto che avviò la simulazione. Il modello si mosse e fece un paio di passi, ma al terzo la gamba si spezzò. Il sorriso svanì dal volto di Tony, adesso rabbuiato e accigliato mentre seguiva con lo sguardo la colonna di calcoli che scorreva accanto al modello.
«Errore di progettazione rotula: metallo insufficiente; sovraccarico energetico insostenibile: fusione a 3.7 secondi dall'avvio.»
«Cazzo... di nuovo.»
Scansò il modello con una manata, lo accartocciò e lo gettò stizzito in un angolo, dove esplose in una miriade di scintille virtuali.
Si passò una mano sulla fronte e sospirò sfinito. Pepper stava per consigliargli di andare finalmente a letto, ma le sue successive parole scacciarono qualsiasi premura nei suoi confronti:
«Portami un caffè.»
Pepper non rispose per qualche secondo, quasi convinta che stesse parlando con JARVIS, ma questo rimase muto. Quando rispose, la sua voce era forzata.
«Prego?»
Gli stava chiaramente offrendo l'opportunita di rimangiarsi quel che aveva appena detto, ma lui continuò imperterrito:
«Ho chiesto quella bevanda nera e bollente fatta di acqua e caffè; è tanto complesso? Di sicuro non più di questo,» sbottò Tony.
«Sono la sua assistente, non la sua cameriera,» puntualizzò Pepper, alzandosi in piedi e indecisa se lasciarlo lì o avviare una discussione che si prospettava infinita e devastante.
Era tentata dalla seconda opzione, soprattutto per il fatto che Tony non la stava neanche guardando.
«E allora, assistente, portami del caffè. Ti pago anche per questo,» tagliò corto lui, immergendosi nuovamente nel flusso di dati che si dipanava di fronte a lui.
Pepper a quel punto si avvicinò di scatto e lo voltò bruscamente per la spalla sana. Si ritrovarono faccia a faccia, entrambi scuri in volto.
«Cos'è questa confidenza?» scattò lui, con un'espressione a metà tra il risentito e il difensivo, adocchiando con una sorta di timore represso il punto in cui lo stava toccando. 
Allentò la stretta, forse troppo decisa.
«Lei ha
veramente bisogno di dormire,» proferì, cercando di non far vibrare la propria voce.
«Sei la mia assistente, non mia madre. Lei non c'è più da un pezzo.»
Si divincolò debolmente, ma Pepper non mollò la presa, intuendo che se l'avesse fatto lo avrebbe perso.
Non lo aveva mai sentito neanche vagamente accennare a sua madre in dieci anni e adesso la nominava in un contesto talmente futile da darle un'idea di quanto dovesse essere esaurito. Probabilmente non aveva neanche piena coscienza di quel che stava dicendo. Lui girò la testa verso lo schermo, ignorandola platealmente e offrendole il lato cieco.
Pepper non seppe esattamente se fosse il fatto che non la volesse ascoltare, o che la stesse ignorando, o il modo plateale in cui l'aveva insultata, ma sentì la sua valvola di controllo sempre così efficiente che perdeva un colpo. Le successive parole le sfuggirono come un fiotto di vapore tenuto troppo a lungo sotto pressione:
«Devi-dormire!» scandì, diventando rossa in viso, tralasciando le formalità e non riuscendo a ricordare quando l'avesse effettivamente visto riposarsi negli ultimi tre giorni.
«Devo-rifarmi-una vita!» urlò lui di rimando, tornando a fissarla con uno scatto.
Si sarebbe probabilmente alzato dalla sedia per fronteggiarla, se solo avesse potuto. Pepper lo lasciò andare di colpo, presa in contropiede da quella reazione. Tony aveva il respiro accelerato e la fissava come se volesse farla scomparire di lì all'istante. Stava tremando ed era pallido, troppo pallido, con la pupilla così dilatata da far sembrare nero il suo unico occhio. Per un istante, le fece paura. 
Strinse di nuovo la valvola dell'autocontrollo, convogliando tutta la sua concentrazione nel
non abbassarsi al suo livello.
«Ti sembra che pretendere troppo da te stesso e stressarti fino a questo punto possa...» cominciò, in tono quasi ragionevole, ma a quelle prime parole Tony s'infiammò all'istante, perdendo definitivamente ogni briciolo di razionalità:
«Stressarmi? Cosa ti fa credere che mi stia stressando?» gridò, e la sua voce si arrochì, costringendolo a fare una breve pausa per deglutire, ma poi riprese con più foga di prima:
«Forse l'improvvisa mancanza di due arti e un occhio, un'accusa che mi pende tra capo e collo e dei Vendicatori incazzati neri da gestire, per non parlare del fatto che Cap mi ha sfondato un braccio!? Che intuito, Pepper! Ma hai ragione, non dovrei affatto stressarmi! Dovrei continuare a vivere normalmente, come se fosse possibile!» si fermò ansante, in tensione sulla sedia come se volesse balzarne via da un momento all'altro. «Come se non volessi strapparmi questa roba di dosso e riprendere la mia vita, se solo potessi!» urlò infine con tutto il fiato che gli era rimasto in petto, facendola quasi indietreggiare con la sua furia, ma si costrinse a rimanere salda e ben piantata al suo posto, sapendo che se avesse ceduto non sarebbe mai più potuta tornare indietro.
C'era una linea, tra loro, e lei l'aveva superata, spingendo Tony a fare lo stesso. Adesso non poteva barricarsi di nuovo dietro di essa. Era in campo aperto e non si sarebbe ritirata prima di aver fatto ciò che riteneva giusto; avrebbe impedito a quel senso di colpa strisciante di prendere il sopravvento su di lei.
«Tony, io capisco che vuoi solo tornare...»
«No, che non capisci!» la interruppe lui, con la voce roca per il troppo urlare. «Come potresti mai capire quello che sto passando?» la provocò, in tono quasi derisorio.
«E tu capisci cosa sto passando io nel vederti così?» fallì nell'intento di non mettersi a gridare anche lei.
«Non mi serve la tua pietà!» s'inalberò nuovamente lui.
«Non puoi continuare così!»
«Devo farlo!»
«Non dormi da settimane!»
«E ti sei mai chiesta perché?» la rimbeccò lui, con arroganza mista a incredulità. «Non ci riesco, a dormire! Non ricordo l'ultima volta in cui i moncherini mi abbiano fatto chiudere occhio!» serrò la mascella di colpo, come se non avesse avuto intenzione di dire quelle ultime parole.
«Se prendessi gli antidolorifici...»
«Non funzionano!» replicò lui, e una crepa si insinuò nella sua voce. «Mi fanno male lo stesso, in continuazione!»
Pronunciò quelle parole con tanta frustrazione e sofferenza che Pepper ammutolì brevemente, divenendo consapevole delle costanti linee di tensione che segnavano il volto di Tony e che solo allora riconobbe come tracce del dolore fisico che lo tormentava.
«Così non ti stai aiutando,» riuscì solo a ribattere, in tono sconfitto, sperando che tornasse in sé.
«Non mi sembra che neanche tu mi stia aiutando più di tanto,» dichiarò lui altrettanto piattamente.
La donna lo fissò incredula per quelle parole, ma lui girò di nuovo la sedia, voltandole le spalle e selezionando una nuova schermata per ricominciare da zero il prototipo, come se il loro alterco non fosse mai avvenuto. Pepper lo fissò attonita per ancora qualche secondo, ferita e combattuta tra l'istinto di prenderlo a schiaffi e quello di tornarsene a casa sua seduta stante. Aveva passato gli ultimi mesi a farsi in quattro per lui, per gestire la sua azienda, si era addirittura trasferita per tenerlo d'occhio, gli aveva trovato un avvocato e un medico e doveva anche sentirsi dire che non faceva abbastanza.
«Sto ancora aspettando il mio caffè,» riprese lui in tono secco e provocatorio, come se volesse testare quanta pazienza le fosse rimasta.
«Subito, signor Stark scandì fumante lei, senza dargli soddisfazione.
Inspirò profondamente per non urlargli in faccia dove sarebbe potuto andare col suo dannato caffè. Si trattenne. Aveva un'idea migliore.
Si avviò con passo deciso verso l'angolo cucina, ma virò subito verso la parete, folgorata da un'altra illuminazione che avrebbe sicuramente demolito il poco autocontrollo rimasto in Tony. Non le importava delle ripercussioni di quel gesto: in quel momento sentiva solo un'indignazione cieca nei suoi confronti, unita all'intenzione di infastidirlo. Digitò rapida il suo codice d'accesso su uno schermo infisso nella parete e la voce di JARVIS iniziò a dire qualcosa, ma fu troncata dal blackout improvviso. L'unica fonte di luce rimasta nella stanza era un piccolo cerchietto azzurrino che sembrava fluttuare nel buio.
«No! Il mio prototipo! Dannazione... Potts!» esclamò lui, la sua voce densa di rabbia allo stato puro.
La luce azzurra sparì un momento, tremolò e riprese a brillare normalmente.
«Sì, signor Stark?» ribattè glaciale lei, sopprimendo il picco d'ansia nel vedere lo sfarfallio del reattore.
Si accesero le luci di emergenza e questa volta JARVIS riuscì parlare:
«Drastico calo di tensione; luci di emergenza: attivate. Signore, i dati sono stati sal–...»
«Muto. Ma grazie, JARVIS, il tuo aiuto è prezioso!» commentò acido lui, illuminato fievolmente da una luce verdastra oltre che dal reattore, cosa che accentuava le ombre cupe sul suo volto.
Pepper fece brevemente tappa nell'angolo cucina, mentre Tony continuava a imprecare in sottofondo, per poi riavvicinarsi a lui con un thermos in mano.
«È tutto, signor Stark?» chiese con forzata tranquillità.
«In realtà sì, signorina Potts, quindi potrebbe farmi il gentile favore di andarsene a...» si interruppe di colpo, annaspando stordito.
Ci mise qualche secondo per realizzare che Pepper gli aveva appena rovesciato l'intero thermos di caffè freddo in testa, fradiciandolo da capo a piedi. Pepper rimase ferma di fronte a lui, furibonda, impettita e con un'espressione vagamente soddisfatta nell'osservare la sua faccia stralunata e rigata da gocce scure. Lui la guardò assente, con la bocca schiusa, toccandosi incredulo i capelli grondanti della sua amata bevanda e strizzandoli appena, come a verificare che non si stesse immaginando tutto. Sembrava aver recuperato un briciolo di lucidità adesso, anche se l'espressione vacua sul suo viso non preannunciava nulla di buono. Era chiaro che stesse disperatamente pensando a come reagire, ma sembrava in stato confusionale. Spostava a piccoli scatti lo sguardo da un occhio all'altro di Pepper, non sapendo dove guardare e incapace più che mai di sostenere quel concentrato d'indignazione e furia.
Scrollò brusco la testa, sprizzando goccioline qua e là e sistemandosi invano la benda sul volto, ormai umida e quasi staccata dalla sua pelle. Abbassò il capo, poi si voltò di lato per non doverla fronteggiare. Infine le voltò ostentatamente le spalle, girando sulla sedia. Pepper rimase piantata al suo posto, senza parole, col thermos vuoto in mano e la rabbia che lasciava posto allo sconforto.
«Vattene,» lo udì mormorare, così piano da sembrare quasi un respiro.
E in quel momento decise che non l'avrebbe mai fatto. Non si mosse di un passo, decisa ad aspettare anche tutta la notte, finchè Tony non si fosse deciso a cedere, a spiegare non sapeva neanche cosa, a parlarle, come diceva di voler fare nonostante lei glielo avesse negato. Di nuovo quel bruciante senso di colpa si ripresentò, più potente e giustificato.
Tony fissava, probabilmente senza vederli, la miriade di bozzetti e componenti di arti meccanici accatastati sulla scrivania, mentre strizzava con aria assente la maglietta bagnata e si passava la mano tra i capelli scomposti nel fiacco tentativo di asciugarli. Afferrò distrattamente un frammento di lamina metallica con la mano meccanica e lo stritolò come se fosse un pezzo di carta.
Sospirò profondamente. Il rottame cadde con un clangore sul pavimento.
«Vattene,» ripetè, con più forza.
Sembrava sul punto di esplodere di nuovo.
Avrebbe potuto permetterglielo. Avrebbe potuto istigarlo di nuovo, scuoterlo, portarlo al limite che aveva già superato.
«Non sei pericoloso.»


***


La sentì pronunciare quelle semplici parole, le uniche che avesse mai voluto sentire, e sussultò violentemente, come se avesse ricevuto una scossa. Per quasi un minuto cercò una risposta che potesse convincerla del contrario, prima di rendersi conto che voleva crederci con tutto se stesso. Poggiò i gomiti sulle ginocchia e si prese la testa fra le mani, raggomitolandosi e traendo respiri profondi e stentati.
«Come faccio?» sussurrò quasi inudibile.
Percepì le mani di Pepper posarsi sulle sue spalle e sapeva che poteva sentire il tremito che lo scuoteva.
«Come faccio...?» ripetè ancora, affondandosi le dita tra i capelli bagnati.
La donna voltò lentamente la sedia per guardarlo in faccia, ma lui rimase chino. Scosse la testa nel buio, amareggiato, umiliato, vergognandosi per quel che le aveva detto e per lo stato pietoso in cui si trovava. Fissò lo sguardo sulla pozza di caffè ai suoi piedi. In quel momento non si sentiva davvero in grado di fare nulla, neanche di parlare.
Pepper sembrava altrettanto annullata; si chiese se lo stesse compatendo o se volesse semplicemente lasciarlo lì e andare via, lontano da lui e dai suoi problemi che stavano facendo crollare il suo mondo e anche quello di chi lo circondava.
Non alzò la testa, non potendo sopportare di vederla allontanarsi, anche se ne aveva tutte le ragioni.
Si sentì invece stringere senza preavviso da un abbraccio caldo che avvolse entrambe le sue spalle, quella fredda e inerte e quella ancora umana, che sentì muoversi d'istinto per ricambiare, come se non avesse aspettato altro. Tony non aveva previsto quella reazione, neanche da parte propria, ma si rese conto che era davvero tutto ciò che aveva desiderato da quando si era svegliato in quel letto d'ospedale.
Lei era lì anche allora. C'era sempre stata. E aveva bisogno di lei più delle protesi, più di Iron Man, più del suo inutile orgoglio che gli faceva pronunciare parole che rimpiangeva subito dopo.
Aveva bisogno di qualcuno a cui aggrapparsi e che lo sostenesse quando lui non poteva più farlo da solo. Avrebbe dovuto ammetterlo prima di comportarsi così.
«Questo è troppo anche per me,» confessò infine, e con quell'ammissione percepì finalmente tutta la reale entità del dolore fisico e mentale che lo stava a poco a poco corrodendo e che aveva scelto di ignorare.
Lo stava consumando e non aveva fatto nulla per impedirlo. Stava per lasciarsi dietro solo un uomo distrutto senza più niente per cui vivere o anche solo andare avanti.
«Shh...» Pepper gli sussurrò dolcemente all'orecchio, ignorando il fatto che fosse fradicio di caffè e stringendolo comunque con delicatezza, china su di lui con un ginocchio sulla sedia e incurante della chiazza scura che i suoi capelli stavano imprimendo sul suo pigiama.
Gli accarezzò appena la base del collo, arricciandogli i capelli e quel gesto lo rassicurò un poco, ma non lo convinse ancora a sciogliere l'abbraccio, anzi, la strinse appena col braccio sano, lasciando quello meccanico abbandonato lungo il fianco, non fidandosi abbastanza per usare anche quello. Inspirò a fondo e insieme all'aroma del caffè percepì il profumo di Pepper, dei suoi vestiti appena lavati, della sua pelle dolce che gli sfiorava il naso, dei suoi capelli sciolti contro la sua guancia. Iniziò a parlare piano, con voce stanca e soffocata contro la stoffa della sua maglietta.
«Pep, sto impazzendo. Non so cosa devo fare. Mi sembra di non impegnarmi abbastanza. Ho costruito un cuore con una cassetta degli attrezzi in una caverna. Questo dovrebbe essere uno scherzo per me, ma non ci riesco, non voglio farlo o... non lo so neanch'io,» sbottò senza neanche riuscire ad alzare la voce, tenendo nascosto il volto e stringendola appena.
Pepper continuò ad abbracciarlo, ma non replicò, come ad assicurarsi che non volesse aggiungere altro. Lo stava ascoltando, finalmente, e si sentì scoppiare il cuore di sollievo a quella realizzazione.
«Tony,» riprese, quando lui non aggiunse altro, «stai lavorando tantissimo, capisco quanto sia importante per te, ma questo è troppo. Hai bisogno di darti tempo.»
«Come faccio a darmi tempo?» Tony scosse la testa e trovò la forza di staccarsi appena da quella stretta rassicurante che era riuscito a trovare dopo tanta sofferenza. «Mi aspettano tutti, Pep. Non posso essere una delusione. Non posso fallire.» Prese fiato, sentendosi chiudere la gola. «Non posso perdere tempo,» concluse in un mormorio appena udibile, rendendosi conto di averne perso fin troppo, di aver già sprecato parte della sua vita.
Aveva deluso suo padre, stava deludendo Yinsen e adesso stava per deludere anche lei. Raccolse la forza per cercare i suoi occhi oltre il proprio sguardo appannato. Lei ricambiò con l'espressione rassicurante e forte che le conosceva, ma allo stesso tempo venata dalla stessa stanchezza che percepiva in sé. Era stanca, adesso riusciva ad accorgersene, e lui era stremato da quella situazione priva di uscite. Aveva il disperato bisogno di una via di fuga.
Il suo sguardo si posò involontariamente sulle labbra di Pepper e non riuscì a distoglierlo abbastanza in fretta da evitare che lei se ne accorgesse. Incontrò brevemente i suoi occhi mentre anche lei si soffermava sulla sua bocca. La attirò un poco a sé, cauto, e lei lo assecondò, avvicinandosi e inclinando appena di lato la testa.
Tony si fermò, per la prima volta incerto su come comportarsi, ma le posò comunque la mano sulla sua guancia punteggiata di efelidi, timoroso che potesse ritrarsi. Sentì il suo naso sfiorare quello di Pepper, freddo contro la sua pelle accaldata. Rimase paralizzato, a pochi centimetri dalle sue labbra, dalla sua via di fuga, dalla donna che desiderava e che adesso aveva socchiuso gli occhi fissandolo con un misto di curiosità, confusione e aspettativa. Adesso sentiva il suo respiro sulle sue labbra, a un soffio dalle sue.
Prima che potesse ripensarci ancora la attirò con decisione a sè e la abbracciò strettamente, affondando il volto nei suoi capelli e sentendo con una morsa di panico il suo cuore che perdeva un battito. Non ebbe bisogno di guardarla in faccia per percepire il suo stupore, ma sperò che capisse quello che neanche lui riusciva del tutto a spiegare. Non poteva farlo. Non poteva e basta. Non in quello stato, non mentre era... così.
Pepper sciolse piano l'abbraccio, rimanendo al livello dei suoi occhi, ancora accanto a lui, ma a una distanza decisamente maggiore di prima. Tony si costrinse a sostenere il suo sguardo con fermezza che non sentiva propria.
Si sentì parlare senza poter ricordare di averlo voluto:
«Si ricorda cosa è successo prima del processo?» sentì la sua voce spegnersi alla fine della frase, mentre prendeva consapevolezza di quel che stava dicendo.
Cosa gli era venuto in mente? Era impazzito del tutto?
Notò il tentennamento di Pepper, che cercava forse di trovare una logica nelle sue azioni, senza ovviamente trovarla. Ma era abituata a mantenere la sua risolutezza anche nelle situazioni più tese, così rispose, appena un po' inquieta:
«Quando, esattamente?»
"Cambia argomento," gli suggerì con fermezza la sua parte razionale.
La sua bocca ignorò il consiglio, così come prima aveva ignorato quello di incontrare le labbra di Pepper, e continuò a muoversi di sua volontà:
«Sa... mentre aspettavamo Kyle e Ian. Nella sala d'attesa,» si trovò a dire, anche se sentiva chiaramente che non era il momento adatto per affrontare la questione.
Non era il momento adatto per parlare, ecco tutto.
«Prima del processo? Mi sembra che non sia accaduto nulla,» rispose allora lei con improvvisa naturalezza, facendo scivolare via il ginocchio dalla sedia e recuperando una distanza ragionevole tra loro.
Era estremamente risoluta. Forse era anche ferita, e scorgeva una scintilla di delusione nei suoi occhi... come poteva anche essere risentimento o sollievo. In quel momento la donna gli era indecifrabile. L'unica cosa chiara era ciò che voleva intendere con quelle parole: non ci voleva poi un genio come lui per capirlo. Recuperò la sua solita, gioviale disinvoltura con una rapidità che non avrebbe creduto possibile:
«Oh. Ha perfettamente ragione. Sa, questa è una delle molte qualità che la contraddistinguono: la perspicacia,» buttò lì Tony, cercando di suonare indifferente senza molto successo.
Fece un sorriso un po' stentato, incrinato da un punta di rammarico. Lei non ricambiò, ma il suo volto era disteso. Fu chiaro a entrambi che la questione era chiusa.
«È tutto, signor Stark?»
Quelle poche, precise trapassarono brutalmente le orecchie di Tony, che si ritrovò disorientato per qualche secondo nell'accorgersi che Pepper era ora in piedi di fronte a lui, composta come sempre, con la sua solita espressione neutra e cordiale. Inghiottì il nodo alla gola e rispose con altrettanta scioltezza:
«È tutto, signorina Potts.»
Dentro di lui, qualcosa si ribellò a quell'affermazione, ma non vi badò. Sarebbe scomparso tra poco, quel senso di incompletezza che l'aveva appena pervaso, grazie alla quantità esagerata di antidolorifici che progettava di assumere di lì a pochi minuti per dormire, finalmente. Tutto pur di inibire qualsiasi dolore fisico, psicologico o immaginario. Quei secondi di pesante silenzio furono interrotti da lui stesso:
«Forse è il caso...»
«... che vada a dormire,» completò lei, con ferrea fermezza.
«Io... sì, forse ha ragione,» borbottò Tony, preso alla sprovvista e accusando improvvisamente tutta la stanchezza della giornata e il sonno arretrato.
Voleva dire tutt'altro, ma si alzò comunque senza parlare, puntellandosi sulle stampelle.
«Sarà anche il caso che passi a farmi una doccia...» aggiunse poi, scollandosi di dosso la maglietta ancora bagnata, indeciso se scherzarci sopra o meno.
Optò per il silenzio e Pepper fece lo stesso. Si avviò verso l'uscita del laboratorio, seguito da Pepper, che lo scortò fino alla porta del bagno per evitare che se la squagliasse.
«Me la cavo da solo,» la rassicurò lui, aprendo il getto della vasca. «Al massimo mi addormento qui,» aggiunse in un tentativo di smorzare la tensione.
«Se le serve...» cominciò Pepper, ma lui la interruppe, più bruscamente di quanto intendesse:
«C'è JARVIS. Non si preoccupi,» aggiunse in tono più conciliante, sedendosi su uno sgabello e iniziando a svestirsi. «Buonanotte,» le augurò poi sottovoce, mentre lei già chiudeva la porta.
Gli sembrò di sentirla ricambiare, ma non ne fu certo e fissò ancora per qualche secondo la porta, come aspettandosi di vederla riaprirsi per fugare il suo dubbio.


***

Pepper rivolse un sguardo indecifrabile a Tony, che le augurò la buonanotte, poi chiuse la porta e si defilò nel corridoio senza voltarsi. Solo dopo qualche passo realizzò di non avergli risposto, ma era troppo tardi per tornare indietro e adesso era probabilmente troppo occupato a destreggiarsi tra vestiti e stampelle. Raggiunse in stato quasi catatonico la sua stanza, si cambiò rapidamente il pigiama macchiato di caffè e collassò sul letto, abbandonandosi sul materasso e rimandando la doccia al mattino dopo. Lanciò un'occhiata all'orologio: erano le quattro del mattino passate. Emise un sospiro esausto prima di chiudere gli occhi senza riuscire a dormire.
Si arrese infine al sonno, incapace togliere dai suoi sogni confusi l'immagine traballante di un cerchietto azzurrino che fluttuava nel buio della sua camera.



***

12 Marzo, Villa Stark

Si svegliò alle nove, decisamente distrutta, ma era almeno in grado di reggersi in piedi. Si alzò barcollando per il sonno, infilandosi subito sotto la doccia. Uscì dal bagno vestita di tutto punto, coi capelli ancora leggermente umidi. Doveva sbrigarsi: Kyle sarebbe arrivato entro le dieci. Avrebbe anche dovuto avvertire Tony, perché l'aveva sicuramente dimenticato. Esitò sulla soglia della propria stanza, poi si ricordò la parola d'ordine che si era imposta per quel giorno: normalità.
Diretta in salone, passò davanti alla stanza dell'uomo e vide che era chiusa. Bene: stava ancora dormendo, e aveva decisamente bisogno di recuperare il sonno perso.
Scese in laboratorio, dove aveva lasciato le pratiche legali, e si stupì nel vedere che in realtà Tony era già in piedi e lavorava vivacemente a un abbozzo della protesi della gamba, che stava già assemblando sul banco da lavoro.
"Chissà a che ora si è..." non completò il pensiero, perché notò che la protesi era un po' troppo complessa rispetto a quella notte per essere stata costruita in breve tempo.
Si arrestò sulle scale e, senza farsi vedere, tornò di sopra avviandosi verso la stanza di Tony. Aprì la porta con malcelata angoscia e vide esattamente ciò che si aspettava: il letto era intatto.
Sospirò, delusa, e serrò le labbra in una linea tesa.
Non andava bene... non andava affatto bene.




 
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Revisione effettuata il 24/02/2018

 

Note delle Autrici:

Ora, gentili lettori, chiudete gli occhi, immergetevi nel vostro flusso di coscienza ed immaginate un sonoro... "C-O-G-L-I-O-N-E!" esplodere nei recessi della mente di Tony dopo la marea di stronzate che dice al momento sbagliato.
Sappiamo di aver dipinto così il vostro beneamato Tony, ma d'altronde lo è sempre, almeno un po'... giusto?
E adesso possiamo dire che iniziano i c***i, anche se ce n'erano già abbastanza in tutti i sensi :D 
Ringraziamo immensamente chi continua a seguirci/resercinci e cioè: Rogue92, alliearthur, blackpearl_, Sherlock_Watson, Micchi.
See ya! ;P

Moon&Light


Edit 24/02/2018: La modifica più evidente a questo capitolo è la sostituzione dello schiaffo con una bella doccia di caffè. Questo perché, semplicemente, rileggendo il capitolo mi sono resa conto di quanto, quanto fosse OOC Pepper che agisce in quel modo. Anche qui sfioro l'OOC, ma vedo molto più plausibile che "sbrocchi" in questo modo, piuttosto che ricorrendo alla violenza fisica. Al massimo ci vedrei una Nata
ša, a reagire così.
Oltre al fatto che giustificare un gesto simile (come effettivamente accade nei capitoli successivi), è sbagliato a prescindere. Così come giustificare questo, sebbene più blando, perché si tratta comunque di un'umiliazione imposta a qualcuno in uno stato decisamente vulnerabile. Non sono una fan del politically correct, ma un conto è far agire i personaggi in un certo modo, un conto è condonargli tutto.

 



© Marvel

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Capitolo 15
*** Scar tissue ***




14

Scar tissue






"Another head aches, another heart breaks
I am so much older than I can take
And my affection, well it comes and goes
I need direction to perfection
Help me out
Yeah, you know you got to help me out"


[All These Things That I've Done – The Killers]



12 Marzo, 9:30, Villa Stark
N
on riusciva a ricordare di preciso quando si fosse addormentato, ma il freddo piano del banco di lavoro non gli era mai sembrato così comodo, così continuò tranquillamente a tenere l'occhio chiuso cercando di ricadere nel dormiveglia. Stava anche facendo un sogno niente male, considerando che implicava una donna non meglio identificata che ballava una lap dance in un night club, e lui stesso con ancora tutti i pezzi al loro posto che si godeva lo spettacolo sorseggiando un drink.
Riaprì con cautela l'occhio quando realizzò che non sarebbe mai riuscito a riaddormentarsi, vista la quantità immane di caffè che ancora gli scorreva nelle vene – e non solo – e che quindi non aveva speranze di riprendere il sogno. Il che non era poi una conseguenza così malvagia, considerando il fatto che la donna in questione somigliava un po' troppo a Pepper, e dopo gli avvenimenti del giorno prima non aveva alcun bisogno di complicare ulteriormente il suo rapporto con lei, tantomeno immaginandola in atteggiamenti provocanti e sconvenienti. Scacciò quei pensieri su cui aveva rimuginato fino ad allora – cioè prima di crollare semisvenuto per la stanchezza – e che avevano il potere di fargli venire una forte emicrania se tentava di analizzarli e trovarvi un senso logico.
Non si mosse dal tavolo, rimanendo con la testa abbandonata sulle braccia incrociate e con lo sguardo vagamente disgustato fisso sulla protesi inferiore in attesa del suo intervento per essere completata. Calcolò stancamente che gli mancavano forse due settimane per renderla funzionale se continuava a lavorare a quel ritmo sfibrante. Tre settimane se avesse rallentato un po', come il suo corpo esausto gli implorava di fare... ma non poteva mollare proprio ora che gli mancava così poco. Non doveva essere perfetta, non doveva neanche essere definitiva: gli serviva solo un dannato pezzo di ferro che lo facesse stare in piedi; ai dettagli e al perfezionamento avrebbe pensato in seguito. E poi il processo ormai incombente, la futura riabilitazione, la terapia – perché sapeva che prima o poi avrebbe ceduto anche a quella –, l'occhio – l'occhio, dannazione! Non aveva davvero intenzione di starsene con una benda per il resto della vita –, Iron Man e i Vendicatori...
Emise un lamento soffocato nel rendersi conto della quantità esorbitante di problemi che si era accumulata sulle sue spalle in quel breve lasso di tempo. Iniziava a rimpiangere la miriade di riunioni aziendali a cui era solito svicolare fino a pochi mesi prima. Adesso avrebbe fatto salti di gioia per essere anche solo in grado di presenziarvi.
Si passò la mano buona sul volto, incitandosi mentalmente a svegliarsi del tutto e a riprendere il lavoro, ma si limitò a rimanere riverso sul bancone, indolente, assonnato e allo stesso tempo incapace di dormire. L'insonnia lo stava sfibrando e non era neanche tutta colpa dei moncherini, o almeno non del disagio fisico che gli provocavano, visto che aveva davvero ricominciato ad assumere regolarmente i suoi antidolorifici. Aveva comunque l'impressione che non migliorassero più di tanto le cose. Ma no, era anche altro a tenerlo sveglio la notte. Un qualcosa di intangibile che gli causava però un senso di nausea fin troppo reale e un'avversione sempre più viva verso qualunque superficie riflettente.
Un ticchettio di tacchi lo fece sobbalzare, come richiamato dal suo rimuginare.
Quando sentì la porta del laboratorio che si apriva rialzò appena il capo, mentre il suo problema più grande e nuova concausa della sua insonnia gli si rovesciava addosso come una secchiata d'acqua gelida. O come un caffè freddo. Pepper entrò a passo svelto nel laboratorio, in un tailleur beige e con una cartellina dall'aria pesante in mano.
Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto chiarire le cose con lei, in un modo o nell'altro. Non era neanche del tutto certo di cosa ci fosse da chiarire, in effetti. Si era comportato da stronzo, quello era lampante anche al suo ego più che permissivo verso i propri errori. E avrebbe decisamente dovuto scusarsi.  Quello delle scuse non era un ambito a lui familiare, ma pensava di essere in grado di cavarsi fuori dalla bocca un paio di frasi di senso compiuto.
Ma il resto? Ovvero le loro "esistenze complicate"? Non riusciva a capire se avesse ancora un senso parlarne, ma era abbastanza sicuro che rimanere in quella posizione non del tutto schierata fosse la cosa peggiore che potessero fare. Aveva assolutamente bisogno di un punto fermo nella sua esistenza che era diventata così mutevole. Se gli fosse venuto a mancare anche quello non aveva idea di quanto in basso sarebbe potuto cadere e, da dieci anni o poco meno, aveva sempre individuato il suo punto fermo in Pepper. 
Si riscosse dal suo torpore e fece per salutarla, poi cambiò idea e si limitò a un cenno del capo.
"Ma che cavolo."
Fantastico. Era appena diventato incapace di relazionarsi con lei. Come faceva a mantenersi distaccato comportandosi però normalmente? Non era mai stato troppo formale nei confronti della sua assistente, anzi, e nonostante lei lo tenesse fermamente in riga, non rifiutava né era mai sembrata irritata dalla sua eccessiva espansività verbale, arrivando a prendere sul ridere le continue avances che erano parte del loro modo di scherzare. Adesso si trovava nelle condizioni di dover reinventare completamente il proprio modo di porsi nei suoi confronti. Se non era totalmente impazzito fino ad allora, quello era un ottimo momento per farlo.
Aveva la netta sensazione di avere nella mente due pugili su un ring – razionalità contro irrazionalità – che si massacravano a vicenda nel tentativo di prevalere l'uno sull'altro. Peccato che per ora erano alla pari e i colpi li incassava solo lui, senza molto beneficio alla sua già precaria salute psicofisica. Mentre i due allegri lottatori continuavano a darsele di santa ragione, Pepper ricambiò appena il gesto apparentemente del tutto padrona di sé, come se nella sua, di mente, ci fossero solo tante leggiadre ballerine intente a volteggiare su una pista. Non riusciva a spiegare altrimenti la sua espressione assolutamente distesa e serena.
La sua parte irrazionale subì un duro smacco e fu messa alle corde:
"Vedi? È indifferente! Devi esserlo anche tu!" sembrava gridargli la parte razionale.
Tony tentò di sopprimere quel patetico teatrino mentale e si trovò quasi a desiderare l'autocontrollo di Pepper – oltre alla donna in sé, ma relegò quella considerazione in un angolo molto, molto remoto.
"Bene, Tony, prendine atto: il tuo buonsenso è magnificamente andato a puttane se speri di avere ballerine nel cervello," tentò di sdrammatizzare, evitando in tutti i modi gli occhi di Pepper.
La donna gli porse senza una parola la cartellina straripante di documenti da visionare, ma la lui degnò appena di uno sguardo, troppo impegnato a fingersi concentrato sulla protesi per considerarli.
Pepper non si mosse.
«Signor Stark, dovrebbe firmarli ora,» lo invitò poi, vedendo che non aveva intenzione di distogliersi dal suo lavoro.
Tony rialzò di scatto lo sguardo, preso in contropiede nell'udire la sua voce assolutamente normale.
Normalità. La parola sembrò fungere da energizzante per la sua razionalità, perché spedì l'altro pugile al tappeto con un colpo diretto. KO tecnico.
Adesso poteva anche lasciar perdere la possibilità di mettere in chiaro le cose nell'altro senso, qualunque esso fosse, perché a quanto pareva Pepper voleva solo riprendere a vivere come se niente fosse successo. Come aveva fatto dopo il processo: quello era stato un chiaro segnale, e la sua parte idiota – perché di idiota si trattava – non aveva saputo interpretarlo. D'altra parte, se in dieci anni non era mai successo nulla tra loro, non vedeva perché dovesse succedere adesso, nella situazione più sfavorevole che riuscisse a immaginare sotto ogni punto di vista. Se anche fosse stato del tutto equilibrato mentalmente e socialmente, ormai per la componente fisica poteva fare ben poco. Non era neanche sicuro di rientrare in una categoria umana, al momento, figuriamoci se poteva ancora considerarsi attraente. Era una semplice questione di logica, e Pepper era una persona estremamente logica.
Razionalità-Irrazionalità: uno a zero. Minuti di recupero non concessi.
«Signor Stark? Si sente bene?»
Si rese conto di aver probabilmente assunto un'aria spaesata e di avere lo sguardo che oltrepassava la protesi, perso nel vuoto. Non mancava mai di sfoggiare lampanti esempi di instabilità a chiunque gli stesse intorno...
«Io? Certo, analizzavo solo questo gioiellino in cerca del modo più congeniale per ottimizzare l'utilizzo del titanio e...»
«Tutto ciò è molto interessante, ma la prego di firmare i documenti, perché vista la sua situazione già abbastanza disastrata è davvero il caso di avere le carte in regola,» lo interruppe con gentile fermezza, porgendogli una penna.
Lui la prese senza pensarci, con la sinistra, e scribacchiò una firma malferma su ognuno dei fogli che gli aveva affibbiato, contando sul fatto che li avesse letti per lui impedendogli di approvare contratti improbabili. Era già abbastanza stancante dover lavorare con un occhio solo, se avesse anche dovuto leggere ogni singola riga di quelle scartoffie sarebbe diventato cieco. Non che prima si fosse mai occupato molto della burocrazia aziendale...
Appose l'ultima firma, più simile a uno scarabocchio, e lei fece per riprendere la cartellina e allontanarsi, ma Tony la trattenne d'istinto con la mano meccanica, senza pensarci.
Pepper incrociò di scatto il suo sguardo, sorpresa, e sembrò quasi infastidita.
"Idiota. Non ti è bastato ieri? Molla quella mano!"
Bla, bla, bla... il suo cervello ci provava, ci provava davvero a tenerlo lontano da situazioni spinose, ma lui come sempre faceva l'opposto di quel che gli suggeriva, da bravo idiota qual era. Aveva un dono per cacciarsi in quelle situazioni. E adesso teneva la mano di Pepper senza neanche poterla percepire sotto le dita artificiali, pregando di non stringere troppo la presa e senza avere la minima idea di quel che voleva dire o fare. Lei non sfuggì la sua stretta, anche se sembrava un po' scossa dal fatto che stesse toccando un qualcosa di inanimato. In effetti aveva evitato qualunque contatto diretto con la sua protesi e Tony non sapeva davvero come dovesse interpretare la cosa. Davvero un ottimo momento per capirlo.
«Signorina Potts...» cominciò, ignaro di dove sarebbe andato a parare.
"Oh, Dio onnipotente, se davvero sei lassù dammi una prova che esisti e fammi dire qualcosa di sensato!" si trovò a pregare, al colmo della disperazione.
Pepper sembrò attendere le sue parole quasi con ansia e non lasciò andare la sua mano, forse credendo che lui stesse per sbloccare quella situazione di stallo insostenibile.
«... potrebbe chiamare Kyle?»
Se qualcuno avesse preso un megafono, l'avesse collegato a trecento casse e gli avesse urlato nelle orecchie non sarebbe comunque potuto essere altrettanto sonoro dell'immane bestemmia che gli esplose in testa quando si sentì pronunciare quella frase assurda. In quel momento decise senza ulteriori ripensamenti che ateo era e ateo sarebbe rimasto, visto che l'ispirazione divina sembrava non sortire alcun effetto su di lui. E d'altronde non poteva davvero dire che la mano santa l'avesse aiutato molto, ultimamente.
Lei lo fissò un po' spaesata, poi annuì appena e Tony la lasciò, fissandola con quello che sperava fosse uno sguardo eloquente: "normalità", avrebbe voluto stamparsi in fronte.
«Naturalmente. Lo faccio chiamare subito. Dovreste proprio riallacciare i rapporti dopo quello che è successo. Dopo il processo, intendo.»
Ding.
Da quando Pepper sapeva parlare in codice? Poteva cogliere un chiaro invito in quelle parole, sempre che la sua mente non gli stesse di nuovo facendo brutti scherzi.
«Certo, ha perfettamente ragione. Per una volta ammetto di dovermi scusare con qualcuno,» disse con apparente leggerezza, riprendendo a lavorare sulla protesi dopo aver riconsegnato i documenti a Pepper.
«Già, dovrebbe rendersene conto più spesso.» 
Fu la sua unica risposta, accompagnata da un'occhiata un po' dura, ma addolcita dalla piega forzata delle labbra che nascondeva un sorrisetto soddisfatto.


***


Imbarazzante. Era l'unico aggettivo che trovava per descrivere quella situazione: molto, molto imbarazzante.
Kyle era ad appena un metro da lui, seduto sulla sua sedia a rotelle in una posa apparentemente flemmatica, ma lo fissava con astio senza ritegno, mentre lui,
piazzato sulla sua solita sedia girevole, faceva vagare lo sguardo per il laboratorio. Ora su un documento, adesso su un pezzo di acciaio, dopo ancora sulla propria protesi in fase di assemblaggio...
Erano state sicuramente poche le volte in cui Tony Stark si era sentito a disagio, ma questa non sapeva da che parte metterla: se tra quelle del "non esattamente a proprio agio" o tra quelle del "terra, inghiottimi in questo istante".
Il ragazzo davanti a sé si aspettava molto probabilmente delle scuse o qualcosa che potesse anche solo assomigliarvi, ma a parte tanti pensieri sconnessi e poco inerenti al contesto – come se non ne avesse già avuti abbastanza – non riusciva a vedere una singola via d'uscita da quell'incontro decisamente non programmato.
«Perché mi ha fatto chiamare, signor Stark?» chiese infine l'avvocato, glaciale.
"Giusto, Tony. Perché lo hai fatto chiamare? Certe domande dovresti fartele anche tu, ogni tanto."
Forse la sua sezione "risposta pronta" era andata in vacanza.
"Perché lei è un idiota, signor Stark."
Gli sembrava che la sua coscienza fosse formata non più da se stesso, ma da Pepper – oltre ad altre varie ed eventuali presenze che si divertivano a fare a pezzi la sua facoltà decisionale. Ovviamente lei rappresentava l'angioletto su una delle sue spalle... sull'altra poteva quasi intravedere un demone che assomigliava terribilmente a Fury, per associazioni mentali abbastanza ovvie.
Tony alzò lo sguardo sull'avvocato, che lo fissava tra l'interrogativo e l'infastidito: era sicuramente ancora arrabbiato per le offese che gli aveva rivolto alla fine del processo, senza dimenticare la minaccia di annullare il pagamento. Nel tentativo di sfuggire a quella confusione di pensieri gli cadde l'occhio sulla protesi della gamba:
«Volevo solo informati di come sta procedendo la progettazione delle tue gambe,» sparò, ringraziando se stesso per essersi anticipato un po' di lavoro e per aver buttato giù qualche schizzo mentre lavorava sulla sua.
Kyle rimase di sasso a quell'affermazione. Tony si rendeva conto che quello non era esattamente un modo convenzionale per chiedere "scusa", ma lui non era mai stato bravo con quel genere di cose: stava facendo quel che poteva, più o meno. Il ragazzo distolse lo sguardo da lui per posarlo sul prototipo della gamba poggiato sul banco di lavoro. Era ancora stupito, ma sembrava finalmente più rilassato.
Tony tirò quasi un respiro di sollievo nel realizzare che non era più sotto il tiro terribile del suo sguardo inquisitore. Si chiese come avesse potuto prendersela con lui per quello che era successo. Era un buon avvocato, nonostante la sua giovane età; anzi, era decisamente ottimo, considerando la sua scarsa collaborazione durante il processo...
«Prego.» 
Kyle lo invitò a continuare, il mento poggiato sulla mano e gli occhi che gli luccicavano oltre le lenti. Tony accolse il piccolo sorriso con cui lo disse come un "sei-sulla-buona-strada".
«JARVIS, apri il progetto Ph.01 X, cartella "K",» ordinò.
«Subito, signore,» rispose pronta l'intelligenza artificiale.
«Ph.01 X?» Kyle alzò leggermente le sopracciglia, interdetto.
«L'ha scelto JARVIS, non io. Io mi limito a ribattezzare le persone, K,» disse con un sogghigno sicuro di sé che l'altro ricambiò appena.
Di fronte a loro si materializzò uno schermo olografico, sul quale Tony iniziò a navigare con rapidità attraverso vari file e immagini: protesi, test al riguardo e dati medici scorsero veloci davanti ai loro occhi prima di soffermarsi su quello che sembrava un nuovo progetto per un reattore arc. Tony iniziò a spiegare, cercando di risultare il più comprensibile possibile:
«L'idea sarebbe di sottoporti ad un'unica operazione per installare un micro-reattore arc alla base della spina dorsale, così da riattivare i nervi e le cellule non funzionanti delle tue gambe: sarà una protesi di una tua vertebra che svolgerà la funzione di inviare gli impulsi motori e "rianimare" i nervi tramite dei filamenti in unobtanium.»
A Kyle sembravano luccicare gli occhi al solo intravedere una soluzione che gli avrebbe permesso di vivere la sua vita esattamente come desiderava.
«Il progetto non è ancora completo ed è del tutto teorico. Ad ogni modo non c'è un modo per testarlo con certezza: o funziona, o non funziona. Devo ancora effettuare test e simulazioni specifici, ma avremo la risposta definitiva solo ad operazione compiuta.»
«E se non dovesse funzionare?» chiese il ragazzo, evidentemente riluttante a prendere in considerazione l'eventualità.
«Se non dovesse funzionare e non sorgono complicazioni, c'è il piano B,» lo rassicurò.
«Il chip verrà ancorato al tuo midollo osseo; a quel punto risulterebbe inamovibile. Se non funziona, può essere disattivato rimuovendo solo il palladio che lo alimenta con una seconda operazione. Rimarrebbe nel tuo corpo, ma sarebbe inerte e innocuo, almeno teoricamente.»
Tony fece scorrere alcune slide con un semplice e veloce gesto della mano fino a soffermarsi sull'icona di un paio di gambe dalla struttura molto simile a quella che stava progettando per lui: sembravano solo un po' più tozze e pesanti.
«Dopo, puntiamo su queste.» Estrasse l'immagine delle gambe dallo schermo lasciandola sospesa in aria e mostrando il prototitpo al suo futuro, ipotetico proprietario. «La struttura non è ancora completata, come d'altronde l'altro ferrovecchio per me che sto cercando di assemblare. La cosa più difficile sarà installare le protesi nel tuo corpo e, come ti ho già accennato, non è detto che l'accetti. Potrebbe esserci un rigetto.»
«Può succedere?»
«Ian mi ha detto che è possibile. Io ho avuto fortuna, ma ha anche detto che la gamba potrebbe risultare più ostica, soprattutto per il recupero post-operatorio.» Tony si massaggiò la nuca con malcelata preoccupazione. «Facciamo che prima mi opero e poi parliamo dei rischi, eh?» chiuse l'argomento con un sorrisetto nervoso e Kyle non insistette, comprensivo.
Tony si schiarì la gola prima di riprendere:
«L'operazione sarà difficile, visto che Ian dovrà prima amputarti entrambe le gambe. E se non andrà a buon fine...» 
Si bloccò, esitante, ma vedendo l'espressione decisa di Kyle continuò: 
«Saresti costretto a rimuovere gli impianti e non avresti più le gambe. Non proprio una bella prospettiva, ma Ian è bravo, lo sai meglio di me. E posso confermarlo anch'io dopo che mi ha ripescato dal coma e ha permesso questo.» Si toccò la protesi del braccio. «Non dirgli che l'ho detto, però,» aggiunse cauto.
«Non importa il rischio,» dichiarò infine
Kyle, che aveva seguito attento e speranzoso ogni sua singola parola.
Tony spostò lo sguardo su di lui: aveva avuto anche lui quell'espressione così decisa ed allo stesso tempo fanciullesca prima di iniziare a lavorare così assiduamente sui suoi arti? Ce l'aveva ancora?
Gli sembrava passata una vita, invece erano solo pochi mesi... era una distorsione del tempo molto simile a quella che aveva avvertito in Afghanistan, dove ogni giorno era una settimana e tre mesi gli erano sembrati tre anni. 
Si riscosse da quei ricordi, focalizzandosi su Kyle:
non gli riusciva difficile rispecchiarsi in quel ragazzo che non chiedeva altro che poter camminare. In fondo era quello che voleva anche lui... con qualche aggiunta un po' ambiziosa. Gli sfuggì uno sguardo in direzione delle armature, ma lo dirottò rapidamente sul suo interlocutore. Voleva davvero sperare che alla fine di tutta queslla storia ne sarebbero usciti... completi. Capiva benissimo gli stati d'animo di Kyle e comprendeva la sua paura, ma sapeva anche che la felicità che avrebbe provato se fosse andato tutto come previsto l'avrebbe ripagato di tutto. Almeno, questo era ciò che aveva pensato quando si era svegliato dopo l'operazione; gli augurava di poter provare lo stesso, un giorno.
«Ian potrà sicuramente darti indicazioni più precise viste le mie scarse conoscenze mediche. In realtà dobbiamo ancora consultarci; ultimamente sono stato un po'... preso,» si giustificò evasivo.
«Immagino.»
In quel mentre entrò Pepper.
Tony distolse lo sguardo dall'avvocato, ringraziando la donna per essere stata puntualissima come sempre e averlo salvato da una conversazione probabilmente sconveniente su cucine devastate e litigi notturni.
«Signorina Potts, dovrebbe parlare con K del prossimo processo riguardo la parte burocratica, da cui io mi terrò ben lontano. Ditemi quando vi servo per il pezzo forte, nel frattempo ho da lavorare per tutti e due,» disse rapido, indicando se stesso e Kyle e licenziandosi con un sorrisetto un po' forzato, ma anche un soddisfatto per aver teoricamente appianato la situazione col suo avvocato.
«Kyle, se vuoi seguirmi ci spostiamo di sopra per parlare. Vuoi del tè?» gli chiese Pepper con naturalezza, guadagnandosi un'occhiata storta da Tony che lei parve non notare.
«Sì, grazie. Molto gentile,» rispose l'altro, sospingendosi verso l'ascensore dopo aver rivolto un cenno di saluto a Tony.
I due uscirono dal laboratorio chiacchierando, lasciando Tony indaffarato e sommerso dal lavoro.
Ora sì che vedeva le ballerine...
Schioccò le dita in modo seccato, riattivando i circuiti di JARVIS:
«Ehi, cervellone: proiettami un modello del micro-arc e vedi di elaborarne una versione da applicare alla mia gamba. E sbrigati, o ti fondo i circuiti.»

***


13 Marzo, Villa Stark

Le note distorte di Iron Man risuonarono improvvisamente nel laboratorio, quasi soffocate dalla musica altrettanto aggressiva che proveniva dall'impianto stereo. Tony si scostò gli occhialoni protettivi dal volto, sorpreso nel sentir squillare il suo cellulare dopo due mesi di silenzio quasi totale. E doveva decisamente cambiare suoneria...
Spense con un gesto la musica dell'impianto, arrestando la cacofonia di accordi dissonanti che si era venuta a creare tra AC/DC e Black Sabbath. Non si disturbò a raggiungere il cellulare, sepolto da un cumulo di scarti meccanici e limatura metallica, e si limitò ad ingrandire una schermata che era appena comparsa su uno dei suoi innumerevoli schermi. La sua espressione si fece corrucciata quando lesse il nome che lampeggiava a un palmo dal suo volto. Valutò per qualche istante l'opzione di ignorare la chiamata, poi ripose sospirando il saldatore sul suo supporto e trascinò con rassegnazione il tasto di risposta.
«Ehi, Rhodes,» esordì con forzata vivacità, scostando gli occhiali protettivi dal volto.
Ci fu un breve silenzio, che esprimeva probabilmente sorpresa per il fatto che Tony avesse usato il suo cognome esatto senza storpiarlo come al solito.
«Tony?»
«Il solo ed unico. Dimmi in fretta, sono un po' preso,» lo incalzò subito.
«Come sempre... come stai?»
Tony colse chiaramente il tono preoccupato dell'amico, ma non aveva alcuna intenzione di mostrarsi conciliante, né tantomeno amabile nei suoi confronti.
«Un po' a pezzi, ma lo sai,» rispose, lapidario.
Rhodey esitò brevemente, forse non capendo se la sua fosse ironia o meno.
«Quando avevi intenzione di chiamarmi, geniaccio?» cambiò argomento, con brio forzato.
Era un chiaro invito a una conversazione civile, magari anche scherzosa come al loro solito. Doveva ammettere che ammirava la sua compostezza. Conoscendolo, stava probabilmente lottando contro la tentazione di partire in quarta per una ramanzina interminabile. La sua ammirazione però non compensava il risentimento che provava, perciò mandò all'aria il suo invito senza esitazioni:
«A dir la verità, mai,» Tony non si curò di nascondere il fastidio che trapelava dalla sua voce.
«Ok, a cosa devo tutta questa ostilità?» la sua cadenza rassegnata lasciava intuire che in realtà la cosa non lo sorprendeva affatto.
«"Incidente coi Whiplash" ti dice nulla?»
Tony ruotò sulla sedia un paio di volte, curioso di sapere come si sarebbe giustificato. Probabilmente non l'avrebbe fatto.
«Se è ancora per quella storia...»
"Appunto."
«È per quello, Rhodes.»
«Non puoi metterci una pietra sopra?»
«No,» replicò seccamente, stupendosi di quanto gli stesse risultando semplice mantenere la calma.
Forse non poterlo vedere in carne ed ossa era d'aiuto. Anche il fatto che lui fosse effettivamente "solo" il suo migliore amico e non un qualcuno che oscillava nel limbo tra amicizia, rapporto lavorativo e chissà-che-altro era un ottimo incentivo a tenere la testa sulle spalle. Si decise a continuare, prima di perdere il controllo dei propri pensieri:
«Anzi, gradirei una spiegazione.»
«Mi hanno chiesto, il che vuol dire ordinato, di "rivedere" il mio rapporto ufficiale. Non ho rivelato nulla sulla tua identità, ho solo detto che Iron Man era il responsabile. Non potevo mentire di nuovo e poi...»
«E poi eri arrabbiato con me. Lo capisco, nei tuoi panni avrei probabilmente fatto lo stesso...»
«Ecco, allora non capisco perché continui ad accanirti su...»
«... se la questione fosse stata privata fra noi due e non avesse riguardato la mia identità segreta, la mia immagine pubblica e privata e i miei rapporti coi Vendicatori e col governo che già mi detesta,» completò Tony, riuscendo a mantenere un tono assolutamente impassibile. «Siamo un po' oltre la semplice ripicca per un dissidio tra amici, Rhodes. Pensavo che te ne fossi reso conto.»
Ci fu un silenzio attonito dall'altro capo del telefono seguito da Rhodey che, prevedibilmente, cominciò a perdere la calma per primo. Doveva aver appena battuto il suo record di resistenza al "brevettato metodo rompipalle Stark".
«Non è sicuramente per quello che il tuo processo è andato come è andato!»
«Concordo. Ma questo non cambia nulla. Non voglio farne una questione di principio, ma questa è una questione di principio.»
«Come se fosse una novità, per te.»
Tony non raccolse quella provocazione, ma rispose altrettanto provocatorio:
«Tra l'altro, complimenti: hai avuto un ottimo tempismo per aggiungere altro stress nella mia vita. E per nascondermi informazioni sensibili.»
«Tony, io non sapevo assolutamente nulla delle tue condizioni finché non ti si è rotta la protesi al processo! Lo SHIELD mi ha proibito di contattarti...»
«Oh, certo, lo SHIELD! Ecco un'altra vittima del sistema,» lo interruppe lui, caustico.
«... e quando ho ignorato le loro direttive per informarti di persona tu mi hai cacciato di casa, se ben ricordi.»
«Un ottimo motivo per non informare né me né Pepper delle procedure di segretezza che avevate preso! Davvero, non so se sei più incommentabile tu o Fury.»
«Sono infuriato anch'io con lui! Se mi avesse detto quello che ti era successo...»
«Cosa, avresti avuto pietà di me solo perché ora sono un povero mutilato?» lo interruppe nuovamente Tony, stavolta con disprezzo.
«No, avrei cercato di trovare una soluzione con te!» esclamò l'altro, incredulo.
Tony sospirò e ringraziò che Rhodey non potesse vederlo in quel momento. Gli sembrava di sentir parlare se stesso, e la cosa lo inquietava, piuttosto che rincuorarlo. Si costrinse a riportare la discussione su un terreno neutrale.
«Senti, apprezzo la buona volontà, davvero. Ma non credo tu possa aiutarmi, come non credo di volere il tuo aiuto in questo momento.»
«Sei il mio migliore amico, Tones, non puoi chiedermi di rimanerne fuori.»
«Lo sto facendo.»
«Di me puoi fidarti.»
«Ultimamente ho qualche problema a fidarmi di chiunque, escluso me stesso. Avete tutti il brutto vizio di tradirmi, tenermi all'oscuro di tutto o decidere cosa devo sapere e cosa no.» 
Inspirò a fondo nel tentativo di mantenere un tono fermo e vi fu una breve pausa dall'altro capo.
«Non puoi sempre fare tutto da solo,» disse infine Rhodey, in quella che era decisamente un'accusa.
«Magari non posso, ma voglio farlo.»
A questo Rhodey non seppe rispondere e si limitò a prolungare il silenzio, forse sperando che lui aggiungesse qualcosa o facesse un passo verso di lui. Ma Tony rimase semplicemente in attesa che l'amico capisse che la conversazione era finita. Sapeva che l'avrebbe capito; di solito era così che finivano le loro discussioni: con un mutuo silenzio e muri d'orgoglio e testardaggine.
Dopo pochi secondi, infatti, si udì un sospiro vibrante dall'altra parte della cornetta, seguito dalla voce rassegnata di Rhodey:
«Se cambi idea, ci sono.»
«Lo so. Mi faccio vivo io.»
Attaccò subito, tirando un sospiro di sollievo e pentendosi di aver risposto. Avrebbe dovuto immaginare che sarebbe finita così...
Quand'è che tutti avrebbero capito che aveva solo bisogno di starsene da solo, immerso nei suoi problemi così da poterli analizzare al meglio per porvi rimedio senza interferenze esterne? Non biasimava Rhodey per il suo interessamento, ma non poteva fare a meno di trovarlo invadente. Oltre al fatto che gli risultava davvero difficile perdonarlo per tutto il resto. E non aveva bisogno di fomentare ulteriormente la sua diffidenza verso il mondo intero iniziando a chiedersi se potesse fidarsi del suo migliore amico in una situazione del genere. Preferiva tenerlo alla larga.
Tony scacciò lo schermo della chiamata con un gesto secco, poi si calò nuovamente gli occhialoni sul volto, afferrò il saldatore e tornò a dedicarsi alla protesi inferiore, eliminando qualsiasi pensiero che non fosse la volontà di finire quel ferrovecchio nel minor tempo possibile.
«JARVIS, cos'è questo mortorio? Metti qualcosa di più stimolante.»
Gli AC/DC tornarono a colmare il silenzio.









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Revisione effettuata il 26/02/2018


Note delle Autrici:

Questa volta siamo un po' in ritardo rispetto al solito e senza molte novità, ma stiamo dando un po' di tregua a quella povera anima pia di Tony che continua ad essere torturato. Ma lo amiamo comunque.
Ringraziamo i coraggiosi lettori giunti fin qui che ci continuano a sopportare nonostante siamo sempre più sadiche con il vostro povero playboy (é.è); in particolare ringraziamo chi ha recensito/letto ed aggiunto la storia tra le preferite/ricordate/seguite: BENNYloveEFp, bluephoenix, Checca Cullen, feddy92, Lupoz91, nenni96, Sherlock_Watson, WhiteRabbit, crystaleyes, alliearthur, blackpearl_, Grety, Morrigan Aensland, NemesiS_, Rogue92, serysaku, Micchi. Quante siete *-* <3 Ancora grazie ed a presto!

Moon&Light


Edit 26/02/2018: è stata aggiunta la parte con la chiamata di Rhodes, il quale era rimasto abbastanza tagliato fuori da questa storia (finendo pure per fare la figura dello stronzetto, in effetti). Ammetto che all'epoca fu la nostra pigrizia a spingerci a lasciarlo da parte del tutto, ma essendo il migliore amico di Tony ciò sarebbe decisamente irrealistico, quindi di tanto in tanto farà capolino per amor di IC. [-Light-, che continua a scrivere note nella speranza che vecchi lettori ancora sbircino/seguano la storia...]





© Marvel

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Capitolo 16
*** Twist and shout ***




15

Twist and shout




"Turn your magic on, to me she'd say
Everything you want's a dream away
Under this pressure, under this weight
We are diamonds taking shape"


[Adventure Of A Lifetime – Coldplay]





15 Marzo, 16:15, Villa Stark

Tony sorseggiava assorto un bicchiere di clorofilla, dondolandosi pericolosamente sulla sedia. Dopo essere quasi schiantato a terra e aver ripreso l'equilibrio per un soffio, decise che forse era meglio concentrarsi sul lavoro e non su modi fantasiosi per attentare alla sua salute già precaria. Non che dare una testata da qualche parte fosse una punizione immeritata. Che pensiero masochista, ora che ci rifletteva...
Guardò lo spigolo della scrivania: in effetti era invitante. Aveva proprio voglia di sbattere la testa al muro o su qualcosa di appuntito che gli facesse molto male, dopo due ore passate a rivedere la protesi del braccio e a tentare di farla muovere quando e come voleva lui. Non ci era ancora riuscito. All'inizio aveva pensato che potesse rivelarsi un buon diversivo rispetto a tirar giù un santo dopo l'altro sulla realizzazione della gamba. Si era ricreduto ben presto.
Fissò assente uno schermo vagante che mostrava il progetto quasi ultimato della sua gamba, progetto che non voleva saperne di andare per il verso giusto per motivi a lui oscuri – ma probabilmente riconducibili alla drstica carenza di sonno. Voleva solo finirla al più presto e sottoporre il prototipo della piastra d'aggancio alla revisione di Ian, poi avrebbe potuto finalmente iniziare ad assemblarla. Non ne poteva più di zoppicare qua e là appoggiato alle stampelle.
Si riscosse, tornando alle sue prove di destrezza.
Sollevò il braccio meccanico, portando la mano all'altezza del volto. Quel movimento non era più un problema: riusciva a piegare il gomito senza troppo sforzo e anche a ruotare la spalla, sebbene evitasse di farlo troppo spesso per via del moncherino ancora sensibile e infiammato. Osservò la struttura della mano decisamente rudimentale, ma già molto più completa rispetto a qualche settimana prima. Il palmo adesso era rivestito da una placca metallica che riproduceva approssimativamente le linee e le curve di quello reale; le dita avevano ancora gli snodi scoperti, ma le loro estremità non erano più dei goffi pistoni: erano finalmente dotate di un rivestimento smussato che le rendeva più simili a quelle di un umano che a quelle di un robot. Adesso il problema era solo quello di far muovere quella meraviglia a comando. Si concentrò intensamente, fissando quell'ammasso di metallo lucido.
Mosse il mignolo e puntualmente reagì l'indice.
"Porca. Puttana."
Anche la sua volgarità, mentale e non, stava raggiungendo livelli storici. Probabilmente Pepper era ormai abituata all'ininterrotta sequela di imprecazioni che proveniva dal suo laboratorio, ma era convinto che un giorno o l'altro gli avrebbe dato una tirata d'orecchie epocale.
Scosse la testa per poi afferrare un cacciavite, svitando il rivestimento del palmo e mettendo a nudo i contatti sottostanti. Si assicurò che quelli delle dita fossero collegati al posto giusto – anche se aveva ripetuto l'operazione perlomeno una decina di volte senza scoprire difetti – e rimise la placca al suo posto con uno scatto metallico.
Si apprestò a testare di nuovo le dita, ma stavolta, quando provò a sollevare il braccio, questo non diede cenni di vita. Sollevò la protesi con l'altra mano e quella ciondolò inerte e disarticolata.
Tony si lasciò sfuggire un verso di esasperazione. Perché le sue creazioni cospiravano contro di lui?
Si abbandonò sullo schienale della sedia, concedendosi una pausa prima di rimuovere definitivamente il braccio dal suo aggancio e controllare quelli che temeva fossero contatti usurati. Al solo pensiero sentì crescere l'irrequietezza: tra due giorni c'era il processo e lui avrebbe voluto presentarsi con una protesi quasi completa e soprattutto gestibile. Invece continuava ad avere una forza comparabile a quella del Nonno-a-stelle-e-strisce, ma senza la minima capacità di controllarla. Aveva perso il conto dei bicchieri rotti e delle stampelle deformate.
Bevve distrattamente un altro po' di clorofilla, forzandosi a farlo. Ormai beveva praticamente solo quella, come se non bastassero già i problemi che aveva. Chiedendosi perché stesse tentando di rovinarsi la pausa, sollevò la maglietta fino a scoprire il reattore. C'era un anello più scuro e appena percettibile intorno alla sua circonferenza: i primi, tenui effetti dell'intossicazione da palladio. Fece una smorfia, con la bocca impegnata a tenere il bordo della maglietta. Se anche fosse sopravvissuto a tutti gli ostacoli che continuavano a grandinargli addosso, Pepper lo avrebbe ammazzato, poco ma sicuro.
Per ora la situazione era sotto controllo, ma fino a quando lo sarebbe stata? Doveva ammettere che impiantarsi altri reattori in corpo non era stata un'idea poi così geniale, ma per adesso aveva altri problemi più urgenti a cui pensare, e voleva credere che la combo di clorofilla, integratori e dieta salutista avrebbe avuto la meglio sul metallo pesante. Mollò la maglietta e riprese a fissare lo schermo che galleggiava di fronte a lui, senza realmente vederlo.
Riavviò le sinapsi e si impegnò invece a vagliare un problema più tangibile e impellente. Si era convinto di poter controllare l'eccessiva potenza della protesi semplicemente esercitandosi nel dosarla e calibrando meglio la distribuzione dell'energia. A quel punto era chiaro che ciò non era sufficiente, e lui aveva assolutamente bisogno di presentarsi al processo in modo da non far bollare le protesi come potenziali armi. A detta di Kyle, quella sarebbe stata la nuova linea d'attacco del procuratore, e sapeva che era sua responsabilità fare in modo che le protesi risultassero innocue, almeno a occhi esterni.
Si convinse finalmente ad abbandonare la propria posizione di riposo ed aprì una nuova schermata nella già sovraffollata cartella virtuale dove conservava tutti i progetti, gli schizzi e gli appunti riguardanti le protesi.
«JARVIS, sveglia, oggi facciamo un lavoro di fino,»
esordì con rinnovato brio, prendendo un meritato sorso di caffè e portandosi alla sua scrivania
con un volteggio della sedia girevole.

***


Dopo quasi tre ore di tribolazioni per inserire dei resistori che regolassero il passaggio d'energia tra micro-reattore e protesi, Tony ritenne che fosse giunto il momento di testare la sua idea sul campo. O meglio, sul proprio corpo.
Rifinì un'ultima saldatura, disperse il fumo con un soffio leggero e si concesse di raddrizzare la schiena rimasta curva sul piano di lavoro per tutto quel tempo, senza riuscire a trattenere uno sbadiglio mentre sentiva le vertebre e i muscoli tesi che si allungavano in un concerto di scricchiolii poco rassicuranti. Ruotò un poco la testa, sperando che non si disarticolasse dal collo irrigidito. Nonostante gli acciacchi si sentiva soddisfatto per la prima volta da giorni e un sorriso aleggiava indisturbato sulle sue labbra. Sollevò con cautela la protesi dal bancone e la soppesò, come sempre contrariato dal suo peso eccessivo.
"Beh, sarà per la prossima volta," si disse, decidendosi a riagganciarla al suo supporto con qualche difficoltà e l'aiuto di DUM-E.
Sentì una lieve schicchera quando i nervi artificiali si ricongiunsero a quelli veri e sobbalzò appena, infastidito. Si diede un po' di tempo per riabituarsi a quel prolungamento ancora estraneo, muovendosi con attenta cautela per riscontrare le differenze rispetto al modello precedente. Constatò che, prevedibilmente, era molto meno sensibile di prima e doveva imprimere più forza ai suoi movimenti.
Sbuffò appena: era sempre costretto a scendere a compromessi, ma ormai dubitava di poterci fare ancora qualcosa. Si rilassò contro lo schienale, continuando a mettere alla prova il braccio, prendendovi pian piano confidenza e scoprendolo decisamente più maneggevole di prima, una volta fatta l'abitudine alla minore sensibilità e ai diversi tempi di risposta – il delay era sempre irritante, ma gestibile con un po' d'allenamento.
Un trillo elettronico lo distrasse dai suoi armeggi: Pepper doveva essere appena rientrata dalla riunione alle Stark Industries. Non la invidiava affatto e già si aspettava un suo sfogo riguardo ai "matusa del consiglio d'amministrazione". S'imbronciò appena, e prese a tamburellare sovrappensiero le dita sul reattore, provocando un ticchettio metallico.
Metallico.
Si guardò di scatto la mano e si rese conto di averlo fatto con la protesi. Ci riprovò: le dita si mossero fluidamente, quasi senza sforzo... e l'anulare non rispondeva all'indice! Provò estasiato a digitare sulla tastiera olografica che fluttuava lì accanto e riuscì perlomeno a centrare i tasti con le dita. Rise, finalmente, continuando a gesticolare con la destra, ruotare il polso e piegare le dita in ogni possibile angolazione per testarne i limiti. Incontrò qualche difficoltà nella coordinazione, ma funzionava infinitamente meglio di poche ore prima!
"A volte sono così geniale che mi stupisco da solo," concluse tronfio.
Per "festeggiare", prese la brocca di clorofilla con la destra e ne scolò un lungo sorso, prima di poggiarla di schianto sul tavolinetto lì accanto.
La caraffa andò in mille pezzi.
Tony rimase immobile, sfilando cautamente la mano dai cocci di bottiglia con un vago e spiacevole senso di deja-vù. Bene, riusciva a muoverla, ma era
decisamente ancora da calibrare. Aveva trovato un modo per impegnarsi la serata. Si asciugò rapidamente il palmo sui pantaloni da lavoro, ma molto piano per evitare di frantumarsi anche l'altra gamba.
"Appunto mentale: sii delicato e leggiadro. Pensa alle ballerine... delicato e leggiadro."
Scosse le dita, ancora un po' incredulo nel potersi muovere senza concentrare ogni fibra del suo essere in quel semplice movimento. Contemplò la protesi, passando l'indice sensibile sulle giunture e sentendosi pienamente soddisfatto... o quasi. La sua mano si soffermò allarmata nel punto in cui aveva installato i resistori, poco sotto lo snodo tra clavicola e òmero, sentendolo innaturalmente caldo rispetto al resto del braccio metallico e freddo.
«JARVIS? Non si sta fondendo la protesi, vero?»
In tutta risposta, uno fascio di infrarossi la scansionò, proiettandone subito la mappatura che mostrava effettivamente una concentrazione di calore in quel punto.
«Signore, il calore a lungo andare potrebbe alterare l'unobtanium circostante i resistori. Sarebbe opportuno inserire un sistema di raffreddamento.»
«Mh, giusto. Avrei dovuto pensarci,» commentò a mezza voce.
"Sono nozioni di base, le sanno anche i novellini del primo anno di fisica. Se il MIT lo venisse a sapere, mi revocherebbe le lauree," si rimproverò duramente, stringendo le labbra.
Quanto doveva essere stanco per indulgere in distrazioni così banali? Non si rispose, ma il peso della sua palpebra era un segnale eloquente.
Passò nuovamente la mano sulla zona metallica adesso tiepida. S'illuminò un poco, poi corrugò le sopracciglia, picchiettò appena sulla superficie invece fredda dell'avambraccio e s'illuminò ancor di più: aveva appena avuto un'idea molto migliore del sistema di raffreddamento.

***


«Pepper.»
La donna si riscosse appena.
«Pepper...» tentò ancora Tony, a voce un po' più alta.
Le scostò delicatamente i capelli dal viso, come un bambino curioso di scoprire qualcosa di nuovo.
«Pepper!» ripeté, a un volume moderato, ma questa volta direttamente nell'orecchio.
«Tony?» bonfonchiò lei in tutta risposta, schiudendo assonnata un occhio.
Si ritrovò la faccia dell'uomo a un palmo dalla propria e trasalì, svegliandosi del tutto.
«Che ci fa qui?!» esclamò, sollevandosi appena dal cuscino e riuscendo finalmente a mettere a fuoco Tony.
Era sdraiato a pancia in giù sul lato libero del suo letto, appena rischiarato dalla luminescenza azzurrina del reattore arc, che rivelava un sorriso a trentadue denti stampato sulla sua faccia.
«Non ci crederà mai!» esclamò tutto contento, a malapena in grado di contenere la sua voce euforica.
«Cosa è successo? Va tutto bene?» si arrischiò a chiedere lei, ancora intontita e al contempo esterrefatta nel trovarselo lì, a quell'ora, nel suo letto.
Tony sembrava ignaro della situazione anomala, chiaramente al settimo cielo per chissà cosa, ma ciò non era una rassicurazione sufficiente, vista la sua imprevedibile eccentricità.
«Mai stato meglio!» rispose estasiato, mettendosi più comodo e attendendo evidentemente che lei fosse del tutto cosciente e attenta per qualunque stravaganza si stesse preparando ad esporle.
«Ma che razza di ore sono?» biascicò lei, sbattendo le palpebre appesantite.
Soffocò uno sbadiglio prima di guardare la sveglia: le 3.47. La donna si allarmò ulteriormente, temendo quel che poteva essere successo ad un'ora così indecente. E poi, tecnicamente, non lo aveva ancora perdonato, e svegliarla nel cuore della notte non era un'ottima mossa per rientrare nelle sue grazie.
Però Tony sembrava così felice, in quel momento, che non ebbe il coraggio di rompere l'espressione totalmente spensierata che gli illuminava il volto.
«Ok, sono sveglia e la ascolto; ora mi vuole dire cosa è successo?» si decise a incalzarlo, senza riuscire a nascondere una punta di sincera curiosità.
Tony esibì un altro sorriso smagliante e si picchiettò il reattore con la protesi producendo un suono più metallico di quello che era abituata a sentire.
«Guardi!» riprese lui tutto eccitato, tamburellando ancora un po' sulla piastra metallica per poi agitare le dita a davanti al suo volto come una sposa che mostra l'anello alla migliore amica.
Le ci volle qualche secondo per realizzare che le muoveva senza problemi né esitazione.
«Funziona! Funziona! Guardi come funziona bene!»
Iniziò a sciogliersi il polso e a muovere un dito alla volta davanti alla sua faccia ancora un po' perplessa che andava pian piano aprendosi in un sorriso, sentendo anche una punta di improvviso orgoglio per quello che era riuscito a realizzare.
«È fantastico, signor Stark,» mormorò sinceramente contenta, anche se il suo tono assonnato non doveva suonare esattamente entusiasta.
«Sono un genio! Dica che sono un genio,» la incitò, più esuberante del solito.
«Lei è un...» la frase fu interrotta da uno sbadiglio. «... un genio,» concluse, ricadendo sul cuscino.
«No, resista ancora un po'! Deve ancora sapere la cosa più bella. Tocchi!» esclamò, porgendole la mano.
«Prego?»
Pepper abbracciò più strettamente il cuscino al petto, adesso vagamente imbarazzata e più conscia di essere praticamente seminuda di fronte al suo capo, che però in quel momento sembrava catapultato in una dimensione euforica e totalmente dimentica di tutto ciò che lo circondava.
«Perché le donne mi fraintendono sempre? Mi prenda la mano e non faccia altro che stringerla. Sono abbastanza esplicito, ora?»
Tony sembrava troppo contento per preoccuparsi davvero di quel che stava dicendo, e le tese la mano meccanica.
Lei esitò per qualche secondo: non era esatto dire che la protesi le facesse impressione, ma non era neanche del tutto a suo agio nel trovarsi in contatto con essa, nonostante ciò la facesse sentire meschina nel confronti di Tony. La sua espressione vacillò impercettibilmente nel vederla restia: un contrarsi delle sopracciglia, un lieve inclinarsi dell'angolo della bocca. Non fu abbastanza da incupirlo, ma una linea di rigidezza gli attraversò il corpo, appena percettibile. Pepper lo guardò brevemente e, spinta dal desiderio di non intaccare ulteriormente la pura gioia irradiata dal volto dell'uomo, si decise a prendergli titubante la mano.
Ci mise un paio di secondi per capire che c'era qualcosa di strano: il metallo non era ghiacciato come si aspettava, ma tiepido e piacevole al tatto. Come un braccio normale. Un'espressione meravigliata e felice si dipinse sul suo viso; si accorse che adesso Tony la stava osservando attentamente, attendendo con trepidazione un suo commento, ma lei si limitò a scuotere la testa, incredula, e gli rivolse solo un gran sorriso. Bastò per elettrizzarlo nuovamente:
«Visto? Anzi, sentito?» sorrise, con una bolla di sollievo a scaldare le sue parole. «È bastato deviare il calore dei nuovi resistori all'interno della struttura cava della protesi; in questo modo si diffonde nel mercurio in una percentuale di...»
Pepper lo fermò prima che potesse partire per la tangente, presumendo che con tutta la caffeina che aveva probabilmente in corpo la cosa sarebbe andata per le lunghe.
«Tutto ciò è stupendo, meraviglioso, fantastico e aggiunga tutti gli aggettivi positivi che le vengono in mente, ma... parli la mia lingua.»
«Diamine, nessuno parla la mia lingua. Forse dovrei chiamare Banner.»
«Sarebbe decisamente geniale svegliare un tipo così irascibile alle quattro del mattino.»
Un'immagine terrificante del suo salotto devastato da Hulk dovette dipingersi nella sua mente perché si fece serio per un istante, per poi accendersi di nuovo e riprendere a parlare vivacemente:
«Non è una buona idea, quindi continuerò a parlare con lei...» la faccia di Pepper si fece improvvisamente cupa e disperata, «...o forse la lascerò dormire.»
«Forse sarebbe meglio: domattina avrò un sacco di suoi problemi da risolvere,» lo riprese scherzosa, ma neanche troppo.
Tony fece un sorriso colpevole ma non accennò a muoversi, con lo sguardo perso nel vuoto. Si accigliò per un momento ed accarezzò la mano di Pepper quasi sovrappensiero anche se non poteva percepirla; probabilmente stava avendo uno dei suoi lampi di genio.
«Idea,» esordì infine. «Idea idiota. Idea impossibile se non ridicola, ma non per me,» concluse, come volendo autoconvincersi di chissà quale folgorazione avesse attraversato i suoi neuroni iperattivi.
Il suo viso si rilassò e tornò a guardarla con un'espressione soddisfatta, senza però rivelare la fonte di quell'euforia. Stringeva ancora la sua mano tra le proprie e Pepper si rese conto che quel contatto non le dispiaceva come aveva creduto. Si trovò a stringerla appena di rimando, nonostante Tony non potesse percepirlo – o forse proprio per quello. Il suo pollice metallico le accarezzò con lentezza il dorso della mano.
«Questo sarà il prossimo passo,» disse, più serio ma con una scintilla di vivacità che sembrava esprimere speranza.
Pepper fissò la mano un po' perplessa, ancora molto assonnata e decisamente non in grado di seguire i suoi discorsi sconclusionati.
«Sa che mi dispiace, vero?» proruppe poi lui improvvisamente, e Pepper ebbe l'impressione che tutto quello che aveva appena detto e fatto non fosse stato altro che una studiata preparazione a quella semplice frase.
«Per cosa, esattamente?» si trovò a chiedere, dandogli una chance di tornare sui suoi passi, se avesse voluto.
Lo vide tentennare, schiudendo la bocca e richiudendola come a scegliere e scartare la parole da rivolgerle.
«Uhm... per aver rovesciato la clorofilla per terra ed aver reso inutilizzabile una cucina... ma questi sono solo danni collaterali, immagino.» 
Inspirò brevemente e sembrò a corto di parole. Pepper lo osservò attenta, leggermente più vigile. Non l'aveva mai sentito parlare esplicitamente dei suoi scatti d'ira ingiustificati e del suo comportamento molto scorretto nei suoi confronti. Non che lei si fosse mai aspettata che lo facesse: Tony Stark non era il tipo che si scusava, e quando lo faceva era sempre in modi decisamente difficili da interpretare. Come presentarsi alle tre di notte nel suo letto millantando i suoi progressi e la propria genialità. Si trovò a sospirare appena, riconoscendo che stavolta era persino riuscito a pronunciare di sua sponte e per intero le due parole magiche. Ciò la sorprendeva, forse anche in modo piacevole, ma non era sicura che quelli fossero il momento e la situazione adatti per parlarne. Non era del tutto disposta perdonarlo, per ora, ma poteva capire o perlomeno immaginare la situazione dal suo punto di vista, anche se non poteva definire "facile" il proprio. Ed era certa che quel tipo di chiarimento sarebbe inevitabilmente andato a toccare le loro "esistenze complicate". 
Divenne improvvisamente consapevole di quanto fossero vicini, e di come lei non stesse fissando Tony, ma le sue labbra inclinate in un sorriso ora incerto.
Distolse gli occhi dal suo volto, sfuggendo la sua iride scura che sembrava sempre aprire uno spiraglio da cui solo lei aveva il permesso di sbirciare. Stavolta non lo fece e si ritrasse, mentre i suoi pensieri continuavano a viaggiare in circolo attorno a ciò che era accaduto qualche notte prima. A ciò che era quasi accaduto. E che non era accaduto. Esattamente come l'anno scorso alla festa di beneficenza.
Rialzò gli occhi su di lui e rimandò la discussione semplicemente guardandolo in silenzio, confidando nella sua perspicacia e capacità di leggerla: ci sarebbe stato tempo e luogo per parlare, ma non ora e non lì. Quello era sicuramente il momento meno indicato, almeno per lei. Tony accettò silenziosamente la sua decisione senza attendere che lei la esprimesse ad alta voce. Da quel punto di vista la loro intesa funzionava ancora.
«Magari la prossima volta,» mormorò infatti lui, abbassando lo sguardo un po' mesto, accorgendosi così di stringere ancora la sua mano.
Ritirò la propria, quasi frettolosamente, e Pepper ebbe la sensazione che dei fili sottili si allungassero tra loro in una tensione invisibile, come cercando di non interrompere contatto. Si sentì strattonare appena il cuore, poi quella tensione si spezzò di netto, lasciandoli ognuno nel proprio spazio.
«Forse sarebbe carino lasciarti dormire,» proferì Tony, sorridendo di nuovo come se niente fosse accaduto. «Buonanotte.»
«Buonanotte,» gli augurò Pepper a bassa voce, e lo vide esitare per un istante vicino a lei prima di tirarsi su a sedere. «E vai a dormire sul serio,» aggiunse poi, in una minaccia bonaria.
Lui afferrò le stampelle e scese dal letto il più in fretta possibile mentre sbuffava una risatina, evidentemente deciso a ignorare il consiglio, e forse anche per mascherare il disagio di non essere ancora riuscito a chiarire la questione. Pepper sospirò rassegnata e chiuse gli occhi, sorridendo di rimando nel vederlo ancora di buonumore. Non poté fare a meno di ridacchiare anche lei nel vedere la mano metallica spuntare dalla soglia e agitarsi in un saluto, con Tony che sbirciava dallo stipite con un'espressione giocosa.
Magari la "prossima volta" sarebbe stata presto, le venne da pensare, già nel dormiveglia.






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Revisione effettuata il 26/02/2018


Note delle Autrici:

Siamo tornate! Finalmente vacanze e quindi tempo per scrivere :D Vi bombarderemo!
Stiamo quasi dando una tregua a Tony e la situazione di Pepper diventerà, per la vostra gioia (?), sempre più intricata.
Ringraziamo blackpearl_, Rogue92, alliearthur, Lupoz91, Micchi, Sherlock_Watson, bluephoenix per aver recensito e per continuare a seguirci ^^ <3 Vi amiamo <3


Moon&Light

 

Edit 26/02/2018: aggiunte parti tecniche campate per aria: son sempre belle. E ho cambiato il testo della canzone a inizio capitolo, che non so perché era iper-depresso per un contesto tutto sommato rilassato rispetto al solito. Mah.





© Marvel

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Capitolo 17
*** High hopes ***




16

High hopes





My brain, my body's fried
I've got to stay alive
I've got to take a chance 
And keep on moving”


[Blood For Poppies – Garbage]




16 Marzo, Villa Stark

Perché a lui? Perché capitavano tutte a lui?
Un braccio meccanico, una gamba in progettazione, un occhio immaginario... maledisse il giorno in cui aveva deciso di prendere la facoltà di medicina. Si era laureato per curare la gente, non per operazioni poco probabili, e per giunta su pazienti poco collaborativi.
«Ora, signor Stark, mi spiegherà che cosa c'è di sbagliato in questo progetto,»
Ian indicò il ginocchio della gamba azzurrina che fluttuava tra loro.
«È lei il medico, quindi dovrebbe dirmelo lei. Io sono solo un povero genio e inventore...»
rispose Stark, immodesto come suo solito.
Ian sospirò alla ricerca di una forza interiore che al momento non possedeva: osservò il modello virtuale che roteava lentamente e poi fissò Tony con sguardo intenso nel tentativo di fargli notare l'errore, suscitando la sua irritazione:
«Non sono ancora arrivato all'illuminazione divina che mi permette di leggere nel pensiero: farebbe prima a dirmelo.»

Ian si arrese a malincuore:
«Forse... ha dimenticato un paio di menischi.»
Tony fissò il vuoto per qualche secondo, probabilmente meditando sul significato della sua esistenza.
«Ah. Ora capisco molte cose,»
disse, accarezzandosi il pizzetto con fare pensoso.
«Anche io,»
Ian scosse la testa rassegnato.
Tony intrecciò le dita, ancora in contemplazione con lo sguardo da cane bastonato. Quei menischi dovevano essere stati un duro colpo.
Ian osservò attentamente il suo volto provato: era incredibile come quell'uomo ridotto a un agglomerato di stress, insonnia e caffeina fosse ancora in grado di applicarsi nella progettazione di protesi all'avanguardia riuscendo a sbagliare "solo" un paio di menischi. Se lui si fosse trovato nelle sue condizioni – e, ricordando il suo quarto anno di medicina,
era quasi successo, almeno a livello mentale – avrebbe probabilmente defenestrato tutti i progetti, si sarebbe chiuso in camera sua e avrebbe dormito per una settimana di fila. Questo ovviamente non sembrava rientrare nei prossimi piani del miliardario, che sembrava più incline a spingere il suo corpo e la sua mente all'estremo limite per dimostrare chissà cosa a chissà chi. Ian sospirò tra sé: i pazienti orgogliosi e cocciuti erano i peggiori. Se poi erano anche miliardari, geni e pseudo-supereroi, c'era davvero da mettersi le mani nei capelli.
Mise momentaneamente da parte le sue elucubrazioni mentali per riscuotere Stark dallo stato di trance in cui era scivolato, forse indotto dalla carenza di sonno:
«Signor Stark, a parte gli errori strutturali... le volevo proporre una futura modifica per il braccio, e anche per la gamba.»
Tony voltò la testa, di nuovo reattivo, e lo invitò a continuare con un cenno del mento.
«Come ben vede, le protesi sono piuttosto... vistose,»
accennò al braccio di un color antracite metallizzato, chiaramente riconoscibile anche da lontano come un componente meccanico.
«Beh, sono protesi. È ovvio che si vedano,»
 scrollò le spalle lui, non particolarmente interessato.
Quel giorno sembrava più assente del solito... sperò che fosse solo la stanchezza e che non ne stesse architettando una delle sue.
«Sì, ma con un intervento di chirurgia plastica si potrebbe camuffare il danno, a protesi ultimate. Con molti innesti di pelle o con un rivestimento sintetico, intendo,»
gli spiegò nel tentativo di catalizzare la sua attenzione.
Funzionò: il miliardario corrugò intrigato le sopracciglia e ticchettò sul rivestimento metallico dell'avambraccio.
«Sarebbe strano,»
commentò poi, lentamente, meditando sulla proposta. «Molto strano. Ci penserò più in là: devo ancora apportare moltissime modifiche e vorrei aspettare che la situazione si stabilizzi. E non sono neanche sicuro di volerlo fare,» concluse, un po' distaccato.
Ian lo fissò un po' sorpreso dal suo momentaneo rifiuto, ma annuì senza fare domande. Aveva pensato che la prospettiva di non avere costantemente sotto il naso un promemoria di ciò che aveva perso potesse essere confortante, ma evidentemente non rientrava tra le sue preoccupazioni più immediate.
«Va bene, potrà sempre cambiare idea in futuro,»
concluse conciliante, prima di passare a un argomento ben più urgente. «Piuttosto, ha intenzione di dormire prima o poi, da qui al processo?»
«Sono in grado di tener testa a quegli avvoltoi anche da sonnambulo,»
ribatté lui con sicurezza.
«Signor Stark...»
cominciò lui, sapendo che ogni sua parola sarebbe caduta nel vuoto.
«Doc, prima finisco la gamba e prima potrò riposare,»
lo interruppe subito lui, risparmiandogli un discorso che sarebbe comunque rimasto inascoltato. «Non si preoccupi per me, sono abituato a lavorare sotto stress,» concluse con un sorrisetto che non raggiunse il suo sguardo spento.
Ian non insistette, ma si ripromise di parlare con Pepper per fargli rifilare qualche sonnifero a sua insaputa. Tony spostò lo sguardo sul soffitto, improvvisamente assorto e facendogli presagire qualcosa di molto, molto assurdo. Era dall'inizio di quell'incontro che Ian cercava di intuire cosa ribollisse nella testa del suo paziente, e si preparò all'impatto.
«Sa, Doc, anch'io stavo pensando...»
"Appunto," quasi sospirò il medico.
Si arruffò i corti capelli grigio ferro, riducendo le labbra a una linea sottile e severa.
«Perché ogni volta che lei ha qualche idea sento un forte senso di oppressione al petto?»
«Non saprei, ma mi creda,»
rispose lui, momentaneamente distratto mentre si picchiettava il reattore in modo eloquente, «ne so qualcosa.»
Ian stavolta sospirò apertamente, ma tacque, aspettando sulle spine.
«Stavo dicendo: lei si ricorda che ho un piccolo "difettuccio" qui, no?»
Tony indicò la benda che gli copriva l'occhio sinistro.
Mitchell si tolse gli occhiali con lentezza, prendendo a pulirli con un lembo della camicia con ostentata calma, concentrandosi unicamente sulle lenti già perfettamente lucide.
«Mi ricordo benissimo, signor Stark, e le ho già detto che sarò lieto di metterla in contatto con un chirurgo plastico quando vorrà,»
rispose freddamente. «Come va il braccio? Mi ha detto di avergli apportato delle migliorie,» cambiò poi argomento con voce atona.
«Sì, l'ho calibrato ieri... forse adesso non sarò più un pericolo pubblico; e adesso è caldo e tra poco potrò anche tornare a sentire, ma torniamo a...»
«Un momento. Che cosa? Sentire?»
domandò Mitchell, stranito, lasciando perdere la pulizia degli occhiali per un istante.
«Ci sto lavorando. Mi lasci fare,»
lo liquidò lui in poche parole con un gesto scocciato della mano metallica.
Le sopracciglia di Ian si aggrottarono all'istante, incorniciando di rughe i suoi occhi acquamarina, nei quali passò un lampo di stizza. Cercò di moderare la sua irritazione, ripetendosi che stava parlando con un suo paziente... ma suddetto paziente gliene aveva fatte passare di tutti i colori, ignorando ogni sua direttiva, consiglio e prescrizione, mettendo di conseguenza a repentaglio la propria salute e ponendo lui in uno stato di ansia latente. Non si reputava un tipo tollerante e tentava sempre di tenere a bada la propria schiettezza per non sembrare troppo brusco, ma a questo punto si sentiva in diritto di esternare la propria contrarietà, soprattutto in faccia all'ego ipertrofico di Tony Stark.
«È forse impazzito?»
disse quindi con voce estremamente calma, gelandolo con un solo sguardo.
Tony lo fissò spaesato e Ian ne approfittò per continuare, senza più preoccuparsi di suonare professionale:
«Lei ha a malapena cominciato a muovere decentemente il braccio, non sta facendo progressi evidenti con la gamba, è ridotto in uno stato pietoso, è già oberato di lavoro e si mette a pensare a queste
sciocchezze?»
Lo sguardo di Tony si incupì.
«Non è certo nella posizione di poter giudicare cosa sia una sciocchezza o meno,»
ribatté l'ingegnere, altrettanto freddamente.
«Vuole tentare di ricreare il tatto con una protesi appena inventata: le sembra una priorità, nelle sue condizioni?» lo incalzò ancora, senza nascondere la propria scettica perplessità.

«Le mie...»
l'uomo s'interruppe, non gli fu chiaro se per la frustrazione delle sue "condizioni" o per lo sforzo di seguire il suo ragionamento per lui incomprensibile.
«Lei sta solo perdendo tempo prezioso,»
scandì Ian, e a quelle parole Tony sobbalzò. «Tempo che potrebbe utilizzare per dedicarsi alla gamba. Visto che ha tanta fretta di tornare a camminare, non mi sembra il caso di distrarsi,» gli ricordò poi, sempre imperturbabile. 
Era più sconcertato di quanto volesse lasciar trasparire: quando Stark si era messo a lavorare sulla prima protesi, l'aveva fatto con una costanza e una meticolosità quasi ossessive... e adesso si lanciava in modifiche e miglioramenti improbabili a cui avrebbe dovuto pensare a protesi ultimate, non con un'operazione e un processo alle porte.
«Ha ragione, sono distrazion,.»
gli concesse Tony, sempre più tetro in volto. «E il modo in cui impiego il mio tempo o mi distraggo non la riguarda.»
«Devo essere io a ricordarle che sta rischiando la vita proponendomi queste operazioni impensabili? E che se le sue "distrazioni" dovessero causare difetti nelle protesi...»
Tony non lo lasciò finire, ponendosi immediatamente sulla difensiva:
«È il
mio corpo e so a quello che vado incontro; inoltre il fatto del "sentire" non implica la sua diretta collaborazione, quindi eviti di...»
«... sarò io a subirne le ripercussioni, non solo lei! Si è dimenticato l'incidente con i reattori? È quasi morto sotto i
miei ferri!» concluse in tono più alto, ignorando il suo intervento e mettendo a tacere ogni sua protesta.
Tony lo fissò, probabilmente restio a comprendere il motivo della sua improvvisa rabbia. Lui rimase in silenzio, attendendo una spiegazione che non arrivò: Ian era sicuro che fosse abbastanza intelligente da potersi dare una risposta per conto proprio. Non negava di essersi dimostrato molto prevenuto riguardo all'idea delle protesi: anche dopo aver compiuto la prima operazione non aveva perso il suo astio verso qualunque cosa non si collocasse naturalmente in un corpo umano, e, sfortunatamente per il suo paziente, né palladio, né reattori, né unobtanium rientravano in quella categoria. La sua scetticità si era attenuata col successo della prima operazione, ma aveva sempre prospettato con ansia la seconda, pur trattenendosi dall'esporre così chiaramente il suo disappunto e i suoi timori, ritenendolo scorretto per un medico nei confronti del proprio paziente. Doveva essere un punto di riferimento e una fonte di sicurezza, non fomentare ulteriori ansie e preoccupazioni. Avrebbe solo voluto che Tony procedesse più adagio, e con più criterio: aveva già realizzato qualcosa di sbalorditivo, ma la sua fretta e brama di fare meglio si sarebbe rivelata ben presto controproducente.
L'espressione di Stark si era rilassata di poco e adesso sembrava preoccupata, più che irata. Probabilmente il rischio di inimicarsi l'unica persona che potesse materialmente aiutarlo a mettere in pratica i suoi progetti era riuscito a farlo rinsavire. Questo era ciò che sperava il medico, ma le successive parole del miliardario lo costrinsero a ricredersi:
«Sono sopravvissuto all'intervento, la protesi ha funzionato fino ad ora e continuerà a farlo. E le operazioni sono un inconveniente sopportabile per chi è nelle mie "condizioni",»
enunciò con durezza.
Il suo tono non piacque affatto al medico, che si irrigidì.
«Ora mi stia bene a sentire,» esordì, inforcando di nuovo gli occhiali con un fremito. «Quello che ora le permette di usare il suo braccio destro, e che forse in futuro le consentirà di rimettersi in piedi, non è solo la sua genialità, ma anche la mia abilità chirurgica. Un qualunque altro medico sano di mente si sarebbe rifiutato di compiere una follia del genere. Visto che per sua fortuna anch'io ho avuto un momento di pazzia nell'accettare quest'incarico, eviti di rivolgersi a me con quel tono e con quell'atteggiamento.»
«Sono consapevole di avere un caratteraccio, ma pensavo che ormai ci avesse fatto l'abitudine,»
commentò Tony, non riuscendo a trattenersi.
«Non ho ancora finito, signor Stark,»
lo zittì il medico, e l'altro tacque di malavoglia.
«Per quanto io possa essere bravo, abile e preciso con i ferri, non sono perfetto...»
«Almeno non le manca la modestia,»
gli parlò sopra Tony, senza riuscire ad interromperlo.
«... e
anch'io posso sbagliare. Ho sbagliato mentre la operavo, e lei è quasi morto. Non credo che lei capisca cosa significhi, per un medico. Potrebbe succedere di nuovo, non glielo auguro di certo, ma è una possibilità da prendere in considerazione.»
Una scintilla di comprensione si accese nello sguardo di Tony.
«Ah, quindi stiamo parlando di responsabilità e sensi di colpa? Con tutto il rispetto, Doc, ma ha scelto la persona sbagliata se pensa che io non capisca.»
Stavolta il suo tono suonò colmo d'irritazione. «Il suo unico compito in questo frangente è quello di impugnare in modo decente un bisturi e tagliuzzare nel punto giusto cercando di schivare i punti vitali. È il suo lavoro, dovrebbe essere preparato a compierlo, e dovrebbe sentirsi tranquillizzato dal fatto che, se mai dovesse perdere all' "Allegro Chirugo", io non mi scomoderò certo a tornare sottoforma di fantasma dall'aldilà per perseguitarla per i suoi errori. In poche parole, corro io il rischio e sono io a pagarne le conseguenze. La sollevo da ogni responsabilità, se ciò la fa dormire più tranquillo,» sbottò, in un'onda di sarcasmo crescente.
Mitchell impallidì vistosamente, diventando poi livido di rabbia.
«Lei è il più grande egoista che abbia mai incontrato,»
riuscì a dire, evitando di alzare la voce e muovendo appena le labbra nel parlare.
«Bene, appurato questo dato di fatto...» Tony
 scacciò con un gesto annoiato la gamba virtuale che aveva continuato a girare ininterrottamente sul posto, e questa si scompose in una miriade di pixel. «Vogliamo parlare di questo fastidioso inconveniente? E non mi riferisco alla chirurgia plastica,» specificò, indicando di nuovo la benda sul volto.
Ian rimase impietrito, incredulo che Tony avesse liquidato la questione con così tanta superficialità e che, anzi, stesse di nuovo insistendo sull'argomento "distrazioni".
«La sua ostinazione mi stupisce, visto ciò che le ho appena detto. Ma dimenticavo che, oltre ad essere egoista, è anche arrogante.»
La sua voce fremette appena, ma si costrinse a ricomporsi. «Sono momentaneamente propenso, anche se non entusiasta, ad operarla alla gamba. Ma l'occhio è fuori discussione,» scandì lapidario.
«Non ho ancora capito il motivo di questo suo disgusto verso il mio apparato visivo,»
ironizzò Tony.
«I motivi sono gli stessi che le ho elencato prima: è tremendamente pericoloso, lei ha già tentato la sorte più volte e io non voglio un morto sulla coscienza.»
«Insomma, ha paura,» concluse l'altro, con un sottotono provocatore.
«Dovrebbe averne anche lei,» replicò flemmatico Ian. 
«Soprattutto perché è impossibile.»
Tony fece un sorrisetto di scherno.
«Anche questo lo era, a detta sua,» strinse il pugno meccanico davanti al volto e lo lasciò ricadere con disinvoltura.
L'espressione di Ian rimase immutata: una decisa maschera di granito, totalmente irremovibile. Tony sospirò e si massaggiò le tempie, scuotendo appena la testa.
«Non le sto chiedendo di operarmi domani, anche perché devo ancora ideare un congegno in grado di sostituire un bulbo oculare, e anch'io sono d'accordo sul fatto che forse sarà impossibile,»
disse in un inatteso slancio d'umiltà. «Ma vorrei... tenere aperta questa strada, e lei ha ancora moltissimo tempo per cambiare idea. Direi poco meno di sei mesi, visto lo stato delle cose. Ci pensi,» concluse in tono pacato, osservando la reazione di Mitchell.
Questi si rilassò appena nel constatare che non aveva intenzione di distogliersi ulteriormente dai suoi problemi più immediati concentrandosi su tecnologie improbabili e illusorie.
«E per quanto riguarda gli eventuali potenziamenti delle protesi... quelli sono il mio campo e, se mi avesse ascoltato prima, non richiedono la sua presenza e non penso proprio che mi distrarranno al punto da mandare a rotoli la progettazione della gamba,»
aggiunse Tony, e Ian notò come stesse cercando di essere più o meno garbato, ma finì per suonare comunque un po' brusco.
«L'ho ascoltata molto bene e le ricordo che, in quanto suo medico, è mio dovere scoraggiarla dal fare stronzate,» proferì serafico.
Tony rimase per un attimo spiazzato dal suo tono più leggero, poi sogghignò divertito.
«Siete tutti così carini a preoccuparvi per me,»
commentò, falsamente estasiato, e un accenno di sorriso attraversò anche il volto del medico. «E penso che la signorina Potts la prenderebbe in simpatia se la aiutasse a "non farmi fare stronzate" un po' più spesso: è dura fare tutto il lavoro da sola.»
Si sentì forse un po' in colpa nel dirlo, ma continuò a sorridere sotto i baffi.

***


Il vapore della doccia aleggiava pigramente nel bagno, offuscando l'aria.
Sotto il getto d'acqua calda, Pepper si passò le dita tra i capelli ramati, sistemandoseli all'indietro e scoprendo la bella fronte alta quasi sempre coperta dalla frangetta. Si lasciò cullare da quell'abbraccio liquido e rilassante, nonostante avesse finito già da qualche minuto di lavarsi. Poteva finalmente concedersi qualche momento per essere da sola con se stessa, senza preoccuparsi di qualcun altro o per qualcos'altro. Semplicemente lei, i suoi pensieri e quella rilassante acqua calda.
Da quanto non si concedeva un momento per sé? Tanto, troppo tempo, e se d'ora in poi non l'avesse fatto regolarmente, avrebbe iniziato a perdere veramente i nervi con Tony.
E se fosse successo... non sapeva dire nemmeno lei che cosa sarebbe potuto accadere.
Sapeva benissimo che ora più che mai aveva bisogno di lei, anche se a volte pensava di non volere il suo aiuto o più semplicemente di non
volerla affatto. Strinse le labbra quasi di riflesso, lasciando che il getto della doccia vi picchiettasse sopra. Non avevano tutti i torti a tenersi a distanza a vicenda: non era davvero il caso di complicare ancora le loro... la situazione. E non poteva fare a meno di chiedersi se Tony si fosse mai realmente interrogato sulla sequenza di eventi che l'avevano portato su quel letto d'ospedale in quelle condizioni. Per quanto la riguardava, vi si soffermava abbastanza a lungo da aver perso più di una notte di sonno. Chiuse gli occhi e nascose il viso sotto la patina d'acqua che continuava a scivolarle addosso, lasciando che insieme ad essa scivolassero via anche quelle tetre preoccupazioni, sostituendole con riflessioni altrettando intricate, ma forse più dolci.
Il filo dei suoi pensieri fu interrotto dalla voce robotica di JARVIS, che da fuori tentava di dire qualcosa a Tony; ovviamente lui lo zittì con il suo solito ed imperioso “muto”, che risuonò da dietro la porta.
Chissà cosa stava combinando...
«Pepper!»
Lei sgranò gli occhi nel sentire la sua voce all'interno del bagno, cioè dentro al bagno, lo stesso bagno in cui si stava facendo la doccia e nel quale era completamente, totalmente ed irremediabilmente nuda, celata al suo sguardo solo dal vetro appannato ma altrimenti trasparente.
«Tony?!»
Pepper si rintanò nell'angolo della doccia, dandogli la schiena e lanciandogli uno sguardo allarmato da sopra la spalla: Tony era entrato e lo scorse barcollare appena, investito dalla cappa di vapore asfissiante. Probabilmente non si stava ancora rendendo ben conto della situazione, perché fece qualche passo claudicante con le stampelle prima di riprendere a parlare in modo pimpante:
«Pepper, devo assolutamente...»
«Tony!» tuonò lei in preda al panico più totale. «Non si azzardi a guardare!»
Sentì il fracasso delle stampelle che cadevano a terra e vide Tony che si appoggiava con una mano al lavandino, coprendosi al contempo il volto col braccio sano, come un bambino che inizia a contare quando gioca a nascondino:
«Non guardo! Non sto guardando! Scusi, giuro che non mi ero accorto di...»
«Non guardi!»
«Non sto guardando, le ho detto! Eppure io non mi sono fatto tanti problemi quando ero completamente inabile a muovermi e...»
«Ho detto che
lei non deve guardare e comunque lei non era... così nudo!» continuò lei, agitandosi e impappinandosi mentre avvampava all'istante.
«Quindi
lei è autorizzata a guardare me?» nel bagno echeggiò una risatina e Pepper ebbe la tentazione di tirargli addosso la saponetta mirando ai punti vitali. «Le ho detto che non guardo. E poi, santo cielo, Pep, non mi scandalizzo per...»
«Non si azzardi a dire altro! Ora esca di qui; parleremo fuori, se davvero è così urgente.»
«Lo farei volentieri ma, ecco... avrei un problemino.»
«
Lei avrebbe un problema?!» chiese Pepper scandalizzata, chiudendo finalmente l'acqua per sentirlo meglio e infrangendo così tutti i suoi sogni di relax.
«Sì, e proprio ora: per farla felice e preservarla alla mia vista ho mollato quegli inutili aggeggi di metallo che però mi tengono in piedi, ed ora sono su una gamba sola e rischio di frantumare un lavandino. In precario equilibrio, insomma. Perciò se fosse così gentile da uscire dalla doccia e passarmi la...»
Pepper interruppe la sua parlantina:
«Va bene, va bene... un momento. Io ora esco dalla doccia. Lei non sbirci! Mi vesto subito e le passo la sua stampella. Ha capito?»
«Roger, capo.»
«Non si muova.»
«Veramente volevo giusto farmi una passeggiatina con lei...»
Pepper alzò gli occhi al cielo ed ignorò la battuta. Uscì dalla doccia e si asciugò sommariamente, maledicendo il fatto che avesse dimenticato l'accapatoio e i suoi vestiti troppo vicino a Tony. Afferrò in fretta e furia le prime cose che le capitarono sotto mano nel cesto dei panni sporchi e le indossò, sempre guardando di sottecchi l'uomo, ma lui sembrava tener fede alla sua parola ed era immobile e a volto coperto come l'aveva lasciato, solo un poco più sbilenco. E con un sorrisetto malizioso stampato sulla sua faccia da schiaffi. Doveva sentirsi decisamente meglio, dato che scorrazzava per bagni e camere da letto senza la solita sedia a rotelle...
Si affrettò a recuperargli le stampelle da terra e gliele porse; lui ne inforcò una, trovando un appoggio più stabile del lavandino, ma non accennò a scoprirsi l'occhio.
«Ha fatto?»
«Sono vestita ed ho l'altra stampella.»
Tony sbirciò cautamente, scostando appena il braccio ed osservando il viso della donna ancora bagnato: i capelli ramati e grondanti le ricadavano all'indietro e sgocciolavano... sulla sua maglietta dei Black Sabbath? Pepper colse il suo sguardo perplesso e realizzò in quel momento cosa indossava. Spostò a disagio il peso da un piede nudo all'altro.
«Quella è mia,» dichiarò Tony, decidendosi ad accettare la stampella e ritrovando finalmente il proprio equilibrio.
Pepper decise di ignorare il reticolo di crepe grigiastre che aveva lasciato sulla ceramica del lavandino, ma notò Tony che gli scoccava un'occhiata contrariata. Pepper osservò per un momento la maglietta che le stava tre volte più grande e le arrivava quasi a metà coscia, non sapendo bene come sbloccare quella situazione imbarazzante.
«Sì... è la sua maglietta,» si trovò a ripetere, un po' assente.
Preferì non chiedersi se l'avesse scelta in modo conscio o meno, perché entrambe le possibilità racchiudevano implicazioni sulle quali non voleva soffermarsi.
«Le sta bene. È mia, dopotutto,» osservò Tony, sorridendole sornione.
Pepper arrossì un po' ed il calore della stanza la aiutò a nasconderlo. Si schiarì la voce prima di parlare:
«Quindi... mi stava cercando, signor Stark?»
«Ah, sì, giusto. Volevo dirle che... oh. Mi sono dimenticato,» sbuffò lui, imbronciandosi e facendo un encomiabile sforzo per continuare a guardarla negli occhi.
«Come, scusi?» Pepper arcuò minacciosa un sopracciglio, apprezzando però collateralmente la sua buona volontà nel non lasciarsi distrarre dalla situazione anomala.
«Dovevo dirle qualcosa, ma poi c'è stato un "contrattempo" e mi è passato di mente,» accennò con fare impertinente al suo abbigliamento poco ortodosso, e Pepper, con un'ondata d'imbarazzo, non volle soffermarsi sulle cause fisiologiche che potevano aver causato quella dimenticanza improvvisa.
Notò di sfuggita come il suo sguardo saettasse qua e là a disagio, cosa decisamente insolita per lui, che non era certo l'immagine del pudore.
«Ma che cosa ci faceva la
mia adorata maglietta nel suo bagno?» continuò poi, in fretta. «E soprattutto: le faccio presente che sarà solo un prestito momentaneo
«Se l'è dimenticato?» insistette lei ignorando le sue osservazioni fuori contesto.
«Ho detto di sì. Si vede che non era importante,» disse lui, in modo un po' meccanico, stabilizzando infine la linea del suo sguardo su un punto neutrale in fondo al bagno. «Appena me lo ricordo glielo dico... ora: la mia maglietta?» insistette, come se fosse una questione d'importanza vitale... o più probabilmente un modo molto poco efficace per distogliere entrambi dalla situazione anomala in cui si trovavano.
«Mi pare di averla trovata in giro sporca di clorofilla e quindi l'ho portata in bagno... credo,» si decise a spiegare Pepper, abbassando gli occhi e notando solo ora l'evidente macchia verdastra appena sotto il logo della band.
«Ah, giusto. Colpa della protesi, faccio ancora casini in giro,» Tony sembrò ricordare, un po'assente. «Poi mi spiega perché va in giro a raccattare la mia roba,» aggiunse poi, con un sogghigno divertito.
Pepper incrociò le braccia e iniziò a battere ritmicamente la punta di un piede per terra, ignorando quell'insinuazione e attendendo che lo spirito d'osservazione e il – poco – buonsenso dell'uomo traessero le dovute conclusioni da quel gesto.
Tony ondeggiò a disagio sul posto, finalmente consapevole.
«Giusto, sono di troppo. Allora... io la lascio da sola. Buona doccia,» concluse, schiarendosi la gola e facendo dietrofront.
Pepper annuì in risposta, attendendo pazientemente che uscisse, ma lui si girò di scatto non appena fu sulla soglia:
«Ecco!»
"Lo sapevo," pensò Pepper al limite della disperazione.
«Volevo dirle che il processo è stato rinviato. Vado giù a stappare lo champagne!»




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Revisione effettuata il 26/02/2018

Note delle Autrici:

Ebbene sì... non ci bastava far addannare Pepper, Kyle con Tony: Ian è il nuovo membro del club-Tonyhairottoilca***coffcoff (non è l'unico a diventare più volgare ultimamente).
 come al solito questa è solo la calma prima della tempesta... *sempre più cattive*
Come sempre ringraziamo di dovere chi ha recensito/letto ed aggiunto la storia alle preferite/ricordate/seguite, in particolare Lupoz91, Sherlock_Watson, Rogue92, Micchi, blackpearl_, alliearthur e bluephoenix <3
See you soon!

Moon&Light

 



© Marvel

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Capitolo 18
*** Another family reunion ***




17

Another family reunion




"My mind can't take much more
I could never drown in
They wanna get my gold on the ceiling
I ain't blind
Just a matter of time before you steal it"


[Gold On The Ceiling – The Black Keys]






17 Marzo, Villa Stark

"Allegria..." pensò Tony.
Al tavolo della sala riunioni della villa si davano tutti un gran da fare: Ian controllava e ricontrollava i suoi dati clinici in modo da prevenire altri attacchi nel prossimo processo, nonostante l'ingestibile lacunosità della documentazion; Pepper parlava animatamente con Kyle su quale strategia sarebbe stato meglio adottare questa volta e Kyle di rimando sembrava oscillare tra una crisi isterica e una furia omicida nei confronti di Knight.
Come al solito stavano facendo i conti senza l’oste, il quale se ne stava bellamente seduto a fissare la scena attraverso il fondo del bicchiere di clorofilla appena svuotato, il secondo in cinque minuti.
"Ma perché nessuno mi capisce?"
Nessuno aveva pensato a lanciare un "olé" o un "alleluja" appena saputo del rinvio del processo se non lui e, anzi, erano tutti ancora più agitati, neanche avesse annunciato loro la fine del mondo. Si accomodò meglio sulla sua sedia, fissando con aria annoiata il tavolino di vetro della sala riunioni e chiedendosi che cosa ci stesse a fare lui lì. Posò il bicchiere vuoto sul tavolo e s'inclinò con la sedia per prendere una bottiglia di birra dal minibar dietro di lui, rimanendo rivolto verso di loro per bocciare prontamente qualsiasi idea avessero avuto sul non pestare il giudice nel caso avesse di nuovo battuto a sproposito quel suo martelletto diabolico.
«Dopo quel che è successo nell’ultimo piacevole incontro con Knight, non posso permettermi altri passi falsi. Anche perché sono stato ammonito e Stark è stato giustamente accusato di falsa testimonianza. A proposito, devi anche pagare la sanzione se non vuoi scontare un po' di arresti domiciliari,»
gli ricordò con uno sguardo severo dei suoi occhi verdi e penetranti. «Dobbiamo essere precisi, puntuali, educati e prudenti. Insomma, dobbiamo muoverci come un elefante in una cristalleria. Non so se rendo bene l’idea, cari,» spiegò Kyle, allargando le mani con fare eloquente e scoccando un' altra occhiata a Tony, ora intento ad accavallare la gamba sana senza distruggersi la fasciatura del moncherino.
Ian annuì vigorosamente in silenzio mentre scorreva i documenti, guardando però anche lui di sottecchi "l'elefante" in questione. Tony fece finta di nulla e si attaccò con ostentata naturalezza alla bottiglia, lieto che nessuno avesse notato la rapida scomparsa dei 33 centilitri in essa contenuti. Lo sguardo di Ian diventò bruciante e Kyle lo intercettò, togliendo poi bruscamente la bottiglia dalla mano di Tony, che quasi si strozzò.
«Grazie, geniaccio: questa la prendo io,» commentò bevendo il poco liquido rimasto in un sol sorso.
«Tu torna ai tuoi intrugli verdi.»
Tony rimase un attimo perplesso, guardando con ramamrico la mano vuota dove prima c'era quel perfetto miscuglio tra malto ed alcool; poi alzò le spalle e seguì la direttiva di Kyle nel tornare alla borraccia di clorofilla, sorseggiandola cercando di nascondere la smorfia schifata per quella bevanda decisamente meno appetitosa. Sentì lo sguardo di Pepper posarsi su di lui e s'impegnò a fingere che quella brodaglia gli piacesse più d'ogni altra cosa al mondo. Finora aveva funzionato abbastanza bene, come copertura; ci mancava solo che lei iniziasse a porre domande scomode sul suo smodato consumo di clorofilla.
«Quello che intendo è che dobbiamo procedere con cautela. Cautela. Appuntatevelo dove volete, ma ricordatevelo,» scandì intanto Kyle. «Il fatto che Hammer abbia dato buca ci dà tempo per prepararci meglio, ma anche lui avrà occasione di studiare meglio il caso. È un'arma a doppio taglio e dobbiamo essere preparati a contestare le sue argomentazioni,» continuò a spiegare con sicurezza.
«Allora per quanto riguarda le protesi dovremmo prima di tutto fornire loro i progetti preliminari, così da... Un momento.» Pepper s'interruppe e si girò improvvisamente verso Tony. «Lei. Perché non sta parlando come al solito?» chiese, allarmata.
L'uomo sollevò le sopracciglia, preso in contropiede. Stava per appellarsi al suo diritto di rimanere in silenzio, ma fu anticipato:
«E perché non contesti tutto ciò che diciamo, Stark?» Kyle assunse un’espressione altrettanto preoccupata.
«Si sente bene?» rincarò la dose Pepper, attendendo da lui una risposta.
Lui si guardò intorno come una preda in trappola.
"Sono circondato."
«Ha avuto modo di sfogarsi con me,» risolse i loro dubbi Ian, con aria apparentemente tranquilla.
In realtà da dietro i suoi occhiali stava trapassando Tony con tanta durezza che questi si sentì ancora più a disagio nel ricordare la loro discussione del giorno prima, inclusa la direttiva sul non fare stronzate.
Kyle seguì quello scambio, interessato:
«Non so come interpretarlo: se come una punizione fisica subita da uno dei due, o come qualcos’altro... sai essere ambiguo, Ian.»
Tony quasi si strozzò di nuovo.
«K, mi dispiace deluderti, ma ho altri interessi e altri modi per "sfogarmi",» disse Tony, e il suo sguardo corse involontariamente a Pepper.
La donna ticchettò con le unghie sul tavolo, fissandolo gelida:
«Vuole che le chiami qualcuno? Un po' di "spazzatura", intendo.»
«Santo cielo, lei è fuorviante. Finirà con l’uccidermi, se non cado prima in una congiura,» sdrammatizzò, guardandosi intorno preoccupato.
«Se evita di farmi venire un collasso nervoso un giorno sì e l'altro pure, forse ha qualche speranza di sopravvivere.»
Tony borbottò un qualche commento a mezza voce che risultò incomprensibile, poi riprese con più energia:
«Il suo comportamento nei miei confronti non ha effetti molto diversi, sa?»
«Credo che lei sia già "compromesso" senza il mio aiuto,» replicò Pepper, pungente.
Tony trasalì, fissandola sorpreso e anche abbastanza risentito. Iniziava ad averne abbastanza delle sue frecciatine, ma continuava a incassarle memore del proprio comportamento decisamente discutibile. Però non sapeva quante ancora ne avrebbe potute sopportare, soprattutto se lei avesse continuato a cambiare umore da un giorno all'altro.
«Tornando al processo...»
Pepper troncò l’argomento non dandogli modo di rispondere, e Tony tentò di celare il proprio improvviso disagio per quel battibecco. Kyle nel frattempo si stava grattando il naso con aria imbarazzata. Mitchell, al contrario, li fissava con il mento poggiato sulle mani intrecciate come se stesse seguendo un talk-show.
«Ma no, stava diventando interessante. Fate con comodo: io non esisto,» dichiarò con fare sornione.
«Spiacente deluderla, Doc, ma è appena suonata la campanella dell'intervallo ed è finita l’ora del "facciamoci-i-cazzi-altrui",» dichiarò Tony, infastidito ma deciso a mascherarlo con il suo sarcasmo. «Allora, c'è qualcuno disposto a festeggiare con me il rinvio del giudizio universale?» riprese un tono più leggero, e sollevò la clorofilla come un peccatore che ha appena scampato il biglietto di sola andata per l'inferno.
Il palmare poggiato sul tavolo trillò, interrompendo sul nascere i festeggiamenti; prima che Tony potesse raggiungerlo lo fece Pepper, lasciandolo con la mano sollevata a metà strada:
«La moda del momento è appropriarsi indebitamente delle mie cose?» 
Assottigliò gli occhi nel guardare la maglietta dei Black Sabbath, ora pulita, che Pepper aveva evidentemente reclamato come propria, in un gesto che non sapeva se interpretare come una sfida o come un tentativo di riappacificazione. Lei non rispose e corrugò le sopracciglia mentre leggeva il messaggio:
«Non faccia quella faccia,» sbottò Tony, tra la disperazione e la supplica.
«C'è qualcuno che vorrebbe parlare con lei.»
«Avevamo detto niente spazzatura,» disse Tony.
«È il direttore Fury,» annunciò lapidaria Pepper.
«Lui va nell'indifferenziata.»
«Vuole vederla e...»
«Signore, il direttore della SHIELD e il dottor Banner la attendono alla porta. Li faccio entrare?» annunciò la voce robotica di JARVIS, confermando i peggiori timori di Tony.
«Ah, c'è anche Bruce! Falli entrare, inizia la festa!» esclamò con un pizzico di sollievo, facendo buon viso a cattivo gioco anche se decisamente contrariato da quella visita imprevista.
«Signor Stark, tra due settimane ci sarà il suo processo! Questo è stato rinviato solo per l'assenza di Hammer, dobbiamo...» Kyle cercò di fermarlo, ma Bruce era già entrato nella stanza col suo passo un po' impacciato e l'aria di non sentirsi totalmente a suo agio in quella casa enorme, distraendo definitivamente Tony.
«Bruce! Benvenuto!» lo accolse, sorridente. «Sai, volevo chiamarti l'altro giorno, ma erano le quattro del mattino e qualcuno mi ha fatto notare che poteva non essere una buona idea,» continuò, salutandolo con ampi gesti col braccio destro per ostentare al contempo i progressi ottenuti con la protesi.
L'altro sorrise appena in un misto di incredulità e contentezza nel vederlo così arzillo rispetto al loro ultimo, turbolento incontro.
«Ehi, Tony. Beh, Per fortuna non l'hai fatto,» commentò, con palpabile sollievo. «Uhm, buongiorno, Virginia,» aggiunse, venendo ricambiato dalla donna, per poi scrutare perplesso l'assemblea che si stava svolgendo alle spalle dell'amico con l'aria di sentirsi ancor più fuori luogo. «Scusate, interrompiamo qualcosa?» si preoccupò.
Kyle scoccò un'occhiata irrequieta a Mitchell, come in una domanda silenziosa, e il medico gli rivolse un cenno d'assenso impercettibile. In quel mentre Fury si sporse dalla soglia.
«Non interrompiamo proprio niente,» tagliò corto quest'ultimo, piazzandosi in piedi a capotavola con la naturalezza di un padrone di casa dopo aver salutato con un cenno i presenti.
Fu evidente dal modo in cui scrutò la sala che non si aspettasse la presenza di Ian e Kyle.
«Sì, naturalmente... fai come se fossi a casa tua,» commentò acido Tony.
«Pensavo di non dover più rivedere la tua faccia, visto che ufficialmente sono di troppo nella tua banda di disadattati. Senza offesa, Bruce,» aggiunse, per poi alzare l'occhio al cielo non appena fu fuori dal campo visivo di Fury.
Spostò rapidamente lo sguardo dal suo unico alleato – sperando che non diventasse verde – al branco di occhi minacciosi puntati su di lui, e alzò un sopracciglio nel decidere che era il caso di rompere il ghiaccio in prima persona:
«Allora, lui è K, ed è merito suo se non sono ancora dietro le sbarre.» Kyle assunse un'espressione indecifrabile, forse aspettandosi una presentazione più ufficiale. «Pep la conosci... e lui è Doc, il mio segaossa,» continuò con leggerezza, con un ultimo cenno in direzione di Mitchell. «Ragazzi, loro sono...»
«Conosciamo già il tuo sfortunato "team di supporto", Stark.» Fury lo interruppe e incrociò le braccia, contrariato. «Lo stesso non si può dire di loro. E preferirei che la cosa rimanesse così, non so se mi spiego.»
Su di loro calò un silenzio teso. Ian fu il primo a riprendersi:
«Si spiega benissimo e io non ho alcuna intenzione di farmi coinvolgere ulteriormente nelle vostre faccende, quindi...» si alzò, lanciando un'occhiata eloquente a Kyle.
Tony spostò rapidamente lo sguardo tra i due, incredulo:
«Cosa? Neanche per sogno! Mi hanno aiutato per tutto questo tempo, hanno il diritto di...»
«Stark, apprezzo molto il gesto, ma preferiamo rinunciare a questo "diritto",» lo interruppe Kyle in tono gentile ma fermo, allontanando al contempo la sedia a rotelle dal tavolo.
Tony scosse la testa, ancora più confuso e a quel punto gli venne in aiuto Banner:
«Tony, non tutti ambiscono ad essere coinvolti in cose più grandi di loro... e devo dire che li capisco perfettamente. Se avessi potuto scegliere, mi sarei tenuto anch'io lontano da tutto questo,» aggiunse mestamente.
Tony non seppe come ribattere, così si limitò a chinare appena il capo: anche lui capiva, in fondo. La vita da "supereroe" a pensarci bene era fantastica, dopo averci fatto l'abitudine, ma se gli avessero dato la scelta fra avere un reattore nel petto o vivere una vita normale, senza dover tirare avanti a palladio e clorofilla e con più metallo che carne addosso, non era certo che la sua scelta sarebbe stata così ovvia, a prescindere dalle proprie promesse. Lo stesso poteva dirsi per il trovarsi invischiato con lo SHIELD e tutto ciò che comportava in termini di sicurezza. Scoccò un'occhiata a Pepper, che osservava in silenzio la scena, attenta come sempre: si sentiva già abbastanza inquieto per aver trascinato lei in quel mondo fuori dall'ordinario e potenzialmente pericoloso.
«Ho capito, è il solito dilemma tra spasso-mobile e depresso-mobile,» sospirò con forzata ironia, attirandosi sguardi confusi.
Si affrettò a elaborare:
«La spasso-mobile è sconsigliata anche dal sottoscritto. Ci vediamo dopo, se sarò ancora vivo,» li congedò infine con un sorriso un po' forzato, guardandoli uscire con malcelata riluttanza.
Fury si sedette, mentre Bruce tentennò ancora qualche istante, impacciato come sempre. Tony si sforzò di riprendere il suo solito atteggiamento gioviale: dopotutto, quello era un giorno di festa. Approfittò del fatto che Banner fosse incautamente passato accanto a lui per sedersi e lo trattenne posandogli la mano sul braccio, pronto a coinvolgerlo in una conversazione degna di due geni come loro. E a sfruttarlo come appoggio fisico momentaneo per alzarsi.
«Ti ho già mostrato l'unobtanium? È una gran figata una volta che sai a che cosa serve...» afferrò una stampella e gli passò un braccio sulle spalle cercando di trascinarlo verso l'uscita e ignorando il suo tentativo di raggiungere il tavolo.
«Tony.» 
La voce stentorea di Pepper lo congelò all'istante.
«... ma prima ci sorbiremo questa noia.» 
Cambiò bruscamente direzione, rischiando di strozzare l'altro con la protesi e sedendosi di peso sulla sedia. Bruce si accomodò cautamente accanto a lui, massaggiandosi il collo e trattenendo un sorrisetto divertito all'esuberanza dell'amico.
«Quando avremo recuperato un briciolo di serietà potremo parlare del perché siamo venuti,» disse Nick con la sua solita calma forzata, come di una bottiglia di spumante sotto pressione e pronta a scoppiare.
Finalmente ci fu un attimo di quiete e lui sembrò assicurarsi che fosse reale e non un frutto della sua immaginazione troppo ottimista. Emise un sospiro rassegnato e riprese a parlare:
«C'è stata un'altra assemblea dei Vendicatori, e pare che tu abbia una buona stella qui in mezzo.» 
Il suo sguardo corse a Bruce, che incassò la testa tra le spalle a mo' di tartaruga.
«E cosa dice il mio angelo custode?» chiese Tony con il suo solito sorrisetto sfrontato, che stavolta nascondeva un pizzico di speranza.
«Sono riuscito a corrompere un paio di Vendicatori...» aggiunse il novello angelo, un po' titubante.
«Con cosa? Shawarma? Anzi, a pensarci bene non mi interessa. Chi sarebbero questi adorabili sostenitori?» ironizzò Tony. «Spero non Capitan Frisbee.»
«No, non credo proprio,» rispose Fury, funereo. «E ci tengo a sottolineare che non sono incluso nel tuo fanclub, per ora. Mi limito ad osservarti, prendere appunti e poi ti consegnerò la pagella rivista e corretta.»
"Dovevo aspettarmelo..." pensò il miliardario, comunque contrariato dall'astio del suo ex-direttore nei suoi confronti.
D'altronde non aveva mai fatto nulla per conquistarsi la sua simpatia, anzi.
«Sono Thor e l'agente Barton,» annunciò Bruce.
«Oh, l'Asgardiano biondo e Robin Hood! Che piacere averli dalla mia...»
«"Robin Hood" è neutrale,» puntualizzò Fury, con una luce quasi compiaciuta nell'occhio.
«Ah. Gli manderò comunque un cesto di rose.» sbuffò Tony, prendendo a guardare con ostentazione il soffitto.
«Ed ora?» chiese quindi Pepper, parlando per la prima volta, con un velo d'ansia palpabile nella voce.
«Si tranquillizzi, signorina Potts, l'armatura rimarrà appesa al chiodo ancora per un po',» la anticipò seccamente Tony, intuendo le sue preoccupazioni. «Pensiamo prima a questi,» disse più irritato di quanto volesse ammettere, indicando con un sol gesto la gamba mancante, la benda sull'occhio e la protesi in bella mostra. «Però... ho già qualche progetto in cantiere. Per l'armatura, intendo. Non mi guardi così, la prego.» Lanciò un'occhiata esasperata a Pepper.
«Se Bruce non è troppo impegnato e porta avanti la campagna "pro-Iron Man", potrei impegnarmici sul serio quando sarò di nuovo in piedi, e fare un pensierino sul rientrare nei Vendicatori.»
«Vediamola dal mio punto di vista...» cominciò Fury.
«Non credo ci sia molta differenza, ormai.» 
Tony alzò le spalle con fare noncurante, accennando alle loro bende. Dopo un attimo di perplessità, Fury trattenne un sorrisetto.
«Va bene, vediamola dalla mia
posizione: quando, se e solo se riuscirai a rientrare in quell'armatura e a salvare i gattini sugli alberi come prima se non meglio, allora io, forse, potrei fare un pensierino sul farti rientrare nei Vendicatori in veste di Consulente.»
Tony meditò per qualche istante su quelle parole, che a parte il sottotono scettico sembravano un'offerta di pace sincera, per poi annuire appena.
«Messaggio ricevuto.»
«Appendilo al frigo.»
«Ne fosse rimasto qualcosa...» tossicchiò tra sé.
Lo sguardo di Pepper fu il primo che incontrò, e cadde uno spiacevole silenzio. Chissà se sapevano del suo rapporto piuttosto complicato col mondo e i suoi abitanti...
«Le giuro che lo riparo. Insieme a tutto il resto,» riuscì a dire, sperando che, a dispetto del contesto poco consono, capisse quanto gli dispiacesse per tutto e pregando tra sé di smuovere quella patina di ghiaccio che gli aveva riservato nelle ultime settimane.
Non si era mai sentito così ottuso in vita sua, visto che non riusciva assolutamente a decifrare gli atteggiamenti altalenanti della donna, comunque sempre restia a qualsiasi tipo di confronto diretto. Fu condannato a tenersi i suoi dubbi, perché Fury s'intromise prima che Pepper potesse rispondere o commentare:
«Ah, la clausola del contratto, se mai ce ne sarà uno, prevede un rapporto civile con chi la circonda; la prego dunque di non snervare la signorina Potts e quei due santi che hanno avuto la "fortuna" di incontrarla. E di non rendere uno scoop di gossip i futuri processi,» asserì, inclinando il capo in modo da trapassarlo da parte a parte con lo sguardo. «La direzione ringrazia. Direi che è tutto.» aggiunse poi, alzandosi come se non vedesse l'ora di uscire di lì per dedicarsi a faccende ben più importanti – tipo la sicurezza mondiale.
«Va bene, va bene... farò il bravo, ho capito l'antifona,» sbuffò Tony, per poi aprirsi in un sorrisetto. «È comunque molto carino da parte vostra venire fin qui di persona per comunicarmi qualcosa per cui sarebbe bastata una semplice telefonata.» 
Intrecciò le mani sulla nuca con aria soddisfatta, osservando le loro reazioni. Fury sembrò solo estremamente seccato e si limitò a imboccare la porta senza proferir parola; non appena gli voltò le spalle, Bruce strizzò l'occhiolino a Tony, prima di seguire il direttore. Era chiaro di chi fosse stata l'idea di una visita a sorpresa...
«La prossima volta non sfuggi, Banner! Devo ancora mostrarti il laboratorio!» gli gridò dietro.
«È l'ultima volta che vi faccio da baby-sitter!» gli arrivò in risposta la voce di Fury, seguita da un colpo di tosse di Bruce, probabilmente per dissimulare una risata.
Anche Pepper si ritrovò a sorridere: forse Tony non era così solo come credeva.


***


«Bene, ora che gli ambasciatori della banda di stramboidi hanno tolto il disturbo, possiamo tornare a parlare delle modalità di festeggiamento per il rinvio del processo...» esordì Tony, speranzoso, ma si convinse a tacere intercettando lo sguardo cupo di Ian.
«Non è lei a dirigere la riunione, Stark. Prego, signorina Potts, riprendiamo da dove ci eravamo interrotti.»
Sembrava ancor più scostante del solito in seguito a quella visita imprevista e anche Kyle aveva assunto un'aria incupita.
«Grazie, dottor Mitchell. Dunque...»
Kyle si raddrizzò la cravatta con fare altero, scoccandogli un'occhiata di ghiaccio come a intimargli il silenzio mentre discutevano. Lui si lasciò sfuggire un sospiro esasperato, corredato dall'espressione più scocciata che gli riuscì. Ultimamente sembravano entrati tutti in modalità-iceberg nei suoi confronti. Forse avrebbe dovuto indulgere più spesso nei crolli emotivi, visto che sembravano l'unico modo per far vacillare Pepper e spingerla in un raggio inferiore ai due metri da lui. O magari aveva davvero bisogno di un po' di "spazzatura", prima di uscire totalmente di testa. Si costrinse ad ascoltare la discussione per scacciare quelle riflessioni inopportune e pericolosamente invitanti.
«Stavamo approntando una linea di difesa più decisa. Giusto, Kyle?»
«Giustissimo, cara. E il primo passo sarà portare un fucile a pompa in aula, onde evitare comportamenti inappropriati prima di tutto da parte di Stark, e poi anche da parte di Knight. Se mi fa un altro sorrisino viscido gli apro un buco in testa,» annunciò piattamente.
Tony lo fissò interdetto.
«Non ti facevo così violento. Sei quasi al mio livello.»
«Oh, non sai quanto: ti tengo d'occhio, carino. Pensa dieci volte a quello che stai per dire e poi non dirlo. Pepper, tu sei autorizzata a dargli il colpo di grazia. Sei in fila da più tempo.»
Pepper fece un sorrisetto per niente rassicurante.
"Cosa dicevo della congiura? Oh, sì... mi sento alle Idi di Marzo."




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Revisione effettuata il 26/02/2018

 
Note Delle Autrici Dell'Autrice:

In seguito a un mio errore idiota durante la revisione, le note delle autrici originali sono andate perse...
Non ricordo assolutamente che sclero ci fosse qua sotto, così mi limito a dire che questo capitolo è evidentemente di transizione. Nonostante ciò, soprattutto in seguito alla revisione, getta le basi per alcune future problematiche, tra cui il delicato equilibrio dei rapporti con la SHIELD per Kyle e Ian, il palladio sempre più presente e la situazione complicata di quei due ortaggi matricolati, alias Tony e Pepper.
E godetevi un po' di science-bros :D

-Light- 

 




© Marvel

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Capitolo 19
*** It's gonna be OK, someday ***




18

It's gonna be OK, someday






"All day long I think of things but nothing seems to satisfy
Think I'll lose my mind if I don't find something to pacify
Can you help me occupy my brain?"


[Paranoid – Black Sabbath]





18 Marzo, 8:20, Villa Stark

Tony sollevò gli occhiali protettivi, osservando il metallo fuso dal saldatore mentre cercava di perfezionare il legamento dell'articolazione. Naturalmente si era già rotto tre volte e lo aveva riprogettato per ben cinque. E adesso aveva sbagliato la saldatura per colpa della sua mano sinistra recalcitrante a collaborare.
"Dannati menischi. E questo cos'è?" si chiese tra sé, rasentando l'esasperazione.
Tastò con una pinzetta un fascio di tendini sintetici senza riuscire a collocarlo nella sua mappa mentale dell'anatomia di un ginocchio, probabilmente lacunosa. Il sonno arretrato non era d'aiuto. Si risolse a prendere l'articolazione virtuale che fluttuava accanto a lui, inserendola nella protesi per verificarne la struttura e le eventuali mancanze.
"È un crociato, ed è dove non dovrebbe essere," concluse, scacciando via con una schicchera lo spettro azzurrino.
Lasciò perdere momentaneamente il ginocchio e tornò al lavoro che stava svolgendo fino a poche ore prime, cioè la realizzazione delle altrettanto stramaledette dita dei piedi: aveva quasi pensato di lasciarle perdere, ma se voleva riprendere a camminare in maniera decente doveva riprodurle alla perfezione, o si sarebbe ritrovato con la colonna vertebrale distrutta. Ian aveva già accennato a future sessioni di fisioterapia, e personalmente non vedeva l'ora di prendere a calci qualcosa.
«JARVIS, confronta e riconfronta quest'arnese con la mia gamba, poi ricontrolla. E quando hai finito ricontrolla ancora. Tutto chiaro, latta scaduta?»
«Sì, signore. Analisi in corso.»
E poi Ian aveva il coraggio di accusarlo di superficialità...

Tony sbuffò, ancora risentito per la discussione poco illuminante avuta col medico, poi si rimise a lavorare sorseggiando di tanto in tanto la sua clorofilla e dimentico dello scorrere del tempo, come sempre quando era in laboratorio. Cinque ore, molte imprecazioni e innumerevoli errori dopo, stava ancora sudando sul mignolo: aveva progettato la struttura di ogni singolo dito e l'aveva anche quasi realizzata, ma i dettagli...
"Chi se ne frega, dei dettagli."
Smise di lavorare sulle dita: ci sarebbe ritornato su quando avrebbe avuto un pezzo in più di gamba. Per ora l'avrebbe fatto stare in piedi e tanto bastava. In realtà la piastra d'aggancio della protesi era pronta, ma giaceva in un angolo del laboratorio, per lo più ignorata. Avrebbe già potuto approntare la data dell'operazione con Ian, ma si trovava riluttante a rendere ufficiale la cosa. Non l'avrebbe mai ammesso esplicitamente, ma sentiva una ragionevole dose di paura nel pensare all'intervento, considerando che era sopravvissuto per miracolo al primo. E poi cosa se ne faceva della sola piastra d'aggancio, senza una gamba pronta a sostenerlo? Erano giorni che non riusciva a stare fermo e sentiva l'impulso frenetico di camminare, correre, fare a botte, volare... troppe cose, tutte irrealizzabili e fuori dalla sua portata.
Si trovò a soffermarsi frustrato sul piede della protesi, ancora poco più di un abbozzo informe. Poggiò la testa sulla mano, fissando assente quell'ultimo, piccolo e insormontabile ostacolo che lo separava dall'avere di nuovo una gamba. Si era buttato anima e corpo – per quanto possibile – in quel progetto azzardato e non ricordava di aver passato un solo giorno dall'incidente senza pensare alle protesi, a miglioramenti da apportare e modifiche da effettuare. Aveva la testa traboccante di dati, idee, scarti di produzione e pensieri ancora irrealizzabili. Ecco, quelli avrebbe dovuto eliminarli del tutto, perché portavano inevitabilmente a... all'occhio e a quanto fosse difficile...
"Pepper. Non prendiamoci in giro."
Resettò il cervello: non era quello il momento per pensarci. I suoi pensieri presero un'altra direzione. Era bello potersi distrarre a comando, quasi come sfogliare i dati dei suoi computer: pensiero spiacevole? Bastava cambiare pagina. Ultimamente aveva talmente tanti pensieri, che non gli riusciva difficile mettere in pratica quella tattica.
Intrecciò le dita e le scrocchiò con tenue soddisfazione sentendo i legamenti e le giunture che funzionavano a dovere, accusando una lieve fitta alla spalla per la tensione muscolare. Gli era sempre piaciuto lavorare e dare il meglio di sé in ogni sua invenzione, ma adesso cominciava ad averne la nausea e ad odiare il suo laboratorio, soprattutto perché doveva costringersi a non guardare la parete delle armature, dove adesso troneggiavano solo la Mark I semidistrutta, l'ammasso informe della Mark III e la decisamente obsoleta Mark II. Non aveva avuto né tempo né modo di smantellarle, momentaneamente o per sempre, ma la sola vista della cromatura rosso e oro semi-fusa bastava ad annebbiarlo di altre preoccupazioni. Chissà quanta gente continuava ad aspettare Iron Man...
Si coprì il volto con la protesi, affondando il naso nell'incavo del gomito: era stanco, terribilmente stanco, ma allo stesso tempo straripava di tanto nervosismo messo sotto pressione da non riuscire a riposarsi. L'insonnia e i frutti onirici deviati del suo inconscio, quelle rare volte in cui riusciva a dormire, ne erano un chiaro sintomo. Avrebbe voluto trovare qualche sfogo che non comprendesse armeggiare con saldatori e cacciaviti. Aveva anche un'idea di quale poteva essere, ma i giorni dei suoi party esplosivi e delle notti brave passate in hotel a cinque stelle con belle donne erano molto lontani, in quel momento – in quelle condizioni. Si immerse brevemente in quei ricordi vietati ai minori e decisamente piacevoli. O spiacevoli, a seconda di quanto fosse stato ubriaco alla fine di ciascuna di quelle serate. O disturbanti, visto che a quelle immagini si intersecava irremediabilmente la figura di Pepper e di quanto avrebbe voluto...
"Reset."
I suoi pensieri virarono sul più rassicurante terreno della progettazione delle protesi, anche se un senso d'insoddisfazione latente rimase a stuzzicarlo. 
Riaprì una delle schermate ridotte a icone, rituffandosi in schemi, calcoli e preoccupazioni più tangibili. Doveva ancora fare il calco di ciò che rimaneva della sua gamba per portarlo ad Ian, che lo aspettava da circa tre giorni. Forse erano passati più di tre giorni.
"Stavolta mi ammazza."

***


19 Marzo, Villa Stark

«Non sono passati tre giorni?»
«Una settimana, signor Stark. Una settimana.» 
Ian si sporse minacciosamente verso di lui, le iridi chiare ingrandite dagli occhiali che accentuavano il suo sguardo inquisitore.
«Erano tre giorni quattro giorni fa. Quattro più tre fa ancora sette, vero?» si arrampicò sugli specchi Tony, con un sorrisetto nervoso.
«Le sue condizioni fisiche potranno aver turbato tutto il mondo, ma le leggi fondamentali rimangono invariate. Così come il suo essere costantemente in ritardo.»
«Buono a sapersi. Ho bisogno di qualche punto fermo nella mia vita,» rispose sollevato Tony, ruotando con fare irritante sulla sedia girevole.
«E stia fermo. Mi dà la nausea,» proruppe Ian.
Tony interruppe a malincuore le sue acrobazie.
"Adesso viene il bello..." pensò poco entusiasta, ma consapevole che non poteva rimandare ancora l'argomento solo perché la sua mente aveva inaspettatamente deciso di cedere a una paura irrazionale.
«A quando la festa?» esclamò quindi, forzando un sorriso smagliante.
«Prego?»
Ian si tolse gli occhiali e cominciò a pulirli, segno che si stava preparando alla sua ennesima stravaganza.
«Ma l'operazione, ovviamente! Non è contento di avere una scusa per liberarsi di me?»
Ian gli scoccò un'occhiata tanto penetrante che non si sarebbe stupito di ritrovarsi un foro di proiettile in testa.
«Il suo umorismo fa passi da gigante ogni giorno, signor Stark.» Il medico scosse la testa e si rimise gli occhiali, ormai rassegnato. «Comunque, dipende da quanto le ci vorrà per ultimare il lavoro, no?»
«Giusto...» ammise Tony, facendosi esitante. «La piastra d'aggancio in realtà è già pronta, devo solo revisionarla. Intanto mi sto avvantaggiando un po' di lavoro sul resto, così da accelerare i tempi dopo l'operazione.» 
Pronunciò con malcelata apprensione quelle ultime parole, consapevole di volersi solo teletrasportare magicamente a quel "dopo" senza dover affrontare di nuovo tutto il calvario che l'avrebbe preceduto.
«Mi assicuri solo la partecipazione del suo super-cervellone. Sa... quindici ore in sala operatoria sono lunghe. E avrò bisogno di pause anch'io,» sottolineò Ian.
«Posso programmare JARVIS affinché racconti barzellette per intrattenerla. Almeno non si addormenterà sul mio quasi-cadavere.»
«Ok, ritiro tutto sul suo umorismo: sta diventando veramente macabro.»
«Solo se ci crede davvero,» lo rimbeccò lui, ostentando un ghigno spavaldo.
Tony si distolse da ulteriori riflessioni potenzialmente nocive e riprese a parlare a raffica riguardo ai dettagli della protesi, cercando di non dare peso né allo sguardo turbato di Ian, né alla sommessa marea d'apprensione che cresceva dentro di lui di secondo in secondo.

***


21 Marzo, Villa Stark

Tony deglutì a vuoto, scoccando un'occhiata falsamente sicura di sé alla donna bionda che lo seguiva suadente ad appena un passo di distanza; forzò sulle sue labbra un sorriso che sperava fosse affascinante, chiedendosi in realtà cosa diavolo stesse facendo. 
Non gli era ben chiara la concatenazione di eventi che aveva portato Christine Everhart a casa sua, ma era abbastanza convinto che fosse stata influenzata dallo stato di totale agitazione in cui l'aveva colto la sua chiamata inattesa. Dopo due notti insonni – e le molte altre che le avevano precedute – passate a imprecare contro un relè che non voleva saperne di funzionare come avrebbe dovuto, una fusione di unobtanium fallita, l'assenza imprevista di Pepper costretta a presenziare a un'assemblea a Seattle, e il crescente senso di panico che lo attanagliava all'avvicinarsi dell'operazione, non doveva essere stato nel pieno delle sue facoltà mentali quando aveva acconsentito a rilasciare un'intervista per Vanity Fair e l'aveva invitata alla villa.
Infatti si era pentito di quanto promesso non appena Christine si era presentata alla sua porta, per poi rendersi conto in modo del tutto irrazionale che non gli dispiaceva poi così tanto che lei fosse lì. Quindi aveva temporeggiato. Le aveva concesso qualche domanda frivola e poi le aveva offerto un drink e aveva bevuto anche lui dopo tanto tempo perché... perché no?
Poi
erano passati a rivangare il loro ultimo incontro e l'intervista era scivolata in secondo piano, tramutandosi in... altro, in modo molto simile a quanto accaduto poco più di un anno prima in circostanze del tutto diverse. Non sapeva se essere grato o meno alla sua innata risposta pronta, ma quando le parole "non concedo interviste, ma sarei disposto a concederle altro" avevano lasciato la sua bocca non era riuscito a capire se fosse il caso di prendersi a schiaffi o stringersi da solo la mano – e avrebbe fatto molto male in entrambi i casi.
Forse Pepper aveva ragione, quando diceva che non lo si poteva lasciar solo un istante... almeno stavolta non avrebbe dovuto buttare lei la "spazzatura".
E ora si ritrovava a fare strada a Christine in camera da letto – non quella che ricordava lei al piano di sopra, ma quella nuova al piano terra, e già quel dettaglio gli aveva fatto perdere un po' di sicurezza. Avvertì un nodo di tensione che gli stringeva la gola, assieme a un altro, più in basso e a lui totalmente estraneo, di cui al momento non voleva preoccuparsi. Si sentiva come quando da adolescente si intrufolava in casa con una ragazza approfittando delle frequenti assenze dei suoi. Quante volte l'avevano beccato...
Farsi sorprendere adesso sarebbe stato decisamente peggio, concluse, chiudendo la porta della camera dietro di sé, terribilmente consapevole dello sguardo della donna che seguiva ogni suo movimento impacciato, in particolare quelli della protesi. Magari avrebbe dovuto togliersela? Non era calibrata per...
"Ma che cazzo ti è venuto in mente?" gli esplose nel cervello, annullando qualunque altro pensiero coerente e lasciandogli un velo di sudore freddo sulla pelle nel sentirsi così osservato.
Era ancora in tempo per mandarla via.
Invece si stampò in faccia un sorriso provocante e si sedette sul letto con fare disinvolto, nonostante la goffaggine con le stampelle, nonostante non fosse mai stato più consapevole della protesi attaccata al suo corpo e del moncherino della gamba che gli inviava stilettate di dolore e dell'evidenza della benda sull'occhio e della luce del reattore che filtrava appena nella penombra da sotto la camicia già semiaperta. Il suo cervello continuava a pungolarlo, a urlargli di sottrarsi volontariamente da quella situazione dalla quale, ne aveva la netta impressione, sarebbe altrimenti uscito decisamente malconcio. Sentiva già la dignità scivolargli sotto i piedi – il piede, si corresse con rabbia – mentre trovava difficoltà a sbottonarsi la camicia, costringendo Christine a intervenire.
Maledisse il suo corpo inutile con tutto se stesso e relegò quei pensieri in fondo alla propria mente, perché in quel momento aveva davvero bisogno di non pensare.
Nel giro di una manciata di secondi si ritrovò disteso a torso nudo e con la donna semisvestita sopra di lui, ma era più intento a domare il dolore al moncherino e i suoi pensieri frammentati e presi dal panico, piuttosto che ad ammirare quel corpo sinuoso premuto contro il proprio. Non trattenne però un sospiro di piacere a quel contatto, e riuscì a rilassarsi appena nel sentirsi addosso le mani della donna.
Un paio d'ore senza pensieri poteva concedersele, giusto? Un solo momento di blackout totale prima di un'operazione che probabilmente l'avrebbe ucciso, visto che non ci era riuscita quella precedente. Anche solo qualche manciata di minuti lontano dal laboratorio, dai progetti, dall'insonnia, da quel senso di insoddisfazione costante, dagli incubi e dal dolore fisico... chiedeva davvero così tanto?
Un'ombra di colpevolezza gli artigliò la coscienza al ricordo di una doccia di caffè freddo e di un bacio mancato, e si trovò ancor più propenso a sopprimere qualunque barlume di lucidità gli fosse rimasto. La vista gli si annebbiò e i suoi ragionamenti divennero ancor più sconclusionati quando si trovò a stringere d'istinto i fianchi della donna, cercando la sua bocca e premendola contro di sé mentre sentiva le sue dita lambirgli l'orlo dei jeans diventati troppo stretti.
Dio, se aveva bisogno di non pensare. Di cedere.
Si lasciò avvolgere da quell'oblio confuso e invitante di sensazioni piacevoli. La consapevolezza di ciò che stava facendo scivolò via assieme al suo autocontrollo.
"Non pensare."
Cedette.


***


Tony si schiarì appena la gola  e rimase prono sul letto, solo parzialmente coperto dal lenzuolo, mentre osservava Christine che radunava le proprie cose dal pavimento. Il suo corpo nudo e abbronzato era indiscutibilmente una visione incantevole, ma si trovò a fissarlo con indifferenza, seguendone le curve in modo apatico.
«Ehi,» la chiamò con voce distrutta, senza la forza di muoversi.
La donna si girò appena, con uno sguardo intriso di una chiara traccia di imbarazzo. Per lui, immaginò. O forse era compassione?
Non avrebbe saputo dire cosa fosse peggio.
«Questo non riportarlo a Vanity Fair, ok?» si trovò a dire, desiderando di poter imprimere un qualche tipo di inflessione alla sua voce atona.
«Non ho intenzione di macchiarmi la carriera,» replicò lei asciutta, finendo di rivestirsi senza mai guardarlo.
«Bene. Neanch'io.»
«La tua carriera professionale mi sembra già abbastanza compromessa senza rovinare anche quella di playboy.»
Tony non contestò la verità di quella cruda affermazione e rimase in silenzio, col volto premuto contro il materasso a nascondere lo sfregio. La benda giaceva da qualche parte nella stanza, assieme ai suoi vestiti e al suo orgoglio a brandelli.
«Conosci la strada,» le disse infine, quando vide che era pronta ad andarsene.
Lei lasciò la stanza senza una parola di congedo, chiudendo la porta dietro di sé e lasciandolo nel silenzio della sua camera in penombra.
Portò solo allora una mano al moncherino, soffocando un grido stentato e non ricordando l'ultima volta che gli aveva fatto così male. Sentì di odiarlo più di ogni altra cosa al mondo, in un sentimento così violento da essere subordinato solo al furioso ribrezzo che provava per se stesso in quel momento. Se solo avesse preso i suoi antidolorifici, quella mattina... ma no, doveva sempre fare di testa sua e sbagliare, anche nelle cose più semplici.  Continuò a respirare a forza contro il materasso, domando le fitte taglienti che lo scuotevano. Erano comunque più sopportabili rispetto a prima, quando aveva visto lampi di dolore ad ogni movimento più brusco, fino ad accasciarsi esanime con le lacrime ad appannargli la vista, desiderando solo di scomparire in quell'istante dagli occhi di Christine e del mondo intero. Sentiva ancora su di sé i suoi occhi disorientati... no, non su di sé: sulle sue ferite, sui punti di sutura ancora sensibili, sul braccio meccanico goffo e innaturale, sul suo volto asimmetrico, sul moncherino inutile, sul reattore orribilmente incastrato nel suo sterno. Un'ondata di nausea gli strinse la bocca dello stomaco, comprimendogli il petto e facendolo sentire sul punto di collassare su se stesso, come se gli si fosse aperto un buco nero nel petto.
Percepì la fasciatura della gamba che diventava leggermente umida, ma lui non ebbe neanche la forza di controllarla: che sanguinasse pure. In fondo, era giusto che gli facesse così male. Ed era giusto che non avesse concluso nulla; con un corpo così malridotto era un miracolo che non fosse svenuto dopo i primi cinque minuti, che gli avevano comunque regalato un piacere fasullo e colpevole – e sapeva perché, lo sapeva, ma lo soffocò come i propri lamenti contro il materasso.
Fece leva sul gomito sano e riuscì a raggiungere il cuscino senza ferirsi ulteriormente, affondandovi il volto accaldato. Le sue narici colsero il lieve sentore dolciastro del profumo di Christine e fu come se l'avessero improvvisamente accecato con uno spillo rovente.
Scagliò con violenza il cuscino dall'altra parte della stanza, disgustato, e accolse quasi con liberazione l'atroce fitta che gli scosse la gamba mutilata.


***


26 Marzo, Villa Stark

«E allora gli ho detto "no, non sei il mio tipo; insomma, non potrei mai uscire con qualcuno che porta camicie hawaiane tutti i giorni". E lui cosa ha fatto? Se ne è andato sul serio! Ed è stato un bene, non aveva proprio il senso dell'umorismo. Capisci quello che voglio dire? È frustrante dopo un po' dover parlare solo e solamente di...»
«Kyle?»
«Sì, Virginia?»
«Davvero, è interessante, ma...»
«Non è il momento, lo so, stavo cercando di distrarti.» L'avvocato bevve un sorso di tè «Almeno ci sono riuscito?»
Pepper gli sorrise un po' forzata, apprezzando comunque il suo tentativo. Nascose il volto nella tazza fumante, evitando di guardare l'avvocato seduto di fronte a lei, che non sembrava affatto a disagio per quell'improvviso silenzio. La donna gli rivolse uno sguardo esitante e fece per parlare. Kyle scosse la testa e sorrise nervoso:
«Le undici e venticinque. Cinque minuti in più di cinque minuti fa...»
«Giusto,» convenne Pepper, un po' imbarazzata.
Tony era dentro da tre ore: ancora una decina la separava dal sapere. L'aveva salutata come se stesse per partire per uno dei suoi soliti viaggi di lavoro in capo del mondo. Il realizzarlo non l'aveva tranquillizzata, considerando la conclusione dell'ultimo di quei viaggi.
"Ci vediamo dopo, Pep!", aveva detto, facendole "ciao, ciao" con la mano meccanica apparentemente rilassato, prima di cedere all'anestesia. Lei avrebbe voluto avere anche solo un briciolo del suo autocontrollo, che le era sembrato comunque innaturale per lui, considerando il suo umore prima della precedente operazione.
Lasciò vagare lo sguardo per la stanza, sentendosi oppressa e irrequieta.
Tony si era comportato in modo più incomprensibile del solito nel corso dell'ultima settimana. Passava molto meno tempo in laboratorio, spostandosi irrequieto da una parte all'altra della villa senza una meta apparente, anche se tendeva a soffermarsi spesso sulla soglia della cucina ancora semidistrutta. Inoltre, per ben tre volte l'aveva trovato a dormire sul divano in laboratorio. Non sapeva se stupirsi di più per il fatto che dormisse, o che non lo facesse in un comodo letto – anche se era un miglioramento rispetto al banco da lavoro. Non aveva osato indagare su quei fatti anomali, ma non aveva potuto ignorare le occhiate intense e in un certo senso... spaventate che l'uomo a volte le rivolgeva, nonostante con lei si comportasse con l'esuberante brio di sempre.
La carenza di sonno a volte lo sprofondava ancora nel nervosismo, soprattutto quando lavorava, ma fuori dal laboratorio sfoggiava una sorta di distaccata allegria, simile a quella che sfoggiava ai grandi eventi pubblici. Aveva anche notato come si tenesse a una distanza molto maggiore da lei, senza invadere il suo spazio personale col suo solito fare giocoso. Si chiese se quelli fossero i famosi "paletti" di cui aveva sentito tanto parlare, e si chiese anche quanti ne avesse posti lei stessa per spingere Tony Stark, un individuo notoriamente privo di alcuna inibizione, ad imporseli a sua volta.
Ripensò a tutte le volte in cui aveva evitato il confronto e si era mostrata fredda ai suoi tentativi di parlarle, temendo che chissà quale catastrofe o rivelazione si potesse abbattere su di loro nell'aprire quel vaso di Pandora. Forse si era rassegnato a quella situazione di impasse interminabile. O forse aveva semplicemente capito con chiarezza quali colpe gravassero sulle spalle di entrambi e aveva deciso di aspettare che fosse lei ad accorgersi delle proprie.
Quei pensieri tortuosi e involuti scandivano con esasperante lentezza l'attesa, ricordandole con fredda insistenza che non l'aveva neanche salutato come avrebbe voluto prima che lui entrasse in sala operatoria. Si era limitata a stringergli la mano con fare incoraggiante, al che lui le aveva sorriso appena, per poi lasciar scivolare lo sguardo già appannato dal sedativo sulle sue labbra, come aveva fatto molti giorni prima. Un filo di tensione si era allungato tra loro, palpabile, invitante e allo stesso tempo inviolabile.
Pepper era stata sul punto di posargli un bacio sulla guancia, in un atto che sperava fosse insieme un incoraggiamento e un'offerta di pace, ma lui le aveva lasciato un po' bruscamente la mano, mascherando quel gesto improvviso con un saluto scherzoso e una risata leggera e un po' intontita per l'anestesia. Si era addormentato subito dopo.
E adesso era dentro e chissà se l'avrebbe mai...
Scosse la testa con fermezza e sollevò di nuovo gli occhi su Kyle.
«Le undici e mezza,» sospirò lui. «Andiamo a fare un caffè, ne avremo bisogno,
» propose poi.
Pepper annuì appena, ma non si mosse.
«Ti raggiungo subito.»
Kyle la fissò dubbioso, ma non insistette e la lasciò coi suoi pensieri.
Pepper fissò spaesata la vetrata e il mare oltre essa, come sperando di potervi annegare la sua angoscia.
"Solo le undici e mezza."
Sprofondò nel divano, prendendosi il volto tra le mani.




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Revisione effettuata il 01/03/2018

Note delle Autrici:

Ore 1:15. Stiamo crepando di sonno, ma Light mantiene sveglia (se così si può dire) MoonRay a suon di angst per PUBBLICARE DOPO UN MESE! *Euforismo di Light che sprizza ovunque* *M: =_____=*
Quindi, bando alle ciance... grazie a Micchi, Sherlock_Watson, blackpearl_ e Rogue92 che hanno recensito lo scorso capitolo e grazie a tutti coloro che continuano a leggere, che hanno recensito in precedenza e che hanno aggiunto la storia tra le preferite/seguite/ricordate <3 Grazie a tutti! Tony saluta :D

Moon&Light

Edit 01/03/2018: ok... chi si era accorto dell'enorme buco di trama di Phoenix? Io, per esempio, a un'imbarazzata rilettura. Le scene aggiuntive con la Everhart sono funzionali a rattoppare quella svista.
Il progetto iniziale prevedeva citare Christine di striscio molto più avanti nella storia, ma in seguito alle varie revisioni e ridimensionamenti della trama ho pensato di inserire direttamente la scena in questione, che sarà propedeutica anche per altri eventi futuri. E per sottolineare che, dopotutto, Tony è umano anche sotto quel punto di vista – e immagino che per un ex-dongiovanni come lui non sia così semplice stare "a riposo", con tutte le turbe mentali e fisiche che ritrovarsi improvvisamente mutilati comporta.
Sorry, Tony, ti si lovva comunque [-Light-]

 



© Marvel

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Capitolo 20
*** Close to the bottom ***




19

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"I saw the evidence, the crimson soaking through
Ten thousand promises, ten thousand ways to lose
And you held it all, but you were careless to let it fall
You held it all, and I was by your side
Powerless"


[Powerless – Linkin Park]




31 Marzo, Villa Stark

Pepper fissava malinconica il mare, seduta nel salotto deserto illuminato unicamente dalla pigra luce del sole seminascosto tra le nubi. Sorseggiò distratta il suo tè, godendo del tepore della tazza tra le mani.
Le sembrava di essere rimasta intrappolata in un lungo sogno.
O forse un incubo... un vero incubo.

***


Una settimana prima, Villa Stark

Ian uscì dalla sala operatoria letteralmente stravolto e si strappò subito di dosso la mascherina chirurgica con un gesto liberatorio. Pepper si alzò all'istante allarmata, andandogli incontro, mentre Kyle si preparava al peggio.
«Aiutatemi,» proferì Ian, affannato.
Pepper si sentì sul punto di svenire, ma Ian parò subito le mani avanti, ad attenuare le proprie parole:
«È vivo e sta bene, ma ha quasi ucciso me,» mise in chiaro, fugando ogni dubbio.
La donna tirò un profondo sospiro di sollievo e Kyle le fece eco.
«Mi aiuti a spostarlo, sono esausto e da solo non ce la faccio. È incosciente e ne avrà per molto,» aggiunse il medico, guidandola in sala operatoria mentre Kyle li aspettava fuori.
Pepper entrò nella stanza con il cuore in gola e non si rilassò per niente nel vedere gli strumenti chirurgici insanguinati riposti in un bacile metallico, ma non riuscì fortunatamente a scorgere il punto di giunzione tra la carne della gamba e il metallo della protesi, visto che Ian aveva avuto l'accortezza di coprire il corpo di Tony con un telo termico, data la temperatura glaciale della stanza.
Lo spostarono con attenzione sulla barella affiancata al tavolo operatorio per portalo fino alla sua stanza, dove Ian aveva già preparato delle flebo e tutto il necessario per monitorarlo durante il suo ricovero casalingo. Durante il breve tragitto Pepper non riuscì a staccare gli occhi dal volto profondamente addormentato di Tony, che le sembrava comunque contratto dal dolore sotto alla mascherina dell'ossigeno.
Kyle trattenne Pepper per la manica quando gli passò accanto:
«Dài, dammi un abbraccio. Da te lo accetto, almeno non hai una camicia hawaiana,» disse con quieta allegria, allargando le braccia con un lieve e comprensivo sorriso.
Pepper sorrise appena di rimando e si chinò a ricambiare l'abbraccio, cercando di nascondere le lacrime di sollievo e accennando, imbarazzata, alla stanchezza che le faceva bruciare gli occhi. Kyle si limitò ad ammiccarle e a passarle un fazzoletto con assoluta tranquillità. A quel punto spostarono la loro postazione d'attesa in camera di Tony, dopo averlo trasferito con delicatezza nel proprio letto. Passarono quasi quattro ore aspettando che si risvegliasse, nonostante Ian li avessi avvertiti che poteva volerci anche tutta la notte, prima che ciò accadesse.
Kyle aveva rifiutato l'offerta di essere riaccompagnato a casa, preoccupato dallo stato emotivo di Pepper, e aveva finito per addormentarsi sulla sua sedia a rotelle accanto a lei, che stava invece seduta sul bordo del letto del tutto priva di sonno e immersa nei suoi pensieri. Ian si era ritirato in stato di sonnambulismo nella camera degli ospiti, completamente esausto e lasciando loro un cercapersone in caso di bisogno, e Pepper aveva avuto a malapena modo di ringraziarlo. Il medico aveva risposto con un semplice, stanco cenno del capo, corredato da un lieve sorriso d'incoraggiamento.
"Spero che se ne stia buono!" aveva aggiunto poi, esasperato, soffocando la frase in uno sbadiglio.
Da qualche ora, la donna sperava in un qualsiasi cenno di vitalità da parte di Tony, ma lui era ancora profondamente sedato e si limitava a respirare tranquillo, con un movimento che la stava a poco a poco ipnotizzando. Sbatté le palpebre, assonnata. Le sbatté di nuovo, interdetta. La mano di Tony si era mossa, ed era sicura di non essere così stanca da avere le allucinazioni.
«Kyle!»
«Sì, sono sveglio! Sono sveglio…» mentì lui, sobbalzando mentre si riassestava gli occhiali storti sul naso.
«Si sta svegliando!» continuò Pepper, sollevata, ma inquieta allo stesso tempo, notando l'espressione di Kyle che si faceva sempre più preoccupata e un forte tremito che scuoteva la mano di Tony ancora stretta tra le sue.
«Kyle, cos–…» ma le sue parole furono troncate da un getto di puro panico.
Tony tremava in modo incontrollato, apparentemente incosciente, se non fosse stato per l'occhio rovesciato all'indietro. Pepper lo fissò, paralizzata nel vederlo agitarsi scompostamente in preda alle convulsioni, incapace di muovere un muscolo e sentendosi come quel giorno di mesi prima quando era rimasta altrettanto paralizzata di fronte a un edificio in fiamme e, ancora prima, quando aveva ricevuto una chiamata da Rhodey durante una mattina come tante, ignara di tutto ciò che sarebbe seguito.
Kyle rimase impietrito per qualche istante prima di afferrare per primo il cercapersone.


***


Erano subentrate mille complicazioni, dopo l'operazione.
Ian aveva dato il massimo, ma non era comunque stato in grado di rimediare alle conseguenze: il corpo di Tony non aveva accettato la protesi e l'aveva rigettata strenuamente. Il medico aveva passato i tre giorni successivi all'intervento a Villa Stark, sorvegliando Tony ancora convalescente ventiquattr'ore su ventiquattro col loro aiuto, sperando in un qualsiasi segno che potesse far sperare in un miglioramento anche minimo.
La situazione era invece degenerata e la ferita aveva cominciato a infettarsi pericolosamente; Ian aveva tentato di arginare il danno, ma Tony era stato comunque colpito da una violenta e improvvisa febbre che l'aveva stremato. Aveva delirato più di una volta, farfugliando frasi sconnesse o rivivendo ricordi in modo così vivido da farlo urlare. Per Pepper era stata una tortura sentirlo implorare pietà ai suoi rapitori e ancor più vederlo tremare mormorando parole confuse riguardo a freni difettosi e incidenti d'auto che non le era stato difficile interpretare. Spesso l'aveva chiamata, con tanta intensità da farle imporre di non lasciare anche solo per un istante il suo capezzale, non potendo sopportare l'idea di far cadere nel vuoto quei suoi appelli stremati all'unica persona che evidentemente voleva avere accanto.
La mattina del terzo giorno Ian si era arreso all'evidenza: doveva operarlo di nuovo e sperare per il meglio e in caso estremo rinunciare a impiantare la protesi e far ricoverare Tony in terapia intensiva. All'inizio Pepper si era opposta, sostenendo che Tony non fosse in grado di resistere a un'altra operazione così drastica, ma aveva dovuto cedere quando aveva quasi avuto un infarto durante l'ultimo accesso di febbre ed era toccato a lei spiegare freneticamente a Ian come riagganciare il supporto del reattore arc.
Il secondo intervento era stato difficoltoso, ma fortunatamente il suo corpo aveva infine accettato la protesi come parte integrante di sé, nonostante le tribolazioni di Ian con la piaga infetta.
Tony era comunque rimasto in uno stato di semincoscienza per un altro giorno e mezzo, durante il quale la febbre si era a poco a poco abbassata, fino a che non si era risvegliato decisamente più lucido, sebbene provato.
Kyle era stato costretto a rinviare ulteriormente il processo e lui e Pepper avevano passato un paio d'ore al telefono con il Senatore, Knight e gli uffici del tribunale in un'estenuante diatriba per certificare l'impossibilità di Tony di presentarsi in aula per almeno un'altra settimana.
Da quando si era ripreso, Tony era tormentato da fitte di dolore strazianti che lo avevano immobilizzato a letto e Ian gli aveva categoricamente proibito di muoversi, anche con la sedia a rotelle, prima che la ferita si fosse rimarginata. Tony aveva stranamente accettato quel divieto senza protestare, così come l'obbligo di assumere nuovi antidolorifici, che, anzi, ormai accoglieva con sollievo. In effetti parlava poco e niente e accettava passivamente tutte le limitazioni che gli venivano imposte, cosa che aveva preoccupato molto sia Ian che Pepper. Il medico aveva addirittura deciso di trasferirsi momentaneamente a Villa Stark finché la situazione non si fosse stabilizzata.
Nel frattempo sembrava che Tony fosse scivolato in uno stato di forte apatia, tanto che passava il tempo unicamente sonnecchiando o guardando il soffitto perso in chissà quali pensieri. Col braccio era stato decisamente più semplice: stavolta invece era a malapena in grado di muoversi e la piaga era ancora così sensibile e dolorosa da non permettendogli la minima libertà di movimento. Parlava solo per chiedere gli antidolorifici, così spesso che Ian decise al contrario di diminuirli, temendo che si stesse assuefacendo ad essi. Tony non protestò, ma da quel momento fu in costante tensione per il dolore ai moncherini.
All'inizio Pepper aveva tentato di fargli compagnia, ma Tony si era rivelato innaturalmente taciturno e restio a parlare. Rispondeva a monosillabi, per poi affermare di essere stanco e riprendere a dormire, davvero o per finta. La situazione era tanto esasperante da scoraggiarla, e infine aveva smesso di andarlo a trovare, facendosi vedere solo per portargli la clorofilla, che Tony le aveva ricordato quasi distrattamente di dover assumere per evitare che si "inceppasse il reattore"; al cibo pensavano JARVIS, gli altri robot e a volte Ian, anche se Tony mangiava poco e niente, dicendo di avere la nausea o di non avere fame. Stava deperendo a vista d'occhio, il che si aggiungeva alla lunga lista delle preoccupazioni di Pepper, ormai altrettanto spossata.
Sperava solo che si trattasse di una fase temporanea in risposta a quell'operazione decisamente traumatica, e che Tony l'avrebbe superata presto.
Intanto i giorni passavano e la situazione rimaneva invariata.


***


30 Marzo, Villa Stark

Forse, se avesse continuato a fissare il soffitto con la stessa intensità, prima o poi gli sarebbe caduto addosso. L'ultima volta che aveva avuto un pensiero del genere era stato in Afghanistan, quando si chiedeva spesso se un missile ben assestato sarebbe stato sufficiente a far crollare la grotta. S'impegnò a imbrigliare la sua coscienza decisamente poco collaborativa. Non aveva davvero bisogno di pensare al suo trimestre di prigionia proprio in quel momento.
Il suo respiro si spezzò, a tempo con un'altra fitta al moncherino della gamba, che lo distrasse momentaneamente da quelle riflessioni. Si concentrò su quel dolore, quasi liberatorio rispetto ai pensieri spiacevoli che lo perseguitavano, ma questi, dopo un momento di offuscamento, tornarono ad assillarlo in modo più impellente di prima, soverchiando il dolore fisico. Si lasciò nuovamente sprofondare in quel flusso tossico, incapace di sottrarsene e troppo debilitato per provarci veramente.
Non capiva perché, per ogni passo avanti che faceva, si trovava a doverne fare due indietro.
Decideva di supervisionare le sue armi di persona? Veniva rapito e gli ficcavano un magnete nel petto. Interrompeva la manifattura di quelle armi? Si ritrovava mutilato dal suo stesso padrino. Inventava una protesi ad alta tecnologia per rientrare in gioco? Il secondo dopo veniva tradito e cacciato a calci dai Vendicatori, come se fosse colpa sua.
Il resto, se ne rendeva conto con reticenza, era colpa sua. Nessuno gli aveva ordinato di complicare le cose al processo, né di attaccar briga con Rogers trovandosi con un braccio distrutto, né di lasciarsi andare a una rabbia cieca e insensata spaventando e allontanando l'unica persona di cui si fidava ancora.
Continuò a guardare il soffitto, come sperando di trovarvi qualche indizio su come risolvere quella situazione alienante.
Si fidava ancora, ovviamente. Di ciò si era reso conto solo a mente fredda, quando si era chiesto come avesse mai potuto credere che Pepper potesse tradirlo o fare il doppiogioco o più semplicemente pensare di ferirlo. Però il tarlo del dubbio era difficile da sopprimere e continuava a roderlo nel profondo, incurante della sua razionalità, che ormai non riusciva a tenere a bada la decima parte delle preoccupazioni che lo opprimevano. Si sopiva solo quando ripensava al momento in cui lei l'aveva finalmente accettato, nonostante la rabbia di entrambi e la sua diffidenza e ottusità e ingratitudine, confidando totalmente in lui e nel fatto che ce l'avrebbe fatta, come sempre.
Ma lui era semplicemente troppo rotto per accettare quel gesto. E non aveva idea da dove dovesse cominciare per ricomporsi.
Probabilmente aveva respinto l'unica possibilità per riuscirci.
Smise di guardare il soffitto bianco, che iniziava a dargli le vertigini per la sua vacuità, terribilmente simile a quella in cui si sentiva sprofondare in quel momento. Come pretendeva di tornare a essere Iron Man, se non era nemmeno in grado di rimettersi in piedi da solo senza ferire tutti coloro che gli stavano intorno? Già se li immaginava i Vendicatori, i suoi amici, a sghignazzare mentre lui non era neanche in grado di sbottonarsi da solo una camicia. Si sfiorò appena il moncherino della gamba e un lampo di dolore accecante gli esplose in testa a quel semplice contatto, cancellando per un lungo istante tutto ciò di sbagliato che affollava la sua mente.
Un solo pensiero resistette e vi si aggrappò strenuamente: adesso avrebbe finalmente potuto alzarsi e camminare. Tentò di imprimersi quella prospettiva nella mente, ma questa lasciò solo una labile orma che si dissolse ben presto come un'impronta nella neve al sole.
A che serviva camminare, se il resto era a pezzi?

***


31 Marzo, Villa Stark

Pepper sospirò e bevve un altro sorso di tè, sentendosi incredibilmente stanca. Vedere Tony che si lasciava andare a quel modo era una sofferenza anche per lei.
La casa era vuota e silenziosa senza lui che vagava da una parte all'altra, la sua musica a un volume esageratamente alto, il costante sferragliare che proveniva dal suo laboratorio e semplicemente senza le sue battutine pungenti e il suo sorriso ironico e malizioso, che aveva già cominciato a spegnersi nell'ultimo periodo. Qualcosa era cambiato, ma non riusciva a focalizzare cosa e ciò non faceva che alimentare la rabbia, l'impotenza e il senso di colpa bruciante che la tormentava. Non riusciva a capire cosa si fosse rotto.
Pepper scosse la testa, sconsolata, ma la rialzò quasi subito richiamata da un improvviso rumore metallico; si voltò verso l'atrio, in allarme.
Trattenne un'esclamazione di sorpresa: Tony stava zoppicando penosamente verso l'ascensore, aiutandosi con le stampelle, il viso contratto per lo sforzo di controllare il braccio e di resistere al dolore del moncherino scoperto. Si accorse di lei e sollevò lo sguardo prima fisso sul pavimento, sentendola avvicinarsi rapidamente.
Quando fu più vicina, Pepper notò le profonde occhiaie che spiccavano sul suo volto pallido, assieme alla luce spossata nell'occhio. Era notevolmente provato e sembrava esserne consapevole. Non ebbe la forza di rimproverarlo per essersi alzato dal letto: anche solo vedere una scintilla di ribellione in lui la rassicurava enormemente.
Non riuscì a parlare: sentiva che qualunque parola sarebbe stata di troppo, e anche Tony rimase in silenzio, sebbene perplesso. Un sorriso stanco si dipinse infine sul suo volto tirato, insieme a un guizzo di colpevolezza che passò nel suo sguardo, consapevole che non si sarebbe dovuto trovare lì.
Pepper non gli diede tempo di inventare una scusa plausibile e non si diede tempo per fermarsi a pensare ancora: lo abbracciò delicatamente e lo strinse a sé, stando attenta a non fargli male e sostenendolo al contempo.
Lui ebbe un sussulto sorpreso, ma non si sottrasse; non poteva abbracciarla a sua volta, bloccato dalle stampelle, ma si strinse a lei e poggiò la testa sulla sua, sospirando appena e accettando quel contatto dopo tanto tempo.
«Bentornato.»





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Revisione effettuata il 01/03/2018


Note delle Autrici:

MISSIONE COMPIUTA! *Kyle si lancia verso il cercapersone trasformandosi in Tom Cruise e il cercapersone si autodistrugge* La scena l'avevamo pensata così, ma non era molto seria... ma insomma, dobbiamo sollevarci dal senso di colpa per il dolore che infliggiamo a Tony! Anche le convulsioni! Bastarde...
Ma tornando serie: ullalà, siam qua! *ci diamo alle rime fasulle all'una e mezza* 
Kyle è sempre più simpatico, vero? Vero? Vero? :D *Spunta Fury con fucile a pompa -di K- e le mette a tacere*
Ok, la scena originale era più o meno così (abbiamo avuto un sacco di ripensamenti mentre scrivevamo... per fortuna):

Pepper: Kyle, svegliati!
Kyle: Cosa?! CAMICIE! Mi inseguono!
Pepper: WTF? Non c'ho capito una ciospa! (Cit. Willwoosh)

Poi abbiamo pensato che non era il massimo mentre Tony ballava spassionatamente la Hula in sottofondo (l'umorismo continua a peggiorare, ma capiteci, c'è il sonno arretrato).
Ma non è tutto!
...
Ed invece sì! *trololol* 

Ringraziamo Sherlock_Watson e Rogue92 per aver recensito lo scorso capitolo e tutti coloro che hanno recensito i capitoli precedenti e per aver aggiunto la storia alle seguite/ricordate/preferite ^^ 

Moon&Light

P.S. Ci rendiamo conto che questi ultimi capitoli (in particolare il 18-19) sono stati decisamente più corti dei precedenti, ma abbiamo avuto poco tempo per programmarli e, lo ammettiamo, poca voglia di scriverli (il caldo non aiuta affatto...)
Recupereremo... c'è ancora tanta strada da fare! *Tony: facepalm rassegnato*
P.P.S. Se non si fosse capito... stiamo sclerando!


 



© Marvel

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Capitolo 21
*** Tiptoe higher ***



20

.

.

Tiptoe higher







"I ain't happy
I'm feeling glad I got sunshine
In a bag
I'm useless
But not for long
My future is coming on
Is coming on"

[Clint Eastwood – Gorillaz]





1° Aprile, Villa Stark

Il familiare bip delle camere d'ospedale era l'unico suono che Tony riusciva a percepire.
"Dove sono?"
Per un momento si chiese se si fosse schiantato contro qualcosa e stesse per risvegliarsi con qualche altro pezzo mancante. Non
di nuovo. Cercò di muovere le dita della mano buona, ma si sentiva completamente esausto, tanto che anche quel gesto si rivelò un'impresa titanica. Sentiva anche un po' di nausea colpirlo alla bocca dello stomaco, ma se fosse aumentata non avrebbe raggiunto nemmeno l'estremità del letto per vomitare, tanto si sentiva spossato. Provò con qualcosa di più semplice, come aprire l'occhio, non appena sentì la percezione di se stesso allontanarsi dallo stomaco. Sbattè appena la palpebra, lo sguardo appannato che cercava di mettere a fuoco... cos'era quello?
"Porca troia."
«Bontà divina, K!»
rantolò, nel ritrovarsi la faccia di Kyle a pochi centimetri dalla sua che lo fissava a occhi sgranati.
Il ragazzo si allontanò, lasciandosi ricadere sulla sedia a rotelle ridacchiando sotto i baffi per lo scherzo ben riuscito.
«Vedi questo sguardo? Lo vedi? Non te lo scordare
mai, soprattutto al processo.» 
Seguì poi con sguardo preoccupato Tony che si sollevava a sedere sul letto, colto da un evidente capogiro, e
continuò a fissarlo ancora per qualche secondo prima di rilassarsi in un sorrisetto divertito nel constatare che, a parte la sua espressione un po'assente, sembrava sentirsi meglio. Tony lo fissò terrorizzato per qualche istante prima di riprendere un contegno più o meno passabile.
«Se mi guardi così durante il processo, chiamo Pepper,» stabilì, ancora sconvolto e un po' su di giri: si sentiva decisamente dopato e chissà cosa gli scorreva nelle vene in quel momento... distolse i pensieri dall'ago sepolto nel dorso della mano.
Magari Kyle non aveva tutti i torti nel tenerlo d'occhio così da vicino, visto che si sentiva sul punto di collassare a intervalli di due secondi.
«Non azzardarti ad abusare di quella santa donna, Stark: come ti sopporta lei non ti sopporta nessuno, nemmeno io, mio caro. Alla fine di questa storia dovrai dedicarle un palazzo, come minimo, e lodarla fino alla fine dei tuoi giorni. A me e Ian basta una statua colossale,» aggiunse con aria furba.
«In effetti, se non ci fosse il mio "fan-club" a tenermi in vita, la "fine dei miei giorni" sarebbe molto vicina e non avrei nemmeno il tempo di costruirlo, il palazzo.» 
Fece una pausa e volse lo sguardo al soffitto, come in trance, prima di iniziare a parlare a vanvera:
«Sarà alto... e di vetro. E avrà
STARK scritto sopra a caratteri cubitali! Sì, è perfetto! Mi serve solo un architetto per realizzarlo... e convincere Pep.»
«Goditela finché puoi, Stark,» lo interruppe Kyle cercando di riportarlo coi piedi per terra, frastornato e preoccupato dal suo stato non propriamente "normale".
Tony s'interruppe, si accigliò, meditò un attimo sulle sue parole e si voltò di nuovo verso di lui, perplesso.
«Cosa? Il tempo che mi rimane?» domandò, disorientato dalla sua testa febbricitante, che si arrese a lasciar ricadere sul cuscino.
Kyle lo fissò di rimando, attribuendo infine quella domanda superflua alla febbre che non doveva fargli connettere bene tutti i suoi geniali neuroni. O almeno, li connetteva peggio del solito.
«
Pepper, che domande.» Fece un gesto di ovvietà con la mano, paziente. «Ma le questioni di cuore le affronteremo dopo, stellina.»
«
Quelle le vedo io,» commentò assente Tony, coprendosi l'occhio con un braccio, col campo visivo effettivamente invaso di puntini luminosi.
Ignorò con fermezza l'insinuazione di Kyle. Gli mancava solo un consulto di coppia non richiesto e poi la sua vita sarebbe diventata perfettamente schifosa.
In quel mentre entrò proprio Pepper, con un vassoio per la colazione. Un lieve sorriso le illuminò gli occhi nel trovare Tony sveglio, ma non si dilungò in nessun saluto o commento sulla sua salute: non doveva essere esattamente di buon umore. La donna porse un tè a Kyle, per poi posare il vassoio sul sostegno di fronte a Tony. Premette il tasto del pannello di controllo vicino al letto per inclinare la testiera in modo che potesse sedersi senza sforzo. Lui si limitò a un breve cenno di saluto col capo, sfuggendo il suo sguardo e fissandolo sul toast di fronte a lui, che gli fece automaticamente chiudere lo stomaco al solo pensiero di doverlo masticare. In quel momento il bicchierone di clorofilla gli sembrava molto più appetitoso. Accanto giacevano varie pasticche, più del solito: antidolorifici, antipiretici, beta-bloccanti, integratori... aveva l'imbarazzo della scelta, ormai.
Nel frattempo Pepper controllò lo schermo che mostrava il suo battito cardiaco e teneva costantemente sotto controllo la temperatura fuori norma: 38,6°C. Tony seguì il suo sguardo, notò il valore e concluse che era stato peggio.
Intanto Kyle li aveva discretamente lasciati soli accampando la scusa del "lavoro d'ufficio" e Pepper si sedette sulla poltroncina di fianco al letto con la sua tazza di tè, sempre senza proferir parola, ma per una volta non era un silenzio teso. O almeno, a Tony non pareva che lo fosse. Purtroppo aveva perso l'abilità di leggere Pepper come fosse un libro aperto, e lo stesso poteva dirsi per lei.
Si rassegnò a tacere e a forzarsi di mandar giù almeno un decimo della sua colazione. Prestò attenzione all'ago della flebo solo nel momento in cui mosse il braccio verso il bicchiere di clorofilla, rischiando di sfilarselo dalla mano.
«Tony, lasci. Faccio io,» lo fermò delicatamente Pepper, posando per un attimo il suo tè.
Mise una cannuccia nel bicchiere e ne avvicinò l'estremità alle sue labbra leggermente violacee e screpolate. Tony accettò a sguardo basso, come sempre riluttante a farsi aiutare, ma si sentiva la febbre così alta che non ebbe la forza di protestare e lasciò ricadere mollemente la mano, dichiarandosi sconfitto.
«K mi ha quasi ucciso,» commentò poi tra un sorso e l'altro nel tentativo di rompere il silenzio, ma poi concluse che era meglio essere zittito dalla cannuccia.
«Non sarà sicuramente Kyle a ucciderla, e comunque ne avrebbe il diritto,» commentò concisa Pepper, dopo una breve pausa.
Tony capì che non era in vena di parlare – quando mai lo era? – o forse era solo una sua impressione. Non si sentiva molto grado di giudicare la situazione, considerata la sua temperatura incandescente.
Continuò a bere la sua clorofilla in silenzio, concludendo che intavolare una discussione simile a un passo dal delirio non era una mossa saggia neanche per un genio della conversazione come lui.


***


Pepper, dopo essersi assicurata che Tony fosse in grado di bere da solo il suo "succo d'erba", tornò al suò tè, rimanendo però seduta sul bordo del letto invece di riprendere posto sulla poltroncina.
Si pentiva un po' per aver troncato così bruscamente la conversazione. In altre circostanze sarebbe stata forse più incline a parlare, soprattutto dopo l'episodio del giorno prima. Quell'abbraccio estemporaneo sembrava aver parzialmente sanato una frattura tra loro di cui non si erano mai voluti davvero curare, ma nessuno dei due era stato nelle condizioni di dare inizio a una conversazione coerente. Si era limitata a sorreggere Tony per riportarlo a letto, e lui si era limitato a un "grazie" sussurrato subito prima di addormentarsi di schianto, stremato per lo sforzo. Anche adesso si sentiva veramente troppo esausta per intraprendere discussioni spinose. Era ovviamente preoccupata per Tony, più del solito, ma anche il proprio stress iniziava a farsi sentire sempre di più. Dopo gli scossoni di quella settimana si era finalmente rilassata di colpo e ciò l'aveva lasciata spossata. Di quel passo non sapeva quanto ancora avrebbe potuto reggere tutta quella tensione quotidiana.
E se avesse ceduto? Che cosa voleva dire per lei, l'assistente di Tony Stark,
cedere? Magari avrebbe dovuto staccare, almeno per un po'... ma poi come avrebbe fatto a convivere con la consapevolezza che la persona a cui teneva di più al mondo era in quelle condizioni, da solo? Si passò una mano sul volto pallido, esausta, cercando di rinviare al più tardi possibile quelle meste riflessioni che avrebbe preferito non aver mai avuto bisogno di fare.
Per fortuna Tony richiamò la sua attenzione quando le sfiorò il ginocchio con la mano. Pepper rialzò di scatto lo sguardo su di lui alla ricerca di una sua qualunque esigenza, già maledicendosi per essersi distratta e memore dei suoi continui dolori, ma lui aveva già finito la sua clorofilla, assunto le medicine e aveva addirittura sbocconcellato il toast. Adesso stava respirando lentamente con l'occhio chiuso e la testa reclinata verso di lei. Probabilmente non stava dormendo, ma aveva certamente molto bisogno di riposare dopo la sua passeggiatina della sera prima.
Gli prese delicatamente la mano, attenta a non ferirlo con la cannula della flebo, e gliela risistemò lungo il fianco, classificando quel gesto come involontario. Fece per ritrarla, ma una debole stretta di quella di Tony la invitò a mantenere quel sottile contatto, sfatando le sue impressioni. Ne rimase sorpresa, dopo il suo anormale distacco degli ultimi giorni.
Piacevolmente sorpresa, in realtà, così come quando il giorno prima non si era sottratto al suo abbraccio. Sospirò debolmente, rinunciando a cercare di capire cosa diavolo passasse per la testa di quell'uomo, visto che a quanto pareva anche lui aveva rinunciato a capire cosa passasse per la sua.
Pepper prese ad accarezzargli il dorso della mano innaturalmente caldo, tracciando linee immaginarie sulle sue nocche e seguendo il contorno dei calletti sul palmo; lui rilassò completamente la mano, abbandonandosi a quelle carezze. Lei si scoprì invece in tensione, nonostante non ve ne fosse motivo tangibile, ma da quando Tony aveva avuto le convulsioni temeva di vederlo agitarsi inconsciamente in qualsiasi istante...
Aveva appena ripreso a porsi le domande che ultimamente la assillavano, minacciando di farle esplodere la testa, quando Ian fece quasi irruzione nella stanza, facendola sobbalzare e spezzando bruscamente quel dolce contatto. Tony schiuse la palpebra e strinse di riflesso le dita, troppo tardi per trattenerla, e Pepper gli rivolse di sottecchi uno sguardo dispiaciuto.
Era davvero
troppo tesa.
«Sta arrivando il medico del tribunale,» annunciò il medico, senza tante cerimonie.
Dovette notare solo allora che doveva essersi fiondato nella stanza un po' troppo precipitosamente. Rimase sulla soglia, in evidente imbarazzo, mentre Pepper si limitava ad annuire.
C'era stata una discreta agitazione a Villa Stark quella mattina. Li aveva svegliati JARVIS, informandoli che un certo Brian Raven, medico del tribunale, avrebbe fatto visita di persona al signor Stark per verificare che le sue condizioni fisiche fossero davvero quelle comunicate per il rinvio del processo di ben dieci giorni, giorni che probabilmente non sarebbero comunque bastati a rimettere in piedi qualche pezzo di ferro e ciò che rimaneva del corpo di Tony. Pepper aveva immediatamente inviato Happy a recuperare Kyle, che li aveva raggiunti a tempo di record; per fortuna Ian era ancora in pianta stabile alla villa.
L'annuncio aveva infastidito tutti: le loro preoccupazioni erano più che sufficienti e non c'era bisogno che ci si mettesse anche il "medico del tribunale" a portare altri guai in quella situazione già disastrata. Far imprecare Kyle contro Knight per avergli sicuramente aizzato contro tutta la giura e aver deciso di tirargli quel manrovescio di Raven – o "avvoltoio", come lo aveva definito lui; aver fatto scapicollare Pepper per tutta la casa per assicurarsi che tutti i progetti delle Stark Industries e di Tony in particolare fossero sotto la custodia di JARVIS nel laboratorio; e aver irritato Ian al punto da renderlo più scontroso del solito e indurlo a tirar giù qualche santo erano state solo le conseguenze più evidenti di quell'imprevisto. Ian e Kyle non avevano sicuramente passato una mattinata leggera nel ricontrollare rispettivamente le cartelle cliniche e giuridiche di Tony, così da non doversi trovare di nuovo a litigare con qualcuno per aver trascurato dei dettagli. Tony stesso non stava particolarmente bene quella mattina; negli ultimi giorni, nonostante si fosse decisamente ripreso dall'ultima operazione, la temperatura continuava a giocare alla roulette con dei numeri folli: un attimo prima sembrava essere tornata stabile e un secondo dopo schizzava due gradi e mezzo più in alto, costringendo Ian a dar fondo a tutta la sua esperienza medica per fronteggiare ricadute che non poteva prevedere con certezza assoluta. L'azzardo della sera prima non aveva certo giovato al suo irrequieto paziente, ma almeno aveva riacquistato in parte la sua solita faccia tosta e aveva ripreso a mangiare senza doversi far pregare.
In quel mentre Tony si riscosse del tutto dalla sua catatonia, probabilmente richiamato alla realtà dalla parola "tribunale":
«Chi arriva da Cittàlaggiù?» biascicò infatti, forse in preda ad uno dei suoi deliri indotti dalla morfina.
Ian rivolse la sua attenzione al suo catalizzatore preferito:
«Oggi, signor Stark, dato che ultimamente è tanto bravo a star male, dovrà dare il meglio di sé.»
«Tanto sto qua, dove vuole che...» Tony non riuscì a completare la frase che si afflosciò apparentemente incosciente sul cuscino, col volto reclinato di lato.
Pepper scattò in piedi all'istante e guardò Ian alla ricerca di non sapeva neanche lei bene cosa.
«La temperatura si sta rialzando,» disse il medico, calmissimo, osservando lo schermo dove lampeggiava un 38.9 in un color rosso chiaro che stonava completamente con il verde luminoso del suo regolare battito cardiaco.
Pepper si convinse che almeno la pressione era buona e che presto anche la temperatura sarebbe rientrata nei ranghi dopo l'effetto dei farmaci. Anche la flebo avrebbe dovuto aiutare a mantenere la febbre a un livello accettabile.
«Deve essere troppo stanco, oppure è l'effetto dei vari farmaci, ma va bene così,» sospirò sbrigativo Ian, dopo aver brevemente premuto due dita sulla giugulare di Tony e avergli sollevato la palpebra per controllare la pupilla.
«È svenuto?» chiese Pepper, preoccupata.
«Non direi. Sta solo dormendo,» rispose evasivo lui.
Pepper fissò Tony per poi spostare lo sguardo su Ian e infine di nuovo su Tony: stava visibilmente sudando per la febbre ed aveva iniziato a tremare in modo appena percettibile. La donna gli sistemò meglio la coperta, poi controllò la flebo e il monitor accanto a lui. Tutto regolare, se non per la temperatura.
«Ma gli antipiretici non dovrebbero aver già fatto effetto?» chiese infine lei, senza riuscire a nascondere la sua agitazione.
Ian si tolse gli occhiali e li pulì con i suoi usuali gesti lenti, come faceva sempre quando doveva dire qualcosa di molto importante o molto scomodo. Si sedette sulla poltroncina, di fronte a Pepper, ma non la guardò finché non si rimise gli occhiali, come se avesse finito di schiarire i suoi pensieri insieme alle lenti.
«So che non è una scelta ortodossa né tanto meno corretta, ma credo lei sia d'accordo con me sul fatto che il medico del tribunale, anche considerata la giuria, deve essere assolutamente convinto della precaria salute del signor Stark, perciò...»
«Mi sta dicendo che non ha gli ha somministrato
niente?» chiese Pepper in tono pacato, evitandogli il fastidio di finire.
Ian deglutì, leggermente sotto pressione:
«Sì. Quelli di stamattina erano semplici, innocui integratori. A parte le pasticche per il cuore, ovviamente,» spiegò a disagio.
Pepper prese a torturarsi le mani dal nervosismo. Guardò Tony, che ogni tanto ancora tremava e continuava a sudare e sentì un groppo in gola.
Non era giusto, si ritrovò a pensare. Aveva sofferto così tanto in così poco tempo e aveva a malapena avuto modo di assimilare tutto ciò che gli era piombato addosso: era già abbastanza dura così, senza quegli ostacoli "necessari". La preoccupava il fatto che Tony avesse infine dato il suo primo, fisico segno di cedimento, dopo quello psicologico: il suo periodo di totale apatia era stato quasi più terrificante che vederlo dopo l'incidente, quando non voleva ancora convincersi di ciò che gli era accaduto. E forse, in effetti, non se ne era ancora del tutto fatto una ragione. Pepper scrollò la testa e si scostò la frangetta sovrappensiero, cercando di ragionare in modo lucido.
Ian, convinto che Pepper stesse per sollevare qualche comprensibilissima obiezione riguardo al suo modo d'agire, ricominciò a parlare:
«So che sta molto male e che se vogliamo che si riprenda ha bisogno di tutte le cure necessarie, ma se il medico che lo visiterà oggi non sarà "soddisfatto" di ciò che vedrà, verrà trascinato davanti alla corte senza tante cerimonie, non ancora in grado di reggersi in piedi. Ha visto Knight e il Senatore Stern e ha visto quanta avversione provano nei suoi confronti: sbatterlo in cella e buttare la chiave, per poi passare le Stark Industries in mano al governo è la soluzione più semplice per tutto il caos che ha sollevato l'incidente. Vogliono chiudere la storia in fretta, e portare un Tony Stark più delirante e sboccato del solito in aula sarebbe un grosso vantaggio.»
«È più probabile che collassi sul banco dei testimoni,» sospirò lei, accigliata. «Non sarebbe in grado di muoversi dal letto neanche tra una settimana,» commentò poi, non mostrando nessun segno di rabbia o fastidio per la scelta del medico, presa palesemente alle sue spalle e ignorando la possibilità di veder Tony sbattuto in prigione. «E non credo neanche che una settimana basterebbe a cambiare radicalmente il suo carattere tanto da risultare gradevole alla giuria. Non so che conseguenze avrà questa sua manovra, Mitchell, ma ci permetterà solo di guadagnare poco tempo. Tempo inutile, peraltro, perché lui non sarà neanche nelle condizioni di migliorare i progetti, modificare le protesi o tantomeno iniziare sessioni di fisioterapia decenti. E per lui è tutto già abbastanza frustrante così, senza ulteriori impedimenti da parte nostra,» disse d'un fiato, sfogando in parte tutte le preoccupazioni che la assillavano e il malumore che la attanagliava da quella mattina.
"E voleva anche presentarsi all'udienza con la protesi nuova..." pensò rattristata, col suo sguardo catturato dall'evidente assenza della gamba destra sotto al lenzuolo.
«Mi dispiace di...»
«Di non avermi informato?» lo interruppe Pepper, secca. «Anche a me dispiace. Ma capisco la sua scelta anche se non la condivido. E capisco che anche per lei non deve essere stata una decisione semplice. Anche se decidere volontariamente di "far stare peggio" Tony per accontentare il coroner di qualche tribunale non rientra nel mio concetto di "etica", medica e non.»
Ian rimase sorpreso da quel commento. Non si aspettava quella comprensione, seppur restia, da parte di Pepper. Piuttosto aveva immaginato che la sua scelta di far saltare i medicinali a Stark per mezza giornata l'avrebbe resa furiosa, soprattutto perché si trattava di qualcuno che le stava molto più a cuore di un semplice datore di lavoro o superiore, quello era evidente a tutti. Poteva intuire un certo fastidio dietro il suo apparente controllo nel non averla informata, ma si sentì sollevato nel ricevere una reazione tutto sommato pacata. Non era da tutti mantenere quel sangue freddo dopo un accumulo simile di stress.
Era un po' imbarazzante dover confessare le proprie colpe, ma volle dimostrarsi grato per la tolleranza verso la sua scelta poco professionale.
«Probabilmente è una precauzione inutile, ma tutto sommato innocua. Non avrei mai osato interrompere i farmaci se non...» s'interruppe, improvvisamente perplesso, e la squadrò confuso. «Aspetti un attimo. Ho sentito bene? Il
coroner? Come sarebbe?»
Ian quasi si mise a ridere a sproposito nell'accorgersi in ritardo del lapsus di Pepper.
«Intendeva un medico legale, giusto?» cercò conferma.
Pepper, al contrario, non era affatto divertita.
«Intendevo ciò che ho detto. Il tribunale ha deciso di inviare un
coroner per visitare il moribondo Anthony Stark. Un pesce d'Aprile... simpatico.» ironizzò malamente la donna.
Ian ora era allibito.
«Di chi è stata l'idea?» mormorò, combattutto tra lo sdegno e l'incredulità.
Un'occhiata eloquente della donna confermò i suoi timori. Knight era davvero pronto a tutto per perorare la sua causa e metterli in difficoltà...
In quel momento squillò il campanello, riportando tutti in allarme. Ian fermò con un gesto Pepper che stava per scendere al piano di sotto. Scosse la testa e riprese a pulire metodicamente gli occhiali, stavolta con foga.
«Aspetti che lo scopra Kyle. Succederà il...»
«Che razza di scherzo è questo?!
Ian!»
Il capo del medico crollò in avanti nel sentire la voce irata del ragazzo raggiungerli dal piano di sotto.
«... finimondo.» concluse Pepper, rassegnata.
In pochi secondi furono raggiunti dalle voci concitate del coroner e di Kyle, che sembrava in preda a una furia omicida, probabilmente in seguito alle presentazioni con Raven. L'avvocato iniziò a citare ad alta voce tutti i diritti che il coroner in questione stava violando con il suo "comportamento inadeguato" e la "poca sensibilità" nei riguardi del convalescente e concluse, non essendo ascoltato minimamente, con un sonoro "vaffanculo" indirizzato esplicitamente a Raven e a "tutte le carogne come lui".
«Maledetto avvoltoio, ringrazi che non le faccio causa!» concluse infine l'avvocato, rassegnandosi a dovergli urlare dal fondo dell'atrio, per poi mettere la quarta deciso a recuperare il terreno perso.
Raven sembrò non sentirlo neanche e si diresse a passo di carica attraverso il salone, venendo intercettato da Ian prima che imboccasse la porta sbagliata. Si guardava intorno con molto, troppo interesse, ma si fece scortare dal medico fino alla stanza di Tony quasi senza proferir parola, se non un grugnito di saluto. Trovò Pepper ad attenderlo sulla soglia, compita e professionale; alle sue spalle, Tony si calava egregiamente e senza troppi sforzi nella parte del moribondo.
«Buongiorno, dottor Raven.»
«Salve. Lei è l'assistente?» chiese lui, sbrigativo.
Tutto il suo aspetto dava l'idea di una persona frettolosa, senza tempo da perdere ed estremamente impaziente: capelli scuri e brizzolati un po' alla rinfusa, abbinamento di vestiario sconclusionato ma rigorosamente scuro, come se avesse pescato i primi vestiti a portata di mano da un guardaroba monocromo, e movimenti delle mani secchi e mirati, precisi. Per non perder tempo, naturalmente. Pepper provò un moto di compassione piuttosto ridicolo nei confronti dei trapassati che dovevano sopportare le sue affrettate autopsie.
«Sì,» rispose infine Pepper. «Sono Virginia Potts. E lui,» riprese, mostrandogli le buone maniere che, a quanto pareva, doveva avere accidentalmente scordato, «è il dottor Mitchell, il medico curante del signor Stark.»
«Piacere,» borbottò Raven, senza tendere la mano a nessuno dei due e ottimizzando invece quel tempo per frugare nella sua cartelletta alla ricerca dei suoi strumenti.
«Piacere mio, signor Raven,» rispose Pepper, risentita, cercando comunque di essere il più cordiale possibile e di non lasciarsi stravolgere dagli sguardi insistenti e molesti che il "medico" gli aveva lanciato sin da quando l'aveva adocchiata.
«Sì, sì. Anche io sono tutto un piacere.» 
Kyle fece finalmente capolino nella stanza con uno stridio di freni, un po'affaticato e continuando a masticare fra sé insulti rivolti a quella sgradita presenza.
«E ho già avuto l'onore di conoscere l'avvocato del signor Stark. È molto peggio di quel che mi aveva detto il signor Knight; pensavo esagerasse riguardo alla sua "estrema vivacità di linguaggio".»
Kyle gli lanciò un'altra occhiata fulminante, piazzandosi poco dopo la soglia e limitandosi ad osservare ogni sua singola mossa come alla ricerca di una scusa per fargli causa.
Tony nel frattempo non aveva dato segni di vita, a parte il lento respirare. Ian, smanioso di sbattere fuori a calci il preunto medico quanto lo era Kyle, richiamò l'attenzione di Raven con un discreto colpetto di tosse:
«Prego, faccia quel che deve fare. La sua visita sta rallentando il nostro lavoro ed immagino che anche lei abbia questioni ben più urgenti da affrontare,» disse Ian, cercando di suonare il più cordiale ed il meno stronzo possibile.
Piuttosto difficile, data la situazione e il suo scarso tatto.
«Infatti. Vediamo di sbrigarci,» tagliò corto Raven, risultando infastidito dalla situazione e dal pubblico che si era formato alle sue spalle.
Le condizioni di Tony si potevano constatare ad occhio nudo o più semplicemente osservando per neanche un minuto il monitor che mostrava le sue funzioni vitali, ma Raven guardò a malapena quegli strumenti e scoprì bruscamente l'allettato, prendendo ad esaminarlo con ben poca grazia. Ian fremette: era evidente la sua abitudine a trattare con gente inabile a protestare alla sua mancanza di delicatezza.
Raven si concentrò naturalmente sulla protesi, che sembrava però affascinarlo in modo molto relativo. Mitchell considerò che, se fosse stato nei suoi panni, avrebbe probabilmente avuto gli occhi lucidi e l'esaltazione a mille nel vedere un simile prodigio della tecnologia e un così grande passo per la scienza medica ma...
giusto, ai morti non servono potenziamenti biomeccanici.
Raven ebbe ben poco tatto nell'esaminare lo stato delle ferite, e Tony emise qualche lamento sommesso, con grande rabbia di tutti, in particolare Pepper, che si stava trattenendo a stento dal trascinarlo via da Tony per la collottola, soprattutto quando prese ad esaminare il reattore arc infisso nel suo petto. Dal suo modo di fare era chiaro che non avesse la minima idea della sua funzione e che fosse fortemente tentato dal rimuoverlo per esaminarlo meglio.
A quel punto intervenne Ian, in un tono così secco da far quasi crepitare l'aria:
«
Se fossi in lei lo lascerei al suo posto. A meno che non voglia provocare un arresto cardiaco al mio paziente e costringermi a intervenire,» concluse senza nascondere la non tanto velata minaccia.
Raven gli rivolse un'occhiata astiosa dei suoi occhi scuri, ma seguì la direttiva di Ian e passò ad esaminare il moncherino della gamba senza commentare. Pepper posò discretamente una mano sul braccio di Ian, in un ringraziamento silenzioso; lui si limitò a un mezzo sorriso burbero di risposta, in cuor suo soddisfatto per aver rimesso in riga quel maledetto coroner. Le strinse a sua volta la spalla per intimarle di non intervenire: si sarebbe occupato lui del "lavoro sporco", se necessario. 
Dopo un esame più che approfondito – e probabilmente fastidioso per Tony – Raven risistemò infine i suoi strumenti nella valigetta:
«A quanto pare le condizioni del signor Stark non avranno margine di miglioramento prima di due giorni, come minimo.»
Un cauto sorriso di soddisfazione attraversò il viso di Kyle mentre Pepper tirava un sospiro di sollievo e Ian aspettava fin troppo pazientemente la visione celestiale della scomparsa di quell'incompetente. Partendo da quel presupposto, avrebbero forse potuto sperare in una settimana abbondante per recuperare, contando sul fatto che quel tempo fosse poi ulteriormente trattabile per permettere a Tony di ristabilirsi del tutto.
«Perciò otterrà una proroga, a partire da oggi, di altri...
due giorni,» annunciò invece Raven, con malcelata cattiveria.
La temperatura nella stanza precipitò di una decina di gradi. Dovevano averlo pagato molto, molto bene... o forse era solo
immensamente stronzo. Pepper ritornò con uno strattone alla realtà, come se qualcuno l'avesse tirata fuori dal tepore rassicurante di una bolla. Aveva appena iniziato a sperare che qualcosa potesse andare per il verso giusto, che potessero ottenere un'altra settimana di tempo per far rimettere quasi completamente Tony ed invece... solo due giorni. Anche Ian e Kyle erano attoniti, non aspettandosi una decisione così palesemente schierata.
«Due giorni?» Ian fu il primo a riscuotersi. «Il signor Stark non sarà mai in grado di...»
«Il signor Stark ha fatto attendere fin troppo a lungo la giuria; credo inoltre che sia giunto il momento di farlo uscire dal suo isolamento volontario e...»
«Volontario?» sbottò Pepper, piccata e a voce un po' troppo alta, tanto che Kyle le lanciò un'occhiata ammonitrice; Ian non fu abbastanza pronto a trattenerla quando fece un passo verso il coroner.
«Sì, signorina Potts?» rispose il medico con sussiego. «Ha qualcosa da dire?»
«Dottor Raven,» Pepper prese un lungo e profondo respiro, «il suo lavoro qui è stato indispensabile
e di grande supporto, ma penso sia ora che torni al suo vero lavoro senza perdere altro tempo.»
«Mi sta cacciando?» insinuò Raven con fare minaccioso, almeno secondo lui.
«No, la sta mandando
gentilmente a cagare,» tradusse Kyle, in tono mellifluo. «Fuori dai piedi, o giuro che la denuncio per violazione di domicilio!» aggiunse poi, non sopportando più di avere quel concentrato di arroganza e irrequietezza davanti agli occhi.
Anche Ian espresse il suo fastidio per Raven in un gesto poco cordiale che assomigliava molto a uno sciò rivolto a una mosca molesta e ansiogena. Raven chiuse con un gesto stizzito la cartelletta e voltò loro le spalle, con uno sguardo che la diceva lunga su cosa avrebbe raccontato alla giuria riguardo allo "stato del signor Stark". Kyle non colse la minaccia ed espose un bel dito medio alle sue spalle.
«Se mai dovesse "caderle la saponetta", non conti su di me!» gli gridò dietro, disgustato e così paonazzo da far concorrenza a Tony per rossore e temperatura.
Ian fece per redarguirlo, poi soffocò uno sbuffo divertito e passò subito a somministrare nuovamente i medicinali a Tony. Pepper spostò lo sguardo da Kyle alla porta da cui era appena passato il medico, non sapendo bene se essere sconvolta o stringere sentitamente la mano a Kyle e dargli una medaglia per aver messo a tacere quell'individuo e averla salvata dall'imbarazzo di insultarlo personalmente. L'avvocato intercettò il suo sguardo e fece un mezzo inchino strizzandole l'occhio divertito.
«Speriamo che alla giuria non riporti anche questo.» commentò Ian.
«Oh, non è la cosa peggiore che ho detto, lo sai. E Knight lo sa anche meglio,» ribatté Kyle con fare sornione, e stavolta il medico non trattenne il riso al ricordo di chissà quale sua bravata.
Pepper sorrise a entrambi, semplicemente contenta di averli dalla loro parte.


***


«Chi ha tentato di uccidermi?» mormorò Tony, assente e ringraziando il cielo per la dose di medicinale che riprendeva a scorrergli nel sangue alleviando il senso di spossatezza.
«Ho l'elenco in ordine cronologico e alfanumerico, quale preferisci?» rispose prontamente Kyle.
Tony richiuse l'occhio, scuotendo leggermente la testa e domando l'ennesima ondata di nausea. Si sentiva dolorante, il che non era una novità, ma stavolta era addirittura peggio del solito.
«Chi mi ha visitato? Un pachiderma?» chiese ancora con voce roca, tastandosi una costola che era sicuro si fosse saldata almeno un paio di settimane prima.
Kyle esitò e guardò Pepper interrogativo. Lei gli fece un cenno d'assenso, come a dire "tanto lo verrà a sapere lo stesso". E non era davvero il caso di nascondere informazioni a Tony, visto come aveva reagito l'ultima volta.
«Un... coroner,» sospirò l'avvocato, aspettandosi un'esplosione di improperi e commenti poco carini su Raven e tutta la sua stirpe di "segaossa" e sperando che Ian avesse dei defibrillatori a portata di mano.
Invece Tony riaprì l'occhio, di nuovo presente a se stesso. Un brillio divertito fece capolino nel suo sguardo, insieme all'ombra di un sorriso.
«Un coroner?» ripeté incredulo, con una mezza smorfia indecifrabile.
L'altro annuì appena, circospetto.
Tony chinò la testa e diede un colpo di tosse, sussultando all'improvviso, tanto che per un attimo Pepper si chiese se non si stesse sentendo male di nuovo, ma poi lui rialzò il volto e gettò la testa all'indietro, scoppiando in una gran risata. Ian si affacciò all'istante dalla porta, già pronto ad applicare una fulminea rianimazione del paziente, ma rimase impietrito nel vedere Tony che rideva di gusto come se avesse sentito la battuta più divertente del mondo.
Mentre Tony cercava inutilmente di frenare l'accesso di risa che gli aveva tolto il fiato, i tre si fissarono un attimo, presi in contropiede, per poi scambiarsi un sorrisetto complice. 
Potevano ancora farcela... no?




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Revisione effettuata il 01/03/2018

 

Nota Delle Autrici:

Avevamo detto che gli ultimi capitoli erano stati un po' "poveri"... beh, speriamo di aver rimediato con questo! (Provvediamo a fornire bombole d'ossigeno per i lettori che intraprenderanno la lettura di questo capitolo in una volta sola!) xD
Beh, qui esce un po' fuori il caratterino di Kyle, speriamo che il suo "lato oscuro" (biscotti!) non vi abbia trumatizzato. Ma dopo il fucile a canne mozze, siete pronti a tutto, vero, nostri prodi? :D

Allora, pensiamo che adesso sia il momento di fare il punto della situazione! Nel senso: avremmo dovuto chiedervelo subito, ma... come immaginate le innovative protesi di Tony? Noi ci siamo scervellate un bel po' per immaginarcele e, non essendo davvero brave a disegnare, abbiamo ricercato nel web per trovare qualcosa che corrispondesse al nostro immaginario. Manco a dirlo, sono saltate fuori un sacco di opere che comprendevano la biomeccanica (FullMetal Alchemist, tanto per citarne uno di cui io -Light- sono fan sfegatata) ed è venuto fuori che la nostra idea era un po' un miscuglio di tutte: un mix tra il braccio di Anakin (Star Wars)  gli Automail di Edward (FullMetal Alchemist) e le Augmentation di Jensen (Deus Ex: Human Revolution). Insomma, la conclusione è questa:
http://tinypic.com/r/a3y0w/6  questo qui è il braccio di Tony attorno al capitolo "Another Brick In The Wall"; -re: FullMetal Alchemist -
 http://razelim.deviantart.com/art/Sarif-Industries-Wallpaper-252555794?q=boost%3Apopular%20deus%20ex%20arm&qo=8-> questo è il braccio quasi ultimato (solo che nella nostra mente è quasi nero, tipo un grigrio fumo, ecco) -re: Deus Ex: HR-
 http://schall.deviantart.com/art/Impulso-cover-261821247?q=boost%3Apopular%20augmented%20leg&qo=8-> questa è la gamba nella sua forma quasi-finale (immaginate la pianta un po' meno convessa) -re: Impulso (è un fumetto originale di alcuni autori di DeviantArt)-
http://slimak.gwiezdne-wojny.pl/grafika/2005/mar/zd8.jpg -> questa è la protesi nel suo stato attuale; tenete conto che è uno "spaccato" e che non tutti i componenti sono così allo scoperto (le parti in oro sono di Unobtanium, anche se in realtà non è dorato) e tenete conto che, ovviamente, la protesi parte dalla spalla e ne comprende lo snodo. Questa è quella di Anakin, che ha perso "solo" l'avambraccio. -re: Star Wars-

E, visto che siamo in tema DeviantArt, vorremmo ringraziare tantissimo Sherlock_Watson che si era offerta tempo fa di disegnare delle vignette per la nostra storia, e ne pubblichiamo qui una -> http://giulialennon94.deviantart.com/art/Tony-does-not-approve-xD-312601317?q=gallery%3Agiulialennon94%2F36341253&qo=9 questa è la nostra preferita (anche se in realtà è riferita al cap coi Vendicatori xD). Ne pubblicheremo altre nel corso della storia! 

(se i link non funzionano fatelo presente, provvederemo a rimediare!)
 
Dunque, euforia a parte, poemi a parte e tralasciando il fatto che, sì, secondo noi la Stark Tower è stata progettata durante un delirio di Tony, vorremmo ringraziare un po' di bella gente: prima di tutto la carissima e gentilissima Alley, che ha compiuto l'impresa titanica di leggere e recensire ogni singolo capitolo di Phoenix in pochi giorni, rendendoci felici come bimbe a Natale *-* Grazie di cuore; poi, non meno importanti, Rogue92, Sherlock_Watson (nostre fedeli), Micchi (sei tornata!), xhellosweety e DigiGaia (nuove seguaci) <3
Grazie a tutte, vi amiamo tanto u.u

Moon&Light


 




© Marvel

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Capitolo 22
*** Rage against the machine ***



21

Rage against the machine




"Corrupt
You corrupt
And bring corruption to all that you touch
Hold
You'll be hold
And beholden for all that you've done"


[Take A Bow – Muse]




3 Aprile, 6:20, Villa Stark

«Colpevole! Colpevole!»
Il giudice torreggiava su di lui, col martelletto pronto a schiacciarlo.
«Colpevo–...»
«Basta!»
Tony si svegliò di soprassalto, mandando all'aria i fogli... e la scrivania, che crollò a terra con un fracasso assordante.
"Oh, merda."
Tony alzò le mani cercando di valutare i danni che aveva appena commesso, attento a non sfiorare nessun altro oggetto con la protesi e ribadendo un'imprecazione a voce alta. Il pavimento era ora invaso di scartoffie, componenti meccaniche e cocci di una tazza rotta e fortunatamente vuota. Pepper entrò di corsa nel laboratorio, già pronta a sguainare la sua cartellina a mo' di ascia di guerra per fronteggiare un potenziale pericolo.
«Cos'è successo?!»
La donna spostò lo sguardo da lui alla scrivania con fare preoccupato, chiedendosi quale calamità avesse appena colpito il laboratorio.
«Niente... davano repliche nella mia testa e ho dovuto spegnere.»
Pepper lo fissò basita, riprendendo improvvisamente in considerazione l'idea di chiamare uno psicologo, e uno bravo.
«Non è importante,» minimizzò Tony. «Ora sono sveglio e pronto a riprendere il lavoro.»
Incrociò le braccia fissando i fogli sparsi ovunque e assunse un'espressione concentrata.
«Il lavoro?» domandò Pepper, forse aspettandosi una risposta soddisfacente che probabilmente non avrebbe saputo darle.
Lui non rispose, ma assottigliò lo sguardo:
«Aspetto che si faccia da solo.» Corrugò le sopracciglia, concentrato. «Guardi! La pagina si è mossa!» indicò falsamente estasiato un cumulo di fogli immobili.
Fu miracolo se i capelli ramati di Pepper non presero fuoco all'istante e che la cartellina stretta nelle sue mani non avesse già messo alla prova la resistenza della testa di Tony.
«Si dia una sistemata,» disse,  accennando alla tuta da lavoro che indossava, che per quanto ne sapeva poteva anche servirgli da pigiama. «Siamo in aula tra un'ora. Immagino se ne fosse dimenticato.»
In realtà ne mancavano tre, ma con Tony sapeva che sarebbero comunque arrivati sul filo dei minuti. Tony le fece un occhiolino per nulla incoraggiante, alzandosi barcollante sulle stampelle e dirigendosi a balzelloni verso l'ascensore, stranamente pimpante per qualcuno che non avrebbe dovuto muoversi dal letto. Pepper cercò di capire quando, esattamente, fosse sgattaiolato via dalla sua stanza per recarsi nel suo habitat naturale e combinare chissà cosa. E soprattutto, quanti antidolorifici avesse preso per non risentire di quello sforzo. Uscì dal laboratorio in subbuglio, alzando gli occhi al cielo e chiedendosi se Tony si sarebbe mai deciso a dormire in luoghi preposti al sonno invece che su qualsiasi piano orizzontale gli capitasse a tiro.
Sospirando, tornò da Kyle che la aspettava nell'atrio.
«Virginia, tesoro. Ti prego, infondimi speranza,» disse questi, massaggiandosi le tempie. «Mi stanno venendo le rughe...» borbottò poi tra sé e sé, esasperato.
Pepper tentò un sorriso, ma l'immagine della scrivania capovolta emerse nella sua mente, congelandolo sulla sua faccia in quella che pareva più una paralisi facciale.
Scosse la testa.
«Così non mi incoraggi.» Anche Kyle scosse la testa. «Vado a cercare Ian. Il "matusa" avrà pur qualche parola di conforto.»
«
Bambini, vi sento...» la voce di Ian si levò dai meandri della casa e apparve il "matusa" in questione, occupato ad abbottonarsi il panciotto e a fingere di essere perfettamente padrone della situazione nonostante la nube temporalesca che insidiava il suo volto.
Kyle gli rivolse un sorrisetto dispettoso, anche lui impegnato a mostrarsi imperturbabile. Pepper nemmeno ci stava provando, e continuava a spostare nervosamente il peso da un tacco all'altro; l'unico desiderio che riusciva a formulare in quel momento era il bisogno fisiologico di una tazza di tè.
«Pepper! Ha visto la mia cravatta? Quella dorata!»
Una
doppia tazza di tè.

***

3 Aprile, 9:10, Tribunale di L.A.

Erano miracolosamente arrivati con quasi un quarto d'ora d'anticipo, pur sempre troppo poco. E adesso erano nella saletta d'attesa, irrequieti e nervosi, mentre Pepper tentava di riassumere la situazione alla ricerca di un piano d'azione che non li facesse colare a picco nel giro di dieci minuti:
«Kyle, cerca di rimanere calmo: non assecondare Knight, ma cerca anche di non farti mettere i piedi in testa.»
«Pepper.»
«Ian, ti prego... sii convincente; e cerca di avere i documenti...»
«Pepper.»
«... in regola stavolta. Non possiamo permetterci passi falsi e...»
Tony le tirò la manica:
«Pepper.»
La donna sospirò e si costrinse a ricordare che picchiare gli invalidi non era un'azione socialmente accettabile.
«Tony, lei invece deve. Stare.
Zitto
«Sì, lo so, ed è un peccato. Ma mi fa male la gamba destra, il piede per l'esattezza, il che non è possibile. Vero, Doc?» chiese infine preoccupato, ondeggiando a disagio sulla sedia a rotelle.
Ian osservò corrucciato la sua gamba meccanica. Tony si era ostinato a voler agganciare la protesi – ecco svelato il mistero delle sue peregrinazioni notturne in laboratorio – nonostante fosse incompleta e assolutamente non in grado di muoversi; ne aveva fatto una questione estetica ed era stato irremovibile al riguardo. La febbre stava decisamente esacerbando la sua indole cocciuta, peggiorata anche dalla quantità esagerata di medicinali che aveva dovuto ingollare quella mattina per riuscire a mantenersi vigile.
Il medico si aggiustò nervosamente il colletto, assumendo un tono pacato:
«Sindrome dell'arto fantasma. Mi stupisce che non l'abbia avuta prima e mi stupisce che le stia venendo
adesso, di tutti i momenti,» sciorinò, accigliato. «Lo ignori. Non è reale.»
«Il mio cervello la pensa diversamente. Pepper?»
«
Cosa c'è?!» esplose infine lei, attirando l'attenzione della guardia di sicurezza, già abbastanza incuriosita dallo strano gruppetto.
«Virginia, le rughe, ricordati,» mormorò serafico Kyle, non iniziando a correre in giro preso dal panico solo perché ne era impossibilitato.
«A pensarci bene, ne possiamo parlare dopo,» dissimulò Tony, decisamente terrorizzato dagli occhi furiosi della donna.
«Meglio. Ok, sono calma. Entriamo,» si rasserenò di colpo lei, distendendo il volto.
«Giusto, entriamo pure!
» sbottò ironico Tony, rianimandosi. «Mi sto già sentendo male qui, là dentro andrà sicuramente a mera– ... aspetta, K. Vuoi entrare così?» Tony si rivolse improvvisamente a Kyle, scrutandolo da capo a piedi.
«Ho qualcosa in faccia?» il ragazzo si accigliò, tastandosi le guance ben rasate.
Ian e Pepper erano momentaneamente ammutoliti chiedendosi che cosa diavolo ci fosse, ancora.
«La cravatta,» puntualizzò Tony.
«Che problema ha, la cravatta?»
«È...
rosa
«Bene, almeno non sei ancora daltonico. Preferisce un lillà, signor Stark?»
«In realtà pensavo a qualcosa di più classico...»
«Tony! Non possiamo discutere di colori e moda a dieci minuti dal processo!» sbottò Pepper, riuscendo non seppe bene come a non urlargli in faccia solo perché era consapevole che Tony, probabilmente, era a un passo da un delirio febbricitante. «Piuttosto pensi alla
sua, di cravatta...»
«Cos'ha contro la mia cravatta?» protestò lui, piantando una mano sulla stoffa dorata, in contrasto con la camicia bordeaux. «Simboleggia Iron Man!»
«... e soprattutto alle sue
protesi, che sono molto più vistose!»
«Ma non sono rosa!» ribattè lui, agitandosi.
«Dovrebbero, sa?» intervenne Ian.
«Ma non rosa
shocking!»
Ci fu un momento di silenzio in cui si guardarono l'un l'altro; lo sguardo di Tony era ancora fisso su Kyle, vagamente turbato e preso da chissà quali elucubrazioni sconclusionate e frutto della sua mente sottoposta a una temperatura troppo alta.
«Va bene, la tolgo!» esclamò infine l'avvocato.
Si slacciò la cravatta e la cacciò nella tasca della giacca, allentandosi poi la camicia. Aveva assunto un'espressione omicida.
«Bene. Knight è mio, andiamo.»


***


Justin Hammer era la persona più detestabile di questo mondo, e su quello non c'era alcun dubbio. Julien Knight, oltre che detestabile, era anche irritante; e anche su quello non c'erano dubbi. Come non ve n'erano sul fatto che Hammer era stato evidentemente ben pagato per dimostrare al mondo tutto che le sue protesi erano una "minaccia incontrollabile".
"Ma se tutto ciò è così evidente... che cosa diavolo ci faccio io seduto qui?" sospirò Tony, fissando con aria estremamente annoiata l'aula di tribunale con il suo miglior sguardo da morto di sonno.
«Signor Stark, potrebbe almeno
fingere di prestare attenzione a quel che succede? Si parla di lei, dopotutto,» sbottò Knight, che doveva appena avergli posto una domanda che non aveva colto.
«Oh, beh... in realtà mi stavo giusto domandando l'utilità della mia presenza,
» disse svagato, non degnandolo di un'occhiata. «Cosa stavamo dicendo?»
Hammer – l'essere più detestabile di questo mondo, sottolineò tra sé Tony – lo guardò con il suo solito falso sorrisetto colmo d'ironia e sicuro di sé, prima di aprire bocca e parlare in quel suo tono odioso:
«Non sei cambiato molto, Anthony.
» Il suddetto lo guardò in cagnesco nell'udire il proprio nome di battesimo. «Anche a lezione non stavi mai attento,» concluse la frase riprendendo il suo sorrisetto, come se fosse l'unica espressione che era in grado di assumere.
Kyle e il Senatore si guardarono per un istante e per una volta si trovarono d'accordo: due ragazzini da gestire erano decisamente troppi. E Knight si godeva lo spettacolo.
«Hai perfettamente ragione, Justin!
» esordì Tony con un sorriso che preannunciava l'enormità della...
"... stronzata in arrivo," pensò Ian, guardando di sottecchi Pepper che sembrava essere sul punto di un crollo nervoso.
Di nuovo, povera donna. Scosse la testa e riprese a seguire il processo con fare rassegnato.
«Prestando un quarto della tua attenzione alle lezioni mi sono laureato due anni prima di te e con il massimo dei voti. Perciò si potrebbe dire che il tuo cervello equivale circa a un quarto del...
»
«Signor Stark, non divaghi,
» intervenne il giudice.
«Non è finita! E oltre al cervello, ma su questo non c'è paragone, direi che parlando di dimensioni...
»
«Signor Stark!
» lo richiamarono involontariamente in coro il giudice, Knight e persino Kyle, che era diventato rosso quasi quanto Pepper.
«Molto simpatico,
Anthony, ma stavamo parlando delle tue protesi,» disse Hammer, sottolineando con particolare cattiveria il suo nome completo e le ultime parole.
Tony questa volta non ribatté e lasciò ciondolare il capo con fare annoiato. Hammer si schiarì la gola per poi riprendere a parlare:
«Ho esaminato molto approfonditamente i dati raccolti sulle tue protesi, forniti gentilmente alla corte dal dottor Mitchell, anche se con un po' di ritardo e... ho qualche idea in proposito.
»
Tony lo fissò scettico e prese un respiro, preparandosi ad ascoltare il più grande ammasso di puttanate che avrebbe mai sentito in vita sua.
«Le ho progettate
io, ma illuminami pure con le tue idee.»
Hammer cavò fuori di tasca un breve prospetto, schiarendosi la voce prima di iniziare a declamarlo:
«Il telaio è realizzato in titanio e il rivestimento in fibra di carbonio...
»
«I muscoli sono in fibra di carbonio e il rivestimento in titanio e carbonio,» lo corresse all'istante Tony. «S'informi.
»
«Tutto ciò è irrilevante; è invece interessante notare come la composizione interna presenti una nuova lega, mai registrata,» lo ignorò Hammer. «I progetti riportano del mercurio, in particolare dove dovrebbe essere presente la cartilagine, quindi nei punti di giuntura. Ricordo ai presenti che il mercurio è particolarmente tossico e potenzialmente pericoloso,
» continuò Justin, ignorando Tony.
«Signor Stark, può fornirci una spiegazione al riguardo?
» intervenne Knight.
«Unobtanium,
» lo accontentò lui, lapidario.
«Ho chiesto di fornire alla corte una
spiegazione ripetè Knight, scandendo meglio.
«È troppo lungo, complesso e tecnico da spiegare... con tutto il rispetto per i signori della corte, ma non capireste una parola.
»
«Sono stato convocato in quanto perito tecnico,
» ribattè Hammer, leggermente piccato.
«Appunto.
»
Si udì il secco schiocco del martelletto, che quasi penetrò un timpano a Tony.
«State tediando i signori della corte. Cerchiamo di raggiungere una conclusione al più presto, negativa o positiva che sia. Questo processo si è protratto fin troppo a lungo,
» concluse Stern, al colmo dell'impazienza.
«Comunque questa lega, che lei ha ideato senza informare la comunità scientifica, è pericolosa. Vuole spiegarci perché, signor Hammer?
» riprese Knight.
«L' "unobtanium", così come è impiegato all'interno della protesi, fornisce circa il 35% di energia in più rispetto a un braccio normale. Ciò vuol dire che il signor Stark potrebbe tranquillamente sfondare un muro senza subire alcun danno,
» spiegò serenamente Hammer.
Ian intervenne, con un cenno d'approvazione da parte di Kyle:
«Vorrei far notare la presenza di piaghe in corrispondenza dei punti di giuntura con le protesi: "sfondare un muro" non sarebbe affatto indolore per il mio paziente, e non lo sarà per anni, visti i tempi di guarigione richiesti per ferite simili...
»
Tony riprese a fissare il soffitto, imponendosi di lasciarsi scorrere addosso quell'informazione che il medico gli aveva ovviamente taciuto, ma che lui aveva comunque già captato in modo indiretto. Averne conferma, anche se probabilmente gonfiata per irretire la corte, non lo fece sentire affatto meglio.
"Altri anni di notti insonni? Fantastico."
«... senza contare che il fisico umano non sarebbe in grado di sopportare una pressione del "35% in più",
» continuò Ian, con professionale pacatezza.
Tony lo fissò con evidente perplessità, ma ebbe la decenza di non parlare, anche se era piuttosto seccato dal fatto che continuassero a inventarsi fantasiose teorie sulle sue protesi. Si aspettava da un momento all'altro di sentir parlare di alimentazione a polvere di fata, libri di magia nera e di vedere il giudice col cappello di Merlino che lo accusava di stregoneria. Si strinse le tempie con la mano, pregando che il suo cervello ormai fritto la piantasse di proporgli quegli scenari paradossali.
«Mi aspettavo un'obiezione simile, dottor Mitchell,
» ribattè allegro Hammer. «Stando alle stime che ho potuto realizzare, non avendo avuto la possibilità di analizzare le protesi di persona, teoricamente la sola mano avrebbe una potenza del 10% superiore a una in carne ed ossa. Quindi, con un semplice movimento del polso, che non inciderebbe affatto sui moncherini, il signor Stark potrebbe comunque recare non pochi danni a un essere umano, con la dovuta forza,» concluse con vivace soddisfazione.
«E sappiamo tutti come il signor Stark non sia stato propriamente colmo di autocontrollo nell'ultimo periodo,
» aggiunse Knight, trionfante, frugando con un po' troppa soddisfazione tra le sue cartelle. «Grazie per il suo intervento, signor Hammer. Ci è stato estremamente utile e la inviterò a testimoniare successivamente se necessario,» continuò, con preoccupante allegria.
Justin si accomodò con un piccolo cenno del capo dopo aver rivolto un sorriso viscido a Tony, che fremette non sapendo cosa aspettarsi, ma di sicuro nulla di buono. Cercò lo sguardo di Pepper, presa altrettanto alla sprovvista da quella brusca interruzione, e poi quello di Kyle, che però non lo intercettò e continuò a fissare corrucciato Knight, come se stesse decidendo sul momento un modo per contrattaccare.
Deglutì, sentendosi improvvisamente stretto sul banco dei testimoni. Doveva ammettere di non aver precisamente mantenuto un modello di comportamento corretto durante l'ultimo processo, ma le conoscenze dei presenti riguardo alla sua irritabilità e allo scarso controllo che esercitava sulla sua protesi si fermavano lì... giusto?
La comparsa di alcune fotografie dalla cartella di Knight spazzò brutalmente via quella convinzione.
«Vorrebbe spiegarci queste?
» Knight sventolò una serie di immagini dall'aria compromettente, sorridendo amabilmente.
Tony sgranò l'occhio quando captò di sfuggita quella che sembrava una veduta del proprio salotto impressa sulla filigrana di una foto, sempre che la sua vista menomata non lo stesse tradendo.
«Questi sono solo alcuni degli scatti effettuati a Villa Stark nel periodo successivo al primo processo e li ritengo particolarmente interessanti per la corte.
»
«Obiezione,
» intervenne Kyle, mortalmente serio. «Questa è violazione della privacy e diffamazione.»
«Non le hai ancora viste, Kyle. Come mai così prevenuto?
» lo stuzzicò Knight sottovoce, mentre dava le spalle alla giuria nel richiudere la cartella.
«Respinta,
» dichiarò il giudice.
Kyle strinse le labbra, inghiottendo la risposta pungente.
Tony era come pietrificato sul banco dei testimoni, lo sguardo calamitato dalle foto nel tentativo di capire da dove fossero saltate fuori. Sentì un nodo gelido stringergli le viscere e per un momento il suo stato febbricitante fu spazzato via dal frenetico rincorrersi dei suoi pensieri che si accapigliavano per trovare un senso a quel che stava succedendo. 
E lo trovarono abbastanza velocemente. Non per niente era un genio.
Un genio che, come la maggior parte degli esseri umani di sesso maschile, tendeva a diventare un idiota avventato quando smetteva di pensare col cervello per delegare il compito ad altri organi.
Si costrinse a rilassare la sua espressione, ma nulla poté contro il rossore rovente che gli imporporò le guance esangui fino a pochi istanti prima. Era sicuro che la sua testa fosse sul punto di fondersi tra febbre, vergogna e rabbia verso se stesso, ma cercò di ripescare un briciolo di ottimismo: magari ne sarebbe comunque uscito
quasi indenne, almeno dal punto di vista dell'amor proprio. Incrociò involontariamente lo sguardo di Pepper, preoccupato quanto il suo, e pregò con tutto se stesso che Knight non esplicitasse il modo in cui aveva ottenuto quelle foto. Non sapeva se sarebbe riuscito a sopportare anche quell'umiliazione.
L'accusa mostrò platealmente le foto al giudice e a Tony che impallidì nuovamente, facendo quasi prendere un infarto a Pepper, che non voleva neanche immaginarne il contenuto, se era in grado di turbare perfino lui. Improvvisamente tutti i disastri che Tony aveva combinato in quell'ultimo periodo le scorsero in testa a velocità folle.
Knight porse la prova a Kyle rivolgendogli un sorrisetto di commiserazione misto a scherno, e l'avvocato osservò raggelato la prima fotografia, con Pepper e Ian che si sporsero a loro volta per vedere. Pepper sentì il proprio cuore battere a vuoto: l'immagine mostrava un'ammaccatura nel muro, di almeno venti centimetri di diametro e un paio di profondità, nel punto in cui Tony aveva accidentalmente sferrato una gomitata qualche settimana prima. La successiva era una stampella contorta con l'impugnatura deformata da una stretta troppo forte. Le altre erano sullo stesso tono: piccoli danni, incidenti di percorso che Tony aveva compiuto nel periodo di perfezionamento delle protesi. Il cuore le balzò nel petto nel vedere l'ultima foto, e si costrinse a rimanere impassibile. Ben evidenti su un piano di metallo che identificò come il bancone della cucina, erano impresse a fondo le dita di una mano.
«Signor Stark, ha deciso di rimodernare la cucina, nell'ultimo periodo? Dovrebbe fornirci una spiegazione plausibile in proposito,
» insinuò Knight, mellifluo, guardando nella sua direzione
Allungò un'ultima foto al giudice, che assunse un'espressione perplessa che non lasciava dubbi sul suo contenuto.
«E si astenga dall'uso dell'ironia. Lo dico per lei.
»




______________________________________________________________________________________________________

Revisione effettuata il 01/03/2018

Note delle Autrici:

CE L'ABBIAMO FATTA (?) Oggesussanto. 
Non avete idea di quanto, QUANTO abbiamo dovuto soffrire per partorire questo capitolo. Un travaglio di un mese... dolore... sofferenza... you... will suck... the life... out of meeeheee! *Light si trasforma in Matthew Bellamy*
Ma un momento! Godiamoci il momento e diamo uno "sbratto-party!" (neologismo di Light, che sa di cosa parla *Moon annuisce stancamente* Sì, Light... sì...). Ah, in tutto ciò:
Tony è nella cacca, che novità :3 

Passiamo a cose più amene. L'immagine a fine note *omino indica in basso*
 è una delle cose più belle che abbiamo mai visto ç_ç Siamo commosse e spargiamo lacrime di gioia per julialicious, che con le sue manine sante ha realizzato questa piccola perla <3 E, sì, il capitolo da cui è tratta è "That's My Shirt", ma dettagli, lo mettiamo qui pecchéssì. Questo è il suo DA -> http://julialicious.deviantart.com/
Ringraziamo tanto (Tony non ringrazia perché non ne può più) Rogue92, Alley, blackepearl_, MissysP, julialicious (grazie, grazie, GRAZIE per il disegno <3 <- color cravatta di Kyle), DigiGaia e Sherlock_Watson (abbiamo inserito anche la tua vignetta nel capitolo "Sinking" *-* Thank you SO much (: ).
La gioia delle vostre recensioni e di ricevere fanart relative alla storia è paragonabile alla luna che splende luminosa nel... BOOM! *Hulk le tramortisce ponendo fine alle loro sofferenze*
Grazie mille, alla prossima, sicuramente in tempi più decenti... ci faremo perdonare per il ritardo.
Goobye! 

Moon&Light

P.S: Kyle. Abbiamo detto tutto.


Edit 01/03/2018continua l'opera di contenimento-danni per quel buchetto di trama di cui accennavo! Mi rendo conto che la vergogna e il pudore sono sentimenti abbastanza estranei a Tony, ma ho pensato che in una situazione del genere non sia il massimo vedersi esposto da quel punto di vista, soprattutto con la consapevolezza di aver fatto un'enorme stronzata (e di essere sotto gli occhi non troppo pazienti di Pepper). [-Light-]
 



© julialicious




© Marvel

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Capitolo 23
*** Unsustainable ***





22

.

.

Unsustainable







"Leave me alone, it's nothing serious
I'll do it myself
It's got nothing to do with you
And there's nothing that you could do"

[Cave – The Muse]


3 Aprile, 11:20, Tribunale di L.A.

Kyle picchiettava ritmicamente con una matita sul bancone della difesa, sotto lo sguardo di Knight che se la stava ridendo sotto i baffi. Pepper si passò una mano sul volto, esausta, mentre Ian era rigidamente immobile come una mummia sulla sua sedia.
Hammer si era defilato da almeno mezz'ora, e non avevano fatto altro che parlare del comportamento inadeguato di Tony nel corso del periodo di "degenza" tra i due processi. Le foto a conti fatti non erano poi così scandalose, esclusa quella della cucina devastata. Kyle era infine riuscito a far valere la sua obiezione riguardo alla violazione della privacy, sostenendo inoltre che potevano benissimo essere state ritoccate e contraffatte, visto che Knight non era stato disposto a rivelarne la fonte. 
In tutto ciò il diretto interessato era rimasto muto, con lo sguardo fisso sul banco dei testimoni e un pallore malsano sul volto, seguendo ciò che accadeva attorno a lui con movimenti rapidi dell'occhio, senza mai intromettersi e rispondendo a monosillabi. Aveva tirato un sospiro di sollievo solo quando il discorso si era finalmente allontanato dalle foto.
Knight aveva masticato veleno quando Stern si era mostrato incline ad accettare l'ipotesi della contraffazione, soprattutto considerando la loro provenienza incerta, ma
non sembrava particolarmente turbato da quel fatto. Era evidente che avesse raggiunto il suo scopo primario, ovvero minare ancor di più la credibilità di Tony e gettare fango sulla sua immagine già non immacolata. Era poi tornato alla carica con l'aiuto di Hammer per mettere in luce altri dettagli "potenzialmente pericolosi" riguardanti le protesi.
Naturalmente Tony non ne era stato affatto felice, già sufficientemente irritato dal suo precedente contrasto con Hammer, e aveva fatto sfoggio del suo sarcasmo più pungente; poco ci era mancato che il giudice gli lanciasse il suo tanto odioso martelletto per zittirlo, accettando senza ulteriori esitazioni le accuse di Knight.
Quest'ultimo, dopo la mossa fallita delle foto sulle quali Kyle ancora si lambiccava il cervello, aveva appena riassunto saccentemente alla giuria i punti salienti dello scorso processo, cambiando apparentemente linea d'attacco: ancora una volta addentrarsi nei dettagli tecnici della faccenda non avrebbe fatto altro che metterlo in difficoltà, visto lo scarso aiuto che gli stava fornendo Hammer. Si soffermò naturalmente sui modi e sulle risposte spregiudicate di Stark e sulla sua evidente riluttanza a collaborare e adottare un comportamento civile. La cosa aveva stuzzicato ancora di più Tony, che si mordeva a stento la lingua per non intervenire. O almeno, per non farlo troppo spesso.
Kyle prevedeva dove voleva andare a parare quel subdolo sciacallo della legge – doveva ammettere che apprezzava quel temine coniato da Stark – e ne ebbe la conferma dopo poche altre, estenuanti frasi del suddetto.
«Signor Stark, vuole confermare ancora alla giuria che è mentalmente abile a mantenere il controllo delle Stark Industries?»
L'interpellato fece scorrere pigramente lo sguardo per tutta la sala, come se pensasse che la risposta si trovasse là attorno, ma non avesse davvero voglia di cercarla. Appoggiò il mento sulla mano destra, esponendo in bella vista la protesi e sollevando infine l'occhio su Knight, che aspettava con impazienza repressa che lui parlasse.
«Come, scusi?» disse infine, in tono disincantato e con un sorrisetto sfrontato.
Per un momento sembrò che Knight stesse per scaraventargli contro l'intero banco dell'accusa, ma, Kyle dovette riconoscerlo, mantenne un notevole sangue freddo e ripeté la domanda con assoluta calma e un tono completamente piatto, tanto da suonare innaturale. Probabilmente immagini di morte e distruzione scorrevano nella sua mente, ma fece del suo meglio per contenerle.
Tony deglutì. Il numero di persone ansiose di stringere la mani attorno al suo collo aumentava a vista d'occhio.
«Non mi sembra sia insorto alcun problema riguardo le mie industrie, e non mi sembra nemmeno che interessi questo processo,» svicolò, monocorde.
«Non è stato molto in grado di gestire il suo impero finanziario, ultimamente.»
«Oh, sono molto ben organizzato in proposito: sa, tra un'operazione e l'altra, quando magari sono in stato un po' meno comatoso del solito, mi ritaglio del tempo libero e penso anche ai miei affari. Liquidata questa domanda, cos'altro vuole da me?» espose Tony, tamburellando ostentamente sul bancone con la protesi e causando un irritante, discontinuo ticchettio metallico.
«Quante operazioni, per l'esattezza?»
«Pardon?»
«Signor Knight,» intervenne Kyle, per troncare sul nascere quello che sembrava l'inizio di una discussione tanto inutile quanto infinita. «Il dottor Mitchell le ha fornito tutta la documentazione necessaria.»
«Stavolta,» precisò Knight, pignolo.
Ian emise un sospiro, mettendosi a braccia conserte nel chiaro sforzo di non intervenire. Pepper lo rassicurò posandogli una mano sulla spalla: la situazione era già abbastanza disastrata e non c'era alcun bisogno di peggiorarla ulteriormente.
«La invito comunque ad esporre alla giuria l'esatta natura delle sue protesi e lo svolgimento delle operazioni; abbiamo bisogno di tutte le informazioni possibili per emettere un verdetto...» lasciò la frase in sospeso, come se stesse per aggiungere di che tipo di verdetto si trattasse, poi continuò, in tono altrettanto viscido: «... inoltre abbiamo qui anche il giudizio del dottor Raven, che ha visitato il signor Stark due giorni fa e ...»
«Obiezione,» lo interruppe in tono rigido Kyle, lanciandogli un'occhiata penetrante da dietro gli occhiali.
Knight si interruppe seccato, poi assunse un'espressione falsamente cordiale e fece un cenno per invitarlo a parlare:
«Prego.»
L'altro represse una smorfia infastidita dal tono saccente dell'avversario e mantenne un contegno impeccabile.
«Vorrei far notare alla giuria il fatto che il mio cliente, quando la visita è stata effettuata, era pressoché moribondo.»
«E con ciò?» proferì Knight, incrociando le braccia con fare impaziente, rimediandosi così un'occhiata astiosa da parte del diretto interessato.
«Gli sono stati concessi solo due giorni supplementari per ristabilirsi e francamente ritengo un miracolo il fatto che il signor Stark non sia ancora collassato a causa del...»
«Sta criticando la scelta del dottor Raven, approvata dalla giuria stessa?» lo stuzzicò pericolosamente Knight.
«Sì,» intervenne Tony, prevedendo la difficoltà della risposta per Kyle e sollevando all'istante un mormorio di voci nell'aula. «Verifichi anche questo sulle cartelle mediche del dottor Mitchell. Credo seriamente di sfiorare i quaranta di febbre in questo momento e un morto in tribunale è proprio ciò che ci serve adesso,» aggiunse, e il velo lucido sul suo occhio sembrava corroborare quell'affermazione.
Kyle si sforzò di rimanere calmo, non potendo negare che la risposta di Tony fosse quello che effettivamente pensava anche lui... ma non doveva dirlo così. Doveva controllarsi o a lui sarebbero uscite le saette dagli occhi e un cliente – nonché unico testimone – in cenere non sarebbe stato molto d'aiuto. 
Il sorrisino sadico che si delineò sul volto di Knight non feceva sperare nulla di buono, mentre spostava lo sguardo da Kyle a Tony e infine a Pepper e Ian. Era pronto ad annientarli.
«Signor Stark, con quale facoltà lei afferma l'incompetenza del Dottor Raven e perché...» continuò a blaterare incontrastato Knight, mentre Tony sembrava sul punto di svenire e faticava a mantenere l'attenzione, distratto anche dalle fitte ai moncherini, risvegliatesi con lo scemare degli antidolorifici.
A sua volta, Stern non era esattamente attento a ciò che avveniva nella sua aula. Pepper scambiò un'occhiata eloquente con Kyle: “fermalo”, interpretò lui, a colpo sicuro. Effettivamente, se non avesse tappato la bocca a Stark – che, per l'amor del cielo, aveva appena spedito a quel paese Knight – il processo sarebbe finito nel giro di pochi minuti. La fissò di rimando, annuendo appena in segno affermativo. Ora doveva solo trovare un miracolo a poco prezzo per tirarli fuori da quel guaio. Fece per obiettare, sperando che le parole da pronunciare si presentassero nella sua testa al più presto, ma rimase congelato a metà del gesto:
«Vostro Onore, mi offro come testimone.»
Kyle non osò muovere un muscolo, e tutti i presenti si girarono come un sol uomo verso Pepper, che si era alzata in piedi e fissava determinata la giuria.
“Ma che cazzo,” pensò Kyle, esasperato.
«Ma che cazzo?!» esplose Tony.

***

«Se Knight fa una sola osservazione fuori luogo su me e Pepper durante la testimonanianza io...» cominciò a sbraitare Tony non appena furono usciti dall'aula.
Era stata indetta una pausa di pochi minuti dopo le prime due ore di processo, che si erano concluse, naturalmente, in un disastro completo dopo che la donna si era offerta di testimoniare.
«La prego, così non aiuta nessuno, tanto meno me,» mormorò Pepper, stremata.
Tony la ignorò.
«Sono disposto a denudarmi in pubblico per mostrare che le protesi sono innocue! Non c'è bisogno che lei testimoni!»
«Capisco il tuo nervosismo e i tuoi istinti violenti, ma ci sfogheremo in separata sede, da soli e in altro modo e... ricevo solo su appuntamento, se non ti dispiace,» si espresse Kyle con la massima tranquillità, in un debole tentativo di sdrammatizzare e tranquillizzare Tony.
Ian si coprì la bocca con una mano, emettendo una specie di grugnito strozzato; Tony neanche se ne accorse e rimase interdetto per qualche secondo, poi assunse un'espressione neutra un po' forzata:
«Mi hai terrorizzato. E mi sento già più calmo così, grazie mille.» 
Fece un respiro profondo e un po' rantolante che culminò in un accesso di tosse secca: era decisamente arrivato al suo limite fisico.
«Piuttosto, Stark, da dove diavolo saltavano fuori quelle foto?» sbottò Kyle, ancora evidentemente seccato per l'inconveniente.
A quella domanda Tony raggiunse un nuovo livello di pallore.
«Non saprei,» rispose, muovendo appena le labbra secche.
Sperò che la febbre fosse una scusa sufficiente per la sua scarsa loquacità.
«Beh, è un problema. Ho fatto dichiarare le prove contraffatte, ma sappiamo che non lo sono, visto che quei danni esistono. E hanno comunque contribuito a influenzare la giuria in negativo.»
«Già. Dovrò indagare meglio,» rispose seccamente lui.
Percepiva lo sguardo di Pepper che lo fissava con insistenza, e ciò aumentò la sensazione di bruciore sulla sua pelle. Doveva essere così, andare in autocombustione.
«Tony?» scandì lei, e dal suo tono era lampante che avesse intuito come lui non fosse totalmente ignaro riguardo alla faccenda.
Si ritrovò trafitto da tre paia d'occhi inquisitori, mentre lui si limitava a starsene sulla sua sedia a rotelle con una mano spalmata sul volto e la testa reclinata all'indietro, come se tutto ciò che accadeva attorno a lui gli fosse completamente estraneo e indifferente. Si raddrizzò un poco e si schiarì la gola.
«Ho detto che indagherò. Cos'altro devo...»
«Lei mi sembra stranamente poco preoccupato, considerando che è sempre stato un maniaco della sicurezza per quanto riguarda Villa Stark e che normalmente dà di matto persino quando qualcuno passa a farle visita senza preavviso. Quindi mi chiedo come lei possa rimanere così calmo nel sapere che qualcuno è entrato in casa sua, aggirando i suoi sistemi di sicurezza, per spiarla,» enunciò in tono pacato Pepper.
«Il fatto che io non sia preoccupato al riguardo dovrebbe sollevare anche voi da qualsiasi preoccupazione,» rispose lui a tono, lasciando cadere la farsa.
«Oddio, Stark, che diavolo hai combinato?» sospirò Kyle, affranto.
«Io, niente!» sbottò lui, con la testa che gli pulsava e ribolliva come un vulcano sul punto di eruttare.
Non era decisamente in grado di reggere quell'interrogatorio ancora per molto e loro non sembravano avere intenzione di demordere.
«Stark, sapere come quelle foto sono state ottenute potrebbe aiutarci a...»
«Non ci aiuterà, credetemi,» rispose lui, precipitosamente.
Imprecò tra sé per aver ceduto e maledì il proprio stato alterato per non riuscire a districarsi da quella situazione con la consueta sfacciataggine. Si costrinse a inspirare profondamente, notando che la poca pazienza rimasta al suo "team di supporto" stava per esaurirsi, e che non era sicuro di quanto ancora potessero sopportare, prima di abbandonarlo al suo vortice distruttivo per se stesso e gli altri.
«Le ha scattate Christine Everhart,» esalò infine. «È una giornalista.» aggiunse, a beneficio Kyle e Ian.
«Quella Everhart?» chiese conferma Pepper, basita.
«Sì, quella,» rispose secco Tony.
Lo sguardo di Pepper si fece ancor più bruciante e Ian e Kyle parvero farsi da parte per sottrarsi a una discussione che si prospettava decisamente poco piacevole.
«E cosa ci faceva la Everhart a casa sua? E soprattutto, quando?»
«Mentre lei era a Seattle ho acconsentito a un'intervista.»
«Di sua volontà?»
«Folle, eh?» ribatté lui in modo irritante.
«Direi geniale, vista la situazione. Non la si può lasciar solo un momento.»
«Concordo, ma ormai è fatta, quindi...»
Tony stava giusto per tirare un sospiro di sollievo per aver evitato la questione in scioltezza quando le successive, perplesse parole di Ian infransero quella convinzione:
«E ha lasciato che la Everhart scattasse foto a destra e a manca mentre la intervistava?»
Scoccò un'occhiata velenosa al medico intimandogli il silenzio, ma era troppo tardi, perché adesso Pepper aveva di nuovo appuntato i suoi occhi acuti su di lui, stavolta illuminati da un barlume di comprensione.
«Tony, la prego, non mi dica che lei ha veramente...»
«Diciamo che non è stata solo un'intervista,» capitolò lui, interrompendola ed evitandole il fastidio di esprimere ciò che pensava.
Il volto di Pepper non mostrò nessuna evidente reazione, se non un freddo sconcerto.
«Stark...» fu l'unico commento avvilito di Kyle; si udì il sospiro di Ian fargli eco.
«Signor Stark...» cominciò Pepper, stranamente pacata, ma Tony non la fece neanche cominciare:
«Lo so cosa sta per dirmi e non ho intenzione di ascoltarla. Ho avuto un singolo istante di debolezza, e credo sia comprensibile, dopo tre mesi di totale...»
«Signor Stark, in tutta franchezza, non mi sono mai minimamente interessata alla sua vita sessuale, se non quando mi incaricava di "smaltire la spazzatura",» lo freddò Pepper, e lui si ritrasse a quelle parole.
Vi fu qualche secondo di silenzio imbarazzante nei quali tentò di elaborare una qualsiasi risposta sagace, senza successo.
«Il mio solo rimprovero è: di tutte le decine di donne che si era già portato a letto, doveva proprio scegliere l'unica che avesse un serio interesse a danneggiarla?» gli occhi cerulei di Pepper mandavano lampi nella sua direzione.
Tony ammutolì di fronte a tanta schiettezza, che lo trapassò come una pugnalata nell'accorgersi di come Pepper sembrasse totalmente indifferente al fatto in sé e piuttosto preoccupata per le sue conseguenze. Come effettivamente ci si doveva aspettare dalla sua assistente. Si limitò a chinare il capo, incassando il colpo e allo stesso tempo negando quanto si sentisse intrinsecamente ferito da quello sfoggio di distacco.
E poteva prendersela solo con se stesso, anche stavolta.
«Pep, io...»
«Ormai è fatta, l'ha detto lei,» lo troncò la donna, e quelle parole suonarono definitive alle sue orecchie, più del martelletto di un giudice.
«Speriamo solo che quelle siano le uniche foto e che non ne saltino fuori altre,» s'intromise Kyle, nel tentativo di riportare il diverbio nel contesto dei loro problemi più urgenti.
«Spero di no,» si lasciò sfuggire Tony.
«Spera? Quante diavolo ne ha scattate sotto al suo naso?» stavolta fu Ian a guardarlo storto.
Una scintilla di rabbia rianimò Tony:
«Ehi, non ero esattamente nelle condizioni di poterla tenere d'occhio mentre faceva il tour di casa mia. E avevo disattivato JARVIS, come sempre per... in quei casi. Per avere un po' di privacy,» aggiunse nervoso, intuendo la successiva domanda di Pepper, che fece solo un secco, irritato movimento con la testa.
«Era evidentemente nelle condizioni per causare altri problemi. Spero almeno che ne sia valsa la pena,» commentò acidamente lei, senza riuscire a trattenersi.
«Lasciamo perdere...» bofonchiò di rimando Tony, appena udibile e stropicciandosi l'occhio gonfio.
«Vogliamo stendere un velo pietoso, per favore?» intervenne a quel punto Kyle, e Tony gli rivolse un'occhiata grata: aveva notato lo sguardo perplesso di Pepper che doveva aver captato o intuito le sue ultime parole.
«Sia come sia, ormai è andata e dobbiamo cavarcela con ciò che abbiamo,» proseguì l'avvocato in tono ragionevole. «Virginia, mi è impossibile prepararti all'interrogatorio di Knight. Mi affido al tuo buonsenso, ma evita altri colpi di testa,» concluse, esprimendo finalmente la sua contrarietà per la piega che aveva preso il processo.
Pepper assunse un'aria contrita, forse rendendosi conto solo in quel momento di ciò che si apprestava a fare.
«Giusto, quasi dimenticavo...» riprese Tony, che era riuscito in qualche modo a riprendere una parvenza di contegno. «Lei. Da dove prende tutta la santità per immolarsi al posto mio sul patibolo?» ironizzò, rimanendo però mortalmente serio in volto; una ruga profonda solcava la sua fronte aggrottata.
Pepper si prese la radice del naso tra le dita, dandosi del tempo per rispondere, per poi fare spallucce:
«Rientriamo in aula.»
Ian si arrischiò a parlare:
«Dovremmo almeno decidere cosa...» ma fu sovrastato dalla voce di Tony, che si rivolse alterato a Pepper:
«Rientrare in aula! È tutto quello che ha da dire?»
Pepper evitò di guardarlo negli occhi e fece per seguire Ian e Kyle che si stavano defilando il più in fretta possibile per scampare all'imminente tempesta, ma Tony la afferrò appena in tempo per un lembo del tailleur, costringendola a fronteggiarlo.
«Dobbiamo parlare.»

***


«Signorina Potts, vorrebbe ripetere alla corte riguardo a cosa, esattamente, vorrebbe testimoniare?»
Pepper sembrò realizzare solo in quell'istante in che razza di situazione fosse andata a cacciarsi. Cercò gli occhi di Tony e lui non seppe se interpretarlo come una ricerca di rassicurazioni o come una minaccia.
L'ultima ipotesi era più plausibile.
«Intendo dimostrare tramite la mia testimonianza diretta che le protesi del signor Stark sono innocue.»
Tony battè la palpebra: soltanto a lui sembrava che si stesse sforzando enormemente per pronunciare quelle parole?
Knight si concesse un sorrisetto di condiscendenza.
«Quale ardire, signorina Potts. I referti del dottor Raven e le analisi del signor Hammer lasciano intendere il contrario.»
Knight afferrò un voluminoso fascicolo di documenti – lo stesso che era stato aperto e richiuso una buona ventina di volte nel corso della prima parte del processo – e iniziò a sfogliarli a colpo sicuro mentre Pepper riprendeva, approfittando di quella pausa:
«Innocue perché, naturalmente, il loro proprietario non è nelle condizioni né ha le intenzioni di nuocere a nessuno.» 
"Giusto?" sembrò domandarsi la sua testa. 
Rivolse automaticamente un'occhiata a Tony, che celava a malapena la sua insicurezza, agitandosi al banco della difesa.
«Ne abbiamo già discusso ampiamente poco prima con il signor Hammer, signorina Potts,» tagliò corto Knight, «e il punto rimane lo stesso: la volontà o meno del signor Stark di usarle a scopo offensivo non annulla la loro pericolosità. Non ha seguito il processo?» aggiunse, provocatorio.
Pepper non fu affatto turbata dalle parole pungenti di Knight, che sembrava voler riversare su di lei tutta la frustrazione per non essere riuscito a chiudere quella causa fin dal principio. Mantenne un contegno e una sicurezza invidiabili, sostenendo il suo sguardo. D'altronde, nel corso della sua carriera lavorativa si era fin troppo abituata a discutere e avere la meglio su uomini d'affari ben più importuni, testardi e irritanti di Knight. E questi, a conti fatti, non possedeva la centesima parte dell'arroganza e della sfacciataggine che caratterizzavano Tony nei suoi giorni migliori; per non parlare di quando era di cattivo umore e riuscire a cogliere una sua frase che non grondasse sarcasmo diventava un'impresa. No, non era affatto intimorita da Knight.
Evitò comunque di soffermarsi su cosa fossero stati per lei quegli ultimi mesi, e anche di collegarli al fatto che tutti gli sforzi compiuti in quel periodo potevano riversarsi in ogni sua mossa. Distruggendoli o compensandoli, questo non era ancora in grado di dirlo, ma doveva stare attenta ad ogni singola parola che avrebbe lasciato le sue labbra. Non poteva rendersi nuovamente responsabile di un disastro.
«Sì,» rispose infine, con voce sottile ma ferma, per entrambe le domande di Knight.
«Come scusi? Non la sento,» la incalzò lui, portandosi con fare derisorio due dita all'orecchio, col chiaro intento di innervosirla.
A quel punto Tony, che aveva continuato a muoversi inquieto sulla sedia come se fosse diventata improvvisamente troppo stretta per lui, non riuscì più a contenersi e impedì a Kyle, che aveva appena aperto bocca per obiettare a tutela di Pepper, di intervenire:
«Faccia poco lo stronzo, Knight. Tenga per sé i suoi commenti e si limiti a controinterrogare la signorina Potts,» sbottò, battendo d'istinto la protesi sul bancone con il palmo aperto; una sottile scalfittura intaccò la superficie lucida, attirando subito lo sguardo di Knight.
Kyle non ebbe nemmeno la forza di arrabbiarsi o tirare una gomitata a Tony: si limitò a posarsi una mano sul volto e a sfregarsi lentamente gli occhi, come sperando che un'illuminazione lo colpisse sul momento. O un fulmine, magari: sarebbe stato altrettanto gradito. Pepper era impietrita al banco dei testimoni.
«Signor Stark, la richiamo all'ordine! Siamo in un tribunale!» sbottò Stern dopo un silenzio attonito, sbattendo il martelletto con quasi altrettanta forza.
Quanto a Knight, il suo viso era ora teso in una maschera ostile. Si avvicinò flemmatico al banco della difesa e tracciò con un dito il graffio che solcava il legno, per ora invisibile alla giuria. I suoi occhi chiarissimi incontrarono brevemente l'iride scura di Tony, in un misto di sufficienza e trionfo. Lui sostenne lo sguardo, ma colse chiaramente il messaggio che gli stava inviando, pungente: mancava poco. E, più subdolo, celato nel sorrisetto minaccioso che si era allargato sul suo volto, un avvertimento che Tony non riuscì pienamente a cogliere.
In quella frazione di secondo, un blocco d'ansia ostruì la gola di Tony, mentre una terribile consapevolezza si faceva strada in lui: Knight aveva cambiato obiettivo, o meglio, il modo per raggiungerlo. Non aveva più bisogno di attaccarlo direttamente quando poteva stuzzicarlo e portarlo al punto di rottura semplicemente facendo pressione sul suo punto debole, ora più che mai: Pepper.
Pepper, che poco prima aveva sopportato il suo sfogo e le sue parole aspre e irragionevolmente irritate con una calma rassegnata che l'aveva turbato nel profondo, più che se avesse reagito con la sua solita fermezza e l'avesse affrontato ribattendo metodicamente ad ogni sua affermazione. Si era limitata ad ascoltarlo in modo passivo, poi all'improvviso l'aveva fermato con un semplice gesto della mano, chiudendo gli occhi velati di un'estrema stanchezza. E lui, semplicemente, aveva smesso di parlare, attonito, perché mai aveva sentito la sua voce così esausta.
"So quello che faccio. Lei non ha
niente di cui preoccuparsi," gli aveva detto, concludendo con un debole, finto sorriso.
Non aveva saputo come ribattere, perché aveva percepito una punta d'accusa in quelle parole che sentiva di meritare. In quel momento aveva capito che qualcosa si era rotto già da tempo, nel giorno in cui le aveva posto una domanda della quale dava per scontata la risposta, ma che lei non era stata capace dare subito, insinuando in lui il tarlo del dubbio. Era da allora che quel dolore sordo e pulsante lo accompagnava, il dolore di una ferita che stenta a rimarginarsi e che piano piano si impara ad ignorare, o si cerca di riempire con altro, abbandonandosi a distrazioni inutili e superficiali. Solo allora aveva percepito di nuovo la sua presenza, risvegliata dagli occhi limpidi e stanchi di Pepper, e adesso non riusciva a scrollarsi quel dolore di dosso mentre la ferita riprendeva a sanguinare, approfondita da tutti gli errori con cui aveva creduto di sanarla.
Tony alzò lentamente lo sguardo verso la donna, convinto di non aver mai visto i suoi occhi così spenti, né di averla vista così fragile ma allo stesso tempo così concentrata; si scoprì a pensare fuggevolmente a quanto fosse bella, nonostante la situazione. Un sentimento indefinito si agitò in lui, ma fu prontamente soffocato dall'ansia.
La consapevolezza che stesse mentendo per lui, rispondendo a quella stessa domanda che le aveva posto, e che non fosse riuscita a guardarlo nel rispondervi di nuovo lo distruggeva. Abbassò lo sguardo, momentaneamente smarrito, e sperò che Knight non avesse intenzione di porgli altre domande. Non sarebbe più intervenuto: Pepper aveva bisogno della massima concentrazione per mentire e risultare convincente nel dire alla giuria che lui non era pericoloso. Una stoccata al petto lo lasciò quasi senza fiato e dovette stringere l'occhio e abbassare il capo per non lasciarsi davvero sfuggire un lamento.
Kyle lo guardò preoccupato, convinto che si stesse sentendo male, poi Tony riprese quella che riteneva essere un'espressione serena, ma che conservava ancora un residuo di tensione ben visibile.
«Diceva, signorina Potts?» riprese Knight, scoccando un'ultima occhiata velenosa a Kyle, che fumava di rabbia, prima di voltarsi di nuovo verso la giuria e la sua testimone.
Pepper osservò per un momento il punto in cui Tony aveva sbattuto la protesi, con un chiaro tentennamento.
«Dicevo... che è innocuo. Posso garantire che il lavoro del signor Stark e quindi delle Stark Industries è più che sicuro per la nazione. Il dottor Mitchell può confermare che le protesi a cui sta lavorando il signor Stark, testandole direttamente su se stesso assumendosi tutti i rischi del caso, sono un grande passo per la biomeccanica e la medicina mondiale.»
«Un intento molto nobile,» riconobbe Knight con apparente sincerità, sorprendendo Pepper e Tony.
Kyle non era affatto convinto dalla sua "ammirazione".
«Ma discutibile. Mi sembra di capire che queste protesi siano palesemente pericolose e che le Stark Industries avrebbero già ipotizzato di metterle sul mercato. Senza aggiungere che le forze belliche non ne sono attualmente al corrente né sono tanto meno in possesso dell'arma Iron Man.»
«Obiezione. Il signor Stark non ha mai parlato di mettere in commercio la tecnologia delle sue protesi e ciò non ha nulla a che fare con l'esercito.»
«La famiglia Stark ha passato l'intera vita ad arricchirsi vendendo armi; va da sé che il signor Stark abbia preso in considerazione l'ipotesi.»
«Il signor Stark ha interrotto da tempo la manifattura di armi. Le Stark Industries sono ora concentrate sul settore dell'energia pulita, come dimostrano i registri,» dichiarò Pepper con sicurezza.
«Dubito che le protesi facciano parte di progetti ambientalisti, considerando la loro potenziale pericolosità. E ciò non esclude che le Stark Industries stiano contrabbandando armi sottobanco come faceva ai tempi il defunto signor Stane.»
«Le protesi
non sono armi,» ribatté lei, leggermente alterata per quelle continue accuse infondate. «E le ho già detto che la sezione armamenti...» fu però sovrastata dalla voce di Tony, venuto meno all'autoimposto obbligo di non intervenire non appena aveva captato il nome dell'ex-collega:
«Queste sono pure illazioni! Non ero a conoscenza dei traffici di Stane, e ho un paio di arti in meno a dimostrarlo! Ho smesso di produrre armi più di un anno fa, in modo
definitivo,» concluse, con un leggero affanno dettato dalla stanchezza, dalla febbre e dall'angoscia che diventava sempre più difficile da controllare.
«Ha smesso di produrre armi
per l'esercito,» precisò a sua volta Knight. «E da quel momento ha deciso di tenere per sé le sue scoperte, belliche o meno. Per esempio questo "unobtanium".»
«Quando avrò il tempo e la voglia di impelagarmi nelle eterne procedure per brevettarlo, sarò lieto di condividere le mie scoperte coi buffoni della comunità scientifica,» ribatté tranquillamente lui.
«Il signor Stark ha pieno potere decisionale sull'amministrazione delle proprie industrie e delle proprie invenzioni, essendone rispettivamente il titolare e l'ideatore materiale,» aggiunse Kyle, tentando di smorzare l'arroganza del suo cliente.
«Giusto. E in quanto tale solo
lui è autorizzato ad avallare e firmare documenti e disposizioni relative alle sue industrie,» confermò Knight, con un po' troppa allegria.
Pepper ebbe un presentimento per nulla piacevole. Si irrigidì sul banco dei testimoni, cercando di intercettare lo sguardo del suo capo.
«Alcuni dei suddetti documenti sono invece stati firmati dalla qui presente assistente, la signorina Potts, che ha inoltre sostituito il signor Stark in tutte le riunioni tenutesi ultimamente.»
«E dov'è il problema?» sbottò Tony, un po' troppo sfrontatamente. «È la mia amministratrice delegata.»
Un attonito silenzio calò nell'aula, mentre Pepper stringeva i pugni guardando davanti a sé senza realmente vedere. Tony sembrava essere sceso dal palco lasciandole tutta la scena. Lei contrasse appena le sopracciglia al pensiero che l'avesse lasciata sola sotto i riflettori sempre riservati a lui solo perché aveva
deciso di farlo. Da quando era diventata amministratore delegato? Riconsiderò l'idea di picchiare gli invalidi.
«Infatti. Non vedo dove sia il problema,» cercò comunque di riprendersi, con evidente fatica, sentendo il peso di ogni singolo sguardo puntato su di lei dopo quella notizia scioccante.
Knight dopo il primo momento di sorpresa si rilassò, come a concludere che quell'affondo fallito non fosse poi un problema così grande, per lui che già aveva quasi la vittoria in pugno.
Si rivolse mellifluo a Tony:
«Ciò non risulta nei registri delle Stark Industries... che svista disdicevole.»
«Gli errori burocratici capitano,» ribatté Tony, con fermezza del tutto fasulla.
«Eppure il suo avvocato di solito è
così preciso.»
Kyle gli rifilò un sorrisetto dolce che nascondeva una vena di panico. Intrecciò le mani sul banco e lo fissò intensamente:
«Ha ragione, signor Knight. Me ne assumo la responsabilità... sono così distratto,» disse in tono piatto, rivolgendo un'occhiata disinvolta di scuse al giudice.
«Sì, sì... al solito,» borbottò questi. «Cartelle mediche imprecise, scarsa documentazione, esibizionismo da manuale e interventi inopportuni. Sappiamo com'è fatta la difesa del signor Stark.»
«Oh, ma fortunatamente c'è il signor Knight che
prende tutto con estrema serietà. Ora, appurato il fatto che la signorina Potts è amministratore delegato... come influisce ciò sulle sue conclusioni, signor Knight?» continuò mellifluo Kyle, non risparmiandosi una frecciatina al procuratore, che illividì di rabbia.
«Semplicemente, anche lei è responsabile delle azioni delle Stark Industries e quindi dell'occultamento di armi al governo. Vostro Onore, abbiamo perso da qualche parte l'imputazione della signorina Potts?»
A quelle parole l'aria composta di Tony sembrò sgretolarsi all'improvviso sotto lo sguardo preoccupato di Pepper. Kyle fu il primo a riprendersi dall'improvvisa svolta e intervenne seccamente:
«Obiezione. La signorina Potts non ha niente a che vedere con la progettazione, la realizzazione e tantomeno la messa in commercio delle tecnologie Stark. Dovrebbe rimanere coi piedi per terra, signor Knight.»
«Respinta. L'osservazione dell'accusa è pertinente e inconfutabile. Cos'ha da dire a sua discolpa, signorina Potts?»
Lei esitò, presa in contropiede da una domanda così diretta, e cercò così di prendere tempo:
«Non ho ancora partecipato così attivamente all'amministrazione delle Stark Industries e...»
«Basta così!» esclamò con veemenza Tony, reprimendo l'istinto di alzarsi in piedi.
La sua voce risuonò chiara e potente in aula e tutti ammutolirono. Per un attimo, sembrò che indossasse nuovamente l'armatura e che potesse ridurli in cenere con un semplice sguardo. In quel momento emanava un'aura di pericolosa tensione e furia, nonostante le sue condizioni tutt'altro che stabili e la sua situazione disperata.
«La signorina Potts non è tenuta a rispondere a nessuna di queste domande.»
Cercò lo sguardo di Pepper, che aveva già trovato il suo.
Il viso di Tony si contrasse in un'espressione sofferente, quasi sentendo il peso del senso di colpa che lo schiacciava inesorabile a terra, cercando di farlo cadere di nuovo. Aveva sempre dato per scontato che fossero insieme in quella faccenda, ma faceva male, troppo male, vedere che ad ogni gesto che compiva poteva metterla in pericolo. Avrebbe dovuto tagliarla fuori dal principio, prima che venisse messa al centro dell'attenzione, prima che si sentisse in dovere di proteggerlo perché lui non ne era più in grado. Quella presa di coscienza fu la più dolorosa, ma dovette ammetterlo: se lei non gli avesse teso la mano quando era quasi scivolato nell'oblio, non sarebbe mai riuscito a rialzarsi da solo.
Adesso era in piedi. Doveva solo rimanervi senza alcun aiuto.
Approfittò del silenzio vantaggioso che si era creato e continuò a parlare, sentendo che la rabbia contro se stesso per aver posto Pepper in quella situazione aumentava a poco a poco, tanto che dovette frenarsi per non far tremare la voce e mantenere un volume accettabile.
«L'unico imputato in questo processo sono
io e sono io che ho costruito le protesi, e Iron Man, e qualunque arma l'accusa e il governo pensino che io nasconda sotto il letto. La signorina Potts si è limitata ad apporre qualche firma qua e là sotto mia supervisione, seguendo le mie direttive e la esonero da qualsivoglia responsabilità. Non credo di dovervi ricordare chi è il proprietario delle Stark Industries: c'è il mio nome su quel marchio, ma mi sembra che la gente tenda a dimenticarlo un po' troppo spesso,» aggiunse aspramente, trapassando Knight con la sua occhiata più feroce.
Dopo un primo momento di spaesamento, questi si ricompose e assunse di nuovo il suo atteggiamento saccente.
«Molto bene, signor Stark. Ha una dote naturale nel fare sfoggio della sua instabilità. Non mi stupisce che, da quanto afferma, Obadiah abbia cercato di salvare le Stark Industries dallo sfacelo che stava perpetrando, sebbene in modi opinabili.»
Tony contrasse la mascella, ma prima che potesse controbattere lo schiocco del martelletto risuonò nell'aula.
«Qui si sta divagando. Signor Stark, i suoi capi d'accusa sono così tanti e così complessi da analizzare che potremmo tranquillamente prevedere un'altra decina di processi da qui a due mesi,» osservò Stern, evidentemente scocciato.
«Vostro Onore, mi sembra che i fatti siano abbastanza chiari per emettere un verdetto definitivo,» propose Knight, noncurante.
«Concordo con lei almeno in parte, signor Knight.»
Kyle fece per aprir bocca:
«Non ascolterò nessuna sua obiezione, signor Andrews,» lo anticipò il giudice, scoccando un'occhiata esasperata al banco della difesa. «È chiara a tutti la potenziale pericolosità delle protesi e lo scarso controllo che il loro proprietario vi esercita, ma ci sono ancora molti punti da chiarire... tra i quali l'incidente al settore 16, la gestione dell'armatura e il ruolo del dottor Mitchell in tutto questo.»
Ian sollevò di scatto la testa, chiedendosi perché diamine fosse stato chiamato in causa, ma Kyle gli fece cenno di non agitarsi, nonostante anche lui fosse evidentemente sorpreso dalla cosa.
«Senza contare che siamo ancora all'oscuro della reale portata degli interventi del signor Stark in veste di Iron Man, e che ciò richiede un ulteriore consulto con le alte cariche militari.»
A quelle parole Knight si rabbuiò, vedendo sfumare l'occasione di chiudere lì la faccenda, ma si illuminò dopo pochi secondi, probabilmente prospettando l'immensa quantità di prove che avrebbe potuto raccogliere nell'intervallo tra i due processi. Anche Kyle si rilassò. Tempo: era quello che serviva per mettere in chiaro le cose e ricostruire una linea d'azione, soprattutto senza che la sua principale fonte d'informazioni e aiuto fosse febbricitante, moribonda o intrattabile. Si concesse anche un sorrisetto d'incoraggiamento a Pepper, che aveva recuperato un colorito un po' più naturale, prima che le successive parole di Stern gli facessero mancare un battito.
«Presa visione degli ultimi fatti, delle prove analizzate e delle testimonianze fornite, la corte ritiene necessaria un'ulteriore udienza per confermare o confutare definitivamente le conclusioni raggiunte. Preso atto di ciò, la corte dichiara il qui presente imputato Anthony Edward Stark
colpevole di aver occultato prove e fatti rilevanti ai fini del caso. Inoltre le protesi sono, ad effetto immediato, interdette all'utilizzo in pubblico, e passabili di sequestro in caso violazioni senza possibilità d'appello.»
Tony annaspò, voltandosi di scatto verso Kyle con occhi increduli e spalancati, a bocca semiaperta mentre cercava di articolare qualche parola di protesta. Kyle si limitò a scuotere la testa e a lanciare un'occhiata di sconforto a Pepper, impalata al banco dei testimoni e di nuovo pallida come un cencio. Lei strinse le labbra e accennò a Tony come se non fosse neanche lì, senza nascondere il suo disappunto e la sua delusione.
«La corte si aggiorna.»




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Revisione effettuata il 01/03/2018

Note delle Autrici:

Avremo fatto di nuovo tardi, ma questa volta è bello lunghetto il capitolo! *tentano di giustificarsi* Avevamo detto che avremmo aggiornato prima e invece il capitolo è rimasto a fermentare nella cartella. *continuano a fustigarsi*
Cercheremo di essere più brave dal prossimo capitolo: in questi mesi abbiamo avuto l'impedimento "studio"; vedremo di rimediare...

Un arco di trionfo sarebbe il minimo per il nuovo album dei Muse che tenta di ispirarci (2nd Law ti amiamo *^*) SPAM! Il titolo deriva da quello e, giusto per rimanere in tema, anche la citazione è loro <3
Detto ciò, ringraziamo tantotantotantotantotantotanto Alley, DigiGaia, The_best_who_sing, Sherlock_Watson, julialicious, MissysP e Rogue92 per aver recensito lo scorso capitolo! :D <3
See ya,

Moon&Light


 



© Marvel

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Capitolo 24
*** Message in a bottle ***




23

.

.

Message in a bottle



"You accelerate
Stubborn in your anger
People living
And you keep crashing bottles 
To your god like he's gonna hear
What you say"


[V – About Wayne]





3 Aprile, 13:30, Tribunale di L.A.

«Sono in procinto di abbracciare il buddhismo per ritrovare la pace interiore...»
Ian fissava ormai privo di alcuna speranza Tony che battibeccava da almeno dieci minuti con Pepper. Magari lo avrebbe picchiato. Molto forte. Avrebbe voluto farlo lui, ma la sua etica di medico glielo impediva. Alla fine di tutta quella storia avrebbe sicuramente bruciato il suo giuramento di Ippocrate...
La sua visione di roghi e focolai fu interrotta dalla valanga di oscenità che uscì dalla bocca di Kyle:
«E io sono in procinto di calarmi le mutande e mettermi a novanta davanti a Knight, perché dato che la mia pace interiore è andata a puttane magari lui mi aiuta a ritrovarla!» gesticolò in preda al panico, o forse a un raptus omicida.
Ian sospirò, più scoraggiato di prima. Vedere Kyle così agitato lo preoccupava, ma era lieto che cercasse di mantenere un contegno, anche se a modo tutto suo.
«Direi che non c'è bisogno che ti sacrifichi, K, visto che hai appena riassunto perfettamente gli eventi di oggi... Knight sarà contento!» commentò Tony, distraendosi momentaneamente dal suo acceso dialogo con Pepper.
Fu ripreso dallo sguardo furibondo di quest'ultima, che sembrava voler nascondere qualsiasi traccia di senso di colpa dal suo volto. Dopo essersi offerta di partecipare attivamente al processo si sentiva responsabile per le conseguenze. Certo, senza di lei sarebbero colati a picco già da un pezzo, ma aveva tante di quelle cose da rimproverarsi da riuscire a malapena a tenerne il conto e...
"Oh, al diavolo il senso di colpa," pensò infine, stizzita.
Ne aveva passate troppe in quegli ultimi tempi e riteneva del tutto giustificabile essere infuriata con Tony, soprattutto se si ostinava a volersela prendere con chiunque come se tutto ciò che aveva combinato in quegli ultimi mesi fosse in qualche modo giustificabile. Lo tirò per il colletto, costringendolo a guardarla di nuovo in faccia. Lui scrollò le spalle, cercando di liberarsi da quella stretta improvvisa e assolutamente inaspettata: non era da Pepper alterarsi così e non ricordava di essere mai stato richiamato in modo fisico da lei. Quel gesto sembrò lasciare un'impronta, una sensazione di disagio tangibile che si annidò in lui, assieme a tutte le altre che si rimescolavano nella sua psiche già abbastanza disorientata. Percepì infine quanto profondamente fosse turbata e quanto lui, forse, avesse sottovalutato la sua situazione.
«Si può sapere qual è il suo problema?» gli intimò, senza lasciare la presa dalla stoffa.
Tony si rese conto in ritardo di essere sobbalzato come a una scossa elettrica e si affrettò a risponderle come se nulla fosse, aggiungendo una buona dose di sarcasmo nel suo tono:
«Oh, molti: le rispondo in ordine cronologico o alfabetico?»
«Può mantenere un briciolo di serietà, per una volta in vita sua?»
Pepper ritrasse la mano di scatto, come rendendosi conto di aver superato un limite, e Tony si risistemò il colletto con fare seccato.
«Non ne vedo il motivo,» ribatté, imperturbabile. «Abbiamo praticamente perso la causa, che senso ha "rimanere seri"? Avrebbe più senso ubriacarsi, a questo punto,» continuò con più veemenza, seriamente tentato dall'idea.
«Lei ha perso la causa, signor Stark. Non osi fare un bis dello scorso processo dando la colpa a chi cerca di difenderla!»
Il suo sguardo corse a Kyle, che si stava impegnando a fingere di non seguire la conversazione, che però a quel punto si rivolse a entrambi, chiaramente a disagio per essere stato tirato in mezzo:
«Virginia, ti ringrazio per prendere le mie difese, ma stavolta...»
Tony non lo fece concludere:
«Io non me la sto prendendo con lui,» continuò a fissare Pepper, senza la minima traccia d'esitazione.
A quel punto Pepper non ci vide più, ma al contrario di quanto Tony si aspettava – e forse sperava – non esplose in mille improperi furibondi. Il suo viso divenne semplicemente una maschera glaciale, ogni lineamento solidificato in un'espressione di pura ira, e fu come assistere al lento, quieto, ed inesorabile sgretolarsi di un iceberg, pochi istanti prima che la massa di ghiaccio impatti col mare sprigionando gigantesche colonne d'acqua. Tony si rese conto solo allora di non aver mai visto Pepper veramente arrabbiata. Si sarebbe volentieri risparmiato l'esperienza, ma era un po' tardi per pensarci.
Era sempre tardi per pensarci.
«Come si permette di dare la colpa a me dopo tutto ciò che ho fatto per aiutarla?» la sua voce era tanto calma e frigida da risultare innaturale.
Tony, al contrario, sentiva di nuovo montare quella rabbia calda e irrefrenabile che ottenebrava completamente ogni suo pensiero logico; voleva solo andare a casa, levarsi quei vestiti asfissianti di dosso, ingollare una decina di pasticche per smaltire la febbre, bere qualche litro d'acqua – magari anche qualcos'altro – e mettersi a dormire senza pensare a niente. Invece era bloccato lì su una maledetta sedia a rotelle, a discutere di faccende inutili su un processo inutile che riguardava cose inutili. Trattenne la tentazione di prendersi la testa tra le mani, ma ne sentiva veramente il bisogno, almeno per illudersi di poter contenere il magma di pensieri e timori che rischiava di straripare dalla sua bocca.
Lo lasciò invece traboccare:
«È lei che ha deciso di voler testimoniare in modo del tutto illogico!»
«Oh, immagino che sarebbe andato tutto a meraviglia, se non l'avessi fatto!»
«Magari non sarei passato anche per qualcuno che lascia allo sbando la sua azienda!»
«Perché, non è quello che sta facendo?»
«È impazzita? Non riesco neanche a camminare, come pretende che presenzi alle riunioni delle Stark...»
«Come pretende che io mi faccia carico di tutti i suoi problemi?»
«Io non ho preteso che lei si esponesse al mio posto!» Tony inalò una boccata d'aria, a corto d'ossigeno e parole. «Ha idea di come mi sia sentito quando si è offerta di testimoniare? O quando Knight l'ha accusata?» aggiunse, in tono involontariamente incrinato.
«Certo, dimenticavo che lei è sempre la vittima della situazione.»
«Non sarei la vittima, se lei avesse avuto più autocontrollo e non fosse balzata in piedi offrendosi come una martire...»
«Autocontrollo? Da che pulpito, detto da qualcuno che dà sempre spettacolo per il gusto di farlo e va a "concedere interviste" a...»
«Non ricominci con quella storia! Le foto sono state dichiarate false e la faccenda è chiusa!» urlò Tony con tutto il fiato che gli era rimasto, sentendo la testa che riprendeva a pulsargli così violentemente che per un momento credette di perdere i sensi.
Rimasero a fronteggiarsi, entrambi rossi in volto e furenti, ognuno barricato nella sua posizione, evidentemente senza nient'altro da aggiungere che potesse sbloccare la situazione.
Kyle e Ian si erano prudentemente defilati, risolvendosi ad aspettarli in corridoio e lasciandoli soli nella saletta d'attesa.
Tony, da un remoto angolo della sua coscienza ancora lucida, si chiese perché si stesse infuriando di nuovo con Pepper. Se l'era chiesto spesso, ultimamente, e ogni volta si era convinto di quanto fosse insensato farlo, sentendosi poi un essere infimo per quello che le stava facendo passare. Adesso, invece, si sentì in minima parte giustificato, quasi gratificato dal potersela prendere con qualcun altro oltre se stesso e per giunta con un valido motivo.
Iniziò ad accusare quel silenzio pesante, ma si costrinse a non romperlo, nonostante volesse solo liberare quella marea di rabbia inconsulta che continuava a riempirlo, incurante di quante volte cercasse di darle sfogo e liberarsene. Stava per farlo, deciso a infrangere tutto definitivamente, deciso a mettere un punto fermo a quella sfilza di azioni insensate che l'aveva portato in quella situazione, ma non vi riuscì. Improvvisamente, così come era salita, la marea si acquietò, lasciandogli una strana sensazione di vertigine e spossatezza che lo costrinse a chiudere l'occhio per domare i capogiri e i puntini luminosi che avevano preso a lampeggiargli davanti, oltre il velo di febbre.
«Tony?» la voce di Pepper era ancora alterata, ma stavolta celava una nota di preoccupazione che lo ferì più che se l'avesse insultato.
Sentì un peso gravargli sulle spalle e schiacciargli le parole in gola mentre si costringeva a riaprire l'occhio, riprendendo a guardare la donna con sguardo spento. Si rese conto che quel peso non sarebbe mai scomparso, a dispetto di tutto ciò gli altri facevano per lui. Come diceva suo padre?
"Sei irrecuperabile", gli risuonò in testa, anche a distanza di anni e anni.
Con tutta probabilità lo era sempre stato e adesso lo era più che mai, oltre ad essere guasto e rotto e completamente a pezzi. Fissò Pepper che, invece, oltre quella patina di rabbia e delusione, ancora sperava di poterlo aiutare in qualche modo, magari di aggiustarlo. Gli venne da sorridere amaramente. Era davvero stanco di continuare a illudere e deludere tutti.
Il suo volto diventò grave e quando parlò fu a malapena udibile, segno di quanto gli costasse pronunciare quelle parole:
«Sto solo facendo finta che vada tutto bene come al solito,» sbottò con frustrazione, ma la sua voce era esausta, priva della viva collera che aveva provato fino a qualche secondo prima, e non riuscì a sostenere lo sguardo della donna per più di qualche istante.
Si sospinse verso l'uscita prima che potesse rispondere, ma colse di sfuggita il suo volto attonito, coi limpidi occhi azzurri che lo fissavano nel tentativo di capire appieno cosa le avesse appena detto.
«Andiamocene. Sto soffocando, qua dentro,» si limitò a spronarla, raggiungendo infine Kyle e Ian, che parlottavano tra loro con voce bassa e preoccupata.
L'avvocato scosse la testa nel vederlo, ma evitò di commentare.
«Muoviamoci,» sospirò semplicemente, dirigendosi verso l'uscita del tribunale.
In quel momento, come se lo stesse aspettando, gli passò accanto Knight, che dopo avergli rivolto uno sguardo pungente accompagnato da un sorrisetto provocatorio lo superò rapidamente.
«Fai fatica a camminare, Kyle?» commentò, quando era già lontano.
«Mai quanto te, Julien,» ribattè prontamente il ragazzo, mentre un sorriso un po' perfido si disegnava sul suo volto.
Knight si voltò appena, ogni traccia di compiacimento scomparsa dal suo volto, e affrettò il passo. 
Ian diede un colpetto soddisfatto sulla spalla di Kyle, aiutandolo a raggiungere l'uscita.


***


3 Aprile, 15:40, Villa Stark

Le file di bottiglie allineate nel minibar sembravano disposte sull'attenti davanti al suo sguardo indagatore, e rilucevano alla fioca luce della lampadina. Due compatte casse di birra in lattina occupavano il piano inferiore, quasi troppo strette in quello spazio ridotto. Non ricordava di avere così tanti alcolici in casa, ma forse dipendeva dal fatto che non doveva aver bevuto più di una bottiglia di birra nel corso degli ultimi sei mesi. Anche una lattina, ora che ricordava, che era poi stata ridotta a un ammasso informe di alluminio.
«Sta intrattenendo una conversazione con le uova, signor Stark?» lo raggiunse la voce di Pepper, palesemente seccata dal fatto che Tony si fosse allontanato senza una parola non appena messo piede in casa, quando avevano tacitamente stabilito di "dover parlare", di nuovo.
I suoi sforzi per mantenere la calma erano ammirevoli. Fu facile vanificarli in meno di mezza frase:
«No, ma la birra sta cercando di dirmi qualcosa. La porto di là con me così ci confrontiamo meglio,» rispose pacato, afferrando una bottiglia e stappandola noncurante col pollice metallico.
Notevole: avrebbe potuto fare a meno di un'apribottiglie per il resto della vita. Dopotutto qualche lato positivo c'era. In fondo alla bottiglia, forse.
Tracannò con sollievo un sorso di birra e si stupì di aver quasi dimenticato il suo sapore in tutto quel tempo. Quando la abbassò, scoprì che ne era rimasta meno di metà, così la finì, ne prese un'altra dal frigo e si diresse in salone, dove Pepper, da quel poco che aveva registrato, aveva minacciato di staccare la corrente all'intera casa, laboratorio incluso, se avesse provato a toccare una goccia d'alcol.
Non aveva colto il resto del suo monologo, ma era certo includesse un'altra decina di divieti e altrettante "punizioni". Bevve con stizza un altro sorso, già iniziando ad accusare l'alcol che stava ingollando così velocemente a stomaco vuoto. Ma non aveva più tredici anni ed era stanco di essere trattato come tale: poteva bere tutta la birra che voleva senza paura di una tirata d'orecchie. E poi voleva davvero darle altri ottimi motivi per farla rinunciare a quella missione di salvataggio che si era autoimposta. Magari così avrebbe finalmente capito quanto fosse "irrecuperabile".
Entrò nel salone con passo svogliato, per quanto gli concedessero le stampelle, fingendo di non vedere Pepper che lo fissava invece con espressione impaziente, che si tramutò in furia pura quando notò la bottiglia che teneva in mano.
«Tony. Ha ascoltato una singola parola di quello che ho detto?» sillabò, incrociando le braccia in un sospiro.
Lui finse di pensarci su, poi rispose con un'alzata di spalle:
«Ho colto il senso generale: bere fa tanto male e non me lo permetterà. Ma lo farò lo stesso... Altro, "mamma"?»
Pepper sgranò appena gli occhi, incredula per quelle parole intrise di una fredda insolenza che non gli aveva mai sentito usare. Fece per parlare, con la netta impressione che la loro "sessione-chiarimenti" fosse appena andata a monte, ma Tony la anticipò, sovrastandola:
«Comunque, ho convocato la stampa. Per...» si fermò. «per mostrare il vero me stesso.»
Pepper ci mise più di qualche secondo per realizzare ciò che aveva appena detto, e quando finalmente riuscì ad articolare una risposta, fu in tono assolutamente sgomento:
«Lei ha fatto cosa?»
«Magari non sto messo troppo bene fisicamente, ma mi sembra di parlare ancora la sua lingua, signorina Potts: ho convocato la stampa,» ripeté, scandendo con ostentata lentezza quelle parole. «E non ho intenzione di ritornare sulla mia decisione. Mi accusavano di "isolamento volontario"? Bene, quell'isolamento finisce oggi,» concluse, attaccandosi di nuovo alla bottiglia e sprofondando nella sua poltrona in un gesto esausto, con la protesi inferiore distesa sul poggiapiedi.
«Se intende dare spettacolo ci sta riuscendo benissimo anche ora. Spero solo che questo non sia il vero se stesso,» gli fece notare pungente lei.
Tony scoppiò a ridere del tutto a sproposito. Il rossore sulle sue guance non prometteva nulla di buono.
«Mi spiace deluderla sempre, dev'essere di famiglia,» disse con voce impastata, poggiando la bottiglia di birra rigorosamente vuota sul portabevande.
«Io esco,» annunciò Pepper. «Credo di dover sedare una rivolta in corso alle Stark Industries, esplosa per colpa sua,» sottolineò accusatoria.
«E la stampa? Non mi fa compagnia?» chiese Tony, che si era appena rialzato e stava frugando attentamente nell'armadietto degli alcolici, pescando infine una bottiglia di whiskey.
«Non è un mio problema se è impazzito.»
«Non sono impazzito... esprimo me stesso. Magari tra i giornalisti trovo qualcuno disposto ad ascoltarmi,» commentò acido, scoccandole uno sguardo astioso.
Pepper lanciò un'occhiata eloquente alla bottiglia ancora per poco piena, esentandosi dal rispondergli a tono.
«Benissimo. Conferenza stampa tra un'ora, signor Stark. Buona fortuna.»




***

3 Aprile, 16:45, Villa Stark

Li odiava tutti! Perché erano in casa sua? Ah, sì... li aveva invitati lui: dieci bottiglie di birra prima.
L'alcol stava per finire, o almeno quello consumabile. E questo lo irritava ancora di più. Da qualche parte doveva esserci il cherosene per il suo aereo che avrebbe potuto sostituire la penuria di alcolici.
Era sicuro che, sempre dieci bottiglie prima, fosse riuscito ad articolare un discorso quasi coerente riguardo all'insensato accanimento del governo nei suoi confronti, alle conseguenze disastrose che comportava l'assenza di Iron Man per la sicurezza mondiale e al fatto che le sue protesi fossero innocue. Tra la quarta e la quinta bottiglia aveva perso il filo e si era trovato a parlare della chiara impotenza fisica e mentale di Justin Hammer, passando per insulti più o meno espliciti al Senatore e a Knight, finendo poi col raccontare in tono melodrammatico il voltafaccia di Rhodey. Poi era arrivato lo scotch e la cosa era degenerata in una lagna da sbronza triste. Aveva totalmente rinunciato a ritrovare un filo logico ormai perso tra i flussi dell'alcol, rassegnandosi semplicemente a dar fiato alla bocca senza più preoccuparsi di ciò che diceva.
«Signor Stark, a cosa si deve questo suo improvviso ripensamento riguardo al non voler rilasciare dichiarazioni?»
«Dovreste chiederlo al mio subconscio, ma dubito che anche lui abbia delle risposte...» biascicò prima di riattaccarsi spudoratamente alla bottiglia.
«Signor Stark! Cosa può dirci delle sue protesi biomeccaniche?»
«Ci vivo e convivo,» rispose lapidario.
«Stark, quando ha intenzione di rivestire il ruolo di Iron Man?»
«Oh... ho appeso l'armatura al chiodo.»
«Può volare con le sue protesi?»
Tony ci pensò un po' sopra, lo sguardo annebbiato dall'alcol:
«No. Ma ho le palle d'acciaio, baby!»
«Ha qualche missione incombente che dovrebbe svolgere?»
«Tipo andare in bagno?» rispose Tony, suscitando il riso tra i giornalisti che in realtà si sentivano abbastanza nervosi, considerando che avevano davanti un "supereroe" in grado di incrinare il vetro del tavolo con una semplice pressione delle dita meccaniche. «No, sul serio, devo andare in bagno. Ma resisterò solo per voi.»
"Dovrei mettere un filtro all'armatura," pensò di sfuggita tra una domanda e tre bicchieri di qualcosa che ormai aveva perso qualsiasi sapore nella sua bocca insensibile.
«Ma lasciate che vi parli di quel gran figo con la benda che si diverte a fare il despota con me...» esordì, con un sorrisetto alticcio e una vena di perfidia.

***


3 Aprile, 17:00, Helicarrier

Lo schermo di controllo si spense con un sibilo al gesto stizzito di Fury.
Il comandante della SHIELD si voltò verso la vetrata, lasciando spaziare lo sguardo sulle nuvole, sulle quali viaggiava silenziosa la portaerei volante.
"Quel gran figo con la benda, eh?"
Lo avrebbe ammazzato con le sue stesse mani un giorno di quelli...
«
Agente, trovi un modo per risolvere quest'altro macello, prima che mi salti anche l'altro occhio.»
«Subito. Uso le maniere forti?»
«Le più forti che abbiamo.»




 
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Revisione effettuata il 03/03/2018

Note Delle Autrici:

Questo voleva essere un regalo di Natale ma... non ci è riuscito. Può essere un buon augurio per il nuovo anno, però... Augurio de che, non è dato sapere, viste le condizioni di Tony. Ma comunque!
Buon Natale (in ritardo) e Felice Anno Nuovo (visto che prima che aggiorniamo... uuuh! Sarà già il 2014! Quindi sono gli auguri per l'anno prossimo ancora u.u)
Dopo questi convenevoli.
Siamo consapevoli di essere abomini del genere umano per pubblicare così alla, perdonateci il francesismo, cazzo di cane, ma tra la fine della scuola, le vacanze e, prima, lo studio immane, non abbiamo avuto un minuto per scrivere. Ma siete sempre nei nostri cuori <3 (T: non nel mio *brontola*)

E insomma... questo capitolo. Beh, getta le basi per il prossimo, no? Perché sì, dal prossimo si rientra nel vivo. Lo sappiamo, abbiamo un po' trascinato quest'ultima parte della FF, ma considerate tutte le faccende legali e tecniche da risolvere, abbiamo svolto tutto anche troppo in fretta (vi siete salvati :D), ma adesso la fase di transizione è finita e prossimi capitoli... beh, BOOM! u.u
Sì, ci divertiremo tanto: ci sarà un po' (tanta) d'azione e tanto angst/fluff :3

Mentre Light lascia un polmone sulla tastiera [L: zto balissimo ç_ç] ringraziamo i prodi che sono arrivati fin qui senza rimanerci secchi, cioè chi ha aggiunto la storia tra le preferite/ricordate/seguite, chi ha recensito e chi ha semplicemente letto, in particolare: Rogue92, MissysP, Julyet_M, Sherlock_Watson, The_best_who_sing, DigiGaia, julialicious e Alley :)

Grazie a tutte e alla prossima (si spera in tempi umani)

BUONE FESTE! 

Moon&Light



 



© Marvel

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Capitolo 25
*** Your bridges are burning down ***




24

 

 

Your bridges are burning down







"You used to say I couldn't save you enough,
So I've been saving it up, I started saving it up.
And when you said I couldn't give you enough,
I started giving you up, I started giving you up."


[Arlandria – Foo Fighters]



3 Aprile, 18:30, Villa Stark

Non ricordava l'ultima volta che era salito sulle montagne russe, ma il suo stomaco pareva ricordarlo invece piuttosto bene e aveva deciso di rinfrescargli la memoria in quel preciso momento. Momento in cui il giornalista davanti a lui stava cautamente domandando quali fossero gli effetti collaterali delle protesi. Giornalista dalla giacca orribile, tra le altre cose, dal verde smorto.
"Sembra color palude, color vom–..."
Tony si tappò la bocca e sussultò in un conato, riuscendo a malapena a trattenerlo. Il giornalista si ritrasse di scatto, togliendosi dalla sua traiettoria e rinunciando ad avere risposta. Un'altra giornalista, più temeraria, si fece avanti, scrutando preoccupata una bottiglia vuota di birra che ondeggiava ai suoi piedi prima di porre l'ennesima, infida domanda. Tony sollevò appena lo sguardo dal piano del tavolo, che aveva continuato a fissare come in trance, sfiorandone la superficie lucida con un dito.
Quello che vide non risollevò il suo umore.
Biondo. Capelli biondi.
Christine.
Preferiva il verde vomito.
«Tony,»
esordì, con voce dolce quanto una vipera pronta a morderlo, «confermeresti una voce che gira da molto tempo nel... nostro ambiente?»
L'uomo la trapassò con l'unico occhio annebbiato dall'alcol, ma ancora abbastanza lucido da riconoscere una domanda a trabocchetto e da aver presente di chi era la colpa, o almeno parte di essa, se lui aveva dato fondo alla riserva d'alcol.
«Dipende,»
rispose secco, improvvisamente più saldo sulle gambe e nei pensieri al ricordo del loro ultimo "incontro".
Si costrinse a rimanere guardingo. Avrebbe potuto rovinarla con poche, semplici parole, ma era un'arma a doppio taglio. Non aveva alcuna voglia di sputtanare in diretta la sua vita sessuale complicata da moncherini e protesi. Si chiese remotamente se non lo stesse mettendo alla prova, nella speranza che si facesse scappare qualcosa in preda all'ebbrezza, così da poter spiattellare la sua performance scadente sulla copertina di
Vanity Fair. Si chiese anche, con orrore, se per caso non avesse scattato altre foto a sua insaputa, potenzialmente più compromettenti di una cucina distrutta. Si costrinse a concentrarsi sull'attuale domanda della donna, già abbastanza difficile da comprendere senza aggiungerci le sue elucubrazioni.
«È vero che il suo avvocato, Kyle Andrews, nonostante le sue
condizioni,» puntualizzò perfida, «intrattiene rapporti intimi con la sua amministratrice delegata, Virginia Potts?»
Tony fissò il vuoto. Scosse appena la testa, poi comprese quello che aveva appena sentito e si sollevò di scatto.
«Cosa? K?! Allora mi ha mentito!»
Christine fece un balzo indietro, ma era segretamente compiaciuta e insistette:
«Allora è vero? Andrews e Potts?»
Nella mente di Tony veleggiò un pensiero coerente:
"Io indagherei piuttosto su Knight..."
«Non è vero. Ma se è vero lo ammazzo,» biascicò, bevendo un sorso di liquore e scombinando le poche sinapsi che ancora non erano affogate nell'alcol.
Il debole freno inibitore che gli aveva impedito di proferire troppe idiozie cedette:
«E visto che siamo in tema, spero che Knight l'abbia pagata bene per il suo servizio, "Miss Brown",» le sibilò, badando bene a tenersi fuori dalla portata degli altri microfoni.
L'occhiata sprezzante e allo stesso tempo compiaciuta di Christine fu una risposta sufficiente e Tony si ritrovò a contrarre il pugno, prima che lei si defilasse prudentemente.
«Signor Stark, potrebbe rispondere a qualche...» una scarica di flash lo accecò.
Ne aveva abbastanza. Si alzò incerto, facendo leva sul tavolo per non poggiarsi sulla protesi inferiore già dolorante e gesticolò imperioso con la mano, come a volerli spazzar via. Il tutto risultò in un ondeggiare piuttosto debole e instabile. Troppo instabile. Si sbilanciò in avanti e sbatté sul tavolo con le gambe; ritrovò l'equilibrio scattando indietro, ma atterrò poco decorosamente...
"... culo a terra. Grandioso. Sono rovinato. Lo ero anche prima. Pepper mi ucciderà lo stesso. Ma prima spero risolverà questo casino..." pensò sconclusionato.
E Pepper apparve davvero, non seppe se per grazia o per punizione divina.
Ora poteva svenire in pace.


***


Fu svegliato dalle penetranti esplosioni che rimbombavano nel pavimento.
Socchiuse gli occhi e si rese conto che il mondo aveva un'angolazione innaturale. Da quando i tavoli crescevano sulle pareti?
Scacciò la nebbiolina che aleggiava nella sua visuale con un battito di palpebre; fu allora che percepì la sua guancia contro la superficie gelata del pavimento e sospirò sollevato. Almeno il campo gravitazionale funzionava ancora. Lo stesso non si poteva dire delle sue gambe, ridotte a una massa gelatinosa abbandonata dietro di lui. Tentò di rialzarsi, o anche solo di muoversi... di strisciare, ma il peso della protesi posteriore sembrava inamovibile.
Rialzò la testa, facendo sì che il salotto turbinasse attorno a lui come un ciclone attorno al suo occhio: pessima mossa.
Almeno ora era in grado di associare le "esplosioni" di poco prima ai tacchi di Pepper che viaggiavano avanti e indietro per la stanza a pochi metri dal suo naso. Quando provò a chiamarla l'unico suono che riuscì a produrre la sua lingua intorpidita fu un mugugno inarticolato, che però ebbe il potere di spostare gli occhi gelidi della donna su di lui. Non lo degnò di una parola e passò oltre.
Tony intravide qualcosa stretto tra le sue braccia, che identificò vagamente come dei vestiti. Si sollevò sui gomiti, acquistando qualche metro di visuale. Una valigia e una borsa da viaggio erano poggiate sul divano, la prima chiusa e apparentemente piena, l'altra ancora semivuota e aperta. Ci mise un po' a mettere in linea i pensieri e a connetterli alla bocca:
«Chi si trasferisce da noi?» articolò a fatica, mettendosi carponi con la protesi distesa, concludendo che quello era il massimo grado evolutivo che poteva raggiungere in quel momento senza mettersi a urlare per la piaga che gli infiammava la gamba destra.
Non ricevette alcuna risposta.
In uno sprazzo di energia improvvisa tentò di rialzarsi in piedi, troppo velocemente per la sua testa annacquata. Ma dov'erano le sue maledette stampelle? Non riuscendo a individuarle nel raggio di dieci metri, fu costretto ad appoggiarsi al muro, facendovi leva per riportarsi in posizione più o meno eretta, con la testa che vorticava inarrestabile. La luce era abbastanza tenue, ma bastava ad accecare la sua retina ancora funzionante ma resa fotosensibile dall'alcol, e ad inviargli le fitte di una nascente emicrania. Si portò la mano alla fronte, come se così potesse impedire alla sua testa di continuare a cadere. Non ottenendo risultati concreti la prese tra entrambe le mani, cercando almeno di farla smettere di girare e accasciandosi completamente contro il muro. Cercò di non pesare sulla protesi, ma quella continuava a dolergli al minimo movimento.
Pepper gli passò di nuovo davanti, stipò nella borsa una bracciata di vestiti con un gesto stizzito, senza perdere un briciolo della sua solita compostezza, e chiuse di scatto la zip.
«Pepper? Dove vai?» la richiamò, un po' troppo bruscamente.
La donna si girò appena verso di lui.
«Ho bisogno di un po' d'aria
pulita dichiarò rigidamente, scandendo bene le parole, e lui non comprese se per farsi capire da qualcuno nelle sue "condizioni" o semplicemente per non gridargli in faccia.
Un'inspiegabile ondata di rabbia lo scaldò dalla testa ai piedi, scacciando momentaneamente il senso di stordimento.
«Prego?»
Pepper si mise in spalla la borsa senza fornire ulteriori spiegazioni e trasferì i bagagli accanto alla porta. Tony fece lo stesso, rasentando i muri col palmo sano per non cadere.
«Non mi ignorare,» aggiunse in tono irritato e più alto del necessario.
«Lei lo ha fatto per fin troppo tempo,» replicò freddamente lei.
«Non ignorarmi, ho detto
,» ripeté Tony a voce più alta, dando un lieve colpo al muro senza neanche rendersene conto.
Pepper sussultò nel sentire lo schianto di un quadro che cadeva a terra e andava in mille pezzi. La protesi di Tony aveva sbriciolato l'intonaco, che si sgretolava lentamente ai suoi piedi in un picchiettio sommesso. L'uomo sembrò rendersi conto di quel che aveva fatto e si allontanò appena dal muro, scrollandosi la polvere dalla mano metallica e fissando allibito le schegge di vetro che costellavano il pavimento tra loro.
La donna prese definitivamente i bagagli e aprì la porta, dopo aver lanciato uno disgustato a lui e a tutto ciò che lo circondava. Tony si sentì improvvisamente accaldato, non sapeva se per la vergogna o per la rabbia.
«Me ne vado. Non mi aspetti per un po',» dichiarò lei risoluta, facendo per mettersi la giacca.
Anche Tony fu risoluto, forse troppo: ancora un po' ondeggiante, cercò di trattenerla per il braccio, usando istintivamente la destra; riuscì ad afferrarla, ma lasciò subito la presa sentendola sussultare e trattenere bruscamente il fiato. Dove si era posata la sua mano, poco sopra il gomito, il calco esatto della sua mano era impresso sulla sua pelle lattea in un rosso acceso. Lui la fissò attonito, ritraendosi come se si fosse scottato, in cerca di parole che non esistevano. Fissò il proprio palmo metallico, poi di nuovo la pelle arrossata di Pepper senza riuscire a connettere le due cose, boccheggiando ancora a vuoto nel tentativo di cpaire cosa fosse appena successo.
L'ultimo sguardo che gli rivolse Pepper lo gelò fino alle ossa e si sentì rimpicciolire. Per un attimo, fu di nuovo di fronte a suo padre che lo guardava con occhi colmi di delusione. L'attimo dopo la porta di casa sbatté con forza di fronte a lui, inghiottendo la sagoma della donna, mentre la sua mano si tendeva di nuovo verso di lei in un gesto inutile.
Strinse il pugno meccanico e lo lasciò ricadere lentamente, sentendosi stordito.
Individuò finalmente le sue stampelle, a pochi metri da lui. Le ignorò e raggiunse barcollante il salone, aggrappandosi a ciò che trovava in giro senza curarsi di romperlo o rovesciarlo; si poggiò infine sul tavolo come se stesse studiando uno dei suoi progetti sul vetro lucido, mentre il suo sguardo era in realtà catturato dai riflessi sulla bottiglia di whiskey. La sollevò e ne bevve distrattamente un sorso, sentendo il liquido che bruciava la sua gola contratta.
Non riusciva ancora a dare un senso alle immagini che si accapigliavano nell sua mente, e sentiva un bruciore crescente nel petto che nulla aveva a che fare con l'alcol.
Intravide il proprio riflesso nel vetro e serrò l'occhio.
Poi rovesciò il tavolo a terra e urlò.


***


Non gli capitava spesso di essere mandato in missione. Non che fosse un tipo particolarmente attivo, dopotutto: preferiva di gran lunga la tranquillità del suo laboratorio sull'Helicarrier al lavoro sul campo.
Cercò di convincersi che un po' di moto gli avrebbe fatto bene: era un periodo che allo SHIELD si respirava un'aria fin troppo rilassata, e gli unici che potevano vantarsi di fare qualcosa di utile – e pericoloso, come ci tenevano a sottolineare – erano gli Agenti Barton e Romanov. Thor era momentaneamente irreperibile, probabilmente disperso in qualche piega spazio-temporale dell'universo e impegnato a battibeccare col fratello; Steve cercava ancora di abituarsi al XXI secolo e di capire il funzionamento di uno smartphone; lui era impegnato nei suoi progetti e Coulson per una volta dormiva sonni tranquilli con la sua violoncellista delegando ad altri il lavoro sporco.
In quel clima così pacifico Tony... beh, Tony dava il meglio di sé, come al solito.
E l'unico a farsi saltare i nervi invece di chiudere anche l'occhio buono era stato ovviamente Fury, che a quanto pareva si rodeva il fegato per l'assenza di Iron Man, ma allo stesso tempo si sarebbe mangiato la benda piuttosto che ammetterlo. Quella mattina aveva sopportato l'ultima goccia, dando infine in escandescenze e mandando qualcuno a ripulire i cocci. Qualcuno che, in quel momento, avrebbe volentieri barattato metà delle sue ricerche e della sua materia grigia – e verde, soprattutto – piuttosto che trovarsi lì.
Bruce sospirò nel guardare la villa arroccata sulla scogliera, enorme, sontuosa e desolata. Si era sempre chiesto cosa se ne facesse Tony di tutto quello spazio, escludendo le sue feste megagalattiche. Si fece forza e scese dall'auto, non del tutto sicuro che il detto "ambasciator non porta pena" avrebbe funzionato, quella volta.
Era a meno di venti metri dal portone della villa e stava per entrare nel patio quando fu quasi travolto da Pepper, che sbucò da dietro un'aiuola piombandogli addosso mentre si fiondava fuori dal cortile, diretta alla sua auto e ingombrata da una borsa da viaggio. La trattenne d'istinto, impedendo che ruzzolassero entrambi a terra sul patio, e percepì con fastidio il cuore che accelerava appena i battiti per la sorpresa... ma non sarebbe sicuramente esploso per un incidente simile. Piuttosto, era preoccupato per la faccia paonazza di Pepper e per i suoi occhi lucidi. Fece per parlare, ma lei lo precedette, riprendendosi in modo straordinariamente rapido dalla sorpresa di trovarlo lì, e dal modo in cui parlò capì che sarebbe stato un miracolo se avesse trovato Tony vivo:
«Non chiedere. Non chiedere nulla. Lasciami andare,»
disse forzata e con un evidente tremito nella voce, non sapeva dire se di rabbia o pianto.
«Virginia, sei sconvolta, non posso lasciarti andare via in queste condizioni e...» le aveva posto delicatamente le mani sulle braccia nel tentativo di calmarla, ma lei sussultò all'improvviso al solo contatto e Bruce s'interruppe.
Notò solo allora la chiazza rossastra sul braccio della donna, sul quale era ben intuibile il contorno di una mano.
Non chiese. Non chiese nulla. Ma si accigliò così tanto che i suoi occhi parvero scomparire e lasciare già spazio a quelli verdastri e torbidi di Hulk. Sentiva la sua delusione che si mischiava inesorabile alla rabbia, e seppe distintamente quanto ancora ci sarebbe voluto per farlo arrabbiare sul serio. La scostò con gentile fermezza e riprese ad avviarsi verso l'ingresso.
«Trovi la mia macchina all'ingresso. Aspettami lì, non ci metterò molto,»
aggiunse, girandosi appena.
Era quasi certo che, data la situazione, Pepper avrebbe potuto stabilirsi allo SHIELD, e qualcosa gli diceva che era meglio tenere sotto controllo anche lei, oltre a Tony. Pepper lo fissò incerta per un attimo, poi annuì. Poi la sua espressione s'indurì e assunse una piega cupa che stonava completamente con il suo modo di fare sempre cortese e pacato.
«Gridagli contro, picchialo, fagli male: non m'interessa come, ma fallo tornare in sé,»
disse con voce appena udibile, prima di voltargli le spalle e allontanarsi a passo svelto.


***


Fu accolto dal rumore del vetro che si infrangeva, seguito da uno schianto fragoroso che gli ferì le orecchie. Resistette all'impulso di correre: il suo autocontrollo era già sufficientemente messo alla prova così e gli sarebbe dispiaciuto ridurre Tony in poltiglia prima di averci perlomeno parlato. Superò l'atrio ed entrò nel salone, aspettandosi di trovarlo devastato. In realtà era in condizioni migliori di quanto si aspettasse – personalmente, aveva combinato di peggio. Certo, i frammenti del tavolino di vetro erano sparsi per tutta la stanza e i suoi miseri resti giacevano a gambe all'aria addossati al muro come una balena arenata, c'erano ben pochi soprammobili rimasti integri e il divano candido era macchiato da quello che doveva essere alcol, ma... sì, si aspettava di peggio. Almeno i muri erano ancora in piedi, per ora.
Si rese conto solo ora che mancava qualcosa, o meglio qualcuno: l'autore di quel disastro.
Dov'era finito Tony?
Bruce avanzò cautamente fino al centro del salone, chiedendosi dove potesse essere sparito in così poco tempo, considerando le sue scarse capacità motorie al momento. Fortunatamente gli risparmiò la fatica di farsi cercare, perché la sua voce risuonò proprio dietro di lui. Non riuscì ad afferare subito le parole, per quanto erano roche e impastate dall'alcol e dalla rabbia. Si girò sforzandosi di rimanere calmo, per il proprio bene e, soprattutto, per quello dlel'amico.
Tony era addossato al muro, il viso spalmato sulla superficie liscia che sembrava dargli un qualche tipo di sollievo, a giudicare dalla sua espressione sofferente. Indossava ancora la sua appariscente camicia bordeaux, con le maniche arrotolate fino ai gomiti e
la cravatta dorata che pendeva mezza sciolta dal colletto. Le protesi erano ben visibili, e fu allora che comprese che quella sofferenza era provocata da quella alla gamba, visto come si arpionava il moncherino con la sinistra: riusciva a malapena a stare in piedi e non riuscì a immaginare quanto male dovesse fargli e quanto dovesse essere fuori di sé per non essersene accorto mentre metteva a soqquadro la casa. Il suo occhio era appannato, non sapeva dire se per la sbronza o il dolore, ma la sua iride appariva più scura del solito, quasi minacciosa. La benda sullo sfregio si era quasi scollata, lasciando intravedere la ferita sottostante ancora fresca.
Tony dovette capire di aver parlato in modo incomprensibile, perché si schiarì la gola, deglutì con evidente sforzo e ripeté cercando di articolare meglio le parole:
«Ti manda Pepper?»
La rabbia di Bruce si attenuò un poco. Non capiva se la domanda di Tony fosse piena di speranza o di angoscia, ma provò comunque una sorta di compassione nel sentirlo parlare a quel modo. Non riusciva più a scorgere, sotto quegli strati di rabbia e rassegnazione, l'amico, forse l'unico, che aveva. Era rimasto in silenzio per più di quanto volesse e il miliardario sembrava non rendersene del tutto conto, ma continuava a guardarlo con espressione un po' vitrea, in attesa di una risposta.
Bruce si avvicinò di un passo.
«Mi manda lo SHIELD,» disse cautamente, osservando il suo volto con preoccupazione.
La sua unica reazione degna di nota fu alzare le sopracciglia con fare derisiorio.
«Hanno deciso di togliermi di mezzo, finalmente? Era ora...»
accennò una risata stentata che si spense subito nel silenzio dell'atrio.
Prima che Bruce potesse controbattere, riprese a parlare con più foga, trovando la forza di staccarsi dal muro e tenersi in equilibrio precario sulle sue gambe malconce, con una mano ancora piantata contro la parete a fargli da sostegno.
«Mi stupisce che abbiano mandato te. Devono proprio volermi morto, lassù.»
Aveva parlato in tono leggero, ma la sua voce era rotta e tremante, come se avesse il petto pieno di qualcosa che gli impedisse di respirare. Era impotenza, e frustrazione, e dolore, e rimpianto, e rancore, il tutto pressato e trasformatosi in collera, racchiusa nel suo corpo che sembrava diventato troppo piccolo e fragile per contenerla. A Bruce bastò un'occhiata ai brividi che lo scuotevano per capire che era sul punto di esplodere. E lo capiva fin troppo bene.
Si sentì terribilmente meschino quando pronunciò le parole che sapeva avrebbero acceso la sua miccia:
«Sei arrabbiato?»
La domanda sembrò rimanere sospesa nell'aria, quasi come una minaccia.
Tony si ripiegò su se stesso e ondeggiò, improvvisamente instabile. Chinò la testa e le sue spalle si alzarono e si abbassarono in un sospiro profondo, per poi precipitare in un rantolo affannato. Rialzò di scatto la testa, l'occhio lucido e il volto deformato dal dolore. Tutto quello che vide Bruce fu un uomo sul punto di cadere in pezzi.
«Sono
disperatamente arrabbiato!» gridò Tony con voce roca, indietreggiando per poggiarsi con la schiena al muro, come sbalzato via dalla sua stessa ira.
Si prese la testa tra le mani e si accasciò per terra, svuotato di ogni energia. Bruce incrociò le braccia con fare noncurante e un cipiglio torvo riapparve sul suo volto nel ripensare a Pepper.
«Bene. Perché io lo sono di più,» annunciò, dirigendosi ad ampie falcate verso di lui, con una sfumatura verdognola che iniziava a delinearsi sulla sua pelle.
Si costrinse a tenere a bada la bestia: doveva prima far recuperare a Tony un briciolo di lucidità con le buone. Fargli raggiungere il bagno gli sembrava un buon inizio, alla ramanzina avrebbe pensato in seguito.
Tony vanificò i suoi propositi pacifici: spinto da chissà quale impeto, forse sentendosi minacciato dal suo incedere minaccioso, si risollevò di scatto e si scagliò contro di lui, cogliendolo del tutto alla sprovvista. Gli assestò un pugno con la protesi che lui parò d'istinto, sbarrando gli occhi nel percepire la forza imprevista del colpo. Qualcosa scattò in lui, troppo rapidamente perché riuscisse a controllarla, non in uno stato già così alterato.
I suoi vestiti si tesero all'istante sopra la sua pelle che andava via via inspessendosi, sempre più verde, per poi strapparsi con un rumore secco di stoffa lacerata. Le sue scarpe cedettero sotto alla pressione dei piedi diventati enormi e il pavimento cominciò a sgretolarsi con secchi scricchiolii, formando dei bassi crateri. Il soffitto, per quanto fosse particolarmente alto, si trovò fin troppo vicino alla sua testa e sarebbe bastato un salto o anche solo alzare un braccio per toccarlo e mandarlo in pezzi. Un ruggito profondo scosse le mura della villa, riverberando nell'aria ferma.
Dietro gli occhi neri di Hulk si poteva appena scorgere la coscienza rimasta lucida e razionale del dottor Banner, per ora sopraffatta e messa da parte dalla rabbia incontrollabile che Tony aveva appena fatto esplodere.
Intanto l'"artificiere", aveva ritratto il braccio ma era rimasto immobile, spalle al muro, probabilmente in attesa che l'amico verdastro lo scagliasse fuori dalla finestra frantumando ciò che era rimasto di lui.


***


Tony si scoprì indifferente alla minaccia verde e potenzialmente mortale che gli si era appena scatenata davanti. Non provava paura: si sentiva naufrago in un mare di apatia e non scorgeva nulla di salvifico all'orizzonte; anzi sperava che non accadesse più nulla. Aveva un disperato bisogno di mettere un punto fermo a quella giornata, e far infuriare Hulk gli era sembrato un ottimo modo per ottenere ciò che voleva.
Soltanto quando Hulk lo afferrò nella sua mano gigantesca spremendogli l'aria dai polmoni e la morsa ferrea intorno a lui iniziò a stringere quasi oltre il limite di sopportazione delle sue costole cominciò ad avvertire il terrore. Il dolore non lo aveva mai torturato a tal punto, non quanto stava facendo Hulk in quel momento, probabilmente in modo involontario e anche trattenuto; avvertì la protesi del braccio che si deformava sotto la stretta impossibile da allentare.
Quando i polmoni furono sul punto di collassare, il verde scuro della mano decisa a sbriciolarlo sembrò schiarirsi, come obbedendo a un comando imperioso. Hulk lo lasciò andare e Tony cadde a terra schiacciato dal suo stesso peso, insostenibile per la giuntura della protesi che gli inviava continue e strazianti stilettate lungo l'arto inferiore. L'aria ritornò nei suoi polmoni troppo bruscamente, presentandosi come una maledizione nonostante il desiderio di respirare.
Hulk indietreggiò, sempre meno verde e sempre più Bruce. La statura diminuiva, i muscoli tesi si rilassavano... ma l'apatia di Tony cedette il posto a una furia cieca nel vedere la protesi di nuovo danneggiata.
Si rialzò carponi, nonostante tutto il suo corpo dolorante lo implorasse di rimanere a terra, e tentò di assestargli uno spintone con il braccio artificiale, ma tutto ciò che ottenne fu di farlo imbestialire del tutto. E stavolta era Hulk ad essere arrabbiato, non Bruce.
In un lampo e non sapendo come, Tony si ritrovò a impattare contro il muro. Il dolore al volto arrivò dopo, attraverso il velo di stordimento e il fischio acuto che gli esplose in testa e gli fece passare qualsiasi voglia di rialzarsi.
Colse un lampo azzurrino nella sua visuale.
"No, no, no, non di nuovo..." si premette il palmo sano contro l'occhio, cercando di scacciare quei flash terrorizzanti.
Focalizzò con fatica Bruce che cercava di riprendere il controllo di se stesso, dimenandosi per la stanza e distruggendo tutto ciò che capitava a tiro. L'intera spalla gli doleva tremendamente per aver sferrato quel pugno, ma era troppo impegnato ad arretrare di fronte alla furia di  Hulk per realizzarlo, venendo finalmente investito da una sana, razionale paura. Strisciò dietro... cosa? Il muro del salone era appena crollato. Tony venne investito dai calcinacci e per una volta fu contento di avere un braccio di ferro a fargli da riparo. Tossì nella nuvola di detriti sottili che si era sollevata e rimase immobile, in posizione fetale, chiedendosi come facesse ad essere ancora vivo e se ciò fosse davvero un bene. 
Dopo un tempo che non seppe definire, intervallato dai ruggiti di Hulk, un piede si abbatté a tre centimetri dal suo naso. Aspettò di sentirsi spalmare sul pavimento, terminando così la sua inutile esistenza, ma quando ciò non accadde si arrischiò a sollevare appena il capo. Si ritrovò ad essere scrutato da un paio d'occhi scuri e preoccupati.
«Bruce?» articolò, realizzando con sollievo che la pelle dell'amico era di nuovo del suo colore naturale.
«Ehi, sei vivo?» la voce dell'altro era ancora sforzata, ma decisamente più calma di prima.
Tony realizzò con sollievo di essere fuori pericolo, per poi provare una punta di disturbante rammarico al pensiero.
«Più o meno. Non grazie a te,» commentò, sputando sangue per una ferita all'interno dlela guancia.
«Non grazie a
te, vorrai dire,» ribatté Bruce. «Che diavolo ti è venuto in mente? È un miracolo che non abbia perso il controllo...» aggiunse, incredulo.
«Ah, quello non era "perdere il controllo"?» biascicò Tony.
«Hai attaccato Hulk! Cosa ti aspettavi che succedesse?»
«Ho agito d'istinto. E l'alcol...» Tony tentò di nuovo di rimettersi in piedi.
«Stai fermo,» lo tenne a bada l'altro, trattenendolo a terra con una mano sulla schiena. «Senti, dove trovo dei vestiti?» aggiunse, con lieve imbarazzo.
«Uh...» mugugnò lui, notando in quel momento che Bruce era rimasto con solo i resti dei suoi pantaloni stracciati addosso. «Prova in camera mia. Là,» rantolò, additando una porta che si affacciava sul salone, e Bruce si defilò.
Tony rimase ad ondeggiare da fermo con la fronte contro il pavimento, a tempo con le valanghe di nausea che lo scuotevano. Si passò una mano sul volto nel tentativo di ripulirsi dallo strato di calce, polvere e... era altro sangue, quello? Si tastò lo zigomo, ricevendo un'altra scossa di dolore e ritraendo le dita macchiate di rosso. Si tamponò lo spacco col colletto della camicia, rassegnato.
Bruce si ripresentò poco dopo in un paio di pantaloni grigi di una tuta e con una vecchia maglietta dei Rolling Stones che gli andava decisamente stretta.
«Trattala bene,» tossicchiò Tony, in un disperato tentativo di mostrarsi spigliato.
Si sentiva a un passo dallo svenire, e Bruce si passò il suo braccio buono sulle spalle e lo sollevò di peso.
«Ti ho mai detto quanto mi faccia incazzare vedere gente incazzata?»
«Penso di essermene reso conto da solo, grazie per la simpatica dimostrazione,» disse Tony, con la bocca impastata dall'alcol, che per i suoi gusti si stava muovendo un po' troppo nel suo stomaco... già, un po'
troppo.
Bruce dovette rendersi conto che per gli altri non era normale assumere una sfumatura verdognola, così lo lasciò andare di colpo poco prima che il pavimento venisse inondato, trattenendolo per il colletto per evitargli l'impatto.
«Credo di dover vomitare anche l'anima...» riuscì ad articolare Tony, scansandosi di lato con un barlume di lucidità.
«Vedo. Non ha un bel colore.»
Bruce riuscì a trascinarlo in bagno alla bell'e meglio per farlo svuotare del tutto e gli rimase accanto a sostenerlo. Ecco, adesso poteva dire di aver provato l'ebbrezza di reggere la testa a qualcuno che vomitava.
«Uccidimi,» bofonchiò confusamente Tony, tra un conato e l'altro.
«Chiedi all'altro,» rispose assente Bruce, impegnato piuttosto a sorreggerlo, non guardare e cercare al contempo di toccarlo il meno possibile.
Sarebbe stato più incline a farlo se avesse avuto la peste...
«Uccidimi! Non è per questo che ti ha mandato qui Fury?» quasi urlò, non risultando per niente convincente col water che gli faceva da megafono.
«No, in realtà, io...»
«No, non me ne frega un caz–...» lo stomaco non contenne la sua furia. «Oddio, basta!» implorò, tossendo.
Bruce fu tentato di lasciargli andare la testa e farlo soffocare, ma poi gli avrebbe fatto un favore. Pensò di chiedergli se aveva finito, ma l'ennesima ondata di alcol gli rispose di no.
«Che hai intenzione di fare? Quando avrai finito, intendo.»
«Non mi sembra di chiedere così tanto,» balbettò invece lui.
Bruce ci mise un po' a ricollegare quelle parole alla sua richiesta di poco prima, rimanendone agghiacciato.
«Dai così poco valore alla tua vita?»
«
Quale vita?» disse lui, tirando fuori la faccia dal water e rivolgendogli un'occhiata stralunata.
«Sei sempre
tu a ridurti così. Da solo. Ci hai mai fatto caso?»
Bruce alzò un sopracciglio quando l'unica risposta fu Tony che rituffava la testa nella tazza, stavolta in un conato di bile. Alzò anche l'altro sopracciglio: riteneva un po' assurdo parlare di vita, morte e miracoli con il suo interlocutore appassionatamente abbracciato alla tazza del cesso. Tutto ciò era paradossale.
«È meglio dell'alternativa,» riuscì ad articolare Tony, affannato.
«Allora, se sei così incline a morire,» replicò Bruce, stringendo la presa sulla sua fronte e sulla sua spalla sana, «perché hai quel reattore arc in mezzo al petto? Perché ti sei costruito quelle protesi? Se davvero avessi voluto morire, avresti potuto farlo tempo fa.»
«"Tempo fa", tutto questo non sembrava così difficile,» sibilò lui tra i denti.
«La vita non è facile, Tony. Pensavamo l'avessi capito, ormai.»
«Ed io pensavo che la parte "difficile" della mia vita fosse già passata.
Due volte. Un tris non era contemplato.»
Bruce avrebbe potuto replicare in mille modi, ma avrebbe avuto altre occasioni per rigirare il coltello nella piaga e non aveva alcuna voglia di parlare di rapimenti e incidenti d'auto. Sarebbe stato troppo crudele anche in quella situazione. Tony trovò finalmente la forza di sfuggire alla sua presa e staccarsi dal water, apparentemente svuotato. Cercò a tentoni lo sciacquone e si trasse in piedi aggrappandosi al lavandino per darsi una ripulita, sperando che non cedesse sotto il suo peso, visto che le sue gambe si rifiutavano di camminare e le sua protesi non erano esattamente leggere, né utili. Sosteneva tutto il corpo con la gamba buona; l'altra, inerte, gli serviva solo da contrappeso.
«Fatto?» chiese cautamente Bruce.
«A meno che non voglia sputare anche gli organi interni, sì,» rispose Tony con voce ovattata mentre cacciava la testa sotto al rubinetto e si sciacquava a fondo la bocca.
Sollevò il viso grondante d'acqua, tamponandolo con un asciugamano e ravviandosi i capelli bagnati e scomposti, sentendosi già più lucido. La sua esperienza decennale di sbronze e doposbornie serviva a qualcosa, almeno.
Si tolse la benda di garza fradicia sperando che Bruce non fosse troppo impressionabile, e ne cercò a tentoni una pulita nell'armadietto. Lo sfregio – quanto odiava quella parola – era di un rosso più acceso e più gonfio del normale; il pugno di Bruce gli aveva spaccato solo superficialmente lo zigomo opposto, evitando fortunatamente la piaga.
Si asciugò meglio la pelle attorno ad essa, trattenendo piccole smorfie di fastidio, poi applicò la garza adesiva sopra alla palpebra chiusa, facendola aderire con cura. Si tamponò il sangue sulla scalfittura con l'asciugamano, mordendosi contrariato il labbro nell'osservarsi allo specchio. Era un po' che non lo faceva, e oltre a scoprire di essere dimagrito più di quel che avesse pensato, incontrò nel suo sguardo una luce spenta che non ricordava di aver mai visto, neanche al ritorno dall'Afghanistan. Serrò la mascella e diede un colpetto allo specchio con le nocche metalliche, abbastanza forte da romperlo senza causare troppi danni, se non un paio di piccole schegge che caddero nello scarico del lavandino. Il suo riflesso si sfaccettò, attraversato dalla ragnatela di crepe. Provò un senso di sollievo irrazionale nel non doversi più guardare in faccia e finì di asciugarsi il viso come se nulla fosse, percependo su di sé gli occhi attenti di Bruce. 
Nel vedere Tony che infrangeva lo specchio, questi ebbe una spiacevole sensazione di deja-vù: poteva immaginare fin troppo bene che cosa stesse pensando. Con fare rassegnato, lo sostenne aiutandolo a barcollare fino al water chiuso, dove lo lasciò cadere seduto, senza più un briciolo di forza in corpo. Non aveva l'aria di voler parlare, ma allo stesso tempo sembrava non poterne fare a meno.
«Tu come fai?» chiese infine, tormentandosi la mano meccanica.
«A fare cosa?» chiese Bruce, accigliandosi appena.
Si appoggiò allo stipite e incrociò le braccia, preparandosi a un lungo e interminabile discorso che avrebbe messo duramente alla prova i suoi nervi già abbastanza logorati.
«La rabbia. Come la controlli?»
«Non mi sembra di farlo.»
Bruce fece una smorfia nervosa e adocchiò il salotto in rovina. «Ma sicuramente non la controllo così,» aggiunse, facendo un gesto eloquente verso di lui, lo specchio, la casa, in generale il caos che aveva provocato.
Tony sbuffò e voltò la testa dall'altra parte, riluttante ad ammettere i suoi sbagli. Strappò un pezzo di carta igienica, riprendendo a tamponarsi lo zigomo sanguinante.
«Pepper non sarà contenta quando...»
Lo sguardo perplesso di Bruce fu la risposta più eloquente che potesse ricevere. Si interruppe e annuì appena, con un sorriso amaro a solcargli le labbra.
«Giusto. Non tornerà,» mormorò, passandosi una mano tra i capelli fradici come a farsi entrare bene in testa quel fatto.
«Puoi davvero darle torto?» gli chiese Bruce, duramente, e Tony concluse che avrebbe preferito perire per mano di Hulk piuttosto che pensare a quello che le aveva fatto.
Si limitò a scuotere piano la testa, comprimendo le labbra. Avrebbe finito per rompere tutto ciò che lo circondava, e in un certo senso era sollevato nel pensarla lontano da lì, e da lui. Forse sarebbe tornata, ma con gli occhi spenti, il volto gelido e parole colme di delusione, il che equivaleva a non riaverla affatto. Aveva bisogno di lei, ed era uno conclusione a cui era lentamente arrivato nel corso di quegli anni; ma se prima non era mai stato del tutto sicuro di meritarsi la sua presenza, adesso ne aveva la certezza.
Bruce si fissava la punta dei piedi scalzi con fare concentrato, come a decidere se fosse meglio urlargli contro o lasciarlo lì a rimuginare con se stesso. Infine sembrò optare per una via di mezzo, perché alzò di scatto la testa e lo guardò dritto negli occhi, con l'espressione più seria che Tony gli avesse mai visto.
«Cosa hai intenzione di fare?» gli chiese ancora.
Tony fece per parlare, poi scosse la testa e si lasciò andare a una risatina rassegnata e spenta.
«Ma che razza di domanda è? Cosa vorrei fare, secondo te?» sbottò poi, quasi con irritazione.
Bruce non si turbò più di tanto, ma la risposta che lasciò le sue labbra fu tagliente:
«Posso immaginarlo, ma ricordati che per te non ci sarebbe nessuno a sputare il proiettile. E comunque è bello vedere come ricambi gli sforzi degli altri per mantenerti in vita.»
A quel punto Tony si voltò bruscamente, alzando la voce:
«Ma mi hai visto? Non riesco a muovermi senza stare attaccato a qualcuno o a una stampella, vedo poco e male, quando prendo qualcosa devo sperare di non romperla...» a quel punto l'unica cosa a rompersi fu la sua voce, e il suo pugno metallico si strinse nel vuoto, come tentando di afferrare qualcosa di troppo lontano. «O qualcuno...» sussurrò poi, appena udibile, più a se stesso che a Bruce.
Questi stava giusto per dire qualcosa, ma Tony parlò per primo, con parole intrise di rabbia e frustrazione:
«Sono rimasto solo con un...
prototipo di me stesso, sono circondato da macchine in cui non posso fare a meno di riflettermi. Ogni giorno, ogni cazzo di giorno della mia vita mi costringo a trascinarmi avanti anche se in realtà non voglio. A che serve, se non potrò più fare ciò che vorrei fare?! Iron Man è distrutto, non tornerà mai! E sono stato un idiota anche solo a pensare di poterlo fare!» fece una pausa, riprendendo fiato, la voce spezzata. «Sarei dovuto morire un anno fa in quella grotta,» mormorò infine, le parole appena comprensibili.
Fu allora che Bruce s'intromise, con forzata calma.
«È vero. Guarda cos'hai combinato: hai
cacciato chi ti ama, hai voluto distruggere Iron Man, ti comporti da ingrato con chi si sacrifica per te, hai affossato la tua immagine pubblica e tutto questo per cosa? Per dimostrare a Pepper, a me, al mondo intero o a chiunque altro che Tony Stark non è cambiato? È cambiato tutto, la tua vita è sconvolta e tu continui a fare finta di nulla e a comportarti come prima. Quando ti deciderai a cambiare anche tu?»
«Non vedo perché dovrei farlo,» s'impuntò Tony. 
«L'hai già fatto e sei diventato Iron Man, mi pare,» osservò Bruce, sollevando appena le sopracciglia.
«Sì, ma non mi sembra che il mondo sia mai cambiato per me. Io ho provato a
cambiarlo, il mondo, ma mi ha fatto lo sgambetto e poi mi ha sputato in faccia,» concluse aspramente.
«Il mondo non cambia a comando, Tony!» sbottò Bruce, esasperato. «Non l'ha fatto neanche per me e io al contrario di te non posso cambiare chi sono!» alzò la voce per poi bloccarsi, facendo un respiro profondo per riprendere la calma. «Eppure non mi sembra di pensare solo a me stesso come fai tu,» riprese, di nuovo controllato.
«Io non...» provò a dire Tony, ma le parole gli morirono in gola e furono soverchiate da quelle di Bruce:
«È questo il tuo problema: "io". Se qualche volta pensassi anche agli
altri, forse ti renderesti conto che non sei solo! Prendi me: io voglio rimanere calmo e concentro tutte le mie forze per farlo, e non ho una macchina che mi aiuti, né qualcuno che mi stia accanto. Sai quanta rabbia mi fa, vedere come tu abbia ogni mezzo immaginabile per tirarti su e come ti manchi il coraggio per usarlo?»
«Ho tutto e niente... questa storia l'ho già sentita,» borbottò Tony con un sospiro esasperato, ignorando volutamente il resto.
«Non è questo il punto...»
«Hai ragione! Il punto è che la mia vita è andata a puttane, di nuovo, e io non sono riuscito a fare nulla per impedirlo! Tu pensi che mi scoraggi troppo facilmente, ma la verità è che sono stato
troppo coraggioso e ambizioso. Ho voluto cambiare il mondo, ho voluto rimediare ai miei errori e cercare di fare qualcosa di giusto, e adesso mi ritrovo in questa situazione di merda!» disse d'un fiato, con veemenza. «Dici che sono egoista... bene, se solo lo fossi stato un po' di più, sarei potuto comodamente crepare con una pallottola in testa, invece di farlo un passo alla volta come ora, e forse sarebbe stato meglio!» gridò con tutto il fiato che gli era rimasto.
«Hai davvero ripensamenti del genere? Ti stai
davvero pentendo di aver salvato delle vite?» 
Bruce adesso sembrava più turbato di quanto desse a vedere, e Tony era convinto che solo un'altra parola sbagliata avrebbe potuto farlo esplodere. Così non rispose, fissando ostinato il pavimento, non sapendo in verità come replicare a quell'accusa.
«A volte penso a cosa direbbe mio padre se potesse vedermi in questo stato,» disse invece, fin troppo calmo. «E me lo immagino mentre mi accusa come al solito di averlo deluso, di aver tradito le sue aspettative, di non essere mai all'altezza della situazione. Di essere irrecuperabile.» Sospirò piano, guardandosi le mani ancora strette tra loro. «Come si fa a non deludere le persone? Ad essere sempre all'altezza?» guardò Bruce come in cerca di una risposta, poi continuò, a voce più bassa: «Forse il vero problema è che mi basta essere all'altezza di me stesso... ed è sempre troppo poco. Mi sono addirittura creato Iron Man per rimediare. Non è ridicolo?» concluse con scherno.
«Tu sei riuscito a creare qualcosa di
buono. Non solo per te stesso, ma anche per gli altri. Qualcosa in cui credi,» ribatté Bruce, senza scomporsi, con voce salda.
Tony gli riservò solo un ostinato silenzio, al che Bruce esitò.
«Ci credi ancora, vero?»
«Che importanza ha? Ho mandato tutto in fumo,» replicò piattamente lui.
Bruce sembrò improvvisamente farsi più comprensivo e il suo sguardo quasi si addolcì quando parlò in tono più pacato:
«Sei già rinato dalle ceneri, Tony.»
Lui lo fissò assorto, colpito da quell'affermazione così inaspettata.
«Davvero non puoi farlo ancora?» si limitò a chiedergli.
Attese una risposta che non arrivò, chiusa nei pensieri di Tony.


***


3 Aprile, 19:20, Villa Stark

Avrebbe avuto bisogno di un bagno, ma il solo pensiero di dover entrare e uscire dalla vasca con le protesi che gli inviavano fitte lancinanti lo fece desistere.
Dopo. Dopo un'aspirina. Dopo una dormita. Dopo aver buttato nello scarico tutto l'alcol che aveva in casa. Dopo. Adesso aveva tutto il tempo del mondo.
Bruce aveva avuto la premura di portargli le stampelle prima di andar via, così riuscì a sollevarsi con un po' più di stabilità, piuttosto che avanzare a balzelloni e aggrapparsi al portasciugamani, al lavandino e a ciò che trovava in giro. Il suo unico pensiero in quel momento era il letto. O meglio, il divano, che era decisamente più vicino e proponibile nelle sue condizioni. Una bella dormita, poi avrebbe ingollato tre litri d'acqua e smaltito la sbornia, si sarebbe dato una ripulita e dopo... il dopo non rientrava ancora nei suoi programmi. Revisionare le protesi. Sì, era un buon "dopo": cervello impegnato e mani impegnate, uguale a "niente pensieri e niente danni". Dopo, magari, sarebbe tornata. Non era sicuro che quel "dopo" fosse esprimibile in misure di tempo conosciute, ma era una bella prospettiva, per quanto intrinsecamente terribile.
Stava delirando. Avrebbe fatto meglio a cadere addormentato il prima possibile per evitare altre, inutili elucubrazioni mentali. Mandò giù i suoi antidolorifici come fossero ambrosia, pregando che facessero rapidamente effetto, poi zoppicò a fatica fino all'atrio e al salone distrutti. Hulk aveva
davvero abbattuto il muro. Almeno non aveva avuto un'allucinazione. In compenso il pavimento ondeggiava un po' troppo per i suoi gusti e il divano sembrava fin troppo distante: a separarli c'era un mare di detriti, vetri e resti di mobili fracassati.
Iniziò la traversata, ma era arrivato ad appena un paio di metri dallo schienale che la protesi della gamba cedette con uno scricchiolio agonizzante, e si ritrovò bocconi per terra prima di poter realizzare come. Batté la testa, come se non gli facesse già abbastanza male. Ogni tentativo per rialzarsi, o anche solo muoversi, fu inutile. Rimase accasciato lì, inerme, indeciso se addormentarsi o chiedere a JARVIS di chiamare qualcuno. Giusto... aveva disattivato JARVIS poco prima di darsi alla pazza gioia in un mare d'alcol. E Bruce aveva staccato la corrente per evitare ulteriori danni.
Non ebbe neanche la forza di sospirare: riuscì solo a chiudere l'occhio e a lasciarsi precipitare in un sonno buio e profondo.




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Revisione effettuata il 04/03/2018

Note delle Autrici:

Da qualche parte nel mondo... Kyle innaffiò lo schermo della tv con dell’ottimo tè."
Povero Kyle. è rimasto sconvolto, da... tutto. (Se non l'avete capito ORA, avete perso ogni speranza di comprensione. Scherziamo, sveleremo tutto... prima o poi :D) 

A parte tutto! Carissime... Siamo vive! *Light e Moon sventolano bandiere e lanciano coriandoli* Usciamo dal mare di apatia, come Tony con questa roba, altrettanto indigeribile (attenti allo stomaco. Le autrici consigliano l'uso di buscopan) e sì, ci assentiamo per mesi e torniamo con i mattoni. Ma non saremo doRci? Amateci, ci metterete un mese a digerire questa cosa e nel frattempo speriamo di aver già aggiornato. SPERIAMO.
Che dire... questo capitolo. È stato anch'esso un parto plurigemellare con complicazioni. Le amabili scene in cui Tony dà il megli odi sé derivano da questo -ribadiamo fantastico- video: http://www.youtube.com/watch?v=FSFjFGUZGIg
<3
 
Ringraziamo chiunque è sopravvissuto fino ad ora: chi ha aggiunto la storia tra le seguite/preferite/ricordate, chi ha letto, recensito, soprattutto lo scorso capitolo; Alley, MissysP, Aston, Sherlock_Watson, The_best_who_sing e Rogue92! :D Grazie mille a tutti <3
See ya,


Moon&Light

P.S. Prego notare come l'aura benefica dei Foo Fighters si irradi da questo capitolo! *MoonRay dà una padellata i ntesta a Light* M: Ebbasta! L: Foo... ç^ç


Edit 04/03/2018: si è resa necessaria una modifica dello scontro con Hulk... o meglio una giustificazione al suo scoppio d'ira; per questo adesso Tony si comporta ben due volte da idiota pensando di poter anche solo scalfirlo con un pugno. Per capirci, la prima volta Bruce "sbrocca" di riflesso ma è ancora in grado di controllarsi; la seconda il suo autocontrollo è bello che andato, di qui il cazzottone devastante e potenziamente mortale a Tony.
A conti fatti, Bruce non avrebbe mai usato volontariamente il suo "lato verde" per far rinsavire un amico e ci voleva un primo "casus belli". [-Light-]

 



© Marvel

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Capitolo 26
*** Hycarus ***




25

Hycarus






"'Cause there's a side to you that I never knew, never knew
All the things you'd say, they were never true, never true
And the games you'd play, you would always win, always win"

[Set Fire To The Rain – Adele]



"I don't know what stressed me first
or how the pressure was fed
But I know just what it feels like
To have a voice in the back of my head"

[Papercut – Linkin Park]



3 Aprile, 22:45, Villa Stark

Lo trovò rannicchiato dietro al divano in posizione quasi fetale, un braccio alzato a coprirgli il viso stravolto.
Pepper si chiese cosa, esattamente, l'avesse spinta a rifiutare la cortese offerta del dottor Banner per conto dello SHIELD e a tornare là. Avrebbe potuto passare qualche giorno di serenità sull'Helicarrier o alla loro base, senza doversi costantemente preoccupare di cosa stesse combinando il suo capo e di quale misure avrebbe dovuto adottare per arginare i relativi danni.
Invece era di nuovo lì dopo neanche mezza giornata, nel buio cupo dell'atrio devastato. Bruce doveva aver avuto la previdenza di staccare corrente. Con fare cauto ma rassegnato si avvicinò a Tony, che dal respiro lento e regolare sembrava profondamente addormentato e ignaro della sua presenza. Represse l'impulso di svegliarlo a schiaffi solo quando notò il livido violaceo e il rivolo di sangue che correva lungo la sua mandibola, segno che Bruce era stato costretto a inculcargli un po' di buonsenso con metodi un po' più diretti dei suoi.
Ci volle una buona dose di scossoni e di richiami per farlo rinvenire, ma infine aprì l'occhio appannato dal sonno e dagli strascichi della sbronza. Annaspò per qualche secondo come non rendendosi conto di dove si trovava, forse riscosso da un incubo, poi sbattè la palpebra nel tentativo di mettere a fuoco il mondo. Sbarrò l'occhio nel riconoscerla e si ritrasse di scatto abbassando lo sguardo. Pepper si accorse dello sguardo fugace che aveva lanciato al suo braccio dove, sotto al giacchetto, spiccava ancora l'alone rosso lasciato dalla sua mano.
Bene. Aveva almeno la decenza di sentirsi in colpa.
Ci fu un lungo, teso, imbarazzante silenzio, che Pepper non ritenne opportuno rompere.
«Non pensavo che saresti tornata,»
gracchiò infine Tony con la voce sfibrata dall'alcool e dalle urla, nell'evidente sforzo di far coincidere i pensieri con le parole.
«Neanch'io,»
lo freddò la donna, duramente.
Tony ammutolì, distogliendo di nuovo lo sguardo. Si sentiva così debole e confuso da riuscire a malapena a mettere in ordine le sensazioni che gli inviava il suo corpo.
Uno smorzato pigolio del suo stomaco gli ricordò di non aver toccato cibo da quella mattina prima del processo, ma il solo pensiero di mangiare gli rivoltò le viscere. Provò a muoversi, ottenendo solo una sonora protesta dei suoi muscoli indolenziti per le troppe ore passate sul pavimento duro. La cosa non sfuggì a Pepper, che si accigliò e si avvicinò appena, acquistando una visione più dettagliata del suo stato pietoso, dalla camicia macchiata di sangue ai pantaloni sporchi di polvere e calce, passando per suoi capelli sconvolti e umidi. Sospirò.
«Potevi almeno trascinarti fino al divano,»
commentò, mantenendo la propria asprezza.
Prese nel frattempo nota del preoccupante rossore sulle guance dell'uomo e dell'occhio troppo lucido per essere solo assonnato. Probabilmente stava ancora scontando la febbre degli ultimi giorni, che in quel momento doveva toccare vette inarrivabili. Tony trasalì con un po' di ritardo alle sue parole, poi sollevò svogliato un sopracciglio:
«È perché mai? Il pavimento è così comodo,»
rispose, abbozzando un sorrisetto smorto.
Pepper non replicò, ma si alzò di scatto e si allontanò in direzione della cucina. Tony sperò con tutto se stesso che tornasse con un'aspirina. O con un sedativo per elefanti. Sentiva che l'effetto degli antidolorifici stava scemando di nuovo, lasciando posto alle solite fitte e a un solido, arroventato cerchio alla testa.
Abbandonò la posizione vagamente composta che aveva assunto per sdraiarsi di nuovo a terra e poggiare la fronte bollente sulla superficie fresca del pavimento di marmo. Era un bel po' che non aveva un mal di testa post-sbornia. Cominciava a ricordare perché li detestasse tanto, e adesso aveva l'onore di sperimentarlo in combinazione con la febbre. Non trattenne un rantolo esasperato. Iniziò a rendersi conto delle sue condizioni e di quanto patetico dovesse apparire, con una faccia che immaginava essere terribile dopo il pugno Bruce e la quantità immane di alcool. Senza contare i capelli, che era sicuro fossero in quello stato per allontanarsi il più possibile dal loro proprietario. Si passò una mano tremante tra essi trovandoli ancora umidi; tentò di districarli, ma finì solo per arruffarli di più. Rinunciò con un moto di stizza ed emise un mugolio involontario nel girarsi sulla schiena.
"Alzati."
"No," risposero indifferenti le... la... al diavolo, le gambe.
Si costrinse ad aspettare il ritorno di Pepper, tre minuti di attesa che gli parvero lunghi tre ore. Temeva che se ne andasse di nuovo, per davvero. Temeva di sentire i suoi tacchi avvicinarsi e poi superarlo dirigendosi verso la porta. Temeva di sentire il rombo di una macchina che si accendeva e lo stridio di ruote che si allontanavano sul vialetto. E poi sapeva che avrebbe ripreso a urlare.
Il ticchettio che preannunciava l'arrivo di Pepper risuonò nelle sue orecchie e un nodo d'ansia gli strinse lo stomaco già contratto dalla fame. Fu con immenso sollievo che sentì la mano della donna che si posava sulla sua fronte. Non si era neanche reso conto di aver serrato l'occhio. Avrebbe voluto prolungare quel contatto, ma lei si ritrasse e lo sospinse per farlo mettere a sedere. La sua impressione di deja-vù aumentava di secondo in secondo. Magari in futuro avrebbe potuto far infuriare pure Thor, così da farsi pestare anche da lui per ripetere tutta quella scena una terza volta.
Pepper gli porse un bicchiere d'acqua con una pasticca che sembrava essere qualcosa di più forte di un'aspirina. Non si soffermò a riflettere e ingollò il tutto senza fiatare, sperando improvvisamente di potersi mettere a dormire e chiudere tutto il mondo fuori dalla sua mente. Aveva appena posato il bicchiere a terra, già convinto di sentirsi meglio, quando le parole lasciarono le sue labbra, senza consenso:
«Perché sei qui?»
"Sempre più in gamba, eh, Tony?"
La domanda ebbe l'effetto immediato di accentuare ogni ombra sul viso di Pepper, rendendola insolitamente minacciosa. Sembrò tentata dal non rispondere, poi lo guardò dritto negli occhi, dietro un velo di tristezza.
«Perché da solo non ce la faresti,»
disse piano e, nonostante fosse certo che non avesse voluto realmente ferirlo, sentì un dolore atroce stritolargli il petto e si sentì svuotato di tutta la rabbia che ancora era annidata in lui.
Si sentì solo debole e indifeso, più che mai. Era di nuovo nella grotta, qualcuno aveva di nuovo il suo destino in mano, aveva ancora i mitra puntati alla testa e la vita che gli scorreva via tra le dita senza che lui potesse fare nulla per trattenerla. La guardò smarrito, poi scosse la testa, tentò di tirar fuori il suo sorriso sfrontato, e gli uscì solo una smorfia penosa. Vide qualcosa che somigliava terribilmente a compassione fare capolino sul volto di Pepper.
«Perché continuate a pensare che abbia bisogno di aiuto?» sbottò, indurendo il volto in una maschera sprezzante. «Non ne ho bisogno, non ho alcun bisogno dell'aiuto di...»
«Tony...»
mormorò semplicemente Pepper, e lui ammutolì senza neanche capirne il motivo. «Perché sei qui per terra?» gli chiese, e lui assunse un'espressione spaesata.
«Che razza di domanda è?»
«Tu rispondi.»
«Perché ero ubriaco e sono caduto, ecco perché! Credevo fosse evidente! E sto già bene, adesso,»
mise in chiaro, irritato, non capendo dove volesse andare a parare e già presagendo un'interminabile paternale.
«Allora alzati,»
commentò semplicemente Pepper.
Fu un'altra stoccata al petto che gli mozzò il fiato. Si aspettava un rimprovero, una sfuriata, un addio,
qualunque cosa, ma non quella schiettezza quasi crudele. Se la meritava, e lo sapeva, ma non potè fare a meno di sentirsi tradito, come se avesse ricevuto una pugnalata alle spalle da chi aveva il compito di proteggerlo. Tentennò, incapace di imbastire la solita facciata di circostanza.
«Non ho molta voglia di... adesso non...»
«Tony.»

Stavolta c'era una sfumatura più severa nella sua voce. Sentì la vergogna affiorargli al volto in una vampata rovente, mentre si sforzava di cacciar fuori quelle parole.
«Non ce la faccio,»
esalò infine, sentendosi scoperto, soffocato dall'umiliazione. «Non riesco ad alzarmi da solo,» si costrinse ad aggiungere, combattendo contro le parole aspre e sprezzanti che gli salivano alle labbra.
Girò di scatto la testa, rivolgendole il lato cieco e desiderando come non mai di poter correre via. E non poteva. Non avrebbe più potuto, si rese conto. Per un attimo tutto quello che aveva costruito gli sembrò una vana illusione, elaborata per l'uomo perfetto che lui non era. Respinse il pensiero, ma questo si rifugiò in un angolo non troppo remoto della sua mente, pronto a rispuntare al momento opportuno.
Sentiva lo sguardo di Pepper su di sé, opprimente.
«Era così difficile ammettere di aver bisogno di qualcuno?»
sospirò lei, e gli sembrò improvvisamente esausta.
Tony captò la differenza tra "aiuto" e "qualcuno", ma non volle riconoscerla e si ostinò a rimanere in silenzio.  Lei gli scostò i capelli dalla fronte accaldata, in un gesto delicato che non seppe come interpretare. Non sapeva neanche decifrare quello che stava provando in quel momento, se non un'immensa debolezza e il desiderio di ancorarsi a qualcosa, a
qualsiasi cosa, ma attorno a lui percepiva solo il vuoto. Pepper arrivò a riempirlo, posandogli una mano sulla guancia con una gentilezza che non si sarebbe mai aspettato né meritato dopo tutto quel che era successo. Gli fece male, anche quello. Non si ritrasse, ma socchiuse l'occhio, non osando muoversi nel timore che si scostasse. Avrebbe voluto fare molte cose in quel momento, tra cui abbracciarla, accarezzarla, chiederle scusa, baciarla, stringerla a sé – non necessariamente in quell'ordine.
E invece, come al solito, fu la parola ad arrivare prima delle azioni:
«Pensi che adesso cambierà qualcosa?»
Ecco, adesso l'avrebbe schiaffeggiato, e a ragione. Invece gli prese il volto tra le mani e lo costrinse a guardarla, gli occhi chiari che sembravano leggergli dentro. Per un attimo ebbe il folle impulso di baciarla lì, adesso, ma esitò: il momento giusto era passato tempo fa e lui l'aveva sprecato.
«Tony.»
L'uomo sfuggì brevemente i suoi occhi. «No, guardami. Non sto scherzando, come non ho mai scherzato in tutto questo tempo. Non sei il solo ad essere "stanco".» A quel punto esitò brevemente, per poi riprendere con voce più cauta e bassa: «Ti voglio bene, e lo sai, ma non ho più né la pazienza, né la forza per badare a te.»
Tony fece per protestare, sentendo un'alternanza di spilli roventi e gelidi pungergli il cuore a quelle parole inaspettate, ma lei lo anticipò:
«Riesci a capirlo?»
L'uomo tentò debolmente di svicolare alla sua stretta, ma rinunciò quasi subito. Annuì piano, rassegnato, sentendosi un bambino che ammette di aver torto. Pepper gli liberò il volto, ma lasciò una mano sulla sua guancia bollente, appena sopra l'escoriazione che gli solcava lo zigomo.
«Capisci cosa sto cercando di dirti?»
mormorò ancora, lasciando scivolare via la mano in una lieve carezza.
Lui annuì di nuovo, muto. Lo capiva molto bene.
Gli stava dicendo che la prossima volta non sarebbe tornata indietro. E, se fosse caduto di nuovo, l'avrebbe lasciato a sprofondare nel fango.


***


4 Aprile, 00:10, Villa Stark

Mentre Tony si stava ancora slacciando le scarpe, il vapore aveva già iniziato a condensarsi sullo specchio.
Le mani gli tremavano nello sforzo di controllare le dita e sciogliere i nodi. La protesi rifiutava di collaborare, probabilmente a causa della situazione disastrata in cui versava la sua mente: i nervi dovevano essere ormai annegati nell'alcool. Al terzo tentativo mandò definitivamente a quel paese le scarpe e le scalciò via esasperato, come a scacciare anche i pensieri che lo assalivano: il processo, i giornalisti, Christine, la sbronza, Hulk, la casa semidistrutta... e Pepper.
"Che macello..." considerò tra sé, lanciandole un'occhiata di sottecchi.
Non sapeva con quali forze, nascoste nel suo corpo così minuto, era riuscita a trascinarlo fino al bagno evitando persino di farlo svenire durante il tragitto. Pensò che forse il suo aiuto gli sarebbe servito anche per arrivare alla vasca. Nonostante tutti i disastri della giornata si era persino offerta di aiutarlo a lavarsi, dato il suo scarso controllo psicofisico. Non era la prima volta che succedeva, anzi, si era completamente affidato a lei quando le protesi erano ancora in progettazione e lui era decisamente incapace di spostarsi da solo, tantomeno entrare nella vasca. C'erano stati molti momenti d'imbarazzo, soprattutto da parte propria verso il suo corpo abbrutito, e si era sentito sollevato quando negli ultimi tempi però era arrivato a fare sempre a meno del suo aiuto, man mano che recuperava le sue facoltà motorie. Peccato che adesso riuscisse a malapena a reggersi in piedi e fosse regredito a quella fase iniziale.
Si chiese quanta pazienza potesse davvero avere quella donna. Al posto suo se ne sarebbe andato... dal primo istante? Non senza averlo prima picchiato a sangue, ovviamente.
Pepper aprì l'acqua calda e sistemò gli asciugamani, sempre voltandogli accuratamente le spalle. Tony aspettava perso nei suoi pensieri, volti soprattutto a distogliere l'attenzione da cosa avevano riversato le sue viscere nel water, chiuso, su cui era seduto. Avrebbe voluto avere modi più costruttivi per occupare la sua mente, ma non aveva molta scelta, al momento, a parte continuare a litigare con bottoni, lacci, asole, zip e altre invenzioni del demonio.
«Posso aiutarla?» gli chiese infine lei in tono neutro, probabilmente notando le sue evidenti difficoltà di coordinazione.
Più che un'offerta sembrava una domanda ironica, come se la risposta fosse scontata. Con un cenno appena percettibile della testa annuì, sentendosi terribilmente spossato e con la sbronza ancora in via di smaltimento. Non riuscì nemmeno a ringraziarla, ad articolare una risposta sufficiente o anche solo a guardarla negli occhi.
"Tony Stark" e "senso del pudore" erano due concetti collocati pressoché agli antipodi l'uno dall'altro, ma in quel momento riuscì a provare solo un profondo senso di vergogna e inadeguatezza al pensiero di farsi svestire da lei, soprattutto considerando l'ultima occasione in cui si era fatto spogliare da una donna.
"Fa' che si sbrighi, ti prego," si ritrovò a pensare, rivolto non sapeva bene a chi, non riuscendo a sopportare di stare nella stessa stanza con lei ancora per molto.
Pepper gli si avvicinò e lo liberò dalla cravatta, iniziando poi a sbottonargli la camicia con dita gentili, sfiorandolo appena. Tony concentrò il suo sguardo su un punto poco oltre la testa di lei, cercando di non pensare a quanto sarebbe stato piacevole quel gesto in un'altra situazione. Arrossì violentemente, in un misto di vergogna e imbarazzo per quel pensiero inopportuno, un mix di emozioni che non credeva avrebbe mai provato in vita sua e
che soffocò sul nascere il lieve tramestio al basso ventre.
Pepper aveva appena allentato l'ultimo bottone e stava per allargargli la camicia per farla scivolare dalle sue spalle, il tutto senza che una sola traccia di emozione solcasse il suo viso. Tony dal canto suo non riusciva quasi più a sopportare la sua presenza: troppo immeritata... troppo bella, tanto da farlo agitare di nuovo. Era come se si fosse riempito così tanto, di rabbia, di frustrazione, di impotenza, da essere infine straripato, ma l'acqua non si fermava e continuava a riempirlo, e lui a straripare, ininterrotto, come un fiume in piena. Arginò quell'inondazione in cui si sarebbe volentieri lasciato annegare, per poi realizzare con un lampo di puro panico di essere a petto nudo, col reattore in bella vista. Perse il controllo appena recuperato e si ritrasse bruscamente dalle mani di Pepper, voltandosi di lato, non del tutto sicuro di essere in grado di guardarla negli occhi adesso sorpresi. Celò con una mano il reattore e con esso il lieve reticolo violaceo che lo contornava; fu con sollievo che chiuse nuovamente i lembi della camicia nascondendolo del tutto.
«Lasci. Faccio da solo,» quasi ringhiò, come un animale ferito che tenti di difendersi con le ultime forze nonostante sia già in fin di vita.
Vide uno scorcio di esitazione da parte sua e capì che si stava chiedendo se fosse davvero il caso di lasciarlo da solo.
«Che aspetta? Le ho detto che faccio da solo,» sbottò, con una voce che odiava essere così aspra eppure così tremante.
Quando lei esitò ancora continuò, alzando la voce. La cacciò praticamente fuori, quasi urlandole che ce la faceva da solo e che non doveva preoccuparsi per lui, che era stanco che tutti si preoccupassero per lui, di avere sempre tutti attorno e poi non riuscì a ricordare cos'altro. Qualunque cosa, pur di allontanarla da quell'ulteriore preoccupazione, da quell'ennesima crepa che solcava il suo guscio inutile.
Pepper, che aveva subito lo sfogo senza proferir parola, non aggiunse nulla, freddata da quell'esplosione improvvisa, ed uscì semplicemente senza guardarsi indietro, sbattendo la porta. Non seppe decifrare se non lo avesse insultato per rassegnazione o puro sdegno. Quell'indifferenza fu peggio di qualsiasi rimprovero. Avrebbe voluto che gli urlasse contro, che gli dicesse finalmente quanto lo detestasse e quanto fosse ingrato, che se ne andasse lasciandolo davvero nel fango – e invece continuava a tornare indietro e diceva di tenere a lui. La gola ancora gli bruciava per lo sforzo e se prima si era sentito un mostro, adesso non sapeva come definirsi.
Scosse la testa, questa volta veramente sgombra da qualsiasi pensiero per quanto era stanco e spossato. Fece per togliersi la camicia, ma la costola incrinata e la spalla meccanica indolenzita gli impedirono di girarsi a sufficienza per liberarsene; riprese quindi a lottare con la chiusura dei pantaloni. Alla fine, esasperato, si lasciò scivolare nella vasca ancora parzialmente vestito, quasi cadendoci dentro. Emise un sospiro di sollievo nel sentirsi abbracciare dall'acqua calda, ma i dolori muscolari lo assalirono subito dopo. Non si era reso conto dello sforzo che il suo fisico non più in forma come una volta aveva dovuto sopportare. Prese il doccino e se lo puntò sulla nuca, rilassandosi completamente sotto il getto che gli accarezzava i capelli, alleviando almeno apparentemente l'emicrania. Rimase così a lungo, godendosi quel momento di estasi.
Dopo molti minuti si risolse ad abbandonare quel sollievo e si immerse del tutto, con la testa più leggera poggiata mollemente sul bordo della vasca. Con enorme fatica si liberò dall'impiccio della stoffa lacera, sporca e pesante, che gettò poi sul pavimento. Tirò un sospiro di sollievo nel ritrovarsi completamente libero e a diretto contatto con il calore, abbandonandosi al suo effetto ristoratore. Solo allora notò quanto fosse dimagrito: i pantaloni non gli andavano più così larghi da mesi...
Qualche chiazza violacea incominciava a delinearsi sulla sua pelle attraverso la membrana cristallina dell'acqua e la visione delle sue dita impresse sul braccio di Pepper si ripresentò prepotente. Tastò un livido sulla gamba sana, assicurandosi che facesse male, e sperando di rivivere il colpo che Bruce gli aveva sferrato, ma il dolore non era paragonabile a quello che provava nel vedere il volto di Pepper contratto a causa sua, una macchina di ferro incompleta che invece di autodistruggersi demoliva ciò che gli stava intorno.
Poggiò una mano sul reattore, avvertendo il lieve ronzio che emetteva senza sosta. Quello almeno era rimasto invariato, ma non sapeva se fosse un bene o un male. Non cambiava il nucleo di palladio da circa tre mesi, da poco dopo l'incidente. Era così irreale, quando fino a pochi mesi prima era costretto a cambiarne uno ad ogni utilizzo dell'armatura. Eppure una singola, sottile venatura nera spuntava evidente dal reattore, solcandogli la pelle. Era irregolare, dai contorni squadrati, e si protendeva minacciosa verso il suo collo arrivando qualche centimetro sotto la clavicola. Era lì da un po', in effetti, ma all'inizio era così piccola e fine da non avergli dato troppo peso. Adesso, oltre alla linea che serpeggiava pericolosamente vicina all'attaccatura della protesi, intravedeva sottopelle un reticolo di striature più chiare
attorno alla circonferenza del reattore, che sembravano pronte a seguire la sua compagna e ad estendersi per tutto il suo torace. Colto da un sospetto improvviso inclinò la testa e cercò di guardare l'attaccatura della protesi anteriore: anche lì intravedeva dei capillari più scuri che si intrecciavano lungo il bordo metallico, ma erano appena percettibili e molto più sottili. Spostò lo sguardo sulla gamba, notando solo la piaga più infiammata del solito che probabilmente poteva già celare un altro reticolo di vene intossicate. 
Il suo volto si fece corrucciato mentre tastava con malcelato ribrezzo la linea scura in leggero rilievo. Era sempre stato consapevole della tossicità del palladio, ma non aveva mai pensato seriamente a come contrastarla, a parte bevendo un litro e mezzo di clorofilla al giorno. Aveva riso degli avvertimenti di Ian in proposito e si era sottratto a qualunque altro controllo medico da parte sua, proibendogli di farne parola con Pepper.
Forse aveva sottovalutato la cosa.
Poggiò di nuovo la testa sul bordo della vasca e chiuse l'occhio, lasciando ricadere la mano lungo il fianco: non aveva senso cercare soluzioni quando non era neanche sicuro di volerne trovare.
Si lasciò avvolgere dall'abbraccio invitante della vasca, immergendo completamente la testa e avvertendo il tepore che lo scaldava pian piano fino ai muscoli indolenziti. Percepiva a malapena il peso del cilindro metallico nel suo petto; la luce azzurrina che ne scaturiva dipingeva riflessi contorti sulle pareti levigate della vasca. Lo strato trasparente d'acqua gli dava una visione distorta del mondo esterno, ridotto a una massa tremolante sopra di lui, dai contorni indistinti, quasi come la realtà che non voleva vedere con chiarezza. Sbattè un paio di volte la palpebra prima di chiuderla, un po' infastidito. Incominciava a risentire della mancanza di ossigeno, ma il suo corpo sembrava abbandonato sul fondo della vasca e la testa era così pesante da sostenere... l'acqua invitante e accogliente. Non aveva nessun motivo per riemergere da quella quiete. Qualche tremolante bolla d'aria sfuggì alle sue labbra, risalendo verso la superficie.
Un bussare ovattato lo raggiunse fin sotto l'acqua, attraversando senza difficoltà la dimensione di tranquillità che era riuscito a ritagliarsi.
Non rispose: non voleva riprendere aria. Non ora...
«Signor Stark?» chiese Pepper, non ricevendo alcuna risposta.
I polmoni brucianti per la carenza di ossigeno lo costrinsero a riemergere, respirando affannosamente. I capelli arruffati e grondanti d'acqua che sgocciolavano interrompevano a malapena lo sgradevole silenzio.
Notò con la coda dell'occhio la porta che si schiudeva appena.
«Non entri,» rispose infine col fiato corto, quasi ansioso, impedendo alla donna di affacciarsi.
Pepper richiuse la porta, l'ennesima tra di loro.

***


4 Aprile, 01:20, Villa Stark

La polvere dei calcinacci era ancora ovunque, il muro stesso sembrava essersi spalmato ovunque. Sul divano, per la cucina, sul pavimento dell'intera casa...
Nonostante tutto, Tony si sentì quasi soddisfatto del suo lavoro da casalinga disperata: i calcinacci erano radunati in pile più o meno ordinate, le bottiglie d'alcool erano finite nell'immondizia e un paio di mobili avevano ripreso una posizione verticale.
Eppure gli sembrava di non aver concluso ancora nulla. La casa era ancora sottosopra, immersa nell'intonaco sgretolato e in qualche bottiglia dimenticata, col tavolo ancora a gambe all'aria, e aveva patito le pene dell'inferno per sistemare quelle quattro cosette che non avevano cambiato poi molto la situazione generale. Anzi, la protesi alla gamba sembrava andare a fuoco e poteva giurare di sentire anche lo sforzo dei muscoli metallici nonostante il cocktail decisamente azzardato di antidolorifici che aveva ingollato prima di mettersi all'opera. Era addirittura riuscito a mangiucchiare a forza qualche cracker, l'unico cibo di fronte al quale il suo stomaco non si fosse ribaltato per la nausea, accompagnato da un mezzo bicchiere d'acqua dal retrogusto alcolico.
L'unica nota positiva in tutto quello scompiglio era di essere riuscito a non svegliare Pepper, che dopo essersi accertata delle sue condizioni era andata a dormire stremata al piano di sopra, rivolgendogli uno sguardo che voleva chiaramente dire: "fatti-trovare-in-piedi-e-ti-ammazzo". Purtroppo il suo istinto di conservazione sembrava essere andato in vacanza, visto che era ancora impegnato a vagare da un capo all'altro della villa nel tentativo di renderla presentabile.
"Ok, JARVIS, hai vinto tu."
Tony si rassegnò a riconnettere la scheda madre dell'intelligenza artificiale che amministrava la casa e che l'avrebbe tirata a lucido attivando il sistema di aspirapolveri e robot appositamente installato, così si trascinò con le stampelle fino all'ascensore e scese in laboratorio. Era da meno di un giorno che non vi metteva piede, ma sembrava già essere un secolo, e doveva ammettere che gli mancava terribilmente la sua "sala giochi" e anche il benvenuto di JARVIS. La stanza si illuminò automaticamente come vi mise piede, ma gli mancava ancora quella scintilla di vitalità che aveva di solito: gli schermi erano spenti e le interfacce assenti. Quasi non riconosceva il suo covo.
Chiunque avrebbe potuto notare a colpo d'occhio la sua assenza, seppur breve: tutto era quasi ordinato, il contrario di ciò che restava dopo il suo passaggio. Era anche vero che l'ultima cosa sulla quale aveva lavorato era la propria gamba: non c'era modo di creare troppo disordine. Si accigliò quando quell'impressione fu smentita dalla scrivania nell'angolo, ancora rovesciata così come l'aveva lasciata quella mattina. La lasciò lì e si diresse con decisione verso il pannello di controllo piazzato in un angolo. Spostò a colpo sicuro qualche filo per poi reinserire la scheda, e questa riprese subito vita, illuminando i suoi circuti della familiare luce azzurrina.
"Azzurro. Perché azzurro ovunque?" si chiese distratto, picchiettando un ritmo sul reattore mentre un ronzio rassicurante pervadeva l'ambiente, segno che JARVIS stava riattivando le connessioni.
«Bentornato, signore,»
lo accolse cordialmente, e Tony si sentì finalmente di nuovo a casa.
Assistette soddisfatto al riavvio del laboratorio: improvvisamente tutto riprendeva vita. 
Quasi tutto. La parete delle armature rimase immersa nel buio, come sempre da quando l'aveva isolata e aveva trovato il tempo e la forza per schermarne il vetro, in modo da celarne il contenuto. Una vista dolorosa in meno per il suo già affaticato occhio.
Si fece strada fino alla consolle, scostando dal suo percorso i progetti e le interfacce dimenticate aperte nell'ultima sessione, poi si sedette sulla sua sedia come un re da lungo assente che riprende posto sul suo trono.
«Tesoro, ti sono mancato?» cinguettò scherzosamente, scostando uno schermo fluttuante in maniera quasi affettuosa e non volendo ammettere a se stesso il contrario.
Visto che gli avvisi del reboot di JARVIS cominciavano a privarlo dello spazio vitale, con un gran gesto delle braccia radunò tutte le schermate e le ridusse a una pallina di dati tremolante, che gettò poi nel cestino virtuale che gli apparve accanto.
«Signore, la planimetria dell'abitazione è stata modificata.» Tony alzò l'occhio al cielo. «Vuole registrare l'aggiornamento o...»
«Registra l'aggiornamento e tieni da parte il vecchio progetto della casa: forse il mio nuovo hobby sarà costruire muri.»
«Sì, signore.»
Essere tornato nel suo mondo gli dava un senso di sicurezza, un misto di serenità e sollievo: era dove poteva lasciare fuori tutti i suoi problemi e decidere di far entrare solo quelli che desiderava. E al momento aveva davvero bisogno di concentrarsi su qualcosa di pratico, fisico e concreto. Avrebbe voluto riprendere in mano la progettazione delle protesi, ma sentiva di aver già fatto troppo per quella giornata, e non era esattamente di umore creativo per fantasticare su tecnologie ancora inesistenti. Soprattutto non con le mani che ancora gli tremavano e la vista vagamente ondeggiante per l'alcool. C'era qualcos'altro che lo preoccupava maggiormente.
«JARVIS, avvia ricerca: compatibilità elementi esistenti con il nucleo del reattore arc.»
«Eseguo. Ricerca in corso.»
Tony sollevò la maglietta fino a scoprire il reattore, utilizzando lo schermo davanti a lui come specchio: osservò incuriosito la vena innaturalmente squadrata che incombeva minacciosa sul suo petto. Avrebbe potuto giurare che si fosse già allungata, ma forse era solo suggestione. Intanto un secondo schermo lampeggiante richiamò la sua attenzione, mostrandogli i risultati della ricerca.
«Nessun elemento compatibile con la tecnologia arc, signore. Al momento il palladio è l'unica soluzione disponibile.»
Tony osservò la tavola periodica appena analizzata, cercando di pensare a qualche possibile combinazione tra i vari elementi, poi con un gesto scacciò via la schermata. Non credeva davvero di avere forze sufficienti per sostenere anche quell'esito negativo. Inoltre, non riusciva a non preoccuparsi per il fatto che se mai avesse dovuto sostituire il nucleo del reattore, i micro-reattori che alimentavano le protesi avrebbero dovuto subire la stessa sorte. E ciò voleva dire modificare un qualcosa che era ancorato alla protesi... e al suo midollo osseo.
Si passò una mano sul pizzetto, turbato dalla necessità di dover subire una qualsiasi altra operazione: dopo l'intervento alla gamba aveva momentaneamente accantonato anche il progetto di un occhio sintetico, per quanto era spaventato all'idea di finire – in ogni senso – di nuovo sotto i ferri. Ma dopotutto le protesi non erano così dannose e i sintomi potevano essere tenuti sotto controllo dalla clorofilla e da qualche altra diavoleria che era sicuro di poter trovare o inventare: avrebbe potuto cambiare solo il nucleo del reattore centrale, decisamente più problematico, visto che si trovava a contatto diretto coi suoi organi interni.
Si accigliò, rendendosi conto che anche in questo caso avrebbe avuto un'unica possibilità. Quanto gli sarebbe costato inserire un elemente incompatibile nel reattore? E soprattutto: un arresto cardiaco causato da una scheggia che gli spaccava il miocardio sarebbe stato meglio o peggio di una morte lenta e dolorosa per intossicazione da metallo pesante?
Tornò ad osservare la venatura nerastra che spiccava sulla sua pelle. Sentiva un lieve senso di oppressione al petto e gli sembrava che i polmoni fossero meno ampi del solito.
"Solo suggestione," si ripeté con fermezza, ma il suo volto non si rilassò.
«JARVIS...»

Esitò. Voleva davvero saperlo?
«Quanto...
tra quanto l'intossicazione diventerà un problema serio?» modificò la domanda in corso d'opera, sentendo che in quel momento non era nelle condizioni di farsi rivelare il tempo che gli rimaneva.
«Mi è impossibile eseguire dei calcoli precisi, ma la mia stima è che tra circa sei o sette mesi i sintomi diventeranno evidenti, quando la concentrazione di palladio supererà il 20%»

«Sintomi?» 
Le sopracciglia di Tony si aggrottarono ulteriormente mentre seguiva le venature di palladio con l'impressione di riconoscervi forme e figure geometriche.
«Signore, le sconsiglio vivamente di ricercare i sintomi dell'intossicazione da metalli pesanti,» rispose JARVIS, in uno slancio di premura inatteso.
«Mh. Per fortuna ti ho dotato di più buonsenso di me,» commentò lui, con un sorrisetto spento, decidendosi a lasciar ricadere la maglietta.
Il logo degli AC/DC tornò a celare il reticolo venefico che occupava il suo petto.
Fissò assente il suo riflesso, cercando di collocare quell'ultimo problema nel puzzle già abbastanza complicato e malmesso che era diventata la sua vita. Per ogni tassello che sistemava al posto giusto ne spuntavano fuori altri dalle forme stravaganti che sembravano non avere nulla a che fare con i pezzi che già aveva.
«Signore, posso suggerirle di utilizzare un rilevatore di tossicità?»
Tony sobbalzò, riportato alla realtà dalla voce elettronica del suo maggiordomo virtuale. Uno schermo galleggiava a un palmo dal suo volto e lo allontanò un poco con la mano, focalizzando lo spaccato di un congegno. Nella sua mente era ancora impressa l'immagine della vena squadrata e nociva che risaltava sulla sua pelle. Strinse il pugno metallico più volte, nervoso, poi afferrò titubante gli occhiali da saldatore rimasti abbandonati sulla consolle.
Li soppesò per qualche istante, mentre la vena prendeva a ramificarsi nella sua immaginazione, occupando pian piano tutto il suo petto. Scrollò la testa e a quel gesto la sua spossatezza sembrò evaporare dalle sue membra.
Scivolò rapido al banco di lavoro, iniziando ad assemblare il congegno.



***

4 Aprile, 04:20, Villa Stark

Il salone aveva un aspetto molto più presentabile, adesso, per quanto una stanza con un muro diroccato potesse essere presentabile. La polvere e i calcinacci erano spariti, segno che JARVIS aveva svolto a dovere la pulizia.
Tony era sprofondato nel divano dopo essere brevemente passato per il letto solo per rigirarsi insonne tra le lenzuola, e il suo occhio era ancora spalancato nel buio. Sarebbe dovuto teoricamente collassare per la stanchezza di quella giornata interminabile, ma temeva quel che avrebbe potuto sognare se l'avesse chiuso, così si limitava a fissare il circoletto azzurrino del reattore proiettato sull'immensa vetrata, sperando che potesse ipnotizzarlo e conciliargli il sonno.
Non stava funzionando.
Le protesi gli facevano meno male, adesso, ma ogni movimento era comunque un'agonia. Si massaggiò le tempie e cambiò posizione, con l'emicrania che gli martellava ancora il cervello; chiuse appena l'occhio e quando lo riaprì il suo sguardo fu catturato da un tenue riflesso di fronte alla parete crollata. Riconobbe i vetri sparsi attorno a un oggetto più scuro: la cornice che aveva accuratamente evitato di raccogliere prima.
"Quello è di Pepper," pensò stancamente, recuperando le stampelle e alzandosi senza quasi rendersene conto.
Si inclinò un poco, esaminando i resti del quadro: il vetro era irremediabilmente infranto e la cornice un po' storta, ma la tela era integra: una semplice striscia nera su fondo bianco, dalla bellezza a lui incomprensibile. Pepper teneva immensamente a quel pezzo, il primo che aveva acquistato per la collezione d'arte moderna, e non riusciva a ricordare quante volte l'avesse implorato di trattarlo con cura durante le sue numerose e fantasiose ristrutturazioni della villa.
Sospirò e lo sollevò con qualche difficoltà, rischiando di perdere l'equilibrio.
Ancora dolorante, recuperò un chiodo dai recessi della casa e si avvicinò alla parete che dava direttamente di fronte alle scale, dietro alla cascata a vetro. Al piano superiore dormiva Pepper: non sarà stato un gran modo per chiedere scusa, ma poteva essere un inizio. Si guardò istintivamente intorno in cerca di un martello, poi sbuffò, dandosi dell'idiota e piantando il chiodo con un paio di manate ben assestate della protesi. I tonfi rimbombarono nel salone, più forti di quanto avesse pensato, ma si arrischiò a dare un altro colpetto per fissarlo meglio. In tutta fretta riappese il quadro e fece per scivolare via il più silenziosamente possibile, ma i pochi secondi che perse per imbracciare le stampelle bastarono a Pepper per comparire in cima alle scale.
«Cosa ha rotto adesso?»
lo apostrofò senza giri di parole, con voce ancora assonnata.
"Avrei una lunga lista..." pensò lui.
«Qualcosa a cui tenevi,»
rispose invece, a voce bassa.
Pepper lo fissò spaesata, indecisa se prenderlo sul serio. Notò solo allora il quadro appeso alle spalle di Tony, e rimase davvero senza parole.
«Perché sposta quadri nel cuore della notte?»
chiese, scendendo cautamente le scale, nel chiaro tentativo di mascherare la sua sorpresa.
Era avvolta in una vestaglia chiara, coi capelli ramati sciolti e un po' scomposti dal sonno; i piedi nudi si posavano silenziosi ed eleganti sul marmo dei gradini. A Tony parve di vederla di nuovo fasciata da quel vestito blu elettrico che le aveva "regalato". Non poté evitare che un sorriso malinconico gli incrinasse il volto al ricordo, subito sostituito da un'espressione a metà tra il colpevole e l'imbarazzato non appena Pepper si portò dinanzi a lui. Distolse lo sguardo da quello indagatore di lei e si limitò ad alzare le spalle, trattenendo una smorfia di dolore. Udì distintamente Pepper sospirare, per poi incrociare le braccia. Il suo sguardo spaziò nel salone adesso quasi in ordine, accentuando il suo stupore.
«Si è dato da fare,»
si limitò a dire infine, in tono neutro. «Adesso, la prego: vada a dormire,» aggiunse, non potendo fare a meno di notare che l'iride nocciola di Tony si era improvvisamente illuminata al suo commento.
«Scusa,»
replicò lui, stavolta cercando i suoi occhi.
Pepper ebbe un altro moto di sorpresa, probabilmente chiedendosi quando, in vita sua, avesse sentito Tony Stark che si
scusava.
«Me lo avrebbe dovuto dire prima, forse,»
ribatté, riluttante ad abbandonare le formalità.
«Non cambia nulla, ma scusami. Per tutto.»
insistette lui, e s'incupi, colpito da molti pensieri spiacevoli che non poteva tradurre in parole.
Pepper notò quel turbamento.
«Cos'altro deve dirmi?»
Tony esitò, rimanendo con le labbra socchiuse, senza decidersi a parlare.
«Ho dei pensieri strani,»
mormorò poi, mentre una miriade di sensazioni esplodeva nella sua testa risalendo prepotentemente fino alla bocca, non chiedendo altro che essere espresse, ma le ricacciò indietro con violenza.
«Di che tipo?»
Pepper si accigliò, improvvisamente inquieta e attenta.
Attenta per lui, ancora, nonostante tutto. Sentì una stretta al petto e poteva essere il palladio, così come il senso di colpa o qualche altra emozione a cui esitava a dare un nome.
«Niente d'importante,»
sospirò, un po' brusco. «Torna pure a dormire,» aggiunse con voce più dolce.
«Tony, capisco che adesso non vuoi darmi altre preoccupazioni, ma non vuol dire che tu non debba
mai dirmi nulla,» ribatté lei, seria e rassegnata, e incrociò più strettamente le braccia sotto al seno, rimanendo piantata al suo posto.
Lui, nel vederla ancora così forte e incrollabile, si scoprì ad osservarla con un'intensità che non aveva mai usato e che gli suscitò un vivo pizzicore nello stomaco.
Tacque, con la sensazione ineluttabile di aver perso troppo tempo, e che adesso fosse troppo tardi per recuperarlo.


***


Pepper non si aspettava che le rispondesse, ma rimase comunque amareggiata dal suo silenzio. Fu solo allora che lo osservò meglio e la rassegnazione si tramutò in apprensione.
Una luce esausta brillava nel suo sguardo, che cercò il suo e vi si ancorò per secondi interminabili. Un sorriso stanco e inclinato da una piega amara attraversò il suo volto, così rapido da sembrare un miraggio.
«Sei bellissima,»
disse infine, semplicemente, e Pepper non riuscì a cogliere alcun velo d'ironia o sfacciataggine in quelle parole del tutto fuori luogo e inaspettate.
Riconobbe quello sguardo e
quel timbro, che forse era il più espressivo tra la vasta gamma che Tony era in grado di utilizzare. Era quella voce più grave del solito, fredda e quasi priva d'inflessione; si sarebbe detta provenire da un'altra persona totalmente estranea se non fosse stato per quella luce di serietà e determinazione nello sguardo, che pareva diventare così profondo da potervisi perdere dentro.
Alle orecchie di Pepper acquisiva una sfumatura minacciosa.
Era lo stesso tono che usava quando parlava di suo padre, quelle rare, dolorose volte. Lo stesso con cui le aveva detto che non voleva più produrre armi. Quello con cui le aveva spiegato perché era diventato Iron Man e le aveva confessato quanto solo fosse in realtà; con il quale le aveva chiesto, tremante, di togliergli le bende in un giorno che sembrava una vita fa. Lo stesso che aveva usato quando era crollato, impotente, stroncato da una doccia di caffè e da un peso troppo voluminoso che gravava sulle sue spalle. Temeva quella voce venata di una tristezza irreale e di una grave compostezza che non gli si addiceva, perché era associata a ricordi e confessioni dolorose e colme di rabbia e impotenza.
E quello sguardo apriva un abisso denso nel suo occhio spossato.
Le parole che le aveva rivolto, che sarebbero suonate allegre e forse scherzose in un momento normale, assunsero una sfumatura più cupa, più profonda, tanto che non riuscì a coglierla del tutto, ma non potè fare a meno di sentire un velo freddo che le ostruiva la gola impedendole di ribattere.
«Si è fatto veramente tardi. Sarà meglio che vada a dormire. E anche lei,» commentò infine lui in rapida successione, apparentemente distaccato «Buonanotte,»
aggiunse poi, recuperando quel mezzo sorriso mesto che lei non riuscì a ricambiare.
«Buonanotte,» replicò lei con voce sottile, così piano che dubitava l'avesse sentita.
Lui distolse lo sguardo senza aggiungere altro, allontanandosi a passi stanchi.
Pepper tornò lentamente in camera, sentendo di avere le mani ghiacciate, e forse anche il cuore.




 
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Revisione effettuata il 04/03/2018


Note delle Autrici:

Gesùbbambino... LA FATICA! Manco le ostetriche fanno così tanta fatica a far partorire... ma siamo qui. Ancora. Onnipresenti. Sempre più logorroiche, cattive e odiate da Tony. Sempre più r-o-m-p-i-b-a-l-l-e. *scandiscono*
Questo capitolo è un massacro per Tony, per voi e lo è stato per noi, credeteci! Ci stiamo rendendo conto che tutte le pene che gli facciamo passare alla fine si riversano anche su di noi sotto mentite sembianze di blocco dello scrittore e di scornamenti vari.

Ah, si pregano i gentili lettori di prestare particolare attenzione alla citazione iniziale, quella "spaccata": la parte blu è Tony, quella arancio Pepper. Tipo "dialogo interiore", o qualcosa del genere... E sono lievi spoiler del prossimo capitolo, quindi scervellatevi pure! :D

NOTA BENE:
Possiamo ufficialmente comunicarvi che il prossimo capitolo verrà pubblicato il 18 MARZO, giorno dell'anniversario di questa fan-fic, e sì, è un anno che stiamo qua e nessuno ci ha ancora preso a sprangate :3 Sarebbe anche ora, in effetti. Comunque, tutta questa importanza data al prossimo capitolo e il nostro estremo fomento sono dati da 3 principali motivi:
1. [Edit 04/03/2018: Teoricamente nel capitolo successivo si sarebbe dovuta concludere la prima parte della storia, almeno secondo il piano originario; in pratica ciò è stato slittato al capitolo 28, più sensato in seguito alla revisione e in luce dei nuovi capitoli.]
La FF è stata pensata in tre parti, rappresentati la vita della Fenice: Flames, Ashes e Rebirth, per concludere appunto con Phoenix.  Tutto ciò, soltanto perché è una cosa figa che ci è venuta in mente e volevamo darvi un'idea più precisa della storia: non è campata del tutto in aria come potrebbe sembrare. La sofferenza di Tony avrà un perché.
2. È un capitolo che abbiamo in mente dall'inizio della storia e, dopo che lo avrete letto, vi renderete conto di quanto stiamo male... perché così stiamo. MA, ma, ma... Chi vivrà vedrà e "Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate"; (?)
3. Riusciremo a pubblicare quando lo diremo noi, dato che il capitolo è già pronto, concluso e completo *piangono dalla commozione*

Detto ciò, ringraziamo chiunque abbia letto, recensito in passato, presente e futuro, aggiunto la storia tra le seguite/preferite/ricordate e in particolare coloro che hanno recensito l'ultimo capitolo! Rogue92, Alley, Thirrin, 81serena, aston e Sherlock_Watson <3

Moon&Light

P.S.: LA FATICA! Anche la citazione ci ha fatto sanguinare... adesso siate sadiche e godetevi la nostra sofferenza :D Bye!

Edit 04/03/2018: È stata introdotta in maniera più incisiva la problematica del palladio, che diventerà in effetti il filone principale di tutta la seconda parte della storia



 



© Marvel

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Capitolo 27
*** Apocalypse, please ***




26



Apocalypse, please





"So what ails you is what impales you
I feel like I've been crucified to be satisfied
I'm a victim of my symptom
I am my own worst enemy"

[Restless Heart Syndrome – Green Day]







4 Aprile, Villa Stark

Tony osservò il nuovo progetto della protesi inferiore posizionato sul tavolo davanti a sé. Gli strumenti da lavoro del suo laboratorio erano allineati in ordine lì accanto, pronti a essere utilizzati per creare qualcosa di inesistente o di straordinariamente geniale degno di portare il marchio STARK. Continuò a fissare assente il tutto, muovendosi svagato sulla sedia girevole, poi prese a guardarsi intorno, spaesato, quasi non sapesse dove si trovava. La visione desolata del suo laboratorio illuminato unicamente dalla luce del bancone non contribuì a migliorare il suo umore già tetro.
Non si era ancora del tutto ripreso dalla sbronza: di sicuro il mal di testa non era passato, e preferiva attribuirlo a quella piuttosto che ad altre cause meno piacevoli, come sostanze nocive che non avrebbero dovuto essere nel suo corpo. Ricercare i sintomi dell'intossicazione da metalli pesanti non si era dimostrata una mossa furba, doveva dar ragione a JARVIS.
Si sistemò infastidito la benda sull'occhio: la piaga non gli aveva dato un attimo di tregua dalla sera prima, ballando a tempo con l'emicrania. Quella mattina sul presto, dopo appena un paio d'ore di sonno agitato, aveva ingollato una dose di antidolorifici decisamente rischiosa e si era trascinato in laboratorio con l'intenzione di rimettersi al lavoro. Dopo qualche minuto di traffici inconcludenti, si era reso conto ben presto che non riusciva davvero a comportarsi come se niente fosse accaduto. Così si era semplicemente lasciato sprofondare nei suoi pensieri, aprendo infine quelle porte che aveva tenuto serrate fino ad allora. Il caos che ne era fuoriuscito l'aveva quasi sbalzato via ed aveva impiegato quelle che era abbastanza certo fossero ore a districare ogni filo contorto dei suoi pensieri senza più cercare di nascondersi nulla. Non sapeva cosa stesse cercando di fare, esattamente. Forse sperava ancora di trovare una soluzione a quel che era diventato, forse cercava la conferma del fatto che non esistesse, e in entrambi i casi non riusciva a capire come avrebbe dovuto reagire.
Di certo, le conclusioni a cui era arrivato l'avevano gettato in un pozzo ancora più buio di quanto avesse pensato. Un pozzo vuoto, come quello che gli si allargava nel petto man mano che dipanava quella matassa di pensieri intricata che si abbarbicava nel suo cervello come un'erba infestante.
Sapeva esattamente cosa aveva, ma sapeva anche che cosa gli mancava, ed entrambe le cose rendevano la sua vita insopportabilmente invivibile. Era da quando si era risvegliato mutilato su quel letto d'ospedale che faticava anche a fare le cose più semplici. E non si ricordava un giorno in cui non avesse provato qualcosa che non fosse senso d'impotenza e dolore – quel dolore sordo, che nulla aveva a che fare coi moncherini, che non scompariva mai e che si accentuava quando qualcuno cercava di aiutarlo. La sfiducia lo attanagliava, e a nulla serviva il fatto di non essere del tutto solo in quel disastro. O piuttosto, di costringere gli altri a seguirlo in esso. Se possibile rendeva il tutto ancora più intollerabile.
Al momento, i suoi pensieri avevano preso a roteare minacciosi attorno a un unico fulcro, come un ciclone di dimensioni spaventose che ruota attorno al proprio occhio. Pepper. Non riusciva ancora ad accettare come reale quel che le aveva fatto. Quella mattina non l'aveva vista e ne era stato sollevato, così da non dover riconoscere la prova tangibile della propria meschinità impressa sul suo braccio. 
Voleva pensare e convincersi che quel gesto avventato fosse stato solo colpa della sbronza e magari del palladio – che a quanto pareva causava sbalzi d'umore assieme a un'altra ventina di sintomi che aveva ignorato fino ad allora e che avrebbe preferito continuare ad ignorare. Voleva crederci davvero, ma la verità era che, palladio o no, sobrio o meno, sentiva di non essere più del tutto padrone di se stesso. Era come se ci fosse un difetto di fabbricazione in lui, che lo faceva agire costantemente nel modo sbagliato e reagire in modo imprevedibile e dannoso per se stesso e gli altri. Aveva la consapevolezza che, se anche ci fosse stata una mano tesa verso di lui per aiutarlo a uscire da tutto quel nero, non sarebbe riuscito ad afferrarla né a vederla, o magari non l'avrebbe semplicemente considerata. 
Quanto se la meritava, in fondo? Cosa avrebbe potuto offrire in cambio, se non altri problemi, altri frammenti di sé, altre paure?
Sentiva di non avere più nulla, e niente sembrava più appartenergli: la sua casa, le protesi, Pepper, Iron Man, la sua stessa vita...
Da quant'era che si svegliava con quel senso di apatia totale? Ci aveva messo un po' a capire quando, esattamente, quel buco nero avesse iniziato a risucchiarlo, e ancor di più a individuarne l'origine materiale. Era niente più che una capocchia di spillo nel suo oceano di problemi, ma adesso brillava con pungente intensità nella sua testa, riportandolo al momento in cui la persona a cui avrebbe affidato la propria vita senza pensarci due volte aveva stabilito che non poteva farcela. E a nulla erano serviti i litigi e le riappacificazioni: quelle parole avevano continuato a dibattersi come lame nel suo petto, conficcandosi sempre più a fondo.
Aveva avuto la netta percezione delle proprie mani che lasciavano il volante della propria vita, lasciando che sbandasse a destra e a manca, incurante di ciò che sarebbe successo poi e delle conseguenze. Si era lasciato andare, e tutto era peggiorato dopo l'operazione alla gamba: quella "fase" di prostrazione non era mai passata. Covava dentro di sé, a sua stessa insaputa, nascosta dietro la facciata d'indifferenza e spavalderia che costruiva ogni giorno con cura e dedizione. Ma tornava a galla, sempre, nel cuore della notte, quando era solo coi suoi pensieri: protesi e protesi, miglioramenti, Iron Man, Pepper, ancora protesi e poi il vuoto. Sempre quel vuoto che si faceva strada in lui con le unghie e con i denti, ma piano, lentamente, così lentamente che quando lo aveva percepito la prima volta era già una voragine insanabile.
Il respiro gli tremò e si portò una mano a coprire gli occhi – l'occhio, dannazione.
Sbattè il pugno sul tavolo, lasciando un'intaccatura nel metallo. Poi c'erano quelle volte il cui il vuoto si faceva così profondo da rodergli il cuore e far scattare la scintilla dell'ira. Lui la lasciava divampare, e i risultati si erano visti: una casa distrutta, lividi ovunque e Pepper gelida e ferita come non mai. E lei ancora non sapeva dei marchingegni rotti accatastati in laboratorio, non vedeva i crateri nei muri e i tavoli rovesciati e non sentiva le vetrate rotte e non aveva idea di dove fossero finite le armature, perché lui rimetteva sempre tutto in ordine perfetto, preciso, metodico. Come un assassino che fa scomparire le prove del suo omicidio, rimetteva a posto e ridipingeva la sua facciata d'indifferenza, e tutto sembrava di nuovo lontano e insignificante. Quando persino gestire se stesso e conviverci era un'impresa titanica, non trovava più un senso nel continuare a sperare in qualcosa di impossibile come il "ritorno di Iron Man".
Ripensò alle parole di Bruce: forse un tempo aveva davvero creduto in ciò che faceva, ma adesso si rendeva conto che la sua amata maschera di ferro era solo un'altra facciata che gli infondeva sicurezza, un' armatura difettosa che con le sue falle esponeva il suo cuore alle interperie e al caso mentre lui fingeva di essere indistruttibile. Ma non lo era, e si stava rompendo un pezzo alla volta.
Deglutì a fatica, sentendosi improvvisamente la bocca secca, e si costrinse a mettere da parte quei pensieri e a serrare di nuovo quella porta. Si sarebbe riaperta; l'avrebbe riaperta lui stesso, ne era certo, ma adesso aveva un bisogno fisico di immergersi nei suoi calcoli e in qualcosa di manuale che richiedesse la massima concentrazione. Potersi estraniare a quel modo era una grazia dal cielo, una delle poche.
Ancora frastornato dagli echi dei suoi pensieri, si tirò su la gamba del pantalone e scoprì il punto di contatto tra l'articolazione meccanica e la piastra metallica che si congiungeva alla coscia; con estrema attenzione svitò con un cacciavite una vite della struttura principale e la ripose sul tavolo. Circondò poi la gamba con entrambe le mani e cercò coi polpastrelli della mano buona le due piccole scanalature incassate nel metallo, premendole con forza e tirando lievemente la protesi verso l'esterno. Quel passaggio faceva sempre un po' male, perché i punti di sutura non erano ancora guariti: spiccavano rossastri sulla linea di giunzione tra carne e metallo. Strinse i denti tirando un altro po', e la protesi si staccò infine con un lieve rumore di barattolo sottovuoto appena aperto.
Pensando al paragone, Tony si accorse di non avere nemmeno fame: eppure dal giorno prima si era limitato a mandar giù controvoglia un paio di cracker insipidi e a malapena un bicchier d'acqua, anche perché qualsiasi cibo continuava ad avere uno spiacevole sapore di alcool che gli torceva lo stomaco. Quella mattina si era dovuto forzare persino a bere una tazza di caffè esageratamente zuccherato nella speranza di assimilare con esso un briciolo di sostanze nutritive. Era già da qualche settimana che non sentiva la necessità di mangiare nulla; forse se il suo corpo avesse avuto facoltà di parola avrebbe avuto qualcosa da ridire, ma lui poteva passare tre giorni senza avvertire i morsi della fame. Probabilmente era un altro degli effetti della clorofilla, che non era la sostanza più semplice da digerire, pur avendo un apporto calorico insignificante. Come di riflesso, ne bevve un paio di sorsi dalla borraccia sempre a portata di mano. Non si chiese quanta utilità potesse avere quel gesto: non aveva neanche la forza di pensarci.
"Sei, sette mesi..." gli balenò in testa, ma soppresse il resto.
I suoi pensieri vagavano un po' troppo liberamente, quella mattina, e si
impose di concentrarsi nuovamente sul perfezionamento delle protesi.
Poggiò la gamba meccanica sul tavolo, ignorando consapevolmente la cavità provocata poco prima dal suo pugno, che trovò un utilizzo pratico quando gli permise di poggiarvi il tallone per mantenere diritto l'arto. Non si sarebbe mai abituato a vedere un pezzo di se stesso davanti ai suoi occhi, ma si fece forza. C'era ancora molto da fare: le dita non erano neanche lontanamente vicine ad avere delle sembianze umane; il piede aveva assunto una forma più naturale, ma doveva ancora ricreare la funzione del tendine d'achille e almeno la maggior parte delle ossa. Doveva anche riparare i danni provocati dallo scontro con Hulk: c'erano vari graffi, un'ammaccatura non indifferente sul polpaccio e vari punti in cui i legamenti ancora scoperti sembravano essersi allentati. Nessuna sorpresa per il fatto che riuscisse a camminare solo con le stampelle e che avesse continuamente l'impressione di doversi perdere l'arto da un momento all'altro. Senza contare che il braccio continuava a fare le bizze ed aveva anch'esso urgente bisogno di riparazioni. Riusciva a malapena a controllarlo e prima o poi avrebbe dovuto affrontare il problema, rimasto parzialmente insoluto sin dallo scontro con Rogers.
Era un carico di lavoro immenso.  Le fitte alla gamba non miglioravano la situazione ed era consapevole del fatto che nel suo stato sarebbe stato impensabile anche solo alzarsi dal letto. D'altronde né Ian, né tantomeno Pepper gli avevano più ricordato quel piccolo dettaglio, forse perché sapevano che li avrebbe semplicemente ignorati. Tony si passò le mani tra i capelli, cercando di riordinare le idee o, più che altro, di eliminarne una parte nella speranza di ridurne il sovraccarico.
Non aveva più tempo. Era troppo tardi per rimediare agli errori e troppo presto per pensare di poter andare avanti, di poter trovare qualcosa dove non c'era niente.
Non ce la faceva più. Aveva solo voglia di chiudere gli occhi e dormire, sperando che quando li avrebbe riaperti, entrambi, si sarebbe risvegliato nella sua casa, insieme alla sua amata assistente dai capelli rossi e alle sue armature... magari anche con un reattore in corpo: poteva sopportarlo, se la sua vita fosse tornata esattamente com'era con un semplice battito di ciglia.
Troppe volte si era risvegliato volendo credere che fosse stato tutto un terribile incubo e che il dolore fosse solo un'illusione. Ma l'illusione non c'era; non c'erano trucchi né inganni ed era tutto assolutamente vero, al punto da avergli distrutto la vita pezzo dopo pezzo, come un castello di sabbia che si dissolve alla prima onda troppo vicina.
Tamburellò distrattamente sul reattore, ormai abituato al netto seppur esitante ticchettio che provocavano le sue dita meccaniche sulla piastra metallica. Scostò il colletto della polo, sbirciando il congegno che lo teneva in vita, o meglio, l'intrico di tenui venature bluastre che si diramavano da esso.
Si era allargato?
Quella più evidente si era ormai congiunta all'altro reticolo semitrasparente che scaturiva dalla protesi, sulla clavicola. La situazione era ancora sotto controllo, si ripeté: non aveva avuto bisogno di cambiare il nucleo di palladio, ma la cosa iniziava a farsi realmente preoccupante. Fissò con astio il congegno che aveva ideato sotto suggerimento di JARVIS per tenere sotto controllo il livello d'intossicazione; quindi lo prese, premette il pollice sul minuscolo ago e lesse il valore che lampeggiò dopo pochi istanti sul display: 11%. Appena il giorno prima era ancora al 10%, realizzò con un'improvvisa morsa di paura.
Questo con un reattore e due micro-reattori in corpo. Non era poi così alto, doveva ammettere, ma per quanto tempo sarebbe rimasto in quei range? In pochi mesi sarebbe salito al 20, 30%. I micro-reattori erano in grado alimentare le protesi ancora per una cinquantina d'anni. Quanti ne avrebbe vissuti lui? Due? Quanto poteva reggere il suo corpo già così indebolito?
Il suo pensiero corse involontariamente a Pepper. Avrebbe dovuto dirglielo, così avrebbe potuto infuriarsi anche per quello, ma il solo pensiero gli causò un dolore sordo allo stomaco, come se qualcuno gli avesse sferrato un pugno.

Posò di malagrazia il dispositivo sul bancone.
A pensarci bene non aveva alcuna voglia di lavorare sulle protesi, né di fare qualcosa di diverso dallo stare seduto a fissare il soffitto del laboratorio. Scosse la testa e prese l'arto meccanico, reiserendolo nella sua sede con uno scatto secco e un gemito soffocato. Rimase per qualche secondo ripiegato su se stesso, inerte, nel silenzio pesante del laboratorio rotto solo dai suoi respiri profondi.
Si raddrizzò dopo un intero minuto in cui il dolore aveva tenuto lontana qualunque riflessione, risvegliando il malsano istinto di staccare e riattaccare nuovamente la protesi, così da prolungare quel momento di lieto oblio. Dominò quell'impulso e riprese inevitabilmente a pensare. Non si sforzò neanche di indirizzare le sue riflessioni verso una rotta ben precisa: le lasciò scorrere con fare indifferente, come se non gli appartenessero. Se il solo odore dell'alcool non gli avesse dato la nausea, ne avrebbe volentieri bevuto un sorso per accompagnarne l'andazzo ondeggiante.
Iron Man. Pepper. Le protesi. Il sequestro delle protesi. Pepper. Le Stark Industries. Christine. L'Afghanistan. Suo padre. L'intossicazione. Pepper. L'occhio. Ancora Pepper. Sempre Pepper.
Lo aveva perdonato? Ne dubitava. Lo avrebbe mai fatto? Dipendeva da lui. Voleva veramente essere perdonato?
Forse no: avrebbe voluto dire che sfasciare la casa, farle male, ridursi sull'orlo del coma etilico, vomitare l'anima, attirarsi le ire dei Vendicatori ed essere irremediabilmente ingrato erano tutti comportamenti perdonabili.
Si passò le mani sul volto, in un gesto stremato. Come diavolo ci era arrivato, lì?
Eppure all'inizio non era sembrato così difficile.
Un paio di protesi: poteva farcela; un occhio andato: poco male, avrebbe trovato una soluzione; capi d'accusa che piombavano da tutte le parti: probabilmente se tutti non fossero stati così preoccupati non si sarebbe neanche presentato in aula. Poi era arrivato una sentenza definitiva dall'unica persona di cui si fidasse ancora. Verdetto: irrecuperabile.
E poi aveva cominciato a pensare, a ripercorrere le volute contorte che l'avevano condotto a quello sfacelo. Gli capitava troppo spesso di perdersi nella freneticità del momento e realizzare solo troppo tardi cosa vi fosse all'origine.
Iron Monger, certo. Era stato lui a ridurlo in quello stato pietoso. E dentro la macchina, l'uomo, l'amico.
Cercava di non pensarci, ma quelle rare volte riusciva solo a provare un'atroce delusione e una rabbia cieca e ingiustificata: Obadiah ormai era morto. L'aveva ucciso lui, a quanto pareva. E se all'inizio ne era rimasto quasi scioccato, adesso rimpiangeva di non riuscire a ricordare l'esatto momento in cui quello che avrebbe dovuto essere la sua guida era stato carbonizzato dal reattore. Poteva dire di aver avuto almeno un briciolo di giustizia per ciò che aveva subìto. Per quanto non fosse un pensiero nobile ne traeva una qualche, seppur amara, consolazione. 
Era a quel punto, quando la sua mente si districava tra il groviglio dei suoi ricordi fino al nodo di Stane, che intravedeva le radici della sua rabbia inconsumabile, e in quel punto cercava di ritrarsi di scatto, distoglieva i pensieri, serrava l'unico occhio fingendosi completamente cieco. Perché l'immagine successiva che lo colpiva era la sabbia rossa del deserto, proiettili che sibilavano e una bomba con sopra impresso il suo nome che gli esplodeva in faccia. E l'esplosione rimbombava all'infinito, nell'eco di centinaia di altre bombe, mine, ordigni, tutti con il netto e preciso marchio STARK che spiccava sulla corazza plumbea. Ad ogni detonazione, un ferito, un morto, un mutilato. Un viscido senso di colpa che gli mordeva le viscere.
Avrebbe pensato che fosse a causa di una qualche remota giustizia divina che si trovava con qualche pezzo di ferro in più, se non fosse stato per il fatto che quei pezzi di ferro lo tenevano in piedi e gli permettevano di vivere. Un privilegio, assieme a quello di aver potuto dirottare la propria vita in una direzione migliore, che lui stava sprecando e buttando al vento. In quei momenti avrebbe voluto strapparsi le protesi, il reattore, l'anima, se solo avesse potuto.
Che se ne faceva un corpo rotto, di un'anima?
Magari la "giustizia divina" aveva solo fallito nel suo intento e non c'era alcun profondo motivo da conferire alla propria esistenza. Magari stava solo lottando contro qualcosa che in fin dei conti era ineluttabile.
Riprese a tamburellare sul reattore, mordendosi il labbro inferiore con fare concentrato, lo sguardo fisso sulla parete delle armature ancora schermata. Non le vedeva, ma vedeva il proprio riflesso leggermente distorto. Si chiese quanta differenza ci fosse, ormai, tra i resti contorti delle armature e il suo corpo rotto e mutilato.
"Forse..." quella considerazione fu troncata di netto dal suo buon senso, il poco che gli era rimasto.
Il suo corpo non lo ascoltò e si trovò a posare una mano sul reattore stringendo le dita sul bordo metallico. Lo fissò, poi fissò di sfuggita il suo riflesso; poi di nuovo le armature, infine il reattore. Si accigliò, frenato da una forza invisibile che però si rivelò estremamente facile da contrastare. Estrasse il congegno dal suo petto e ne fissò il bagliore azzurrino. Il nucleo di palladio fumava appena, ma era pressoché integro.
Peccato non si potesse dire lo stesso del resto. Di tutto il resto.
Esitò, rigirandosi in mano quel cilindretto vitale ed indispensabile, il dono di qualcuno che aveva creduto in quello che avrebbe potuto fare. Qualcuno che lui, puntualmente, aveva deluso.
Perché era troppo debole, senza la sua armatura. Perché nessuno voleva davvero fidarsi di qualcosa di rotto. Perché non meritava di essere vivo senza un motivo. Perché, in fondo, era sempre stato irrecuperabile.
La luce sembrava pulsare nel suo palmo, quasi fosse dotato di vita propria. Iniziava a sentire un senso di vuoto claustrofobico al centro del petto, col cuore che rincorreva i battiti mancati.
"Ho sentito spesso parlare di quella vocina che ti dice 'stai facendo una stronzata'..."
Poggiò il reattore sul tavolo, reclinò la testa all'indietro e chiuse l'occhio, in quieta attesa.
"...io non la sento."




______________________________________________________________________________________________________

Revisione effettuata il 04/03/2018
 

Note delle Autrici:
 
Carissime seguaci, nuove e vecchie, buonasera! *tono da presentatrici televisive*
Avevamo promesso di pubblicare il 18... e in effetti è così. un po' in ritardo, ma è ancora il 18 Marzo. Impegni vari ci hanno impedito di essere puntuali, ma... non è quello che vi interessa. Vi interessa piuttosto la sorte di quel pover'uomo *omino indica in alto*.  
Siete autorizzate a prendere torce e forconi e a porci sotto assedio, ma sappiate che questo era il fondo, e da qui non si può che risalire! *lettori scuotono la testa, chiedendosi quanti doppifondi abbia questa maledetta storia*
A parte ciò: è già passato un anno da quando abbiamo pubblicato questa fan fiction, e sembra davvero incredibile: a pensarci, sembra un giorno *cliché piovono dal cielo*
È una storia a cui siamo veramente molto legate e speriamo davvero che continuerete a seguirla, perché noi ci siamo divertite e ci divertiremo ancora a scriverla -pensa te che sadiche...- e ci auguriamo che trasmetta le nostre stesse emozioni a voi che leggete. 
Perché, su, a parte l'angst dirompente, ammettete che ogni tanto vi strappiamo un sorriso o una voglia di suicidarvi per il fluff -o forse no.
 
Hoc dicto *Moon tramortisce Light reduce dallo studio*, vogliamo ringraziare tutti, proprio TUTTI coloro che hanno seguito, recensito, aggiunto la storia tra le preferite/seguite/ricordate.
In ordine (cronologico o alfabetico):
 
Recensori: _Sof_, alliearthur, Rogue92, Sherlock_Watson, Micchi, blackpearl_, bluephoenix, Lupoz91, DigiGaia, xhellosweety, Alley, julialicious, MissysP, The_best_who_sing, Julyet_M, aston, Thirrin, 81serena e my brother under the sun.
 
Preferiti: BENNYloveEFP, bluephoenix, Camilla85, Checca Cullen, crow_, C_laudine, Dark_Lucy, DigiGaia, DirtyVale, Edward_Son 2, Enigmista96, feddy92, Frosba, Fuckthisshit, girlstreet, julialicious, laFlo, Lupoz91, my brother under the sun, Ookami_96, Sherlock_Watson, Van, WhiteRabbit e _Willenna_.
 
Seguite: Alley, alliearthur, almostnice, Amaerise, aston, blackpearl_, cleme_b, DigiGaia, Doctor Smith, Elena Salvatore, Eleonoraa11, Enigmista96, Fairy84, fior di loto, Frosba, itsandreea, kay33, kh2zvn, Lady Holmes, LaFolie108, LifeCristal, Luna_Bella, Lupoz91, MANDARINO ZEN, MissysP, Morrigan, Nature_, NemesiS_, Nightly Blossom, ny152, Rogue92, serysaku, Sherlock_Watson, Sophiathebest, The_best_who_sing, valedisy, Vehuel, WhiteRabbit, xhellosweety, _Elentari_, _M4r3TT4_ e _Sof_.
 
Ricordate: crystaleyes, Eleonoraa11, Frosba, HollyCupcake, Rayne e Sherlock_Watson.

(Siete tantissimi! *-*)
 
Un grazie speciale a Rogue, irreducibile, intrepida seguace e recensitrice dal primo all'ultimo capitolo (speriamo!), a Sherlock_Watson julialicious che ci hanno rese felicissime coi loro disegni splendidi, ad Alley, che arditamente s'è letta d'un fiato tutti i capitoli e continua a seguirci coprendoci di splendidi complimenti, a MissysP, instancabile seguace, a Micchi, che ci colma di gioia (e risate impagabili) con le sue recensioni, a blackpearl_, le cui recensioni sono di quanto più solare e meraviglioso ci sia al mondo e a Darkshines_, che pur non avendo mai recensito ha avuto l'onore (o l'onere) di sorbirsi tutte le anteprime, le bozze e gli schizzi di questa storia in prima persona, scleri inclusi, dimostrando un livello di sopportazione che non credevamo possibile -soprattutto per un essere di sesso maschile. 

Grazie di cuore a tutti e per tutto! 
E... al prossimo capitolo! <3
 
Moon&Light

*Tony fa ciao ciao, un po' moribondo*

P.S.: Ci scusiamo per l'estremo ritardo, ma l'editor faceva i capricci. Ed è venuto fuori un "Text-wall" assurdo. Ooops.
P.S.2: Non abbiamo risposto alle recensioni nello scorso capitolo, e ci scusiamo, ma come avrete capito è stato un miracolo riuscire a pubblicare per tempo a causa di imprevisti e impedimenti vari. Promettiamo di rispondere al più presto: sabato noi menti malvagggie ci vedremo e rimedieremo ;)




© Marvel

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Capitolo 28
*** Of storms, shells and shattered dreams ***



27

Of storms, shells and shattered dreams



"Is this the real life?
Is this just fantasy?
Caught in a landslide,
No escape from reality"


[Bohemian Rapsody – Queen]


"Darkness
Imprisoning me
All that I see
Absolute horror
I cannot live
I cannot die
Trapped in myself
Body my holding cell"


[One – Metallica]

 

 

 

4 Aprile, 11:20, Helicarrier

Le nuvole scorrevano placidamente sotto al ventre dell'Helicarrier, candide e vaporose.
Fury non avrebbe potuto trovare antitesi più perfetta per il suo umore cupo e tempestoso, tanto che poteva considerarsi un miracolo che dal suo occhio buono non scaturissero fuoco e fulmini pronti a incenerire chiunque nel raggio di cinque metri. Non sapeva con quale residuo di pazienza si stava trattenendo dal fare uso di tutta la potenza balistica dell'Helicarrier per distruggere una certa villa a Malibu...
«Signor Direttore, ha sentito?»
La voce di Coulson gli suonò stranamente allarmata. L'agente si era prudentemente tenuto fuori tiro, a circa una decina di passi di distanza, sul ponte inferiore.
«Sì, purtroppo.» ringhiò, voltandosi infine con più foga di quanto avesse voluto.
Phil ammutolì, forse intimorito dal suo sguardo omicida. Fury continuò a rimanere in silenzio, rimuginando su vari e fantasiosi metodi di tortura da applicare a quella calamità ambulante che passava sotto il nome di "Iron Man".
Coulson si arrischiò a interrompere quella serie di immagini quasi piacevoli:
«La squadra medica è già sul posto, ma dovremmo inviare...»
«Qualcuno? Abbiamo già inviato
qualcuno!» esplose infine il direttore a voce leggermente più alta, e tutti gli agenti sul ponte di comando si voltarono verso di lui, paralizzati, interrompendo qualunque cosa stessero facendo.
Era normale che Fury si arrabbiasse, inveisse contro il mondo intero, minacciasse punizioni a destra e a manca, si agitasse oltre l'immaginabile e facesse uso improprio dei dispositivi dell'Helicarrier sfruttandoli come armi da lancio verso gli agenti che gli facevano perdere le staffe. Ma non era assolutamente normale che rimanesse immobile, glaciale, con un'espressione mortalmente seria stampata in faccia e uno sguardo che avrebbe fatto sembrare Loki un moccioso vestito da Carnevale.
Un silenzio totale era piombato sulla plancia. Silenzio che Coulson ruppe appellandosi a un coraggio che non sapeva di avere:
«Forse quel qualcuno non era il più adatto a...»
«Banner era la persona più affidabile che avremmo potuto mandare a far ragionare Stark,» lo interruppe Fury. «E dico "affidabile", perché anche nell'eventualità che si fosse trasformato in un mostro verde rabbioso, come in effetti ha fatto, avrebbe forse potuto inculcare un po' di buonsenso a quell'idiota! E così non è stato!» continuò in tono crescente, schiumante e sul punto di farsi saltare la benda per la rabbia.
Coulson quasi indietreggiò, ma mantenne un'espressione cupa che stonava col suo portamento di solito così rilassato.
«Direttore, è la signorina Potts ad aver bisogno d'aiuto, non Stark,» precisò, sempre senza perdere la sua abituale compostezza, ma tradendo una traccia di preoccupazione nella voce.
Fury lasciò trapelare una vaga sorpresa, mentre dentro di lui si malediceva per non averla fatta portare allo SHIELD da Banner, volente o nolente.
«Vai e risolvi questo inconveniente,» ordinò, riconquistando la calma, almeno apparentemente. «Ti autorizzo a usare qualunque mezzo riterrai necessario per trascinare qui Stark, e stavolta non accetterò scuse o attenuanti,» sentenziò seccamente, voltandogli le spalle.
Coulson, ripresosi da quell'improvviso cambio di atteggiamento, fece un rapido cenno di congedo prima di avviarsi a passo rapido verso il laboratorio.
«Vado a cercare Banner,» annunciò, prima di lasciare il ponte di comando.
«Porta Rogers,» replicò Fury, con una vena beffarda nella voce.
«Cerco Banner,» ribadì testardamente Phil, non osando immaginare quali conseguenze nefaste avrebbe potuto avere la presenza di Steve in un frangente delicato come quello.
Probabilmente avrebbe di nuovo avuto l'onore di testare la potenza della protesi di Stark sulla propria pelle. Allungò il passo scacciando quel pensiero e diede un'occhiata al cellulare, notando con un misto di preoccupazione e sollievo di non avere chiamate perse. Non sapeva se fosse un buono o un cattivo segno.
Entrò nel laboratorio a passo di carica, già pronto a strappare lo scienziato al suo lavoro, ma vide che Bruce, per una volta, non era indaffarato tra strumenti e calcoli. Era appoggiato al bancone invaso di provette e alambicchi vari, con il mento puntato sulla mano e lo sguardo perso in chissà quali pensieri. Phil decise di ignorare la stranezza della cosa, riservando le domande a un momento più tranquillo, se mai ci sarebbe stato nei giorni a venire.
«Vieni, ci servi a Villa Stark,» gli comunicò senza giri di parole.
Bruce alzò lo sguardo trasalendo, come se non si fosse neanche accorto del suo arrivo, e l'agente si tenne cautamente a distanza, temendo di aver scatenato qualche reazione poco piacevole. Invece Banner si limitò ad aggrottare le folte sopracciglia e a staccarsi dal bancone.
«Di nuovo? E perché?» chiese, già aspettandosi il peggio.
Ed era convinto di averlo già visto, il peggio.
«Non lo vuoi veramente sapere. Meglio che ti arrabbi lì, sarebbe più utile,» disse l'altro, senza perdersi in dettagli e sentendo l'esigenza immediata di saltare in una delle navette supersoniche e sfrecciare al più presto fino a Malibu.
Lo scienziato esitò un attimo, poi parlò, sempre incerto, ma apparentemente più preoccupato che stupito:
«Cosa ha fatto?» sospirò con rassegnazione. «Ieri era un po' sopra le righe, ma...»
«
Un po' sopra le righe?» ripeté basito Coulson, rivolgendogli un'occhiata scettica.
«Era ingestibile,» si corresse allora l'altro, ora più a disagio. «Ma...» tentò nuovamente.
«È totalmente fuori controllo,» lo interruppe Phil. «Non avresti dovuto lasciarlo lì, ubriaco, soprattutto non con Virginia da sola. Perché non l'hai portata qui?» aggiunse, stizzito.
«Ha rifiutato, non potevo obbligarla,» si difese lui, togliendosi gli occhiali con fare imbarazzato. «E poi è l'unica che riesca a far ragionare Tony,» aggiunse, un po' debolmente.
Coulson non replicò per evitare di scaldarsi, perché “scaldarsi” con Bruce poteva concludersi con l'essere ridotti in poltiglia.
«Lasciamo perdere,» sbuffò, riprendendo il suo abituale controllo. «E muoviamoci, adesso, prima che...»
«Tu vai,» lo interruppe Bruce, perfettamente tranquillo e non accennando a muovere un passo.
Coulson rimase interdetto, rendendosi conto che il dottore non aveva pienamente colto la gravità della situazione. Si schiarì appena la gola, rinunciando però ad edulcorare più di tanto ciò che stava per dire: non c'era un modo delicato per informarlo.
«
Banner, Stark ha cercato di...»
«
Posso immaginare cosa abbia fatto, dopotutto ci sono passato anch'io,» lo interruppe cupamente lui. «Pensavo di averlo dissuaso... ho già fatto tutto quel che potevo,» aggiunse, e Coulson colse una profonda tristezza nelle sue parole, non sapeva se dettata dalla delusione per ciò che aveva fatto Stark, per il senso di colpa nel non essere riuscito ad aiutarlo o dal dispiacere nell'immaginare i possibili esiti di tutta quella situazione.
«E come lo porto qui?» sbottò debolmente e con un po' di forzato ottimismo, agitandosi nel sentire il cellulare che vibrava nella tasca.
Fece appena in tempo a leggere il nome di Pepper sul display che la chiamata s'interruppe. Bruce lo notò ed esitò, prima di parlare:
«Porta qui lei. Lui la seguirà, prima o poi,» affermò, con una smorfia un po' colpevole ma tirata, dando a sua volta per scontato che Tony sarebbe stato ancora in grado di seguirla.
Lo scienziato incrociò le braccia, stringendo nervosamente la stoffa della camicia.
«Massacrarlo di nuovo di pugni non servirà a convincerlo, soprattutto non nello stato in cui sarà... dopo. E se volete davvero trascinarlo su questa prigione volante e rinchiuderlo, non aspettatevi dei cambiamenti: è inutile confinarlo fisicamente se lui non è in grado di farlo emotivamente,» commentò, senza celare il suo aperto dissenso.
«Lo SHIELD non si occupa di riabilitazione mentale, ma della sicurezza mondiale. Se Stark non è in grado di controllarsi, dovremo costringerlo a farlo.»
Bruce fece un sorrisetto accomodante, annuendo con fare derisorio:
«Sì, ho capito fin troppo bene come funzionano le cose, qui allo SHIELD» disse, pronunciando il nome quasi con disprezzo. «Le ferite che ha Tony non si chiudono con la porta di una cella,» aggiunse, stringendo appena i pugni.
«A noi serve Iron Man, non Tony Stark,» sbottò a disagio Coulson, distogliendo lo sguardo da quello accusatorio di Bruce, ed uscì rapido dal laboratorio.
Un po' scosso, recuperò il cellulare e si diresse quasi di corsa alla pista di decollo, afferrando per la collottola un Clint piuttosto perplesso durante il tragitto e facendogli capire che, sì, voleva che "pilotasse uno di quegli aggeggi meravigliosi a velocità supersonica"; in tutto ciò rimase col dispositivo incollato all'orecchio, contando con apprensione gli squilli a vuoto. Lasciò andare il fiato solo quando sentì finalmente la voce di Pepper all'altro capo del telefono.
«Phil?»
«Stiamo arrivando,» la rassicurò subito lui, mentre saliva goffamente nell'abitacolo del mini-jet.
«Sbrigati,» riuscì solo a dire lei, innaturalmente calma ma con voce rotta.
«Sbrigati,» riferì lui a Barton, che si era già seduto con fare baldanzoso sul sedile del pilota.
Il sogghigno che aveva stampato in volto evaporò nell'istante stesso in cui vide gli occhi cupi e terribilmente seri di Coulson, che gli fecero cogliere la gravità della situazione.
«Sissignore,» borbottò, avviando con un gesto secco i motori.


***


Due ore prima, Villa Stark

Pepper era ferma in cima alle scale del laboratorio, appoggiata al muro con le braccia incrociate. 
Fissava con sguardo assente la cascata artificiale che scorreva accanto a lei, come sperando che i suoi pensieri facessero lo stesso. Era lì da un tempo indefinito, intenta a chiedersi se fosse o meno il caso di scendere al piano di sotto. Là c'era Tony, c'erano il suo sguardo spento, il viso stanco e la voce triste. Non era ancora riuscita a costringersi ad affrontarli. La spaventavano terribilmente, perché quello non era Tony: era solo una sua immagine sbiadita e flebile, pronta a evaporare.
Erano ormai mesi che continuava a considerare il suo comportamento instabile come una "fase", ma si rendeva conto solo ora che era una facciata dietro la quale lei si ostinava a nascondere la realtà, permettendo a lui di fare lo stesso. Adesso riusciva a capire il perché del suo atteggiamento spavaldo e quasi superficiale, di tutte le ostentazioni di sicurezza e normalità che sfoggiava giorno dopo giorno: era molto più facile ridere e chiudere gli occhi di fronte alla verità, piuttosto che guardarla in faccia e affrontarla. Si nascondeva dietro un sorriso, mentre il suo sguardo gridava in cerca d'aiuto. E lei non aveva colto quel grido in tempo.
Non lo aveva mai capito fino in fondo, tutto quel dolore che Tony continuava a portarsi dentro e che si rifiutava di mostrare. Solo ora, dopo molto tempo, aveva intuito cosa lo distruggesse così nel profondo, e la consapevolezza le procurava un senso di colpa che non riusciva a reprimere, assieme a quello che si trascinava dietro dal giorno dell'incidente.
Semplicemente, la mente di Tony era troppo per un corpo normale. La sua genialità, le sue ambizioni sconfinate e la sua indefessa volontà di scoprire sempre più, di superare qualsiasi confine, erano concentrate in un corpo di per sé limitato. Era sicura che fosse anche per quel motivo che aveva creato proprio Iron Man: per superare quel limite che gli era stato imposto e fare di più, per spaziare su orizzonti più vasti e appagare la sua inesauribile curiosità e voglia di vivere. Se prima era irritante essere costretto ad affidarsi alla tecnologia per compiere qualcosa che lo soddisfacesse, adesso doveva essere una tortura trovarsi rinchiuso in un corpo mutilato che non riconosceva come suo.
Ma ciò che più la spaventava era la sua improvvisa fragilità. Non sapeva come confrontarsi con essa. Tony non si era mai, mai, mostrato debole – e forse nemmeno si era mai sentito tale. Vederlo così distrutto e prostrato ogni giorno di più le aveva fatto capire che aveva ancora molta strada da fare, ancora molto dolore da sopportare, prima di poter guarire. O crollare.
Quello che era successo il giorno prima era solo la riconferma del fatto che qualcosa, ormai, si era irrimediabilmente rotto. Solo adesso riusciva a capire esattamente cosa: Tony.
E lei continuava a non sapere se avesse dovuto far finta che nulla fosse accaduto, ignorare le crepe che ormai solcavano la facciata dell'uomo, o se fosse stato meglio lasciarlo lì per evitare di farlo soffrire ancora, condannandolo forse a crollare definitivamente. Poteva andarsene, come gli aveva promesso. Come aveva deciso di fare qualche ora prima, guardando il cratere nel muro del salone, e aveva rinunciato definitivamente a fare poco dopo, nel vedere il quadro appeso alle sue spalle.
Si stropicciò il viso, nervosa, frustrata, cercando di muoversi mentre la decisione si faceva strada in lei, spazzando via tutte le sue incertezze e lasciando che la donna determinata che era sempre stata riprendesse il controllo.
Non poteva andarsene così. C'era una terza opzione, oltre a rimanere e fingere o andarsene e ignorare. Era la più difficile e anche la più impegnativa, ma non si sarebbe tirata indietro adesso. Per l'ultima volta, o forse per la prima, voleva prendere la decisione giusta: rimanere e riparare ciò che si era rotto.
Anche se sarebbe stato meglio, molto, molto meglio non dover incrociare di nuovo il suo sguardo scuro acceso solo da una luce di incredulità e non fornire spiegazioni che non era in grado di dare e rispondere alle sue domande incerte e dare voce ai propri pensieri e rischiare di finire abbracciata a lui e...
Era arrivata ai piedi delle scale, e fu con pensieri rivolti altrove che inserì il codice d'accesso con un gesto ormai automatico. Entrò nel laboratorio, non accorgendosi subito dell'insolita penombra che vi regnava. Si fermò perplessa, notando che l'unica luce accesa era quella del banco di lavoro, davanti al quale intravedeva la sagoma di Tony, rilassata all'indietro sulla sedia mentre dormiva profondamente. La seconda cosa che notò fu l'assenza dei familiari ologrammi e proiezioni digitali che fluttuavano perennemente in quella sala. Aveva di nuovo disattivato JARVIS?
Gli altri dettagli le si rovesciarono addosso in una sequenza frenetica: la parete delle armature schermata, la posizione leggermente scomposta dell'uomo, la cavità impressa sul piano metallico del bancone, il fatto che questo fosse vuoto, eccetto che per un oggetto che si rifiutava di identificare, ma che emanava un inconfondibile bagliore azzurrino che–no, non poteva essere...
Pochi istanti dopo era accanto all'uomo e fissava il suo viso pallido e privo d'espressione, per poi soffermarsi sul congegno che gli illuminava il volto in maniera spettrale.
I suoi occhi sgranati oscillavano increduli tra quei due elementi che la sua mente non riusciva a far coincidere.
Il reattore di Tony. E la cavità vuota in mezzo al suo petto.

***


Il sole gli scaldava dolcemente il viso mentre una lieve brezza pregna di salsedine iniziava a solleticargli il naso.
Le onde si infragevano calme e placide sulla riva in un mormorio continuo; le più coraggiose si staccavano dalla massa d'acqua per allungarsi sul bagnasciuga, come per tentare di inghiottire più sabbia nel loro riscivolare indietro. Una di queste lambì i piedi di Tony, che si mosse appena, più sorpreso che infastidito dal fresco contatto dell'acqua marina. Socchiuse gli occhi e sbattè un paio di volte le palpebre, girandosi su un fianco sulla sabbia fine e facendosi schermo dal sole con il braccio, rimanendo comunque abbagliato dalla luce. Affondò la mano tra i granelli caldi, lasciandoli scorrere piacevolmente tra le dita mentre un'altra onda più forte gli sfiorava le gambe, bagnandogli il costume. Lanciò un'occhiata distratta al mare calmo, poi lasciò ricadere la testa sulla sabbia bianca, girandosi sulla schiena e godendosi quegli istanti così perfetti e rilassanti.
Non ricordava di aver apportato tutte quelle migliorie alle protesi, che risultavano essere meccanicamente perfette – quasi vere, aggiunse tra sé, con un mezzo sorrisetto compiaciuto. Gli sembrava di riavere il suo braccio e la sua gamba, e che l'incidente e tutto il dolore che aveva portato con sé non ci fossero mai stati...
Impiegò qualche secondo nel rendersi conto che non solo il suo braccio destro era perfettamente funzionante e integro, ma che aveva anche una pelle e che su quella stessa pelle poteva percepire i brividi di felicità e di sorpresa, oltre al tocco ruvido della sabbia. Spalancò di colpo gli occhi, improvvisamente sveglio e libero dal torpore, guardando sbigottito il suo braccio, sano, e poi la sua gamba, anch'essa integra. Un sorriso stupito e incantato si disegnò sul suo volto, fino a sfociare in una fragorosa risata piena di gioia incredula. Saltò in piedi – senza fatica, senza quelle orride stampelle, senza dolore – tastandosi la gamba e percependo entrambi i piedi affondare nella sabbia, perfettamente stabili e saldi. Percepiva i granelli tra le dita e l'acqua lambirgli le caviglie.
Era vero. Lui era proprio lì, ed era proprio
lui! Tony Stark, Iron Man, in perfetta forma. Forse il suo braccio e la sua gamba non erano esattamente i suoi, ma anche se fossero state delle protesi... beh, in quel caso erano perfette.
Un'onda più energica delle altre si abbattè sulla riva, tempestandolo di goccioline e richiamando la sua attenzione all'immensa distesa cristallina che si perdeva all'orizzonte. Preso dall'euforia del momento si lanciò in acqua, correndo sulla secca e tuffandosi poi senza esitazioni, pazzo di gioia per il poter nuovamente camminare, correre, nuotare e dimenarsi in acqua urlando a squarciagola semplicemente per il gusto di poterlo fare. Si sentiva libero, finalmente, capace di apprezzare tutte quelle piccole cose che fino a pochi mesi prima avrebbe dato per scontate e che adesso gli sembravano una conquista. Si immerse brevemente per poi risalire in un ventaglio di spruzzi, inebriato dal sapore dell'acqua salata.
Si placò all'improvviso e piantò i piedi nel fondale basso, rimanendo immerso fino al busto, col sole intenso che già gli asciugava le spalle grondanti. Fece per portarsi una mano al volto ma si bloccò, preso da un'improvvisa angoscia. Tentò di specchiarsi nell'acqua limpida e splendente per controllare le condizioni dell'occhio. Attese impazientemente e col fiato corto che l'acqua si calmasse e smettesse di confondere e intrecciare il suo riflesso; per un attimo temette di essere rimasto sfigurato, ma il suo gemello gli restituì l'immagine perfetta e intatta del suo volto. Si tastò stupefatto la guancia, la linea ininterrotta del sopracciglio, la palpebra aperta, sentendo l'occhio vivo e mobile sotto i polpastrelli.
Neanche una cicatrice era rimasta a a testimoniare l'incidente. Nulla: solo pelle, liscia e integra.
Seguì un profondo sospiro di sollievo e la sensazione che il sole avesse preso a brillare un po' più intensamente.
Stava giusto iniziando a chiedersi come avesse fatto a guarire e a progettare delle protesi e dei potenziamenti così perfetti senza ricordarsene, quando si bloccò allibito. Aveva preso a tamburellare sul reattore come era solito fare mentre rifletteva, ma non aveva percepito nulla sotto le dita se non il suo petto. Abbassò lo sguardo per accertarsi di non esserselo immaginato, ma con uno stupore misto a paura constatò che il suo torace, sempre accompagnato dalla vitale luce azzurrina, era vuoto e intatto. I suoi polmoni si gonfiavano al massimo, le costole non incontravano alcun ostacolo, lo sterno non gli doleva ad ogni respiro più profondo. Non c'era nemmeno la piastra metallica, né qualcosa che potesse suggerire l'esistenza di un congegno che lo teneva in vita. Semplicemente, era
normale. E nemmeno una vena da intossicazione di palladio si scorgeva sottopelle.
Rimase pietrificato.
Il geniale congegno era sparito. Ma stava bene, anzi, benissimo. Molto meglio di quando aveva un pezzo di ferro nel petto che lo stava dolorosamente e lentamente uccidendo; un peso costante di cui finalmente si era liberato, che poteva ricordare solo come un brutto sogno. L'incubo era finito. E non importava come, o quando, o perché: in quel momento desiderava soltanto riabbracciare la propria vita.
Seguirono altre grida e altre risate, mentre si godeva l'acqua fantastica della sua spiaggia e nuotava fino a sfiancarsi, finché non si abbandonò mollemente sulla superficie delle onde, galleggiando tra i flutti con un sorriso realizzato a inclinargli le labbra e gli occhi persi nell'azzurro sopra di lui.
Poco lontano scorgeva la sua splendida villa arroccata sulla scogliera rossastra. Sulla sabbia, a piedi nudi e con i capelli ramati scossi dalla brezza, intravide la persona, l'unica, che gli mancava in quel momento. Pepper lo salutò con un piccolo gesto della mano, sorridendo, così splendente nei suoi semplici pantaloncini e camicia da far sembrare il sole una lampadina al neon.
Tony ricambiò il saluto sbracciandosi, voltandosi poi con una capriola nell'acqua e incominciando a muoversi ad ampie bracciate verso la costa avvertendo con piacere la ritrovata forza del proprio corpo contro la corrente. Non desiderava altro che correrle incontro per abbracciarla, baciarla e raccontarle di quel miracolo inspiegabile. Improvvisamente si era fatto dimentico di tutto: il reattore, le protesi, la spiaggia... non c'era più niente per lui, solo lei.
Aumentò il ritmo della nuotata, impaziente. L'acqua gli arrivava ancora all'altezza della vita, eppure gli sembrava di aver percorso più distanza; avrebbe dovuto incominciare a uscire fuori dall'acqua, ma continuava a nuotare...
I suoi piedi iniziarono a farsi sempre più pesanti, restii a muoversi, finché non sprofondarono nell'acqua ancorandosi sul fondale, immobili.
Riuscì a tenere la testa fuori dall'acqua, fattasi improvvisamente più alta, ma ne ingoiò una sorsata salmastra che lo fece tossire forte. La paura si fece subito strada in lui, mentre tentava di alzare i piedi o anche solo di trascinarli sul fondo, ottenendo solo di sprofondare ancora di più, come se fosse nelle sabbie mobili.
Il suo sguardo corse subito a Pepper, ancora ferma sulla spiaggia. Ma non sorrideva più e non faceva nulla per aiutarlo: non muoveva un passo, non si agitava, non mostrava alcun segno di preoccupazione nei suoi confronti e i suoi occhi erano di ghiaccio mentre continuava ad osservarlo da lontano.
«Pepper!» tentò di chiamarla, ma come pronunciò il suo nome si ritrovò completamente sott'acqua e il suo grido si perse in una raffica di bolle.
I piedi erano come saldati a terra, l'aria fuggiva veloce dai suoi polmoni incapaci di trattenerla. Anche le gambe incominciavano a irrigidirsi sempre di più, finché non fu totalmente cementato fino alla vita. L'acqua continuava a farsi sempre più alta sopra di lui, allontanandogli la fonte d'aria più ovvia ed essenziale. Le braccia si dimenavano invano, tentando inutilmente di raggiungere la superficie o di muoversi in qualunque modo. Tentò di staccare i piedi con le mani, di forzare le gambe, ma quando le toccò erano fredde come il ferro e della stessa consistenza.
Iniziò a inghiottare acqua quando si accorse che erano realmente di durissimo metallo. Ogni fibra del suo corpo gridava dal dolore per la mancanza d'aria e il tormento divenne insostenibile quando la patina argentea riprese a inghiottire il suo corpo. Le vene e i tendini si solidificavano, il petto bruciava sempre più e il cuore rallentava come schiacciato dai polmoni che si dibattevano in cerca d'aria.
L'ultimo atomo d'ossigeno sfuggì alle sue labbra nello stesso momento in cui il metallo avvolgeva la sua testa, e improvvisamente non sentì più nulla, se non il battito distante del suo cuore che diventava un'eco sempre più debole e ovattata.
«Dove sono?»




____________________________________________________________________________________

Revisione effettuata il 04/03/2018

Nota delle autrici:
 

Buonasera, dolci pulzelle!
Torniamo (quasi) a tempo di record! Vi stiamo facendo sospirare questi capitoli, ce ne rendiamo conto...
Dunque, dovete sapere che l'idea per il bel Tony spaparanzato su una spiaggia è tutto merito di Moon, che ha questi lampi di genio improvvisi. Un applauso a lei! E la mega-super-iper-cazzola mentale di Pepper è stata partorita da Light, che non può vedere i personaggi in pace con loro stessi per più di mezza pagina.
Date queste premesse, come potevate aspettarvi che ne uscisse qualcosa di sano e coerente?

Per quanto riguarda le due citazioni iniziali... rappresentano i due lati "onirici" di Tony: il sogno e l'incubo. E stanno là pure perché le amavamo entrambe. E perché dovete adorare sia i Queen che i Metallica.
Amen.
Avete assistito anche al ritorno del "dove sono", che ormai è il nostro leitmotiv preferito <3


Vi ringraziamo immensamente, assolutamente e calorosamente (VI AMIAMO) per avere continuato a seguirci e a leggerci! In particolare per aver aggiunto la storia tra le preferite/ricordate/seguite, per averci aggiunto agli autori preferiti <3 e per aver recensito, in particolare chi ha recensito lo scorso capitolo: 81serena, Rogue92, Alley, Tony Stark, MissysP e Thirrin :D

A presto! ;)

Moon&Light


 



© Marvel

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Capitolo 29
*** Innervision ***



28

Innervision






"Someone who cares
Your own Personal Jesus
Someone to hear your prayers
Someone who's there."


[Personal Jesus – Depeche Mode]



Ancora quel dannato specchio.
Tony lo vedeva davanti a sé, a pochi passi. Aveva imparato a odiare ferocemente quella superficie lucida sulla quale si proiettavano le sue paure o le sue speranze, e avrebbe voluto infrangerlo in mille pezzi, se solo avesse potuto.
Invece si avvicinò. Non poteva fare altrimenti: non aveva controllo sul proprio corpo quando si trovava in quel limbo terrificante ed oscuro, frutto della sua mente sconvolta.
Stavolta intrappolata sulla lastra riflettente c'era l'immagine di lui
prima. Prima dell'incidente, delle protesi e del mondo che gli era crollato addosso. Si fissò negli occhi, ancora due, con un residuo di vitalità a farli scintillare. Ma anche quel riflesso era pallido e debole, oppresso dalle preoccupazioni che segnavano il suo volto di rughe premature. Assottigliò lo sguardo, perplesso, e riconobbe con un vuoto allo stomaco il reattore infisso nel petto del suo gemello: era rudimentale, coi cavi scoperti e proiettava un bagliore tremolante. Notò solo allora i vestiti stracciati e i lividi e i graffi che ricoprivano il suo corpo. Stava guardando se stesso prima, sì, ma non poi così lontano nel tempo. Eppure, in un certo senso in quel frangente era più remoto che mai.
Quando era ancora prigioniero, parzialmente inconsapevole di dover lottare davvero con tutte le sue forze, ignaro di cosa volesse dire sacrificare qualcosa, ma ancora strenuamente attaccato alla vita che gli sarebbe stata donata contro ogni sua aspettativa. Un dono che, alla fine, aveva sprecato. Si scoprì a rimpiangere quei momenti, per quanto fossero stati dolorosi e strazianti, perché nonostante il duro colpo che aveva subito quando aveva visto infrangere tutte le sue certezze, ne aveva poi trovate altre più salde, più giuste. Si vergognò di se stesso.
Fu allora che il suo riflesso poggiò le mani sul vetro.
Vetro.
Non uno specchio, ma un vetro spesso che li separava nettamente, invalicabile.
Tony, il nuovo Tony, poggiò anch'egli una mano su quella superficie lucida, ma la ritrasse subito e la portò davanti al volto sbarrando gli occhi. Era di metallo. Ma era la sinistra, non la destra. Si guardò le gambe, ed entrambe erano protesi, così come il busto, il petto, il suo intero corpo era costellato di giunture, meccanismi e placcature metalliche. Scorse fugacemente il suo vero riflesso e vide quello che sembrava un androide terribilmente simile alle armature di Iron Man, col loro stesso cipiglio minaccioso.
Fece un altro passo agitato lungo la parete e notò uno strano riflesso ai margini del suo campo visivo, come se qualcosa incombesse su di lui. Guardò di scatto verso l'alto e, così lontano da essere appena percepibile, colse il brillio lontano del sole, oltre un muro d'acqua scura e pesante e oltre un'altra spessa lastra di vetro. Si rese conto solo allora di essere rinchiuso in una teca, simile a un acquario subacqueo poggiato sul fondale marino.
Stralci di ricordi onirici sfiorarono la sua mente – la spiaggia, il sole, l'oceano, Pepper, un'allucinazione idilliaca poi sprofondata in quell'incubo – ma erano tanto dolorosi che li ricacciò indietro con rabbia.
Riabbassò il capo e i suoi occhi misero di nuovo a fuoco il vecchio se stesso che lo guardava come in attesa, stranamente calmo, sempre premendo contro il vetro coi palmi aperti. Sembrava chiedergli qualcosa con lo sguardo – speranzoso? – ma non riusciva a capire cosa dovesse fare, a parte prendere atto di essere probabilmente morto o in coma. Quello era probabilmente il suo personale purgatorio.
Il suo doppio a quel punto batté piano sulla lastra trasparente, causando un lieve tonfo che riverberò sott'acqua, e riconobbe sul suo volto l'espressione tronfia e un po'saccente che soleva fare quando qualcuno stentava a capire concetti per lui ovvi e basilari. In quel momento si sentì immensamente stupido.
Fu sicuro di vedere un sospiro che abbandonava le labbra del suo gemello in una raffica di bollicine, prima che battesse con molta più veemenza sul vetro, stavolta con entrambi i pugni. Una lieve crepa incrinò la superficie, e i suoi occhi si accesero di un brillio soddisfatto.
Finalmente capì. E sferrò a sua volta un pugno al vetro.
Grazie alla sua forza inumana lo scheggiò visibilmente, e un debole zampillo d'acqua sgorgò nell'acquario. Un secondo, un terzo, un quarto pugno e la parete finalmente si infranse, riversandgli addosso una violenta ondata d'acqua; fu sommerso quasi del tutto e annaspò in cerca d'aria, prima di ricordarsi che il suo corpo metallico non ne aveva bisogno. Riuscì a tenersi saldamente in piedi senza sforzo, contrastando la pressione.
Solo allora si accorse che il suo gemello boccheggiava, come se accusasse improvvisamente il fatto di essere sott'acqua.
Tony, con le membra d'acciaio insensibili e privo di polmoni che registrassero la carenza d'aria, sfondò ciò che rimaneva del vetro e protese un braccio verso se stesso. Gli afferrò una mano, e all'improvviso non fu più lui. Perse la percezione rigida e fredda del suo corpo artificiale, trovandosi catapultato in quello del vecchio sé, caldo, vivo e
fragile. Sbarrò gli occhi, sconvolto e con la mente che cercava disperatamente di capire cosa fosse successo.
L'acqua adesso pesava sul suo petto, ne sentiva l'abbraccio gelido e percepiva la pressione insostenibile sui timpani che sfociava in un sibilo acuto. Guardò in basso e vide quello che fino a pochi istanti prima era stato lui, ormai un guscio artificiale vuoto ed inerte sprofondato nell'abisso, con le braccia tese verso l'alto come una statua sommersa.
I suoi polmoni si dibatterono smaniosi d'ossigeno e ingoiò una sorsata d'acqua salata che gli oscurò la vista.
La coscienza perse la presa sul suo corpo, e quando tentò di rimanere lucido la sua mente incontrò solo il nulla.


***


Non si svegliava. Non si svegliava ancora.
Da quanto lo rianimava? Troppo poco...o troppo?
Pepper si lasciò sfuggire un singulto di disperazione, unito alla pressione delle sue mani sul petto di Tony adesso di nuovo irrorato dalla luce rassicurante del reattore che ne illuminava freddamente il volto pallido.
Quando se l'era tolto? Quanto tempo poteva resistere prima di...
Pepper scosse la testa con forza e continuò a comprimere il suo torace, perché non era il momento di fermarsi a pensare. Non voleva riflettere su cosa avrebbe voluto dire fermarsi. Sentiva le sue braccia sottili dolere per lo sforzo, ma non si fermò nonostante i muscoli bruciassero e reclamassero una tregua.
Non doveva fermarsi. Fermarsi voleva dire arrendersi.
Tony si era arreso, ma finché lei resisteva poteva riportarlo indietro. Era per quello che era rimasta fino a quel momento, e anche se i suoi bagagli la aspettavano al piano di sopra, anche se avrebbe già dovuto essere lontana, era ancora .
Non se n'era ancora andata: aveva preso la sua decisione.
Improvvisamente ricordò il volto e l'espressione di Tony in quel giorno che sembrava lontano anni luce, quando dopo tre mesi di dolorosa assenza era sceso sano e salvo da quell'aereo, e come era apparso immensamente più forte e bello nel momento in cui aveva respirato la libertà. E lei era lì, come sempre, per aiutarlo a rialzarsi. Ma allora lui si era già rialzato, anzi, si era spinto ancora oltre, era arrivato a volare senza il suo aiuto.
Sentì una lacrima solitaria rigarle il volto al pensiero, sommata a una rabbia cieca nei confronti di quell'uomo che aveva consapevolmente scelto di lasciarsi scivolare nell'inerzia rinunciando a contrastarla. Dopo essersi costruito un cuore artificiale pur di non morire, aver costruito un'armatura pur di rimediare lui stesso ai propri errori, e aver progettato delle protesi pur di non dover chiedere aiuto per camminare, gettava via tutto questo perché pensava di non potercela fare, di non essere abbastanza forte, quando lei sapeva che lo era stato sempre, per tutta una vita.
Semplicemente, si era arreso. Lui, Iron Man, aveva smesso di lottare.
Non gliel'avrebbe permesso. Continuò a rianimarlo, instancabile.
Un flebile sussulto scosse il petto di Tony.


***


Le onde si infrangevano su di lui. Onde che si infrangevano anche sulla sua mente e gli impedivano di focalizzare i pensieri. Tutti scivolavano via insieme alla risacca, nel blu dell'acqua e poi nell'indaco dell'oblio e infine nel nero dell'abisso spalancato sotto di lui. Non respirava e i suoi sensi erano annichiliti. Sentiva solo un rombo ovattato e scorgeva un flebile riflesso sopra di lui.
Acqua.
Era ancora acqua quella in cui fluttuava? I suoi polmoni si contrassero ricordandogli il suo spasmodico bisogno d'aria, ma lui non sapeva neanche dove fosse il resto del suo corpo e rimase inerte.
Il suo cuore batté un debole colpo e un impercettibile calore si propagò nelle sue membra, donandogli pochi attimi di lucidità in cui riuscì a catturare un unico pensiero, prima che questo venisse spazzato via.
Riemergere.
Doveva riemergere.
Come?
O meglio, perché?
Il suo cuore batté di nuovo, più forte, e l'acqua sussultò attorno a lui.
Per qualcuno.
Socchiuse gli occhi, tornati a svolgere il loro dovere, e colse il lieve brillio del reattore.
Doveva riemergere, perché qualcuno gli aveva detto di non sprecare la sua vita.
Un'altra pulsazione e un altro battito.
La luce era più vicina, adesso. La superficie era frammentata dai raggi del sole e sembrava a poche bracciate da lui.
Doveva riemergere, perché tutti contavano ancora su di lui.
Il suo cuore batté ancora, più deciso, e l'acqua fu scossa dalla vibrazione.
Improvvisamente voleva riemergere, per sentire di nuovo il sole sulla sua pelle, il vento tra i capelli bagnati e l'acqua che lo abbracciava come una carezza e non come una morsa.
Voleva riemergere, perché c'era qualcuno là fuori che lo chiamava.
L'abisso si spalancò sotto di lui con le fauci pronte ad inghiottirlo, ma lui ormai era fuori, tra le onde, e respirava.






FINE PARTE PRIMA







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Revisione effettuata il 04/03/2018


Note Delle Autrici:

Buongiorno cari lettori!
Prima di iniziare qualsivoglia sproloquio, crediamo sia necessario una piccola -eufemismo- introduzione.
Come potete ben notare non abbiamo aggiornato per qualcosa come nove mesi; di conseguenza abbiamo buoni motivi per credere che l'80% dei lettori e recensori si sia volatilizzato, abbia rimosso la storia dalle seguite, si sia rassegnato al fatto che la storia rimarrà incompleta e abbia semplicemente fatto vela verso nuovi lidi invece di stare ad aspettare un improbabile aggiornamento. E questo a noi sta più che bene: come dice il saggio, scriviamo prima di tutto per noi stesse; se poi otteniamo anche del seguito, ben venga e ben vengano critiche e commenti.
Adesso, qualche delucidazione sui vari motivi che ci hanno portate a una pausa così lunga.
Prima di tutto, il periodo tra Aprile e Giugno è stato per noi quanto di più vicino ci sia a un inferno e ci ha tolto qualsiasi voglia di scrivere o pubblicare o anche solo prendere in considerazione l'idea di continuare le storie che avevamo e abbiamo in corso.
Aggiunto a ciò, quest'estate è stato un periodo decisamente impegnato per entrambe, vuoi per la scuola -MoonRay ha cambiato indirizzo scolastico e ha avuto decisamente poco tempo per badare allo scrivere-, vuoi per problemi personali, vuoi per mancata ispirazione.
Ma più di tutto, il problema attuale è che noi due siamo da settembre a circa 1200 km di distanza.
Prendo brevemente la parola -Light-: sto partecipando a un programma annuale all'estero e sono attualmente in Germania, frequentando una scuola locale. Come potete ben immaginare non ho un minuto libero, tra scuola, studio della lingua, attività varie e viaggi-studio e nonostante mi sia trovata a scrivere più spesso che in Italia (!) non si tratta mai di cose inerenti a EFP o FanFiction. Ovviamente la lontananza, oltre che essere difficile per noi come amiche, è anche un ostacolo allo scrivere, dovendoci affidare a Whatsapp, Skype e Facebook per sentirci e questi non sono esattamente i mezzi adatti per elaborare qualcosa di scritto. Senza contare il fatto che, sì, lo ammettiamo, la voglia di scrivere ci era un po' passata in generale. Ho avuto svariati problemi da quando sono qua e l'aggiornare le tante FanFiction in sospeso non rientrava esattamente nelle mie priorità.

Chiusa parentesi egocentrica, riprendiamo a parlare al plurale.
Abbiamo deciso di dare una chance allo scrivere e in particolare a Phoenix, soprattutto perché il pensiero delle ore e ore passate a scervellarci su trama, personaggi e dettagli tecnici ci impedisce di abbandonare la storia senza neanche provare a continuarla.
Quindi, cercheremo in qualche modo di aggiornare ancora nel corso del prossimo anno -Light torna a luglio- o quantomento di procedere con la trama e i capitoli per poi pubblicarli in seguito. Non promettiamo nulla, come capirete la situazione è quel che è, e ad aggiungersi ai problemi tecnici c'è il fatto che in quasi un anno sono successe molte cose e altrettante ne accadranno. Diciamo che potrebbe diventare evidente un cambio di stile, considerando il fatto che siamo cambiate entrambe non poco in questo lasso di tempo.
Ma diamo tempo al tempo e vediamo che succede...

Intanto, ringraziamo tutti coloro che continueranno a seguirci e che hanno seguito e recensito Phoenix!
Grazie di cuore!

Moon&Light

P.S. Light: io chiedo venia per qualunque errore dovesse trovarsi nei pezzi scritti da me, ma mi sto bellamente dimenticando l'italiano a forza di parlare unicamente tedesco e inglese. Dopo la mia perla “libro” scritto “L'ibro” posso considerare la mia lingua madre defunta...

Edit 04/03/2018: la fine della prima parte della storia, Flames, è stata spostata qui. Non cambia nulla, in realtà, ma credo avesse più senso, visto che questo capitolo è un punto di rottura sia per Tony che per la storia in sé, visto che dal capitolo successivo comincia la scrittura "in solo". Lo trovavo appropriato, insomma. [-Light-]
 





© Marvel
 

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Capitolo 30
*** In noctem ***



Parte Seconda

 

ASHES



"Ever tried. Ever failed.
No matter.
Try again. Fail again.
Fail better."
S. Beckett




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29


In noctem





"I'm frozen to the bones, I am
A soldier on my own, I don't know the way
I'm riding up the heights of shame
I'm waiting for the call, the hand on the chest
I'm ready for the fight and fate."

[Iron – Woodkid]





19 Aprile, Villa Stark

Villa Stark era più silenziosa del solito. Il mare si abbatteva scrosciando con tenace insistenza contro la scogliera su cui era arroccata l'enorme edificio, con la spuma che riluceva sotto la luna in tenui nastri argentei. Le onde si ritiravano con forza, per poi tornare ad abbracciare la roccia rossastra con altrettanto impeto. Era l'unico suono che si diffondeva nelle stanze vuote ed echeggianti.
La luce lunare filtrava timidamente nel salotto ancora devastato, illuminando qualche scheggia di vetro superstite, e si riversava appieno nella terrazza slanciata sull'oceano. Qui riluceva anche sulle protesi metalliche di Tony, seduto sul bordo di un'aiuola di ginestre, intento a scrutare l'orizzonte marino e la campagna circostante illuminata quasi a giorno. Osservò la luna, una pallida perla a cui mancavano ancora un paio di falci per essere perfetta. Doveva essere quasi mezzanotte. Forse era più tardi, non avrebbe saputo dirlo.
Si era seduto in terrazza nel tardo pomeriggio senza alcuno scopo preciso, barcollando come sempre, ma stavolta con insolita lentezza e cautela. Si era ritrovato ad ammirare l'oceano d'un blu profondo, che si era poi striato di pennellate dorate, poi rosse, infine tinto della sfumatura verdognola del crepuscolo, fino a calare in un nero denso e mobile. A quel punto stava per rientrare, quando il riflesso argenteo della luna non aveva illuminato nuovamente le creste delle onde. Ed era rimasto lì, ad ammirarne la lenta ascesa in cielo, nell'aria dolce di fine aprile.
Una raffica di vento un po' più sospinta portò con sé una scia di salsedine intensa e fece dondolare leggermente i piccoli fiori gialli della ginestra, che assecondarono con flessibile grazia quell'improvviso turbamento. Tony inspirò a fondo quel profumo salmastro e familiare, e per una volta non fu accompagnato dal ricordo spiacevole dei suoi sogni tormentati di... molto tempo prima, ma non abbastanza.
Cominciava ad avvertire una leggera fame, ma era riluttante ad abbandonare quella quiete. Si sentiva bene.
In effetti non sentiva nulla, ma lo considerava un miglioramento rispetto alle sue ultime vicissitudini. La sua mente era attiva e in costante fermento, ma era un'attività tenue e controllata, proprio come la risacca del mare calmo. Non era in bonaccia, ma la tempesta era lontana, impigliata all'orizzonte. Era un mare navigabile e non per questo meno infido, ma un capitano esperto poteva attraversarlo senza sforzo. E ultimamente aveva avuto modo di conoscere fin troppo bene la sua mente, mappandola con più precisione di quanto avesse mai fatto in vita sua. Per questo, quando captò l'ombra di un sentimento inquieto far capolino sotto la superficie, si limitò a respingerla con fermezza verso i fondali, senza scomporre il suo naviglio improvvisato.
Con estrema lentezza prese le stampelle, una delle quali un po' piegata, vi incastrò gli avambracci e si tirò su facendovi leva, avvertendo la protesi anteriore che premeva spiacevolmente sui punti di sutura. Poggiò appena la gamba destra, ma il dolore sordo che seguì lo fece desistere. Cambiò gamba d'appoggio e, lanciando un'ultima occhiata malinconica al cielo riflesso nel mare, rientrò nel salone buio chiudendo la porta-finestra dietro di sé. JARVIS attivò le luci in modo soffuso, rischiarando le stanze senza renderle eccessivamente luminose. Negli ultimi giorni era diventato fotosensibile, non sapeva dire esattamente per quale motivo, ma non riusciva a sopportare più di tanto le violente luci artificiali della villa, tantomento quelle al neon del laboratorio. Ian aveva detto che poteva essere lo stress – e non lo metteva in dubbio – ma Tony era abbastanza convinto che avesse a che fare anche con il palladio. Non vi aveva dato comunque troppo peso: era sopportabile e comunque sembrava scemare col passare del tempo. O forse era solo lui che vi si stava abituando.
Si appoggiò un po' affaticato allo schienale del divano, riprendendo fiato senza mettersi fretta. Non c'era niente e nessuno che lo aspettasse, in quel momento: poteva seguire i suoi tempi.
Gli era mancato stare da solo.
Era una conclusione a cui era arrivato dopo giorni di disperazione per la partenza di Pepper, adesso probabilmente chiusa nella sua stanza sull'Helicarrier a qualche chilometro d'altezza. Era il tipo di conclusione che portava con sé un po' di amarezza, ma non poteva negarne la verità. No, non avrebbe voluto che se ne andasse. Sì, ammetteva, aveva avuto perfettamente ragione a farlo: poteva sopportare la sua sfrontatezza e incostanza, i suoi scoppi d'ira, le sue crisi depressive e tutte le parole che diceva ma che in fondo non intendeva per davvero. Poteva anche sopportare che distruggesse mezza casa – quello era anche colpa di Bruce, in realtà – e che si sbronzasse senza ritegno. Non avrebbe dovuto sopportare il male che le aveva fatto, eppure era tornata per l'ennesima volta, concedendogli di rivolgerle delle scuse inadeguate e zoppicanti come lo era lui, poi... poi aveva superato il limite. L'aveva superato molte volte, così aveva creduto, ma c'era una differenza sostanziale tra il varcare il limite della sopportazione degli altri e quello sacro, inviolabile, della propria vita. Non era il tipo di azione che si potesse semplicemente rimproverare o comprendere o dimenticare. Era un gesto che tracciava altri limiti, altri confini; che troncava fili tessuti nel corso di anni.
Sì, capiva perfettamente perché se ne fosse andata, ed era per questo che, dopotutto, non aveva neanche cercato di contattarla. Era lei il motivo per cui aveva scelto di vivere quando era ormai troppo tardi, era la sua figura quella che aveva obbligato il suo inconscio a non lasciarsi andare, ma dirglielo avrebbe solo complicato le cose. L'aveva percepita andar via, discretamente: la sua àncora di salvezza veniva levata e lui rimaneva alla deriva, solo in mezzo al mare. Però continuava a galleggiare. Con un po' di tempo e fortuna, forse avrebbe anche toccato terra, un giorno, e non avrebbe più avuto bisogno di ancore provvisorie.
Per ora stare in solitudine aveva allentato una tensione che non si era reso conto di sopportare. C'era solo lui, là dentro. Nessuno che lo guardasse, nessuno con cui dover sfoggiare un'apparenza noncurante, nessuno da ferire. Era liberatorio. Da due settimane si sentiva in vacanza, ed era una consapevolezza che lo faceva sentire un ingrato. Ingrato, sì, ma un ingrato sereno.
«Signor Stark, ha un messaggio sulla segreteria telefonica, ricevuto alle 19:12. Ho ritenuto più sopportuno non disturbarla fino a quando non fosse rientrato.»
Incredibilmente, persino JARVIS aveva acquisito un'insolita dose di tatto.
«Da chi?» volle sapere subito.
Raramente aveva ricevuto chiamate o messaggi, se non saltuariamente da Kyle, che si era dimostrato insolitamente incline a soprassedere sugli ultimi eventi – esperienza personale? si era chiesto Tony – e da Ian per il suo check-up settimanale. Il medico, al contrario, sembrava trattarlo con ripugnanza e svolgeva il suo dovere con rapida professionalità, senza dilungarsi né aprir bocca se non per un "dica trentatré", per poi lasciare Villa Stark a passo di marcia. Di Pepper nessuna notizia, ma sperava in cuor suo che fosse un buon segno. Se ci fossero stati problemi l'avrebbero informato... no?
«È sulla linea criptata dello SHIELD» l'annuncio di JARVIS portò qualche ombra sul suo volto, ma non si scompose.
«Oh, che gioia. Si sono ricordati che esisto.
»
"Chissà se anche stavolta vogliono mandarmi un regalino verde..."
«Sentiamo,» sospirò, e si decise a sedersi sul divano.
Uno schermo olografico azzurrino fu proiettato dinanzi a lui: era un messaggio video, a quanto pareva. La figura di Fury si delineò, un po' tremolante a causa delle interferenze. Si chiese da quale angolo remoto del mondo lo stesse chiamando, e se davvero fossero notizie su Pepper. Sperò di no, o forse di sì, o forse entrambe le cose.
«A quanto pare sei troppo impegnato per rispondere al telefono, qualunque cosa tu abbia da fare laggiù che sia più importante di una chiamata dei tuoi datori di lavoro,» esordì Fury, palesemente seccato, tanto che Tony si aspettava di vedergli saltare la benda da un momento all'altro.
L'allusione ai "datori di lavoro" non gli piacque affatto. Era lui che si metteva a disposizione dello SHIELD, e non era certamente sotto contratto. Tanto più che, fuor di metafora, era sull'orlo del licenziamento da mesi.
«Comunque, sei sparito dai nostri radar un po' troppo a lungo, così manderemo uno dei nostri a controllare che sia tutto
più o meno in ordine. E, se fosse necessario, a tenerti d'occhio per un po',» aggiunse l'ultima frase come se ci avesse pensato in quel momento.
Tony incrociò le braccia, accigliandosi profondamente mentre fissava con insistenza la barra di riproduzione del video che arrancava ancora verso la metà; si chiese cos'altro dovesse mai dirgli.
«Come potrai immaginare, Rogers non smania per vederti. Banner potrebbe ridurti in poltiglia dopo gli ultimi fatti, Thor è attualmente oltre il Bifrost, l'agente Coulson è ancora sconvolto per lo stato in cui ti ha ritrovato e la signorina Potts... beh, non te lo devo spiegare.»
Tony abbassò involontariamente lo sguardo. Era comunque affascinante vedere come fosse riuscito a mettersi contro tutti i Vendicatori in un batter d'occhio. Non conosceva i le usanze asgardiane, ma era probabile che anche Thor non vedesse l'ora di piantargli Mjöllnir in testa per quello che aveva tentato di fare.
«L'agente Romanov era disposta a prendersi l'incarico, ma l'ultima missione è stata più dura del previsto e si sta ancora rimettendo. Al posto suo si è offerto l'agente Barton. Non che avesse molta altra scelta,» puntualizzò, lapidario. «Aspettati una visita domani, probabilmente nel pomeriggio,» concluse Fury, chiudendo la chiamata, e lo schermo ridivenne azzurro per poi sparire in uno sfarfallio.
Tony notò come Fury non avesse dato in realtà degli estremi molto precisi per la visita, probabilmente per impedirgli di "prepararsi". Non che ne avesse bisogno. Non aveva nulla da nascondere: l'alcool era sparito per far posto a quantità industriali di clorofilla e non si sentiva così bene da... da mesi, ora che ci pensava. Il massimo pericolo che Barton poteva incontrare era un'approfondita descrizione dei metodi di fusione dell'unobtanium o una sua stretta di mano un po' troppo energica. D'altronde, l'agente era sempre stato piuttosto incline a farsi i fatti propri; anche quando si era dichiarato contrario alla sua permanenza nei Vendicatori, sapeva che l'aveva fatto in spirito puramente oggettivo, tanto più che aveva poi cambiato posizione al riguardo. A mente fredda, se si fosse trovato dall'altra parte non avrebbe mai permesso a se stesso di rimanere nel Progetto Vendicatori, o almeno non di parteciparvi attivamente. Sì, era grato che Fury mandasse Hawkeye. Parlare con Natasha sarebbe forse stato più piacevole, magari si sarebbe mostrata più comprensiva – ne dubitava – ma tra loro c'era quel grado di confidenza in più che l'avrebbe fatto sentire giudicato. Per non parlare di Bruce. Scacciò il pensiero, consapevole di aver profondamente deluso l'amico, e si alzò zoppicando.
Raggiunse la cucina, dove si fece preparare dai robot una confezione di noodles pronti che trangugiò in pochi minuti, stranamente affamato, poi filò a letto senza passare per il laboratorio. Negli ultimi giorni i progressi tecnici erano stati minimi e poco incoraggianti – una stretta di bullone qua, un cavo messo a posto là, magari un piccolo miglioramento della struttura del piede – ma non se ne crucciava. Aveva un braccio più o meno funzionante, la gamba era praticamente un peso inerte e inutile che riusciva a malapena a muovere, ma svolgeva la sua funzione d'appoggio e lo bilanciava quel tanto che bastava per rimanere in piedi qualche secondo se necessario. Non aveva realmente bisogno di nient'altro, per ora, a parte riposarsi. Si era piuttosto dedicato con crescente inquietudine alla progettazione di un nuovo modello di reattore con alimentazione alternativa al palladio, con poco successo visto che lavorava sempre dal salotto, senza sedersi fisicamente al tavolo da lavoro – d'altra parte, non aveva neanche voglia di tornare nel posto in cui si era quasi tolto la vita.
Sdraiato sul letto, sbirciò l'area circostante il reattore. Le venature bluastre non erano sparite, ma sembravano, se non diminuite, almeno un po' meno spesse. Forse aumentare ancora le dosi di clorofilla si era rivelata una scelta vincente, anche se gli toglieva totalmente l'appetito. Certo, a lungo andare avrebbe potuto fare la controfigura per Hulk, ma meglio che morire intossicato.
"A lungo andare... chissà quanto, ancora."
Si addormentò con quel pensiero, che era tornato ad assumere una connotazione minacciosa e non malsanamente attraente come poco tempo fa. Meglio così.
Dormì sonni tranquilli, svegliandosi di tanto in tanto per il dolore ai moncherini con una sensazione di vuoto al petto, ma riaddormentandosi quasi subito rassicurato dal tenue chiarore azzurrino del reattore.


***


20 Aprile, Villa Stark

Clint arrivò, o meglio, comparve dal nulla nel tardo pomeriggio, mentre Tony era impegnato in una partita di scacchi virtuale con JARVIS; considerando che lo aveva impostato per seguire gli schemi di Kasparov stava andando anche meglio del previsto, e stava perdendo meno miseramente del solito. Scacciò l'ologramma con un colpo svogliato della mano e si voltò a guardare il nuovo arrivato senza alzarsi dalla poltrona.
«Buonasera, Agente Barton. Cominciavo a preoccuparmi: ero sicuro che ti saresti presentato alle sei del mattino.»
«Sono partito a quell'ora da Rio de Janeiro,» replicò asciutto lui, lasciando intendere il suo scarso buonumore per l'alzataccia.
Si fermò nel bel mezzo del salotto e sembrò improvvisamente a disagio nel vedere il muro divisorio crollato per metà.
«Quello...» cominciò, esitante, e Tony lo anticipò:
«Sì, è opera di Banner, cioè Hulk. A sua discolpa, aveva i suoi buoni motivi per essere arrabbiato.»
«Immagino.»
«No, non immagini. Credimi.»
Tony si lasciò sfuggire un breve sbuffo e tamburellò con le dita sui braccioli della poltrona, mentre l'altro ammutoliva di nuovo e riprendeva a guardarsi intorno con aria a metà tra il distratto e l'assonnato. In realtà, ne era certo, aveva registrato ogni minimo dettaglio della villa che fosse nel suo campo visivo. Hawkeye era stranamente in borghese, con indosso una semplice felpa verde militare e un paio di jeans un po' logori, ma assicurata alla cintura si intravedeva la sua balestra portatile. Gliel'aveva progettata lui stesso: un'arma estraibile completa di dardi compressa in una scatoletta che a una prima occhiata sembrava una macchina fotografica. Era stato uno degli ultimi lavori che aveva svolto per i Vendicatori. Le sue dita smisero di colpire ritmicamente la stoffa beige della poltrona, contraendosi appena.
Adesso sarebbe cominciato l'interrogatorio, da un momento all'altro. Si chiese cosa stessero aspettando: voleva concludere quella prassi il prima possibile, ma Clint era più taciturno del solito e se ne stava impalato in mezzo alla stanza, osservando la villa con un interesse ingiustificato. Dopo quella che gli parve un'eternità, Tony decise di non poterne più:
«Vogliamo arrivare al dunque o hai intenzione di fissare il muro finché Fury non ti richiama?» sbottò, fancendogli al contempo un cenno verso il divano per invitarlo a sedersi.
Barton alzò le spalle in un gesto noncurante, anche se si scorse un lieve fastidio attraversare il suo volto; non si sedette e si piantò di fronte a Tony, incrociando le braccia.
«Francamente, Stark, non so neanch'io cosa dovrei fare,» snocciolò, cogliendolo di sorpresa.
Si riprese in fretta.
«Pensavo dovessi "tenermi d'occhio".»
Mimò le virgolette con le dita in modo sarcastico.
«E perché mai?»
Clint sembrò sinceramente perplesso dalla domanda. Tony iniziava a non raccapezzarsi più.
«Senti, Legolas, non so per quanto tempo sei stato disperso in Amazzonia, ma pensavo ti avessero fornito almeno i dati essenziali. Tipo che ho poco brillantemente cercato di porre fine alla mia esistenza un paio di settimane fa.»
Dirlo ad alta voce lo faceva sembrare un evento quasi irreale, ma in qualche modo anche più gestibile.
«Lo so,» replicò Clint, lapidario. «Non vedo comunque il motivo di farti la guardia.»
Tony battè stolidamente le palpebre. Dopotutto, doveva esserci un motivo se Barton era un agente che si limitava a eseguire gli ordini nonostante fosse teoricamente un Vendicatore. O forse risentiva semplicemente del jet-leg. Non avrebbe saputo dirlo: il suo volto era imperscrutabile e temprato da anni di interrogatori. Si rassegnò a rispondere, scandendo le parole e cercando di smorzare il sarcasmo che però gli uscì spontaneo:
«L'ipotesi più quotata è che potrei essere leggermente instabile. Un po' di depressione, forse anche qualche problemino di autocontrollo. Magari sotto sotto ho anche voglia di riprovarci. Inezie del genere.»
Fece un gesto noncurante con la mano meccanica. Hawkeye sembrò forse irritato dal suo tono, ma dalla sua voce non trapelò la minima emozione.
«Al momento non mi sembra che tu abbia nessuno di questi problemi,» dichiarò piattamente.
Di nuovo, Tony stentò a credere alle sue orecchie. Quella era buona. C'era veramente qualcuno che non lo ritenesse uno schizzato depresso?
«E lo deduci da cosa?» chiese ironico, iniziando a sentirsi preso in giro.
«Dal fatto che io sono qua in piedi mentre tu resti lì seduto, e che la cosa ti sia indifferente.»
Stavolta Tony rimase interdetto, la bocca semiaperta che aveva dimenticato come volesse replicare. Distolse lo sguardo. Sentiva la tentazione rispondere con una battuta, ma la soffocò, perché aveva intuito benissimo dove voleva andare a parare Barton. E non avrebbe mai ammesso apertamente quanto, in effetti, avesse colto nel segno, dimostrando un'acutezza che esulava dalla semplice abilità di arciere.
Solo qualche settimana prima sarebbe scattato in piedi al primo trillo del campanello, fregandosene della protesi malmessa e della sua andatura zoppicante, si sarebbe probabilmente imbottito di antidolorifici pur di camminare senza risentirne sul momento e sarebbe andato incontro all'ospite con passo ridicolmente baldanzoso, come se non avesse un solo problema al mondo nonostante il suo aspetto trasandato dicesse ben altro.
Adesso se ne stava sprofondato nella poltrona, la protesi stesa sul poggiapiedi per far riposare il moncherino, con un thermos di clorofilla a portata di mano e nessuna intenzione di alzarsi. Nonostante indossasse i soliti pantaloni da lavoro e un paio di ciabatte più vecchie di lui, la maglietta era pulita e aveva ripreso a radersi alla meno peggio – per quanto gli consentisse la protesi senza recidersi la giugulare – e a sistemarsi i capelli diventati un po' troppo lunghi.
E no, non gli importava di non potersi alzare in piedi, perché in effetti non voleva alzarsi in piedi. Era una differenza sostanziale che aveva cominciato a realizzare nel corso delle ultime due settimane, quando aveva cominciato ad apprezzare i pregi della solitudine. Non aveva sentito neanche il bisogno di scusarsi o di mettere in chiaro che non dipendeva da lui; non aveva neanche pensato di dover in qualche modo ricordare all'altro quanto facesse schifo la propria situazione con qualche commento pungente o una battuta autoironica. La sua situazione era abbastanza evidente senza bisogno di parole superflue.
Si accorse di sorridere appena, un'ombra di quel sorrisetto sardonico che aleggiava spesso sul suo volto in tempi più sereni. Hawkeye ricambiò con un'occhiata forse meno fredda del solito.
«Va bene, hai fatto i compiti a casa, dopotutto,» commentò infine Tony. «Adesso però siediti davvero, ti prego. Mi fai stancare solo a guardarti,» aggiunse in tono leggero.
Clint acconsentì senza dire una parola e si accomodò sul divano di fronte a lui, lasciando vagare lo sguardo come se non avesse già perfettamente memorizzato ogni angolo del suo salotto; e notava benissimo come di tanto in tanto gli scoccasse un'occhiata quasi casuale, ma di un'intensità evidente. Dopotutto, lo stava tenendo d'occhio.
Decise di rompere il silenzio: meglio parlare con Barton piuttosto che perdere un'altra partita a scacchi.
«Quindi, tu che ne pensi?» esordì cautamente e, in fondo, con sincera curiosità che però trasparì solo dal suo sguardo.
Il suo tono rimase quasi noncurante.
«Di cosa, esattamente?»
Era molto difficile capire se Barton facesse il finto tonto o meno, ma la cosa iniziava a irritarlo e divertirlo allo stesso tempo.
«Di questa faccenda. Cioè, non di questa, ma di quella di due settimane fa,» puntualizzò, con un gesto della mano a dare enfasi. «Non pensi che debba essere internato in un centro di igiene mentale, e già così ti poni contro il buon senso di tutti i tuoi colleghi. Sarebbe il colmo se pensassi anche che io non sia stato un idiota a fare... beh, a quasi fare quello che ho fatto.»
Barton sembrò esitare, come se fosse riluttante a intavolare il discorso. O forse trovava semplicemente strano che qualcuno chiedesse la sua opinione. Infine intrecciò le mani dietro la nuca e poggiò la caviglia sul ginocchio, come decidendo che, se proprio doveva parlare, tanto valeva stare comodi.
«Certo che penso che ti sei comportato da idiota. Ma chi sono io per giudicarti?»
La sua espressione rimase neutra e indecifrabile come sempre.
«L'hai appena fatto,» lo rimbeccò Tony.
«Mi hai chiesto un parere. Se pensi che ti dica quello che vuoi sentirti dire, parli con la persona sbagliata. »
«Allora spiegami perché pensi che sia un idiota.» Tony intrecciò a sua volta le dita sul ventre, in ascolto. «Premettendo che hai perfettamente ragione e che penso anch'io di essere stato un idiota,» aggiunse a mo' di chiarimento.
«Tu perché lo pensi?» replicò Barton.
Sembrava che Clint avesse seri problemi a distinguere un interrogatorio da una conversazione normale, e cercasse di lasciar trapelare meno informazioni possibili da parte sua, nel tentativo di spostare il discorso su un terreno sicuro.
«Il suicidio non è una risposta ai problemi,» si costrinse a dire, un po' meccanicamente. «E mi ci sono praticamente costretto con le mie mani. Avrei dovuto cercare di andare avanti, invece di...»
«Tu mi stai dicendo perché gli altri pensano che tu sia un idiota. O la società in generale. Nessuno vuole che la gente si suicidi, no?»
Clint non era davvero tipo da girare intorno alle questioni, né gli piacevano troppo i giochi di parole. Parlava schiettamente, senza dargli modo di replicare.
«Io però ti ho chiesto perché tu pensi di essere un idiota.»
Tony rimase interdetto, prima di tutto perché era la prima volta che lo sentiva pronunciare più di due frasi di fila. L'agente Barton gli era sempre sembrato il tipo di uomo che svolgeva i suoi doveri senza farsi troppe domande e che in generale evitava di pensare troppo. In realtà, si rese conto, di lui non sapeva proprio nulla. Al contrario degli altri Vendicatori, Barton era per lui un grande punto interrogativo, così come Natasha, anche se in misura minore. Forse era per quello che erano così affiatati, quei due.
Si prese del tempo per riflettere. La prima risposta che gli balenò in mente fu Pepper. Era per lei che aveva deciso di vivere. Ed era lei a considerarlo un idiota più di tutti gli altri. Nonostante la cosa lo imbarazzasse un poco, stava per dirlo, quando si bloccò, come folgorato.
Certo, voleva vivere anche per lei. Lo faceva stare bene, provava sentimenti per lei su cui aveva deciso di non soffermarsi in modo serio, ma che puntavano decisi verso una direzione inconfutabile; erano sicuramente legati da un profondo affetto consolidato negli anni, ma... era veramente tutto ciò che lo teneva ancorato in questo mondo? Trovava il pensiero confortante in sé, ma allo stesso tempo si rendeva conto di quanto quell'ormeggio fosse labile. Essere legato alla vita solo tramite un'altra persona lo faceva sentire vulnerabile. Le persone avevano la tendenza ad allontanarsi, ferire, tradire, essere imprevedibili. Alla fine scomparivano, che fosse per colpa di un'auto difettosa o di una stretta un po' troppo salda sul braccio. Erano troppo fragili.
Un'improvvisa consapevolezza scese su di lui, emersa insieme a quella parte buia e ancora bruciante di sé che teneva a bada ogni giorno.
Lui doveva vivere, ed era questo pensiero che lo aveva spinto a non mollare quando credeva di aver perso tutto. Era per quello che non si era arreso all'idea che Iron Man fosse morto, ed era per quello che si sentiva così prepotentemente furioso con se stesso e col mondo che sembrava ostacolarlo ad ogni passo che faceva. Per quello, dopo il disastro sfiorato che aveva perpretato con le sue mani, si era svegliato con un profondo senso di disgusto verso se stesso.
Spiò l'uomo seduto scompostamente di fronte a lui: Barton aspettava paziente la risposta, per nulla turbato dal suo lungo silenzio.
«Mi è stato detto di non sprecare la mia vita,» disse infine a mezza voce, come togliendosi un gran macigno dalle spalle che poi, lo sapeva, sarebbe tornato a pesare più di prima. «Ho troppi debiti con questo mondo: non posso permettermi il lusso di abbandonarlo di mia volontà e lasciarli insoluti.»
Hawkeye annuì brevemente, forse non capendo appieno il contesto delle parole di Tony, ma cogliendone il concetto. Tony realizzò di essersi forse scoperto un po' troppo e accennò un sorrisetto spavaldo:
«E tu, Robin Hood? Perché tu credi che sia un gesto da idioti?»
Clint sembrò divertito dall'improvviso risvolto della situazione, ma ciò trasparì solo dal fulmineo contrarsi delle sue labbra, un sorriso troncato sul nascere. Per un istante Tony credette che non avrebbe risposto, ma fu smentito:
«La vita non è stata molto generosa con me, all'inizio,» esordì vago. «Ho avuto più di un buon motivo per farla finita. In realtà ne avrei ancora adesso, ma sono semplicemente troppo cocciuto per mollare tutto. E ci sono delle persone che contano su di me e mi ricordano per cosa valga la pena vivere,» alzò le spalle, come a scusarsi per quella banalità, poi si fece più serio. «E poi sono un sicario. Sarebbe piuttosto ironico se mi ammazzassi, no?»
Esprimere ad alta voce quel pensiero parve rabbuiarlo, e sprofondò in un silenzio che Tony non volle interrompere. Rimasero muti così a lungo che ormai entrambi avrebbero trovato strano riprendere il discorso, anche se forse avevano ancora qualcosa da aggiungere. Clint finì con l'assopirsi, a braccia incrociate e con la testa reclinata all'indietro sullo schienale del divano – Fury sarebbe stato fiero del suo lavoro di sorveglianza.
Tony avrebbe voluto alzarsi, ma si sentiva troppo indolente; d'altronde, non aveva nulla d'urgente da fare. Ma, nella sua indolenza, iniziò ad annoiarsi. Quasi gli venne da alzare gli occhi al cielo per la sua stessa incoerenza, ma si decise a scendere di soppiatto in laboratorio.
Un po', doveva ammetterlo, gli mancava.



***


L'aria era stantia e c'era odore di ferro bruciato e polvere. Era tutto esattamente come l'aveva lasciato: i componenti sparsi sui tavoli da lavoro, la cartacce sul pavimento, le apparecchiature per la fusione dell'unobtanium in un angolo, la parete delle armature schermata. Solo la sua sedia era innaturalmente distante dalla scrivania, come se qualcuno l'avesse scostata con forza. Sentì le sue membra formicolare d'inquietudine, reali e artificiali, ma fu l'unica reazione del suo corpo che registrò. Non avvertendo altri segnali negativi avanzò proprio fino a quella sedia, chiedendosi se volesse veramente prendervi posto.
Era la sedia su cui aveva passato forse la maggior parte del suo tempo quando stava a casa. Su di essa aveva avuto idee brillanti, momenti di scoraggiamento, aveva riso, battibeccato con Pepper e JARVIS, passato ore e ore a progettare, scrivere e navigare tra schermi e ologrammi. Era la sedia che lo aveva accolto di ritorno dall'Afghanistan e su cui si era seduto come tra le braccia di una madre. Lì sopra aveva visto per la prima volta l'interezza delle sue ferite, riflesse in uno schermo spento. Seduto lì sopra si era mostrato per la prima volta debole a Pepper, quando aveva creduto di non farcela. Passò la mano sensibile sui braccioli usurati, sulla pelle nera ormai screpolata.
Da quel giorno in poi, tutto era andato disgregandosi sempre più: il suo mondo, la sua mente, i suoi affetti – uno più di tutti – fino ad essersi trovato nuovamente seduto lì, senza reattore e senza speranza. Si accorse di stare affondando le dita nell'imbottitura morbida e si riscosse, come da un sogno.
Squadrò la sedia: era una sedia, realizzò con improvvisa ovvietà.
Solo una sedia.
Si sedette senza più esitazioni e accese i monitor con uno schiocco di dita, dimentico di tutto ciò che tentava di emergere dentro sé per riportarlo verso il basso. Si fece proiettare da JARVIS un modello del braccio: non aveva voglia di impegnarsi troppo col progetto della gamba e preferiva svagarsi apportando qualche modifica estetica di poco conto. Fino ad allora la protesi era sempre stata una struttura di metallo vistosa e abbastanza tozza, attraversata da fasci di cavi di svariati colori che attiravano inevitabilmente lo sguardo; ogni tanto si sentiva un Replicante piuttosto malriuscito. Forse era il momento di darle un aspetto un po' più definitivo: la spalla e il gomito funzionavano, solo la mano era ancora in fase di sviluppo e doveva essere lasciata aperta per ulteriori modifiche.
Tony prese a modellare gli ologrammi con tocchi un po' svogliati della mano sana. Dopo una decina di minuti iniziò ad avvertire una certa sonnolenza, ma non voleva lasciare a metà il lavoro. Si rese conto di quanto iniziasse ad accusare l'astinenza da caffeina, ma si impose di non indulgere in una tazza di caffè almeno fino al mattino dopo.
Quando modificò l'ultimo dettaglio sull'avambraccio diede un colpetto soddisfatto al modello 3D, facendolo roteare su se stesso in una piroetta vittoriosa. Sembrava una di quelle protesi che si vedevano nei film di fantascienza: affusolata, con dei rilievi morbidi che celavano i cavi e i circuiti dando l'illusione che sotto alla placcatura metallica vi fossero dei muscoli. Certo, adesso la mano incompleta avrebbe stonato decisamente rispetto al resto, ma avrebbe rimediato in futuro. Forse il giorno dopo si sarebbe messo al lavoro per realizzare quegli ultimi miglioramenti.
Salvò il modello, poi ci ripensò e modificò il colore del rivestimento. Aveva pensato di farla di metallo cromato, ma forse lasciarla di quel nero antracite tipico della fibra di carbonio sarebbe stato meno vistoso. Magari col tempo si sarebbe convinto a rivestirla di pelle artificiale come gli aveva suggerito tempo addietro Ian, anche se al momento trovava l'idea piuttosto disturbante. Fissò con improvvisa consapevolezza la figura che galleggiava di fronte a lui. Stava davvero rimuginando sul
colore della sua protesi? Fino a tre mesi prima gli sembrava impossibile anche solo pensare di farsene impiantare una. Strinse il pugno davanti al volto e la mano eseguì il suo comando, sebbene in ritardo. Gli sembrava impossibile di averla creata lui stesso. Non era perfetta, non ancora, ma poteva diventarlo. Si rese conto che un giorno avrebbe potuto far finta che niente fosse mai successo. La sua stretta si serrò un poco e il suo volto si tirò, amareggiato. Quelle estraneità metalliche facevano parte del suo corpo e del suo essere, così come il reattore: non avrebbe mai potuto dimenticare. Però poteva andare avanti.
Colto da un pensiero improvviso, selezionò con un tocco preciso un'icona nell'ologramma dinanzi a lui, aprendo la cartella PH.01 X – avrebbe
davvero dovuto rinominarla – in cui erano raccolti e catalogati i vari schizzi e progetti della protesi, ai quali si aggiungevano le miriadi di bozzetti cartacei disseminati per tutta la casa. Ne selezionò alcuni, trascinandoli da parte e ordinandoli cronologicamente. Li guardò a lungo, a metà tra l'incredulo e il compiaciuto. Non riusciva a realizzare che dal primo progetto, una sorta di struttura metallica rozza e grossolana, con dei pistoni al posto delle dita, si fosse generata la meraviglia che era attaccata al suo corpo e che riusciva a muovere con tanta naturalezza.
Il suo entusiasmo scemò rapidamente. Come aveva potuto gettare al vento tutto quel lavoro? Non riusciva a capire come fosse riuscito a sprecare così tanto tempo prezioso che avrebbe potuto utilizzare per fare progressi, per portare avanti quei progetti. Se non si fosse smarrito, se avesse mantenuto la calma, se non si fosse ammalato nel corpo e nell'animo, forse in quel momento sarebbe stato capace di reggersi in piedi, magari di camminare liberamente.
Aveva ritardato ancor di più un possibile ritorno di Iron Man. Per un suo stesso capriccio e per la sua testardaggine si trovava confinato quasi sempre su divani, sedie e letti, col solo ausilio delle stampelle e continui dolori ai moncherini, che dopo tutti gli scossoni subiti avevano deciso di fargli patire le pene dell'inferno. Sapeva di aver commesso molti errori; spesso ne aveva avuto la consapevolezza nel momento stesso in cui aveva pronunciato una parola di troppo o compiuto un gesto avventato; sapeva di aver ferito persone a lui care, di essersi ferito lui stesso e di aver causato più guai in quei pochi mesi che in una vita intera. Ma non aveva mai pensato al tempo perso e alle ore sprecate a lavorare cocciutamente senza raggiungere alcun risultato perché era troppo stanco, troppo distratto, troppo furente per prestare la dovuta attenzione a calcoli e schemi.
Quanto tempo aveva effettivamente perso? Forse qualche settimana. Si sarebbero poi tramutate in anni? La vecchiaia gli balenò dinanzi agli occhi prematuramente, accelerata dai quei congegni salvifici e allo stesso tempo venefici che disseminavano il suo corpo. Se mai vi sarebbe arrivato.
I suoi pensieri corsero e alla discussione con Hawkeye e si chiese come avesse potuto dimenticare il suo debito. Le parole di Yinsen risuonavano chiare nella sua mente, esalate nel suo ultimo respiro:
non sprecare la tua vita, Stark. Si sovrapposero inaspettatamente ad altre parole, molto più vecchie, che si era sentito ripetere fino allo sfinimento in tono duro: non perdere tempo, Anthony. Una figura alta, allampanata, ferma sulla soglia di una porta che non varcava mai fece capolino nella sua memoria. Scacciò quell'immagine con rabbia e non poté star seduto un secondo di più.
"Perché deve avere sempre ragione?" si ritrovò a pensare mentre se ne stava in piedi appoggiato alle stampelle.
Salì al piano di sopra scosso, con l'intenzione di fare due chiacchiere per distrarsi, ma mise piede in un salotto immerso nella penombra serale e deserto. Clint se n'era andato inosservato, così com'era venuto. Sul tavolino del salotto, messo bene in vista, c'era un foglio spiegazzato recuperato chissà dove, su cui si intravedeva il disegno scartato di una gamba meccanica. Sotto di essa, in una calligrafia affrettata e decisa, era scarabocchiato un conciso
"Buon lavoro. H."
Tony era sorpreso, ma allo stesso tempo si rallegrò per quella solidarietà inaspettata. Si mise il biglietto in tasca, per poi voltarsi verso la vetrata dalla quale si vedeva il mare. Si era fatto mosso: tirava un vento teso che trascinava le foglie delle palme e scagliava i cavalloni contro la spiaggia e la scogliera con fragore violento. Il vetro era costellato di goccioline d'acqua che si rincorrevano in torrentelli imprevedibili. Stette ad osservarli per un po', fissando di tanto in tanto la linea agitata dell'oceano grigio plumbeo che calava pian piano nell'oscurità, finche non iniziò a dolergli la gamba e dovette sedersi sulla poltrona.
Rimase vicino alla vetrata a lungo, sorseggiando clorofilla, ancora una volta calmato dal buio della notte e dall'oceano, che trovava confortante nel suo essere inquieto e scosso da tumulti invisibili. Di tanto in tanto brontolava un tuono lontano, e ne avvertiva la vibrazione nelle pareti e nelle ossa. Lasciò che il suo sguardo venisse trascinato e cullato dalle onde ormai appena distinguibili nella notte inquieta e velata da spesse nubi.
Si risvegliò con un lieve fremito, senza avere la minima idea di quanto tempo fosse passato, col collo rigido e dolorante. Una sottile linea rosata all'orizzonte accolse il suo occhio ancora assonnato, e la guardò inspessirsi e diventare più intensa, mentre il sole sorgeva invisibile alle sue spalle, rischiarando a poco a poco il cielo e il mare di riflessi caldi nell'aria pulita dopo il temporale. Quando i colori virarono sul rosso-arancio fu colto da un'improvvisa malinconia e si decise ad abbandonare la sua postazione per bere una tazza di caffè.
Dopo qualche minuto di pigra indecisione si lasciò guidare dall'istinto e scese in laboratorio. I suoi passi zoppicanti lo portarono dinanzi alla parete delle armature e come in sogno premette un tasto per eliminare il vetro schermato. La Mark II si rivelò dinanzi a lui, con lo sguardo vacuo fisso dinanzi a sé come in attesa di ordini. Ai suoi lati, simili a sentinelle cadute, vi erano gli ammassi informi della Mark I e della Mark III. Le accarezzò con lo sguardo, nostalgico.
Oltre alla consapevolezza delle responsabilità legate a indossarla, si affacciava in lui l'infantile desiderio di volare. Quelle sensazioni di libertà erano lontane nel tempo e sembravano ancora più inconcepibili se pensava che adesso riusciva a malapena a stare in piedi e che gli sembrava un grandissimo risultato anche solo barcollare in giro senza capitolare a terra troppo spesso. Si sarebbe sentito molto più protetto, molto più forte, se solo avesse potuto indossarne una.
Poggiò una mano sul vetro, all'altezza della cavità del reattore nella sua amata Mark II argentata: la sua prima, vera armatura. Ricordava ancora quel senso di piacevole vertigine nel librarsi in aria e sfrecciare nel cielo, senza alcun freno.
Brandelli di visioni oniriche aleggiavano remoti nella sua coscienza: ricordi di un altro vetro, di un riflesso troppo perfetto e della propria caduta. Le scacciò con veemenza. Non era quello il momento per cadere. Piantò gli occhi nelle fessure vuote dell'elmo impassibile. Il lieve ronzio del reattore sembrava riverberare in tutto il suo corpo, rassicurante. La sua nostalgia si affievolì, sostituita da una fermezza del tutto nuova.
"Non perdere tempo. Non sprecare la tua vita."
Si staccò dal vetro, saldo sulle gambe.
Non aveva sempre bisogno dell'armatura, per essere Iron Man.




 
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Note Dell'Autrice:

Ssssalve :)
A causa degli svariati rimaneggiamenti del layout dei capitoli, le note originali di questo sono andate perse per una mia svista. Erano un papiro più o meno dettagliato sui motivi che ci avevano allontanate dalla storia, che adesso a pensarci bene hanno perso d'importanza.
Basti sapere che da questo capitolo in poi non si tratta più di una storia a quattro mani, ma portata avanti in singolo da me (Light), con qualche saltuario input da parte della mia ex-collega (nello specifico per questo capitolo e il prossimo). Gran parte degli sviluppi successivi è stata ideata da me in modo indipendente, il resto l'ho rielaborato a partire da vecchi appunti comuni, quindi la proprietà intellettuale rimarrà sempre di entrambe :)

Per chi ha iniziato a leggere di recente probabilmente il cambio di stile non sarà così netto, in quanto i capitoli precedenti sono stati da me sottoposti a revisione completa previa approvazione di MoonRay. Diciamo che la storia era invecchiata maluccio (iniziammo a scriverla a 15 anni, e credo che ciò basti come spiegazione :'D) ed era doveroso mettere qualche toppa qua e là.

Per quanto riguarda il capitolo in sé, credo sia piuttosto esplicativo anche senza aggiungere nulla e segna l'inizio di un lento, lentissimo recupero psicofisico per Tony. Non sarà facile né leggero e di batoste dovrà subirne ancora molte, ma è pur sempre un inizio.
La storia ha dovuto necessariamente "cambiare tono" dopo una pausa così lunga; oltretutto, ho deciso di inserire qualche "letimotiv" in più, quale il padre di Tony che qui fa già capolino, più insistenza sulla figura di Yinsen e su quella di Stane e varie ed eventuali supercazzole che esulano da protesi&co.

Ritengo improbabile che vecchi lettori ripassino di qui, ma mi sembra doveroso aprire una parentesi di ringraziamento: che seguiate ancora o meno, che abbiate recensito o no,
 è anche merito vostro se la storia è arrivata fin qui e se viene portata avanti oggi,
Un grazie speciale ad Alley, che all'epoca si prese l'onere di recensire tutti i capitoli di fila in modo meraviglioso, a Sherlock_Watson, che fu una delle primissime lettrici e segnalò la storia per le scelte (cosa di cui mi sono accorta ORA, tra l'altro) e continua a seguire tutt'ora e a Yavanna Norrey, che ci lasciò la prima recensione in assoluto seguendoci poi assiduamente <3

Una nota di ringraziamento a parte va ad _Atlas_: è grazie a lei se ho deciso di riprendere Phoenix dopo una pausa di quasi 3 anni e non finirò mai di ringraziarla per questo <3

Au revoir, vi auguro un buon proseguimento di lettura :)

-Light-




© Marvel

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Capitolo 31
*** Iron and bones ***




30


 

Iron and bones







"It's time to make our move, I'm shaking off the rust
I've got my heart set on anywhere but here
I'm staring down myself, counting up the years
Steady hands, just take the wheel"

[Stop And Stare – OneRepublic]





21 Aprile, Villa Stark

"E se le protesi prendessero il controllo del mio corpo?"
Tony si fermò col cucchiaio di cereali a mezz'aria, la bocca schiusa e un'espressione attonita sul volto. Lasciò ancora per qualche momento che il pensiero cercasse di radicarsi nella sua mente, terrificante. Poi si riscosse, mangiò la cucchiaiata e decise che fare una maratona di film di fantascienza la sera prima non era stata una grande idea, soprattutto perché la metà dei titoli includeva una qualche ribellione delle macchine. E poi, se proprio doveva dar retta a quelle visioni distopiche, erano sempre le intelligenze artificiali a fare casino. Fissò con improvviso sospetto le spie blu dei monitor di JARVIS, all'altro capo del laboratorio; per fortuna durante la costruzione del maggiordomo virtuale si era premurato di aggiungere un dispositivo di shut-down istantaneo. Solo un idiota avrebbe lasciato a una super-intelligenza potere decisionale.
Rasserenato dalla propria lungimiranza, Tony finì alla svelta la sua colazione, ansioso di mettersi al lavoro. O meglio, di stilare la sua tabella di marcia per poi mettersi al lavoro. Nonostante l'euforia del giorno prima si era reso conto che non poteva gettarsi a capofitto in quell'impresa senza prima avere ben chiare le sue priorità. Il che si riduceva a: prima il reattore, o prima le protesi?
Quanto, effettivamente, lo stava intossicando il palladio? Quanto era importante riacquistare mobilità in breve tempo? Ai fini di Iron Man cos'era più urgente? E, soprattutto, a cosa era in grado di lavorare con più costanza?
Aveva decisamente bisogno di un piano. In un certo senso era grato di non sentirsi in obbligo di consultarsi con qualcuno – e anche di non averne modo. Però poteva immaginare cosa avrebbero detto gli altri.
Ian lo avrebbe probabilmente spinto a rinnovare il reattore prima di avere più palladio che sangue in corpo, e gli avrebbe fatto un'altra scenata perché i micro-reattori delle protesi non erano sostituibili. In sostanza, gli avrebbe dato dell'idiota, e a ragione. Kyle lo avrebbe sicuramente indirizzato verso il progetto delle protesi. Non poteva fargliene una colpa: avevano stretto un accordo consolidato anche dal tempo passato assieme, ma a parte qualche schizzo e progetto campato in aria, di un modo per farlo riprendere a camminare non v'era traccia. E Pepper... Tony si sfregò sovrappensiero la benda sul volto, che lo irritava da quella mattina.
Perché lei doveva sempre essere un interrogativo? Magari gli avrebbe solo detto di lasciar perdere e riposarsi, che ne aveva già combinate abbastanza e che avrebbe fatto meglio a lasciar perdere tutto per un bel po'. Sbuffò, improvvisamente nervoso.
Su una cosa era certo: tutti e tre non avrebbero visto nessuna scelta come un qualcosa per tornare a essere Iron Man, anzi, sapeva già che avrebbero ostacolato quell'idea con tutte le loro forze ritenendola una follia. Persino Fury, nonostante in fondo ci sperasse, non riteneva plausibile un ritorno del supereroe corazzato. 
Il loro disfattismo lo faceva imbestialire. Era perfettamente cosciente che non sarebbe tornato a indossare l'armatura l'indomani, né tra qualche giorno, né probabilmente per molti mesi; perché, però, non avrebbe dovuto porla come suo obiettivo finale?
Come di riflesso, diede un' occhiata alla pelle attorno al reattore, ancora solcata da quelle venature malsane. Prese dalla scrivania il rilevatore di tossicità, anche se l'aveva misurata appena la sera prima. L'ago scattò fastidioso, pizzicandogli un polpastrello, e dopo qualche istante il display si illuminò: 13%. Si ripulì la mano con un fazzoletto, tranquillizzato. Da qualche giorno la percentuale era stabile, e sembrava in diminuzione da quando aveva ripreso dei ritmi di sonno-veglia più regolari; aveva avuto un picco del 15% poco dopo aver rimosso il reattore, ma doveva essere stata una reazione al trauma e allo stress.
Il problema si sarebbe posto con Iron Man. Ricordava che nel periodo prima dell'incidente consumava quasi un nucleo di palladio a missione. All'epoca non aveva minimamente pensato alla tossicità del nucleo e si era limitato a controbilanciarla con la clorofilla, ma era un problema che se fosse stato pienamente attivo avrebbe comunque dovuto risolvere alla svelta, prima o poi. Gli scappò un sorriso amaro. Non solo non era pienamente attivo, non lo era nemmeno per un quarto.
Scosse la testa tra sé: il consumo delle protesi era minimo... probabilmente le vene di quel blu-nerastro erano una conseguenza della vicinanza del palladio ai tessuti ed erano meno pericolose di quel che sembrasse. Non aveva veramente del palladio nelle vene. Almeno così sperava, ma non riusciva a credere che avessero una correlazione con una tossicità così bassa. Il vero problema era il reattore cardiaco, di cui non poteva fare a meno neanche volendo. D'altronde, non aveva ancora avuto bisogno di sostituire il nucleo centrale, quindi la quantità di palladio non doveva essere così drammatica. Per i micro-reattori ormai non poteva ormai fare nulla. Sperava solo di aver fatto bene i suoi calcoli e che fossero davvero innocui: sarebbe bastato un piccolo malfunzionamento per avvelenarloancor di più  o per rendere inutili le protesi. Strinse nervosamente il pugno artificiale. Si stava pentendo di aver affrettato le cose, all'epoca. Lanciò il fazzoletto nel cestino con stizza: si stava pentendo di molte cose, ma non era quello il momento giusto per pensarci. Si appoggiò allo schienale, massaggiandosi le tempie per scacciare un principio di emicrania. 
Lasciò vagare lo sguardo nel laboratorio, rilassandosi prima di riprendere le sue riflessioni. Le armature erano di nuovo visibili, immobili e pazienti. Qualche ologramma dimenticato fluttuava qua e là; un neon aveva preso a sfarfallare fastidiosamente. La scrivania era stranamente ordinata: aveva fatto sparire tutti i progetti senza né capo né coda che aveva partorito nel mese precedente, spesso così confusionari da essere incomprensibili a lui stesso. In realtà aveva cominciato a mettere ordine col proposito di fare una cernita dei vari fogli e bozze... finché non aveva trovato lo schizzo di due braccia e gambe meccaniche con propulsori integrati affiancate da note vaneggianti. A quel punto aveva raccolto a bracciate tutta quella carta straccia e l'aveva buttata nell'inceneritore. Era meglio non sapere se fosse stato lucido o meno quando aveva ideato quella roba.
Si riscosse, sentendosi più concentrato. Con un cenno della mano disattivò il neon difettoso, che lo stava decisamente irritando. Eliminata quella distrazione, si fece proiettare da JARVIS le cartelle coi progetti delle protesi, ossia tre interfacce tridimensionali che ruotavano pigramente su se stesse. Poteva anche cestinare quella dell'occhio, tanto più che era semivuota. Stava già per eliminarla, quando ebbe un ripensamento repentino e si limitò a spostarla nella sezione "progetti incompiuti", dove finì tra motori di automobili e altri congegni inutili e innocui. Sistemata quella pratica, esitò ancora un istante tra il braccio e la gamba, prima di selezionare quest'ultima.
Era il momento di rimettersi in piedi, stavolta per davvero.


***


Se Tony avesse dovuto spillare un nichelino per ogni insulto, impropero e bestemmia che lasciò le sue labbra durante la realizzazione del piede della protesi, si sarebbe trovato ben presto povero in canna. Maledisse per l'ennesima volta ogni singolo ossicino, ognuno a quanto pare d'importanza capitale, e prese un sorso di caffè, decaffeinato. Ed era consapevole che fosse decaffeinato, ma si sentì comunque rinvigorito.
Scoccò un'occhiata all'orologio: le 22:30. Aveva ancora un'ora di autonomia, poi sapeva di dover dormire per riprendere la mattina successiva. Imporsi dei turni di lavoro era quanto di più frustrante potesse immaginare, ma almeno era sempre riposato e con la mente fresca. Meno errori, meno stress, più progressi. Sarebbe stato così semplice se avesse iniziato da prima...
Scacciò il pensiero e si immerse di nuovo tra circuiti e legamenti. Pensare ai "se" e ai "ma" non l'avrebbe aiutato con l'articolazione della caviglia.
Si rimise all'opera, continuando a masticare parolacce tra i denti e a maledire il saldatore.


***


25 Aprile, Villa Stark

Alla quarta caduta, che per poco non lo mandò a fracassarsi la testa contro lo spigolo della scrivania, Tony dovette ammettere che evidentemente la colpa non era della protesi, ma dell'ammasso di ossa e muscoli a cui essa era attaccata.
Rimase seduto a terra a gambe distese, un po' dolorante e molto frustrato, con la schiena poggiata contro la scrivania. Mentre riprendeva fiato si assicurò per l'ennesima volta che i collegamenti neurali funzionassero: fissò con intensità l'alluce meccanico, cercando di piegarlo con scarso successo. Avrebbe avuto più possibilità di farlo muovere con la forza del pensiero piuttosto che, semplicemente,
piegando l'alluce. Alla fine gli parve di scorgere un lieve movimento o meglio, un'intenzione di movimento che era poco più di un fremito e che probabilmente si era immaginato. Invece, si mosse di sua spontanea volontà il mignolo. Sospirò: si ricominciava con le dita scombinate. Gli urti dovevano aver falsato i contatti.
Di piegare il ginocchio neanche a parlarne. Quella meraviglia della tecnologia si riduceva a un tubo di metallo appiccicato al suo corpo, al cui confronto le gambe di legno dei pirati sembravano invenzioni all'avanguardia. Era conscio di quanto fosse diventata esile la sua gamba sinistra. Era decisamente dimagrito in quei mesi – le costole e le scapole erano ben visibili e aumentavano l'impressione di fragilità generale, oltre che vive reminiscenze dell'Afghanistan – ma almeno il braccio e la parte superiore del corpo mantenevano una parvenza di tonicità, mentre le gambe, o quel che ne rimaneva, erano smunte e deboli. Non c'era da stupirsi che avesse difficoltà a stare in piedi.
Non era mai stato un grande sportivo, ma dal suo rapimento, prima, e con l'inizio dell'attività di Iron Man, poi, si era reso conto di non poter trascurare la sua forma fisica e si era messo d'impegno a boxare sul ring con Happy e a correre per chilometri lungo la spiaggia di Malibu, con qualche occasionale lezione di corpo a corpo con Rogers e Nataša. 
Adesso erano mesi che non camminava davvero, le stampelle reggevano quasi sempre tutto il suo peso e passava la maggior parte del tempo alla scrivania, sul divano o a letto. Senza contare che ormai aveva preso il vizio di fare tutte le operazioni faticose con la destra, dotata di una forza decisamente superiore. Era quasi ambidestro, ma ogni tanto si rendeva conto che il braccio sinistro era diventato leggermente più debole.
Si diede una pacca sulla coscia sinistra, sentendo chiaramente l'osso sotto il palmo. Prima di poter usare le protesi al massimo doveva rimettere in funzione il suo intero corpo.
Il campanello trillò.
Tony sobbalzò con un groppo in gola quando sentì il segnale della porta principale che veniva aperta in automatico da JARVIS. Doveva essere qualcuno di conosciuto, o avrebbe chiesto il permesso per farlo entrare. Attese con trepidazione l'annuncio del maggiordomo virtuale.
"E se fosse..."
«Il Dottor Mitchell la attende nell'atrio, signor Stark.»
Tony tirò un sospiro di sollievo, subito seguito da una preoccupazione più immediata: come diavolo ci arrivava lui, nell'atrio? Il medico avrebbe fatto i salti di gioia a vederlo in quello stato...
«Digli di scendere! Doc, sono un po'
bloccato, al momento...» disse poi direttamente, attivando l'interfono e cercando di mostrarsi il più calmo possibile per non destare sospetti.
Dopo aver tentato più volte ad alzarsi – perché, perché aveva abbandonato le stampelle? – e aver constatato di avere una rotula meccanica disarticolata e un malleolo rotto, si rassegnò a rimuovere la protesi diventata più un peso che un aiuto.
In quel momento si aprirono le porte dell'ascensore e ne uscì Ian; era passato un lasso di tempo considerevole da quando gli aveva detto di raggiungerlo. O la vecchiaia iniziava a farsi sentire anche per lui, o non aveva alcuna fretta di vederlo – d'altronde, perché usare un ascensore quando si avevano due gambe funzionanti? Forse il ritardo era dovuto a entrambe le cose, concluse notando il volto stanco del medico. 
Troppi turni di notte avevano recentemente segnato i suoi occhi già assediati dalle rughe. Ovviamente si era licenziato dalla sua posizione alle Stark Industries, riprendendo a lavorare a pieno ritmo al General di Los Angeles. La sua barba era stranamente incolta e il grigiore lo faceva apparire più vecchio dei suoi cinquant'anni appena superati. Indossava uno dei suoi opinabili completi, con una giacca a coste color ruggine che sembrava saltata fuori da una raccolta dell'Esercito della Salvezza.  La camicia era un po' sdrucita, e i pantaloni troppo larghi e tenuti su da una cinta stretta in modo vistoso.
Tony non lo salutò subito, preso in contropiede dalla sua aria provata e alquanto sciatta. Quella trasandatezza non era da lui: a parte il suo gusto orribile per le giacche era sempre impeccabile nel vestire e nella cura personale. Già la settimana scorsa aveva dato qualche cenno di stanchezza, ma quel cambiamento era troppo drastico. Si soffermò brevemente sull'ironia che lo spingeva a preoccuparsi per il proprio medico, quando quest'ultimo aveva preso a interessarsi poco e niente di lui. Non che potesse dargli torto...
«Signor Stark, sta cercando di nuovo di ammazzarsi?» esordì infatti, più caustico del solito, mentre Tony rimuoveva la gamba con un rumore abbastanza disturbante di barattolo sottovuoto che si apriva.
Ignorò la provocazione, piantò la gamba ora inerte contro il pavimento e la usò come stampella di fortuna per issarsi in piedi. La gamba sana gli tremava per lo sforzo e si abbandonò sulla sedia più vicina con la fronte imperlata di sudore. Si piazzò la protesi in grembo, con una mano posta con fare protettivo sul ginocchio e l'altra che si allentava il colletto della polo mentre sbuffava accaldato.
Ian aveva assistito alla scena senza schiodarsi dalla soglia dell'ascensore. Osservava il laboratorio con malcelata sorpresa, come se il suo aspetto lo sorprendesse. Tony gli concesse altri dieci secondi di meditazione, chiedendosi perché ultimamente i suoi visitatori fossero affetti da mutismo, poi si decise a rompere il silenzio:
«È venuto per visitarmi o per rubare i segreti del mio successo?» sbottò, distogliendolo da un modello di piede tridimensionale che volteggiava svogliato per il laboratorio.
«Sono solo sorpreso di vederla... in movimento. E stranamente in salute,» commentò lui, cautamente.
"Aspetti di vedere di nuovo i miei tatuaggi al palladio..."
La prima volta che li aveva notati, il dottore era andato a dir poco su tutte le furie. Oltre alla sua ovvia preoccupazione per le possibili ripercussioni del palladio sul suo corpo, alla rabbia verso di lui per non aver valutato a dovere i rischi di quella tecnologia e al nuovo, malcelato disprezzo con cui lo trattava dopo il tentato suicidio, Tony aveva notato una scintilla di terrore nella sua reazione. Era stato lui a impiantargli quei congegni e, volente o nolente, era stato lui a permettere quel risvolto inaspettato. E, Tony ne era abbastanza convinto, quel senso di colpa ingiustificato era l'unica cosa che gli aveva impedito di abbandonare il suo paziente ingrato.
Ogni volta che lo visitava sembrava quasi dimenticarsi dei moncherini, dello sfregio e delle protesi, concentrandosi quasi ossessivamente su quelle venature bluastre e innaturali, senza per questo chiedergli nulla al riguardo. Concludeva le sue visite sbrigativamente ma con una palese insofferenza, di chi avrebbe voluto trattenersi e chiedere di più, ma non voleva o non osava farlo.
Anche adesso, dopo il suo commento evidentemente sfuggitogli in un istante di distrazione, non si spinse oltre e rimase in silenzio. Si avvicinò però alla scrivania, dove depose la sua valigetta con gli strumenti medici.
«Ho ripreso a lavorare su questo gioiellino,» annunciò Tony, senza che Ian lo interpellasse, deciso a ignorare il suo solito atteggiamento scostante. «E questo...» alzò il braccio col nuovo rivestimento. «Questo è il futuro.»
Ian non diede cenno di aver ascoltato e si limitò a un mugugnio generico e poco impressionato. Indossò lo stetoscopio. Tony abbandonò la sua giovialità e si rassegnò alla solita prassi, scalpitando per rimettersi al lavoro. O meglio, per ricominciare a cadere a peso morto...
Ian cominciò ad auscultarlo con rapida professionalità, concedendosi un lieve cenno d'assenso nel constatare che i polmoni e il cuore erano a posto – per quanto un cuore minacciato da barbigli metallici potesse essere "a posto" – per poi passare alle protesi, e qui la sua espressione si scurì. Come volevasi dimostrare.
«Beve ancora la sua clorofilla?»
«Tutti i giorni, un litro e più al giorno, come sempre,» rispose lui monocorde.
«Ha apportato modifiche alle protesi?»
«Nulla che abbia a che fare coi reattori.»
«Mi sembra che gli effetti del palladio stiano scemando...» affermò Ian, come se ciò implicasse necessariamente una qualche modifica che gli voleva nascondere.
«La tossicità è scesa al 13%. È un bene, no?»
«Non sono assolutamente in un range accettabile.»
Detto ciò, ripose i suoi strumenti nella valigetta, col chiaro intento di andarsene senza aggiungere altro. Stavolta Tony non nascose il suo stupore e cercò di trattenerlo. Non si aspettava quella superficialità, tanto più ora che aveva assolutamente bisogno di parlargli...
«Già finito? Non mi ha neanche controllato l'occhio... cioè, l'ex-occhio, che giusto l'altro giorno...»
«Signor Stark, non so che novità si aspetta di sentire da me, ma di sicuro non le annuncerò la miracolosa ricrescita di un arto o l'imminente ritorno di una visione bifocale,» sbottò a quel punto Ian con stizza ingiustificata, facendolo ammutolire. «Le sue condizioni non hanno margine di miglioramento allo stato attuale e...»
«È quello che ha detto anche quando mi ha conosciuto. Invece mi sembra di aver fatto almeno
qualche miglioramento, nonostante il suo scetticismo.» 
Tony alzò la voce, sentendosi ingiustamente attaccato.
«Non mi sembra che ci tenga molto a quei miglioramenti, visto come si è comportato con se stesso,» replicò Ian con voluta malignità.
Tony si costrinse a moderare il volume della sua voce, nonostante non volesse far altro che esplodere, ma
doveva dimostrargli di essere cambiato. Doveva controllarsi, si ripeté stringendo il pugno meccanico con forza. Si erano tutti convinti che fosse instabile e collerico e sfatare quel mito era più difficile di quanto immaginasse.
«Ho commesso qualche...
molti errori in corso d'opera,» ammise a fatica. «Alcuni dei quali imperdonabili. Non ho bisogno della sua paternale per capirlo.» 
Lo guardò fisso negli occhi e Ian parve sfuggire lo sguardo per un istante, come se si aspettasse tutt'altra reazione. Esitò nel rispondere e Tony lo anticipò:
«Sto
ancora cercando di migliorare. Non m'importa cosa ne pensiate voi.»
Ian parve riscuotersi a quelle parole e il suo tono tornò ad essere più pacato, anche se si notava quanto ancora fosse irritato dal suo comportamento.
«La strada mi sembra ancora lunga, signor Stark. Da solo non arriverà lontano,» aggiunse in tono fermo e molto eloquente, ma quasi forzatamente distaccato, quasi fosse incline ad abbandonare l'idea che si era fatto di lui ma non volesse farlo troppo in fretta.
Tony incassò il colpo, ma non lasciò trasparire la sua delusione, anzi, sfoggiò un sorrisetto impertinente.
«Sono abituato ad essere lasciato solo e me la sono sempre cavata. Non mi sottovaluti.»
Ian non replicò, ma fece una strana, incomprensibile smorfia che poteva significare tutto o niente, anche se poi il suo volto si fece più sereno, come rassicurato da quelle parole. Si rimise lo stetoscopio al collo e si accinse a completare la sua visita a occhi bassi, come se lo scoppio di rabbia di poco prima lo imbarazzasse e volesse rimediare.
Tony lo lasciò fare, anche se era piuttosto perplesso dal suo comportamento. Anche normalmente era irritabile, cinico e propenso al disfattismo, ma non si era mai permesso di apostrofarlo in modo così duro come poco prima. Le poche volte in cui aveva avuto qualcosa da ridire l'aveva sempre esternato con la massima educazione e professionalità, salvo rari casi, e mantenendo le distanze. Da lui non si sarebbe mai aspettato un attacco tanto personale, soprattutto non in modo così rancoroso. Anche mentre lo visitava mantenne una strana aria assente.
Gli stava giusto puntando una torcetta nell'occhio integro per verificare i riflessi della pupilla, dandogli modo di vedere da vicino la stanchezza sul suo volto, quando Tony si decise a parlare:
«Doc, sicuro che vada tutto bene?»
L'altro sussultò, scansò il fascio di luce dalla sua iride e ripose la torcetta nel taschino con un gesto un po' troppo brusco.
«A parte un
certo paziente recalcitrante...» borbottò cercando di sviare il discorso, prendendo un appunto sul suo taccuino. «Inizi a lasciare la ferita sul volto scoperta, almeno in casa. Vediamo come reagisce all'esposizione prolungata alla luce. A proposito, dovrebbe anche prendere un po' di sole: rischia di avere una carenza di vitamina D se continua a vivere recluso in casa,» sciorinò rapido.
«
Se potessi me ne andrei in spiaggia, ma sono un po' bloccato, al momento. E non posso andarmene a zonzo con le protesi sotto sequestro... mi accontenterò della terrazza.» Alzò le spalle, frustrato. «Mi basta un sì o un no, non chiedo altro,» insistette poi, liquidando la questione e già aspettandosi che andasse di nuovo in escandescenze.
Con suo sorpresa, invece, Ian si appoggiò al bordo della scrivania e si mise a pulire i suoi occhiali con l'orlo del camice, pensieroso, in un gesto che conosceva bene e che non prometteva nulla di buono. Continuava a evitare il suo sguardo; era restio a parlare, ma allo stesso tempo sembrava cercare le parole giuste. Tony si sentì un po' in colpa per aver insistito e corse ai ripari:
«Lo prenderò per un no... io invece sto bene?»
«Sì, direi che è in una situazione molto stabile su cui si può lavorare...» rispose distratto Ian, continuando a pulire gli occhiali.
«Perfetto, le volevo giusto chiedere se...»
«Ha ragione. Non va tutto bene,» lo interruppe lui, prendendolo di sorpresa.
Aveva parlato in fretta, col suo solito tono burbero.
«Non sono abituato a sentirmelo chiedere,» disse quasi scusandosi, e si rimise gli occhiali incorniciando nuovamente i suoi occhi color acquamarina.
Incrociò le braccia, senza accennare a parlare né muoversi. Tony rimase in attesa, fingendo di controllare la giuntura del gomito, senza mettergli fretta.
«Recentemente è... accaduta una disgrazia.» Si bloccò esitante e si passò una mano sulla barba cercando di calmarsi. «Un collega, un mio ex-allievo ha... oh!» sbottò improvvisamente, come rendendosi conto di ciò che stava dicendo. «Lasciamo perdere. Tanto è inutile parlarne con lei,» concluse, scostandosi dalla scrivania.
A Tony diede l'impressione di un animale in gabbia che non sa più da che parte voltarsi... e che non si rende conto che la gabbia è aperta. Realizzò che capiva fin troppo bene la sua situazione. E sapeva anche che insistere nell'offrire un aiuto non gradito sarebbe stato controproducente. Però era anche incredibilmente curioso: sapeva così poco del suo medico di fiducia. A parte la nota amicizia di lunga data con Kyle, ormai uno di famiglia per lui, tra una chiacchierata e l'altra si era lasciato sfuggire poche informazioni: aveva una moglie e una figlia, delle quali però parlava raramente e in modo nostalgico. Aveva dedotto che fosse separato, o divorziato, ma non ne era del tutto certo. Non aveva mai menzionato amici o colleghi con cui fosse in confidenza. Sembrava un uomo estremamente solo, ma che si trovava bene nella sua solitudine.
Stette in silenzio per un po'; poi, vedendo che Ian non accennava comunque ad andarsene, si arrischiò a tornare alla carica:
«Perché me ne sta parlando? O meglio, perché
non me ne sta parlando quando evidentemente vorrebbe?»
«È una questione delicata che io stesso non so come gestire,» rispose lui meccanicamente, senza però irritarsi della sua insistenza.
«E cosa c'entro io?»
«È lei che mi ha chiesto se andasse tutto bene!» stavolta suonò piccato.
«Sì, ma se fosse un qualcosa di strettamente personale se lo terrebbe per sé senza coinvolgere qualcuno di cui evidentemente si fida molto poco, oppure me lo direbbe senza problemi, perché non mi riguarderebbe minimamente.»
Il medico tacque, ma gli scoccò un'occhiata nervosa.
«Le serve aiuto per qualcosa?» tentò Tony, con fare sicuro.
Ian si ritrasse a quella domanda e si fece scuro in volto.
«O serve aiuto a quel collega di cui...»
«Non sono affari che la riguardano, almeno non per ora.» 
Parlò con distacco, ma nel suo sguardo si leggeva quanto avrebbe voluto abbandonare quell'orgoglio e quella riservatezza, e quanto lui avesse colto nel segno: Tony si ritenne soddisfatto.
«Ok, ok, quando vorrà,» tagliò corto, arrendendosi.
Ian si rilassò visibilmente e affondò le mani nelle tasche della giacca, meditabondo. Fu lui a riportare la discussione in campo neutro:
«Dunque, stavamo dicendo del suo occhio...» esordì, schiarendosi un poco la gola.
Tony fece un gesto col la mano meccanica, come a scacciar via l'argomento.
«Sì, certo: mi tolgo la benda e vedo che succede. Dovrò farmene rimediare una decente da Fury,» aggiunse poi, adocchiando con lieve disgusto la garza adesiva nel cestino.
Stavolta un'ombra di sorriso apparve sul volto di Ian.
«Magari gliene rimedio una più discreta.»
«Perché mai? Ho sempre sognato di fare Barbanera a Carnevale.» sospirò Tony, sollevato che la tensione si fosse un po' allentata.
Ian alzò gli occhi al cielo e prese la valigetta, facendo per congedarsi.
"Ah, no! Dovevo chiedergli... cos'è che dovevo chiedergli?" annaspò Tony, sicuro che fosse qualcosa di molto importante e molto delicato, che doveva presentare nel giusto modo.
«Allora ci vediamo tra una settimana. Le mando conferma come sempre il giorno prima, in caso...»
«Doc, ma come la vedresti un po' di fisioterapia?» proruppe Tony prima di connettere il cervello, di getto, nel momento sbagliato, nel modo sbagliato e con le parole sbagliate.
Il volto di Ian sbiancò così di colpo che per un attimo temette che gli fosse venuto un ictus. Si aggiustò gli occhiali sul naso, incrociò le braccia e lo guardò come se fosse impazzito. Era uno sguardo che conosceva molto bene...
«Fisioterapia?» ripeté, attonito.
«Sa, serve per riprendere a
camminare... quella cosa che cerco di fare da mesi senza successo, se ben ricorda.»
Ian tentò di riprendersi dallo stupore, e alzò le mani facendogli cenno di calmarsi.
«Un momento, mi faccia capire bene. Vuole essere
aiutato
A quel punto Tony si sentì improvvisamente in imbarazzo, come se stesse confessando la più infame delle colpe. Si passò una mano tra i capelli e si lisciò nervosamente il pizzetto, interessandosi d'un tratto al reticolo olografico sospeso sulla sua testa.
«Beh, non proprio... cioè, sì, ma non nel senso di...» si bloccò, trasse un respiro profondo e concluse: «Diciamo che le stampelle non sono più un supporto sufficiente.»
Il medico lo fissò allibito ancora per qualche secondo, come assicurandosi della sua lucidità, poi sbuffò indeciso. La sua bocca rimase tirata in una linea severa, ma gli occhi avevano un'espressione calda.
«Ormai avevo perso le speranze, signor Stark.» Riprese il suo posto appoggiato alla scrivania. «È bello vederla finalmente di nuovo fra noi,» aggiunse, pungente come al solito.
Tony non rispose e si limitò a fare un ampio sorriso sornione, compiaciuto della reazione dell'altro.
Ian non gli fornì informazioni specifiche, ma disse che prima avrebbe cominciato, tanto meglio, visto che a detta sua rischiava di ritrovarsi l'altra gamba atrofica; avrebbe chiesto a qualche collega fidato per rimediare un fisioterapista altrettanto fidato. La vaghezza con cui parlò lo insospettì un poco, ma preferì non mettere eccessivamente alla prova il suo atteggiamento bendisposto.
Dopo che Ian si fu congedato promettendogli presto novità, Tony passò una buona manciata di minuti semplicemente a dondolarsi e ruotare sulla sedia girevole, con una strano misto di sollievo, contentezza e aspettativa che gli fece venire un grande appetito e una gran voglia di mettersi al lavoro.
Scoccò un'occhiata calorosa alla parete delle armature: sembravano avvicinarsi sempre più.


***


«Pronto?»
«Kyle! Ti disturbo?»
«Ehi, Ian. Guarda, in realtà sono un po' preso, ma se hai bisogno di parlare ti richiamo tra...»
«No, no, non si tratta di me. Stacca un attimo: questa la devi sentire.»
«Come mai così allegro? Che mi sono perso?»
«Delle buone notizie, finalmente; torno da Villa Stark.»
«Oh! E come ha fatto uno come Stark a metterti così di buonumore? L'hai guarito da ogni male?»
«Non proprio, però siamo sulla strada giusta. Diciamo che si sta guarendo da solo.»
«Ah, bene! ...cioè?»
«Sta' a sentire...»


***


29 Aprile, Villa Stark

Il suo cellulare vibrò una, due volte di fila, e una terza dopo qualche secondo, con insistenza sospetta. Tony, già presagendo brutte nuove, fece sporgere con estrema cautela lo schermo dalla tasca con la destra, sbirciando il mittente mentre saldava i contatti con la sinistra, compiacendosi del suo multitasking. La sua soddisfazione si smorzò quando vide che i tre messaggi erano di Kyle, e ancor di più quando il suo pollice metallico scivolò d'istinto e inutilmente sul touch-screen con un ticchettio. Sospirò, posò il saldatore a penna e sbloccò il telefono con la mano buona, ripromettendosi per l'ennesima volta di integrare dei polpastrelli touch quanto prima possibile.
Aprì i messaggi e si accigliò.

Domani alle 10:15 in tribunale. Ti viene a prendere Happy alle 9:00.

PUNTUALE, recitava il messaggio successivo, in un caps-lock minaccioso.

E niente protesi, ricordati che in teoria sono sotto sequestro.

L'ultimo messaggio scacciò via definitivamente il suo buonumore. Si apprestò a rispondere, scrivendo in fretta e furia con una mano sola, senza che il cipiglio lasciasse il suo volto:

Le protesi sono un mio diritto, dovranno togliermele sul posto. Non ho intenzione di presentarmi là su una sedia a...

S'interruppe, fissando ciò che aveva appena scritto. Lasciò ricadere il cellulare in grembo, tirando un respiro profondo per calmarsi.
Non poteva ricominciare da capo.
Se avessero esteso il sequestro delle protesi rendendolo definitivo e materiale sarebbe stato tutto inutile, e quel lavoro di fino che stava facendo sui legamenti del metatarso sarebbe finito in un tritarifiuti o in una fonderia. O peggio, nelle mani sbagliate. Premette con forza il tasto "cancella", desiderando che la sua frustrazione sparisse assieme ai caratteri neri sullo schermo.
Esitò qualche istante prima di ricominciare a scrivere. Trovare un compromesso era così difficile... ancor di più se non si era mai stati abituati a farne.
Infine si decise, anche se non era del tutto soddisfatto.

Ok. Lascio le protesi buone a casa, ma voglio un paio di protesi fisse, così non turberò troppo i signori della corte e potrò usare le stampelle.

Premette invio prima di poterci ripensare; tenne il cellulare in mano, abbandonando momentaneamente il lavoro. Sapeva che Kyle era probabilmente in trepidazione dall'altro capo del messaggio e che la risposta non si sarebbe fatta attendere.
Doveva ammettere che, preso com'era dagli ultimi avvenimenti, si era più o meno volontariamente dimenticato del processo, nonostante Pepper, prima, e Kyle, poi, gli avessero periodicamente ricordato la data fatidica incitandolo a prepararsi all'udienza, visto che avevano avuto la fortuna di una pausa così lunga grazie all'intercessione dello SHIELD, che si era finalmente degnato di prendere ufficiosamente parte alla faccenda. Tony aveva ignorato entrambi.
Nell'ultima settimana Kyle non ne aveva fatto parola, ma aveva notato il suo crescente nervosismo anche per telefono: le loro chiacchierate erano diventate sempre più brevi e aveva iniziato a porre domande abbastanza specifiche sul suo lavoro, sulle Stark Industries e su altri argomenti che non rientravano tra i suoi favoriti per una conversazione tra amici.
Sperò che si fosse preparato almeno lui, o sarebbero andati incontro al disastro più totale. Chiusa la questione delle protesi, sarebbero passati a Iron Man. O forse all'Afghanistan e Stane. Non sapeva quale delle due possibilità lo turbasse di più, e decise di non interrogare Kyle al riguardo. D'altronde, non poteva sperare di preparare in mezza giornata quello che avrebbe dovuto preparare in un mese. Ma era bravo a improvvisare: in qualche modo se la sarebbe cavata.
Lo schermo del cellulare si illuminò, accompagnato da una nuova vibrazione.

Chiedo a Ian, ma il preavviso è poco. Faccio il possibile.

Stava già per riporre il cellulare, quando un altro messaggio di Kyle lo distolse, ovvero una grande emoticon di un pollice in su. Gli scappò un sorriso.
Forse non era poi così solo come credeva.




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Revisione effettuata il 04/03/2018
 

Note dell'Autrice:

Sono in ritardo! Potevate forse dubitarne? 
Riguardo al capitolo... Confermo che ormai ci troviamo definitivamente in un AU, anche se cercherò di mantenere contatto col resto degli avvenimenti Marvel. Mi spiego meglio: gli avvenimenti sono quelli (ignorando volutamente Iron Man 3 per licenza poetica) ma la linea temporale è un po' sfasata. Sono ancora indecisa sul momento esatto in cui concludere la storia (tranquilli, il finale già c'è) ma sarà sicuramente prima o a ridosso degli eventi di The Avengers. Ho sparso un paio di riferimenti più o meno espliciti nel capitolo (uno è Tony che, porello, crede che controllare delle intelligenze artificiali sia semplice. Un carissimo saluto da Ultron dal futuro). L'altro spero sia un po' più velato e questo sì che avrà un ruolo più importante anche nella storia.

Siamo in un momento di stallo, anche se mi sto impegnando ad accelerare i progressi di Tony. Non potevo lasciarlo ancora a lungo a vegetare sul divano, né potevo farlo alzare in piedi in stile Lazzaro, quindi ho optato per una via di mezzo. In questo momento è passato all'incirca un mese dal tentato suicidio: Tony ha avuto modo di riposarsi, riflettere e darsi dell'idiota a sufficienza.
Come avrete notato ho spostato molto il focus su Ian. Visto che ci avviamo (con calma) verso la conclusione, ho deciso di approfondire un po' i "nostri" personaggi, che hanno avuto forse poco spazio dal punto di vista dello sviluppo personale. Quindi, eccovi qua Ian in tutto il suo cinismo. Non è un personaggio particolarmente amabile, ma non deve esserlo e credo che Tony abbia bisogno di una figura di contrasto benevola, visto che di antagonisti ne ha abbastanza.

Chiudo il papiro. Ringrazio infinitamente
_Atlas_, che incredibilmente segue ancora questa storia e mi ha fatto un po' commuovere con le sue parole, e Alexandre94, nuova lettrice che si è addirittura convinta a recensire dopo aver visto un aggiornamento a distanza di tre anni, il che dimostra non poco coraggio. Spero (speriamo, lo so che leggerai, MoonRay) di non deludervi. Grazie mille per le recensioni :)


A presto,

-Light-

P.S. Vi lascio con un piccolo inedito, sperando che vogliate perdonare le mie scarse doti artistiche (è stato fatto in un momento di sclero a tempo perso e no, non so disegnare le labbra). Questo è Ian al 100%, espressione incazzata inclusa. Nel prossimo capitolo, altro piccolo inedito in arrivo!


 


 

© Marvel

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Capitolo 32
*** Chasing cars ***



31



Chasing cars







"I dreamt about you nearly every night this week
How many secrets can you keep?
'Cause there's this tune I found

That makes me think of you somehow
And I play it on repeat
Until I fall asleep"

[Do I Wanna Know? - Arctic Monkeys]







30 Aprile, 03:13, Villa Stark

Tony sbarrò l'occhio nel buio, col fiato corto e la sensazione di essere in imminente pericolo.
Subito la luce azzurrina del reattore lo rassicurò, ma portò comunque una mano al petto per accertarsi che fosse ancora lì, in un gesto ormai condizionato. Le sue dita sfiorarono il contorno metallico del congegno, percependone il lieve calore e cercando di trarne conforto. Socchiuse la palpebra respirando piano, ma non azzardò altri movimenti, paralizzato dal dolore ai moncherini. Li sentiva pulsare violentemente contro il metallo delle protesi e aveva l'impressione che anche gli arti metallici lo percepissero; a nulla serviva convincersi che fosse solo la sindrome dell'arto fantasma – o come diavolo l'aveva chiamata Ian. Si arrischiò ad allungare la testa per guardare l'orologio sul comodino, sentendo un'acuta fitta alla spalla. Erano appena le tre, realizzò con disappunto. Aveva sperato che fosse più tardi – o più presto, a seconda dei punti di vista – per non sentire l'obbligo di doversi riaddormentare. Di solito le crisi lo assalivano verso le cinque di mattina e aveva almeno la consolazione di intravedere l'alba sul mare dalla vetrata. Adesso però la finestra era una lastra nera e opaca; si intravedeva solo il lumicino intermittente di una boa lontana. Si stancò ben presto di fissarlo nel tentativo di riprendere sonno.
Prese un profondo respiro prima di girarsi sulla schiena, ignorando il breve e atroce dolore che lo investì e ottenendo subito dopo un po' di sollievo. Si premette il braccio sano sulla bocca per soffocare nell'incavo del gomito i lamenti che gli risalivano il petto, spinti dalla morsa che continuava a stritolargli le piaghe. Non osò fare altro e tenne lo sguardo lucido rivolto al soffitto, dove si proiettava flebilmente la luce del reattore. Stette ad osservarla per qualche minuto, cercando nel frattempo di distrarsi pensando ai progetti delle protesi, ma ogni fitta gli faceva perdere il filo e gli riusciva sempre più difficile mantenere la concentrazione. Alla fine si rassegnò a lasciar vagare la propria mente: che andasse dove preferiva, non aveva comunque la forza di tenerla a bada.
E subito i suoi pensieri iniziarono a rimbalzare qua e là frenetici, come pesanti palline di un flipper impazzito.
La consapevolezza del suo imminente processo gli si stagliò davanti, simile a una chimera minacciosa: ormai mancavano poche ore e non si sentiva assolutamente preparato. Da quel nucleo compatto di preoccupazione ed ansia sgorgavano mille altri pensieri, tutti spiacevoli e difficilmente ignorabili. Le protesi, la fisioterapia, il palladio, Iron Man, i Vendicatori, suo padre – perché suo padre, poi? – Stane, i suoi incubi, l'Afghanistan... e qui frenò il flusso con decisione ferrea, calando una cortina impenetrabile. La sua attenzione vagò smarrita per qualche istante intervallato da altre stilettate ai moncherini, finché non si rassegnò a soffermarsi sul suo problema più urgente e più ignorato, che faceva capolino solo quando abbassava la guardia.
"Capisci cosa sto cercando di dirti?" gli rimbombò improvvisamente in testa, e vide i suoi occhi azzurri davanti a lui.
Affondò con rabbia la testa nel cuscino, irrigidendosi nel sentire la tensione dei muscoli in aumento che gli serrava lo stomaco e gli indolenziva il collo. Avrebbe voluto rigirarsi nel letto per sfogare un po' la sua irrequietezza, ma le proteste del suo corpo lo dissuasero. Ancora, cercò di deviare i suoi pensieri, ma si infransero contro la barriera oltre la quale scorgeva le fauci spalancate di una grotta buia piena di armi e bombe e corpi... si ritirò di scatto, chiudendo di nuovo quella porta e ricominciando a fluttuare smarrito tra immagini minacciose. 
Non voleva pensare a niente, soprattutto non all'Afghanistan e non a lei. Doveva concentrarsi sul processo, su qualcosa di tangibile e che era effettivamente in grado di gestire. Doveva provare a imbastire una linea d'azione per l'udienza, decise. Ma la sua risolutezza vacillò e di nuovo sprofondò nel buio della propria mente. Fu solo quando la sua attenzione confusa dal dolore e dal sonno cominciò ad oscillare con insistenza tra il rapimento e suo padre – e sua madre e quell'addio mancato – perché proprio adesso, perché? – che si arrese quasi con liberazione, tremante.
L'immagine di Pepper gli apparve subito davanti più nitida che mai, e si stupì di ricordare ogni dettaglio del suo volto, ogni lentiggine e capello ramato, inclusa l'espressione dura e cupa degli ultimi tempi. I suoi occhi erano congelati nell'istante in cui l'aveva guardato per l'ultima volta, in una sera irreale di quelli che sembravano anni prima. Ricordava chiaramente il quadro con la cornice rotta, sbilenco sul muro, a far da labile confine tra loro. Rivedeva la rabbia, la confusione e la preoccupazione che lei aveva cercato di non far trasparire, ma che per lui erano fin troppo evidenti; gli echi di una conversazione surreale, come sospesa nella notte, trapelavano dalla scena.
Quello era l'ultimo ricordo che aveva di lei. Quando si era risvegliato dopo il tentato suicidio era già solo. Nessun messaggio, nessun addio. Non trattenne un sospiro avvilito: ci era abituato, le persone se ne andavano senza preavviso, ma ciò non addolciva la pillola. E in fondo sapeva di non potersi lamentare. Quella sera l'aveva salutata, in un certo senso. Cercava di convincersi che fosse così: non avrebbe sopportato un altro addio mancato a pesargli sulla coscienza.
"Sei bellissima."
Sospirò, coprendosi il volto con le mani: di tutto ciò che avrebbe potuto dirle... ma era il minore dei problemi. C'erano domande più pungenti a cui non era ancora stato in grado di trovare risposta. All'epoca sapeva già che sarebbe stata l'ultima volta che la vedeva? Forse la parte deviata di se stesso aveva già deciso di porre fine alla sua vita? Non riusciva a ricordarlo; forse non voleva; forse non l'avrebbe mai saputo.
Lei non aveva proferito parola: l'aveva solo fissato spaesata. Ma aveva capito? Aveva intuito l'intenzione orribile che si celava dietro quella sorta d'addio implicito?
Scacciò il pensiero con stanchezza: ormai non importava più.
Si concesse però di chiedersi cosa stesse facendo in quel momento. Probabilmente dormendo, come tutte le persone normali senza preoccupazioni, sensi di colpa e arti amputati fanno alle tre di notte. Sperò fosse così e forse, al contempo, una parte di sé sperò che non lo fosse. Il nodo allo stomaco si strinse, ma allo stesso tempo percepì un sottile velo di calma posarsi su di lui.
Era una sensazione strana, non positiva, ma neanche negativa. Era il sentimento di ovattato sconforto di chi si trova nello sfacelo causato da una catastrofe naturale: dopo i primi momenti di panico, diventa perfettamente consapevole di non poter fare nulla per rimediare all'istante e si rassegna alla devastazione che lo circonda accettandola come normale, cominciando semplicemente a ricostruire tutto un mattone dopo l'altro. L'alternativa: disperarsi e correre all'impazzata in cerca di una soluzione immediata e inesistente. Si adagiò in quel limbo di indifferenza, nel quale di tanto in tanto penetrava la consapevolezza del disastro già avvenuto e al momento irrimediabile.
E insieme, concretizzò la consapevolezza ormai acquisita che da quando era solo gli sembrava di vivere molto meglio e di saper gestire i suoi problemi in maniera quasi impeccabile, se non per qualche momento di depressione momentanea e di sovraccarico emotivo – come in quel momento. Prima con lei si era sentito sicuro, protetto, guidato. Aveva creduto di non potercela fare senza di lei, di crollare; vi si era aggrappato con tutto se stesso e aveva finito col trascinarla in basso con sé, per poi respingerla, disgustato dalla propria inadeguatezza e incapacità che l'avevano solo ferita.
Adesso si rendeva conto che tutto quello che credeva di riuscire a fare grazie a lei era in grado di farlo anche da solo – ma non aveva avuto il coraggio di provarci davvero. Si sentiva un perfetto idiota ad averlo realizzato solo adesso.
Certo, gli mancava. Se ne rendeva conto ogni giorno, quando credeva di sentire dei tacchi che scendevano le scale, o una voce sottile che lo chiamava dal piano di sopra, o intravedeva uno sprazzo di rosso che poi si rivelava essere solo un riflesso del sole. Sentì un familiare vuoto farsi strada in lui, e riconobbe la sensazione che aveva dimenticato da anni proprio grazie a Pepper.
Si sentiva solo.
Anche se proprio per questo era riuscito a fare passi da gigante, a recuperare un po' del tempo perso, a ritrovare una parte del vecchio sé – il resto era ancora lontano, forse perduto per sempre – e a dimostrare a se stesso e agli altri di potercela fare, la solitudine aveva cominciato a scavare un nuovo solco tra le tante cicatrici. Le telefonate di Kyle e le visite di Ian alleviavano quel peso, sebbene in modo minimo, ma per il resto del tempo l'unica voce che udiva era quella di JARVIS.
Essere solo col suo maggiordomo nella villa deserta gli causava una spiacevole sensazione di deja-vù. Si aspettava di sentire la macchina di suo padre arrancare nel vialetto da un momento all'altro o di vedere sua madre in terrazzo a leggere. A volte imboccava sovrappensiero la porta sbagliata, memore della vecchia planimetria della villa. C'erano ore intere di silenzio assoluto, intenso, rotto solo dalla risacca. In quei momenti il raro squillo del telefono gli faceva sobbalzare il cuore di un terrore irrazionale, ed era sempre con indescrivibile sollievo misto ad amarezza che sentiva la voce di Kyle o di Ian o di Fury all'altro capo, invece del timbro monotono di un ufficiale di polizia che ha già dato troppe volte brutte notizie a qualcuno.
Pepper era riuscita a riportare una scintilla di vitalità in quel guscio vuoto che era diventata Villa Stark dopo l'incidente dei suoi. In quel clima non si stupiva di pensare ai suoi genitori molto più spesso del solito. Aveva avuto la tentazione di aprire lo studiolo in cui aveva ammassato tutta la loro roba – era troppo furioso con loro per esporla in bella vista, ma troppo addolorato per buttarla semplicemente via – ma infine si era risolto nell'evitarlo categoricamente. Non era quello il momento; non era mai il momento per pensare.
Odiava quelle ore insonni in cui il suo cervello rimuginava e si arrovellava senza sosta quasi a rinfacciargli quel rifiuto, arrivando a conclusioni che lo inquietavano nel profondo senza per questo arrivare mai a nulla di concreto.
Si rigirò lentamente nel letto, stremato dall'insonnia, dal dolore spietato ai moncherini e dal turbinio dei suoi stessi pensieri. Iniziava a sentire la palpebra farsi pesante e fu con sollievo che la chiuse, anche se il sonno tardò ancora ad arrivare, interrotto continuamente da ricordi e immagini sfumate che si affacciavano nel suo dormiveglia come invitati non richiesti.
Oltre una coltre onirica percepì infine l'inizio di uno di quei suoi sogni vividi e allo stesso tempo surreali, popolati di androidi, specchi e cloni, che gli capitava di fare dal giorno dell'incidente. Gli piacevano quei sogni. Gli davano la rassicurante impressione che, in fondo, il suo inconscio sapesse perfettamente ciò che doveva fare, e cercasse così di guidarlo nel percorso a modo suo.
Il suo volto si rilassò al pensiero e si abbandonò finalmente al sonno.



***


30 Aprile, Helicarrier, 12:15

Perché doveva essere così difficile?
Pepper sospirò, bevve ancora un sorso del suo caffè decaffeinato e fece un respiro profondo. Solo allora tornò a fissare lo schermo del computer, sul quale lampeggiava minaccioso un avviso che la informava freddamente di un errore nel modulo appena compilato. Eppure aveva controllato più volte... e non voleva chiedere di nuovo l'aiuto dell'Agente Hill, così si rassegnò a passare in rassegna per l'ennesima volta i documenti cartacei dello SHIELD. Si sentiva più seccata del dovuto per quell'inconveniente; forse perché una parte di lei, che si premurava di tenere a bada, le ricordava che qualche tempo prima sarebbe bastato chiedere a JARVIS per avere delle risposte – e probabilmente sarebbe stato lui a occuparsi dell'intera faccenda.
Finalmente trovò l'errore – aveva osato mettere uno spazio in più del dovuto in una delle caselle – lo corresse e premette l'agognato tasto "invio". Stavolta il computer non ebbe nulla da ridire. Si godette la sua vittoria per pochi istanti, prima di tornare a fissare la colossale pila di documenti ancora in attesa di fronte a lei.
Il fatto era che Fury aveva finalmente deciso di digitalizzare gli archivi dello SHIELD. Una decisione lodevole, se non per il fatto che ciò comportava il riesumare approssimativamente quarant'anni di documenti antecedenti l'era informatica. Quindi i valorosi agenti dell'organizzazione erano impegnati a ticchettare sulle tastiere da mattina a sera, combattendo il terrorismo e i supercattivi nelle pause pranzo. Persino Banner era stato inchiodato a una scrivania, e Pepper temeva di vederlo trasformarsi in un colosso verde da un momento all'altro. Hawkeye era stato abbastanza scaltro da farsi inviare in missione in un villaggio sperduto della Sokovia, lontano da ogni forma di telecomunicazione, Nataša era più sfuggente del solito, anche se cercava abbastanza spesso la sua compagnia, e i tentativi di istruire Steve e Thor alle nuove tecnologie si erano rivelati fallimentari. Ciò lasciava lei, Hill, Coulson, Banner e altri sfortunati di basso rango a sorbirsi quell'incarico ingrato.
Pepper lo odiava particolarmente. Negli ultimi tempi aveva avuto un forte rigetto per la tecnologia e il suo nuovo compito l'aveva incupita molto. Avrebbe preferito tornare a occuparsi dell'agenda dello SHIELD dal punto di vista organizzativo, cosa che non differiva poi molto da ciò che faceva prima, visto che sorprendentemente ciò includeva spesso la supervisione di svariate e sontuose feste per le alte cariche politiche e militari. Per la sicurezza, certo, l'antiterrorismo, ovvio, la sorveglianza generale dell'evento, naturalmente... ma era davvero necessario ordinare personalmente casse di champagne e chili di caviale? La risposta di Fury a questo interrogativo era stata un'alzata di spalle molto, molto seccata e un qualche riferimento a potenziali avvelenamenti di massa. Pepper sapeva che tra sé e sé avrebbe volentieri mandato al diavolo gli alti gradi che gli davano incombenze simili, ma tutto sommato lei non aveva nulla di cui lamentarsi: era un lavoro con cui aveva confidenza e vi si era destreggiata molto bene nell'ultimo mese.
E adesso, questo. La stava innervosendo in modo indescrivibile. Quella mattina, poi, si era ritrovata tra le mani un dossier secretato riguardante Obadiah Stane. Fino a pochi mesi prima, posta nella stessa situazione, si sarebbe limitata a metterlo subito da parte senza aprirlo, lasciando che fosse qualcun altro a occuparsene. Stavolta invece aveva avuto una lunga esitazione, sormontata da una traccia di indifferenza da una parte, e di curiosità dall'altra. Avrebbe potuto aprire tranquillamente il file: lavorava per lo SHIELD adesso, non aveva alcun obbligo nei confronti del suo precedente datore di lavoro. Stava per seguire questo ragionamento, quando si era resa conto che una parte di lei si sentiva profondamente a disagio all'idea di leggerlo.
Stane era stato un vecchio "amico" di famiglia degli Stark. Era sicura che in quel fascicolo vi fossero informazioni sensibili anche su di loro e leggerle a sua insaputa era semplicemente sbagliato. E poi Stane era il vero, unico responsabile di tutto ciò che era successo in quei mesi e quella consapevolezza la scombussolava e riempiva di frustrazione solo a leggerne il nome stampato sulla carta. Se non fosse stato per lui, lei non avrebbe mai dovuto premere quel pulsante... a quel punto si era sentita di nuovo sprofondare al pensiero di ciò che aveva causato.
Così aveva poggiato senza una parola la cartellina sulla risma di Maria Hill, prendendone in cambio una più voluminosa. L'altra donna aveva alzato la testa, squadrandola perplessa per un istante, poi aveva adocchiato il dossier e un lampo di comprensione era balenato nei suoi occhi. Di sfuggita, Pepper l'aveva vista mentre stava per dire qualcosa, per poi tacere e tornare al suo lavoro.
"Meglio così," aveva pensato: non era dell'umore per parlarne.
Il fatto le era ritornato in mente per tutto il giorno e anche adesso la pungolava fastidiosamente mentre cercava di concentrarsi sull'ennesima cartella di documenti, costringendola a rileggere ogni riga tre volte per essere sicura di non dimenticare nulla. Quando il pensiero si faceva troppo invadente afferrava quasi con foga il bicchiere di caffè, bevendone un gran sorso senza però ricevere il beneficio della caffeina.  Sospirò, scocciata. Doveva essere così che si era sentito T...
Poggiò il bicchiere sulla scrivania con tanta veemenza che quasi strabordò, ma a malapena registrò l'occhiata allarmata dell'Agente Hill. Mormorò una qualche scusa riguardo a un mal di testa e si alzò in fretta, dirigendosi verso il bagno a passi veloci. Fu con sollievo che chiuse la porta dietro di sé, attutendo il suono di decine di mani che ticchettavano sulle tastiere. Entrò in un cubicolo e si chiuse dentro, tentando di calmarsi.
Per la prima volta in tutto quel tempo aveva permesso che qualcosa rompesse il suo equilibrio; e non stava facendo nulla per recuperarlo, anzi, si stava lasciando sbilanciare quasi con sollievo. Si era già resa conto della sua ipocrisia nel voler evitare di affrontare i problemi: lei, convinta sostenitrice di come ciò fosse indispensabile. Non era esatto dire che li ignorasse; piuttosto li osservava da lontano chiedendosi se sarebbero mai riusciti a raggiungerla. E, nel dubbio, continuava a indietreggiare senza perderli di vista, non riuscendo però a metterli a fuoco del tutto.
Rimase nel bagno a lungo, ancora riluttante a soffermarsi sulla questione. Cercava di aggirarla e non concretizzarla in forme e parole reali, temendo quel che poteva accadere. Quanto poteva resistere ancora quella sua parvenza di equilibrio? Si era convinta di stare bene, stava bene: lavorava, era impegnata da mattina a sera e quando si ritirava nella sua stanzetta sull'Helicarrier riusciva a leggere appena un paio di pagine di un romanzo prima che il sonno avesse la meglio. Non si lasciava tempo per pensare.
Aveva anche delegato il suo ruolo di amministratore delegato delle Stark Industries ai burocrati dello SHIELD. Questi l'avevano consultata solo un paio di volte per delle delucidazioni che aveva fornito in modo assolutamente professionale e distaccato. D'altronde non si poteva certo lasciare allo sbando la più grande industria tecnologica al mondo.
Certo, nei primi tempi aveva sofferto un po' di solitudine. Per natura tendeva ad essere abbastanza schiva con tutti, ma era in ottimi rapporti con Phil e iniziava anche ad avvicinarsi all'Agente Hill, sebbene le incutesse un po' di soggezione. Passava le pause pranzo in loro compagnia e di tanto in tanto riusciva a intercettare Phil per una tazza di tè tra una mansione e l'altra. Per il resto non era ancora scesa dall'Helicarrier da quando vi era salita un mese prima e, nonostante iniziasse a sentire la mancanza di terra solida sotto ai piedi e si tenesse ben lontana dalle vetrate per non fomentare le sue vertigini, non trovava nulla di serio di cui lamentarsi.
Allora perché era bastato un fascicolo su Stane per causarle una crisi simile? Iniziava a dubitare che il suo equilibrio fosse mai stato così solido come pensava. 
Diede un'occhiata all'orologio, decidendo di concedersi qualche altro minuto prima di tornare a lavorare. Fu in quel momento che notò la data odierna, nella minuscola casellina bianca sul quadrante. Di colpo le fu chiaro il perché del suo nervosismo e si chiese come avesse fatto a ignorarlo fino ad allora.
«Potts! Tutto bene?» da dietro la porta le arrivò ovattata una voce, che riconobbe come quella squillante dell'Agente Hill; bastò a interrompere il flusso dei suoi pensieri e gliene fu grata.
Fece un breve respiro profondo, rilassando il viso. Si sistemò la frangetta un po' scomposta e impose un timbro morbido alla propria voce:
«Ho un po' di nausea, devo aver bevuto troppo caffè,» rispose, sbloccando la porta e facendo capolino per rassicurare la collega.
Maria era appoggiata al piano dei lavandini e sembrava sentirsi abbastanza fuori posto. Soprattutto, sembrava non sapere dove mettere le mani, se lungo i fianchi o davanti a sé o se poggiarle sul piano d'acciaio. Infine si risolse a incrociare le braccia.
«Ah, bene. Cioè, mi dispiace, ma almeno non è nulla di serio.» 
Era chiaro che non fosse convinta, ma non insistette. L'Agente Hill era tanto competente e decisa sul campo quanto impacciata nelle relazioni sociali, e il fatto che fosse venuta a cercarla fin lì confermava quanto ritenesse fondata la sua preoccupazione. Pepper si decise a uscire dal cubicolo, avvicinandosi a un lavello per rinfrescarsi il viso.
«Magari vuoi staccare prima?» la incalzò Maria, un po' bruscamente.
«Sarebbe un problema?» replicò l'altra, troppo in fretta, e tacque subito nel rendersene conto.
Anche l'altra esitò, e Pepper fu conscia di aver commesso un passo falso. Normalmente era estremamente riluttante a sottrarsi al suo lavoro e si sarebbe fatta pregare come minimo una decina di volte prima di accettare l'offerta.
«Certo che no. Si tratta solo di un paio d'ore in meno,» minimizzò comunque l'altra, scrutandola con perplessità.
Pepper non aggiunse altro e le rivolse un sorriso un po' tirato mentre si asciugava; Maria ricambiò con un cenno del capo prima di avviarsi verso la porta. Si bloccò sulla soglia, come colta da un pensiero improvviso.
«Sicura di star bene?»
Il sorriso di Pepper s'incrinò un poco.
«Ho solo bisogno di una pausa. Grazie, non preoccuparti.»
Finalmente l'agente uscì, lasciandola sola e permettendole di ricadere in un'espressione cupa che si riflesse nello specchio. Osservò le occhiaie sotto ai propri occhi, che non avevano nulla a che vedere con l'insonnia. Non era così sicura di stare bene.
Indugiò ancora un po' nel bagno, prima di uscire e dirigersi verso l'ufficio di Phil.



***


30 Aprile, Tribunale di L.A., 12:30

Tony uscì dall'aula del tribunale con malcelato sollievo, per poi abbandonarsi su una delle poltroncine nel corridoio, con le stampelle posate sulle ginocchia a mo' di bastoni da passeggio.
Ian gli si affiancò in piedi, e si allentò il nodo della cravatta e il primo bottone della camicia con un gesto insofferente. Sembrava sentirsi fuori posto senza camice addosso e si era agitato nel suo discutibile completo di tweed per tutta la durata del processo, chiedendosi come Tony potesse essere più disinvolto di lui in abito formale avendo due arti in meno. A quel proposito, sia Kyle che Ian avevano notato che il loro assistito aveva scelto una tenuta decisamente meno vistosa del solito, presentandosi in un sobrissimo completo grigio e cravatta nera in luogo delle sue amate giacche e cravatte appariscenti. In questo modo il suo aspetto sembrava meno costruito e più spontaneo, a partire dai capelli lasciati leggermente più lunghi, ma ordinati e senza brillantina.
Soprattutto, aveva deciso di non indossare la benda sull'occhio. L'aveva già rimossa da qualche giorno su consiglio di Ian per aiutare la guarigione della ferita, ma il medico non si sarebbe mai aspettato che Tony fosse già pronto a mostrarsi così in pubblico, né tantomento che fosse in grado di mantenere il suo aplomb nel subirne la reazione. Aveva affrontato la cosa con totale indifferenza, nonostante il brusio pettegolo che aveva accolto il suo ingresso in aula. Se l'era però rimessa non appena uscito dall'aula con un gesto quasi frenetico, chiaro segno che non fosse poi così a suo agio come voleva far credere. In generale aveva comunque tenuto un atteggiamento decisamente più composto e stavolta sembrava aver preso il processo quasi sul serio e non come un'occasione per pavoneggiarsi. Erano addirittura riusciti ad arrivare in anticipo, nonostante fosse evidente che aveva dormito molto meno del dovuto.
Ian notò il modo in cui Tony si stringeva la gamba, che doveva aver risentito degli spostamenti forzati e aveva preso a dolergli nonostante gli analgesici. Gli scoccò un'occhiata significativa e pungente, ma si astenne da commenti. Tony sfuggì il suo sguardo, ma intuiva a cosa fosse rivolto il rimprovero inespresso del medico. E adesso ammetteva che sarebbe stato meglio usare la sedia a rotelle come aveva suggerito lui, invece di usare le stampelle. Fortunatamente aveva dovuto zoppicare solo dal banco della difesa a quello dei testimoni ed era anche riuscito a non inciampare in diretta nazionale.
Considerata la sua docilità nel rinunciare alle vere protesi durante il processo, sia Ian che Kyle avevano deciso di soprassedere sulla sua repulsione per la sedia a rotelle; dopotutto, tanto peggio per lui. Tony si sentiva dolorante e anche un po' stupido per quella presa di posizione, ma era sollevato per essersi risparmiato le battutine pungenti di Knight sulla "accoppiata perfetta" e per averle risparmiate forse anche a Kyle.
Quest'ultimo uscì finalmente dall'aula facendo lo slalom tra la fiumana che affollava il corridoio e che, notò Tony con fastidio, non si preoccupava più di tanto di agevolare il suo passaggio. Infine li raggiunse, mascherando la sua palese irritazione con una piccola sgommata della sedia a rotelle. Era stranamente su di giri per aver passato le ultime tre ore a parlare ininterrottamente, e i suoi occhi verdi erano illuminati da una luce vivace.
«Allora? Come sono andato?» esordì Tony prima che l'avvocato potesse aprire bocca.
Kyle ci pensò su un momento. Ian si cacciò le mani nelle tasche della giacca e sembrò ruminare una risposta caustica.
«Otto per l'esposizione, sette per i contenuti e sei in condott,.» concluse infine Kyle, lasciando trasparire un lieve disappunto.
Il processo era filato relativamente liscio, senza particolari momenti di epicità – niente rivelazioni teatrali, foto scabrose o mani che cadono. La deposizione di Ian non aveva portato alla luce nulla di rilevante per Knight. e l'accusa si era dimostrata stranamente a corto di prove, aveva avuto modo di constatare Kyle. Sospettava che lo SHIELD c'entrasse qualcosa. Evidentemente i superiori di Stark avevano molto interesse a proteggere i loro beniamini, anche quelli più turbolenti.
Il processo si era concluso con un battibecco tra Stark e Hammer sulla tecnologia arc e sui suoi rischi, condita dalle battutine snervanti di Knight e dalla sua apparente ossessione per Howard Stark e i progetti originari del reattore. Doveva ammettere che in quel frangente Tony aveva mantenuto un notevole sangue freddo, riuscendo a non mandare a quel paese il procuratore. Non subito, almeno.
Tony si agitò sulla sedia, sentendosi esaminato dallo sguardo di Kyle.
«Mi sembrava di aver mantenuto un comportamento ineccepibile.»
Stavolta Ian si schiarì la gola in modo eloquente.
«Ha detto che Hammer avrebbe potuto effettuare perizie tecniche solo sul suo cesso, Stark.»
«Quella è la pura verità,» lo rimbeccò serafico Tony, celando un sorrisetto compiaciuto.
«Anche la digressione di venti minuti sulla "meravigliosa cromatura della Mark III" era po' fuori luogo,» aggiunse Kyle.
«È stato un espediente per prendere tempo...» ammise controvoglia Tony, in un mugugno.
Stava giocherellando sovrappensiero con la mano in vetroresina inerte della protesi, sorbendosi la paternale senza però risentirsene troppo. Aveva cercato di moderare parole e comportamenti riuscendoci anche abbastanza bene, visti i suoi standard, ma la combo "Knight-Hammer" avrebbe fatto uscire dai gangheri un santo.
«E poteva risparmiarsi le frecciatine a Knight,» aggiunse per l'appunto Ian. «O evitare almeno di farne una ventina a interrogatorio.»
Qui Tony si fece improvvisamente serio.
«Lui poteva risparmiarsi quelle su moncherini e sedie a rotelle. E su mio padre.»
Ignorò il medico che alzava gli occhi al cielo, evidentemente a corto di commenti per due adulti che bisticciavano come ragazzini delle elementari. Tacque per un istante prima di riprendere con più veemenza, rivolgendosi stavolta al suo avvocato:
«Senti, K, io non sono un tipo violento...»
Ian e Kyle si scambiarono un'occhiata di sottecchi, probabilmente sforzandosi di non sbottargli a ridere in faccia. 
«... va bene, non lo sonospesso,» si corresse con un secco sospiro. «E non so che problemi ci siano fra te e Knight. Ma giuro che se finita questa storia lo incrocio per strada gli spacco la faccia. Con questa,» aggiunse, alzando rigidamente la protesi provvisoria e ben poco minacciosa.
Ma una volta completata quella vera, ricevere un pugno con quella o con l'armatura di Iron Man avrebbe fatto ben poca differenza. Forse non avevano tutti i torti a volergliele sequestrare...
Ian sospirò, ma Kyle si lasciò sfuggire un sorrisetto.
«Quando mi avrai rimesso in piedi, Stark, mi toglierò quella soddisfazione di persona.»
«Io farò finta di non aver mai sentito nulla,» borbottò subito Ian, ma dalla sua faccia si capiva che trovandosi di fronte a Knight reduce da un pestaggio avrebbe probabilmente messo da parte il suo giuramento di Ippocrate per curarlo nel modo più rude e sbrigativo possibile.
Tony si limitò a strizzare l'occhiolino a Kyle. Non si era dimenticato della promessa ed era contento di vedere come l'avvocato continusse ad avere fiducia in lui, nonostante tutto. Nel periodo di convalescenza aveva evitato di menzionare il suo "pagamento", forse intuendo che mettergli pressione non era il modo migliore per farlo mettere all'opera, soprattutto in un frangente così critico. Aveva dimostrato una dose di tatto e pazienza inaspettata.
«Comunque, in attesa di quel giorno...» Kyle sollevò trionfante il foglio dall'aria ufficiale che teneva in mano da quando era uscito dall'aula, «... possiamo prenderci una piccola rivincita.»
Tony prese il documento, mentre Ian lo scrutava da sopra la sua spalla. Entrambi si illuminarono leggendo le prime righe.
«Knight si è preso un'ammonizione?» enunciò incredulo Tony, continuando a scorrere il foglio senza nascondere il suo entusiasmo.
«Strano che non sia per lei, eh?» commentò Ian, ma anche lui sfoderò un sogghigno soddisfatto.
«Ho fatto notare al giudice che i suoi modi poco garbati di interrogare un testimone ed imputato in chiaro stato di disagio psico-fisico ed emotivo potevano avere risultati deleteri e falsare la deposizione,» sciorinò Kyle con serenità.
«Per una volta sono contento di essere considerato uno squilibrato,» borbottò Tony, restituendogli il foglio. «Quindi è stata una vittoria,» concluse, stiracchiandosi per poi pentirsene immediatamente nel sentir scrocchiare la giuntura metallica della spalla.
Represse la smorfia di dolore e continuò, ancora pimpante:
«Un'altra udienza tra un mese, potrò legalmente usare le protesi in casa mia e forse troviamo un cavillo per farmele usare fuori, le foto presentate all'ultimo processo sono state ufficialmente dichiarate invalide, e abbiamo tutto il tempo per prepararci alla questione di Iron Man...» cominciò a elencare, contando sulle dita sane, «... Knight è ammonito, e vista la situazione Hammer non farà perizie almeno per un altro po'. Ho dimenticato qualcosa? A parte lo champagne.»
«È andata sicuramente meglio delle altre volte,» concordò Kyle, evitando di aggiungere che non era un gran risultato migliorare rispetto ai precedenti processi, visto che difficilmente si poteva fare di peggio.
Era riluttante a smorzare la rediviva positività di Tony, ma d'altra parte non voleva neanche che si adagiasse troppo sugli allori. Doveva però dire che apprezzava molto il fatto che si fosse sforzato di comportarsi in modo consono a un'aula di tribunale, nonostante avesse avuto qualche caduta di stile.
«Per la prossima udienza dovremo prepararci meglio,» lo avvisò. «Sai dove potrebbero andare a parare.»
Tony si accigliò e il suo sguardo si fece attento, quasi guardingo, come se si sentisse improvvisamente accerchiato.
«L'incidente,» precisò Kyle intuendo un fraintendimento, e Tony si rilassò, allentando la stretta sulle stampelle.
Le sue nocche ripresero un colorito roseo, ma l'espressione rimase circospetta. Si sfiorò inconsciamente la benda sull'occhio e sobbalzò al contatto un po' troppo brusco, trattenendo un singulto.
«Sì, certo. L'incidente,» ripeté, come se la cosa fosse ovvia.
"Non l'Afghanistan, non Pepper, non mio padre. Va tutto bene," si rassicurò mentalmente.
«Finora ti hanno lasciato stare, vista la situazione e il focus sulle protesi, ma non potrai fare scena muta per sempre. Knight preferirebbe farti condannare per l'uso improprio dell'armatura per avere il suo momento di gloria e implicare nell'affare anche le intere Stark Industries e la loro trascorsa manifattura bellica, ma se non troverà appigli si potrebbe accontentare di una semplice condanna per omicidio volontario.»
«Non sto facendo "scena muta",» ribatté gelidamente Tony. «Sono mesi che provo a ricordare, ma il massimo che ottengo sono delle immagini sconnesse. E non posso beccarmi un'altra accusa di falsa testimonianza.»
«Non sto dicendo che sia colpa tua, ma dobbiamo trovare una soluzione o almeno elaborare un piano B.»
«L'unica altra testimone è Pepper,» disse Tony, a voce più bassa. «Mi ha detto che è stata lei a sovraccaricare il reattore arc, anche se a quanto dice gliel'ho chiesto io, ma non ho idea di cosa sia successo dopo. E non ho intenzione di farla testimoniare ancora,» riprese subito con fermezza, alzando una mano e anticipando Ian, che stava per aggiungere qualcosa. «Abbiamo la chiave USB con le prove che incastrano Stane. Se veramente mi troverò messo all'angolo...» deglutì, sforzandosi di continuare con tono leggero, «... porterò la discussione sulla mia vacanza in Afghanistan. Terrò impegnati quegli avvoltoi, non vedono l'ora di sentirmene parlare. Ci farà guadagnare tempo. E dipingerò Stane come il bastardo che era.» 
Prese fiato, di nuovo oppresso dai pensieri di quella notte. 
«Nel frattempo, sì, cercherò di ricordare, anche se mi ci vorrebbero delle sedute spiritiche. Ma se non dovessi riuscirci, sono disposto a dire che l'ho ucciso io, piuttosto che coinvolgere di nuovo Pepper. Non è neanche così sbagliato accusarmi del suo omicidio e tecnicamente non mi dispiace che sia morto,» aggiunse con leggerezza.
Ian e Kyle non seppero replicare e calò un silenzio teso.
«Beh, ci penseremo al momento, genio. Credo che per ora il problema più tangibile sia quello di Iron Man. Finché non ricorderai qualcosa, anche la corte preferirà concentrarsi su quello,» alzò le spalle Kyle, chiudendola lì mentre estraeva il cellulare dal taschino. «Ora perdonatemi, ma devo iniziare a fare qualche telefonata preparatoria. Un mese passa in fretta!» concluse, sospingendosi verso l'uscita con rinnovata vitalità.
Tony lo guardò allontanarsi, adesso incupito. Ian percepì la sua tensione, ma non era mai stato bravo con le parole e si limitò a passarsi una mano sulla nuca con fare imbarazzato, in cerca di un modo per stemperare l'atmosfera.
Nel frattempo il corridoio si era svuotato. Di tanto in tanto li superavano giudici e procuratori in toga, diretti frettolosamente verso le rispettive udienze. Qualcuno diede segno di aver riconosciuto Tony, ma nessuno li importunò, troppo presi dalle loro faccende. Tony stava aspettando che il fastidio alla gamba cessasse per potersi alzare e uscire il prima possibile da quel posto che odorava fastidiosamente di cera per pavimenti e polvere.
«Ho parlato con quel collega di cui le dicevo l'altro giorno,» esordì infine Ian, cauto.
L'attenzione di Tony si risvegliò all'istante e gli fece cenno di continuare.
«In realtà l'avevo chiamato per altri motivi, ma la discussione è arrivata a lei, così ne ho approfittato per chiedere un parere medico. Anche lui è un neurochirurgo. È diventato molto più bravo di me, anche se teoricamente è stato un mio allievo.»
«Di sicuro non ha impiantato delle protesi biomeccaniche sperimentali alimentate da reattori arc, ma le credo sulla parola,» ribatté Tony.
Ian esitò, preso in contropiede da quel complimento indiretto; sembrò voler dire qualcosa ma poi scosse la testa.
«È una persona molto riservata,» premise, come a giustificarsi. «Ma forse potreste venirvi incontro coi vostri... problemi,» concluse spiccio.
Tony lo fissò confuso.
«Doc, quale sarebbe questo "parere medico"?»
Ian sospirò con rinnovata reticenza.
«Sa perfettamente che io non ho alcuna intenzione di operarla per un possibile intervento all'occhio,» si decise a confessare, e Tony rimase stolidamente a bocca aperta. «Forse lui sarebbe disposto a farlo. Ma ora non può. È complicato e...» cominciò subito a frenarlo, come preoccupato di essersi sbilanciato troppo e temendo la reazione del suo paziente.
«Doc,» lo interruppe Tony, pacatamente. «Ho due protesi incomplete, un corpo che è praticamente da buttare tra atrofia e palladio e un'armatura da rimettere in sesto. Per una volta direi che posso anche aspettare qualche tempo prima di riprendere a pensare a progetti futuristici.»
Ian rimase di sasso di fronte a quell'inaspettata dimostrazione di razionalità. O era rassegnazione? Si sarebbe piuttosto aspettato un interrogatorio serrato e implacabile per estorcergli quante più informazioni possibili.
«Ma se posso farò qualcosa per quel suo collega,» riprese Tony, con un accenno di sorriso. «A questo punto potrei prenderlo come uno svago dal lavoro sulle protesi.»
Ian non rispose, ma annuì e lo aiutò a rialzarsi per raggiungere Kyle e Happy e tornare a Villa Stark.
«Ah, a proposito di novità...» riprese Ian, strada facendo.
«Cos'è, la giornata delle belle notizie?» ridacchiò Tony, di nuovo incuriosito.
«Forse le ho trovato anche una fisioterapista.»
«Una
Tony rallentò il passo per squadrare guardingo il medico.
«Sì. E non le piacerà.»



***


30 Aprile, Helicarrier, 12:50

Forse era stata una decisione avventata.
Pepper indugiava di fronte all'ufficio di Coulson, tormentandosi le mani senza avere il coraggio di bussare. Probabilmente stava lavorando. Sarebbe stato scortese interromperlo... per poi, cosa? Non sapeva esattamente cosa volesse dirgli, né come lui potesse risolvere il suo problema, se davvero ne aveva uno. Rimase ferma, fissando il cartellino "P. Coulson" fissato alla porta all'altezza dei suoi occhi. Accanto era appiccicato un adesivo di Capitan America un po' sbiadito. 
Pepper sospirò, costringendo le proprie mani a smettere di tremare. Bussò lievemente, sperando in cuor suo di non ricevere risposta. 
In effetti, non arrivò.
Invece di tornarsene sui suoi passi come voleva disperatamente fare, bussò con più decisione.
«Avanti,» arrivò da dietro la porta, a voce un po' alta.
Ormai era troppo tardi per tirarsi indietro. Entrò risoluta, mettendosi allo scoperto.
Coulson era seduto dietro alla scrivania con delle ampie cuffie in testa, completamente abbandonato sullo schienale mentre fissava svogliatamente il computer. Prendeva appunti su un tablet in modo abbastanza disordinato e a portata di mano aveva una tazza di tè fumante con il logo dei Vendicatori. La sua giacca era scivolata per terra e un plico di documenti occupava l'unica sedia libera di fronte a lui. Alzò lo sguardo all'ingresso di Pepper e si affrettò a liberarsi delle cuffie e a mettere in pausa il video in riproduzione, rivolgendole un sorriso cordiale.
«Pepper, che sorpresa!» esordì, rendendosi poi conto del disordine che regnava nell'ufficio e affrettandosi a liberarle la sedia e a raccogliere la giacca. «Ti offro un tè? Ce n'è ancora!» le propose allegro, accennando al thermos poggiato accanto alla tazza.
«No, non disturbarti, sono solo di passaggio,» mentì lei, messa in imbarazzo dall'agitazione del collega, ma si sedette volentieri di fronte a lui.
Coulson era solitamente impeccabile e compassato ed era raro vederlo scomposto o in momenti di relax – o di grande noia, come era evidente dalla rapidità con cui aveva messo da parte il suo lavoro per accoglierla. Nonostante il suo rifiuto le riempì una tazza di tè, questa con lo scudo di Capitan America – Pepper si ritenne onorata. Adocchiò un'altra tazza delle Stark Industries in cima a un portadocumenti, ma decise di ignorarla fermamente.
«Tutto bene?» ruppe il silenzio Pepper, bevendo subito un sorso di tè per nascondere la sua espressione poco stabile.
Si rendeva conto di essere tesa, ma non voleva che Coulson lo notasse, anche se l'aveva probabilmente già fatto. Questi sospirò, mostrandole le cuffie.
«La digitalizzazione degli archivi comprende anche la revisione dei file audiovisivi...» si limitò a dire in tono eloquente. «Centinaia di ore di nastri registrati in pessima qualità. Un toccasana per le orecchie.»
Pepper annuì in modo comprensivo: quell'improvvisa decisione di Fury stava mettendo a dura prova i loro nervi e tutti non vedevano l'ora di tornare alle loro solite mansioni. Phil era particolarmente frustrato dal suo stato di "prigionia", come le aveva confessato di recente, ed era spesso di malumore, soprattutto perché non vedeva Audrey da dieci giorni. A guardarlo bene, anche lui iniziava a dare cenni di stanchezza.
L'occhio le cadde involontariamente la custodia del nastro in riproduzione. L'etichetta recitava "H. Stark., Project: Rebirth, 1943". Si accigliò: forse quel giorno il caso voleva dirle qualcosa...
«Noi siamo a buon punto. Credo,» cercò di rassicurarlo un po' debolmente, anche per mascherare il suo turbamento.
Phil alzò le spalle con noncuranza.
«Se questi sono i nostri problemi più urgenti, tanto meglio,» commentò, con poca convinzione e un po' di ipocrisia.
Si vedeva che scalpitava per tornare a lavorare sul campo e che avrebbe preferito un'invasione aliena al lavoro d'ufficio. Ci fu un lungo momento di silenzio, in cui Pepper sorseggiò il suo tè, chiedendosi come le fosse venuto in mente di presentarsi lì. Phil diede un'occhiata distratta al suo telefono e una lieve sorpresa gli attraversò il volto.
«Sei in pausa?»
Di sicuro aveva realizzato che, teoricamente, quello era il suo orario di lavoro.
«Ho staccato prima e ho pensato di passare a salutarti,» rispose lei con disinvoltura. «Non mi sentivo molto bene,» aggiunse cautamente.
«Sono stati giorni pesanti. Forse dovresti prenderti delle ferie,» le consigliò, con apparente leggerezza, ma lei notò che la stava fissando in modo quasi inquisitorio. «Fuori dall'Helicarrier, intendo.»
Pepper si rabbuiò, ma finse di pensarci su qualche istante, trattenendo la risposta impulsiva che le era balenata in mente, ovvero "neanche per sogno".
«Vorrei prima concludere questo lavoro...»
Phil fece un profondo sospiro, scoccando uno sguardo astioso al computer e alle cuffie abbandonate sulla scrivania che le strappò un sorrisino forzato.
«Già, prima il dovere,» si decise a concludere, in tono definitivo, e Pepper capì con una punta di smarrimento che la sua visita si era già conclusa.
Fissò la sua tazza quasi vuota. Si stava sentendo un'idiota, ma si alzò comunque con naturalezza. Non riuscì però ad evitare di soffermarsi qualche istante di troppo nell'ufficio, maledicendosi per la propria indecisione.
Infine si risolse ad aprire la porta, ma la voce di Phil la bloccò sulla soglia:
«Il processo è finito poco fa,» disse laconico.
Lei si girò repentinamente, colta in fallo, e sentì accentuarsi una stretta al petto che non si era accorta di provare.  Sarebbe stato inutile fingere disinteresse adesso, così optò per il tacere.
Phil era imperscrutabile come sempre, ma non le sembrava ostile. Interpretò il suo silenzio come un invito a continuare – e, in fondo, lo era.
«Mi ha chiamato Kyle. Non sono arrivati a un verdetto, ma sembrava ottimista per la prossima udienza e ha detto che quella di oggi è stata perlopiù positiva.»
Pepper abbassò lo sguardo, non sapendo come prendere la notizia. Sicuramente non se l'aspettava. Aveva pensato che il processo si sarebbe concluso quel giorno nel peggiore dei modi, considerando... l'instabilità dell'imputato.
Si mordicchiò nervosamente le labbra.
«Quando sarà la prossima?» chiese infine.
«Tra circa un mese. Credo che Kyle ti informerà non appena verrà decisa una data.» 
Phil sembrava intento a scrutare le sue reazioni e Pepper era altrettanto decisa a non mostrarne.
«Bene.» 
Non sapeva cos'altro aggiungere, anche se avrebbe voluto chiedere di più. Aveva saputo in modo più o meno indiretto della situazione più stabile di Tony, ma non aveva idea di cosa significasse quel "più stabile" e il fatto che quel dettaglio la interessasse la faceva adirare con se stessa. Non meritava la sua attenzione, non dopo ciò che quell'ingrato aveva osato fare e farle.
Phil si dondolava inquieto sulla sedia girevole, con le cuffie al collo, come ponderando il da farsi. Infine si appoggiò coi gomiti sulla scrivania, sporgendosi verso Pepper e cercando di incrociarne lo sguardo basso.
«Pepper, anch'io sono ancora arrabbiato. Non riesco a immaginare quanto tu lo sia, ma continuare così non ti farà stare meglio.»
A quel punto Pepper rialzò di scatto gli occhi di un azzurro penetrante.
«Cosa vorresti dire? Che dovrei tornare sui miei passi e perdonare tutto come se nulla fosse?» sbottò, e non riuscì a controllare il tremore nella sua voce.
«Al contrario,» ribatté lui, secco.
Pepper sentì una punta di consapevolezza farsi strada nella sua mente. Phil sembrò rendersi conto di essersi esposto troppo e ammutolì nuovamente. Si stropicciò gli occhi, per poi tornare a poggiarsi contro lo schienale. Incrociò le braccia a disagio.
«Non sono affari miei,» ammise, parando le mani avanti. «Ma penso che dovresti decidere chiaramente se ti importa o meno di lui, e convivere con la tua decisione.»
Pepper si trovò ad abbassare di nuovo gli occhi, trovando conferma dei propri pensieri. Nel momento in cui aveva lasciato Villa Stark, aveva deciso che, no, non le importava più. Era diventato troppo doloroso per importarle. Ma i suoi pensieri si soffermavano sempre lì, su di lui, anche quando non ne era pienamente consapevole. Sapeva che, nel profondo, oltre il velo di rabbia e delusione che la tratteneva, forse le importava ancora. Non era davvero riuscita a prendere una decisione, si era solo imposta di ignorare il problema, e ciò le richiedeva uno sforzo tale che paradossalmente le impediva di ignorarlo davvero. Ed era consapevole di essere scappata, senza davvero mettere la parola fine a nulla, se mai c'era stato un inizio.
Phil aveva ragione: rimanere in un limbo che la faceva palesemente soffrire non l'avrebbe aiutata. Doveva uscire da quell'impasse, se lo ripeteva da settimane; settimane passate a crogiolarsi nell'indecisione, incapace di scacciare il senso di colpa che le impediva di ignorare veramente tutto ciò che le dava pensiero. Incapace di ammettere che, sì, le importava di Tony, ed era per questo che era ancora così profondamente arrabbiata con lui; era per questo che non riusciva ad andare avanti, ma nemmeno a tornare indietro. Non ora, almeno.
Pepper si arrischiò a rialzare gli occhi su Coulson, che si stava rimettendo le cuffie come se niente fosse accaduto, probabilmente per lasciarle i suoi spazi dopo averli invasi così indiscretamente. Gli rivolse un sottile sorriso di gratitudine, che lui ricambiò appena, poi uscì chiudendo piano la porta dietro di sé. Non era stata esattamente la chiacchierata che aveva prospettato.
Si decise ad avviarsi verso la mensa per la pausa pranzo, per una volta sovrappensiero, quando il suo cellulare vibrò nella tasca della giacca riportando un'ombra sul suo volto.
Era Kyle. 
Soppesò il telefono per qualche istante per poi rimetterlo in tasca, lasciandolo squillare a vuoto. Sentì la tensione sul suo viso sciogliersi come cera al sole. 
Aveva ancora bisogno di tempo.
Forse, si rese conto all'improvviso, ne avevano bisogno entrambi.




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Note dell'Autrice:

Massalve, popolo di EFP *balla di fieno*
Dopo troppo tempo torno ad aggiornare questa storia, che era destinata a non trovare una fine sino a due mesi fa. Adesso, invece, annuncio ufficialmente (a chi nun se sa) che Phoenix ha imboccato la strada della conclusione; dopo 6 anni era pure ora... ci è voluto un po', ma c'è una mezza dozzina di capitoli pronti (!) e un prossimo aggiornamento è previsto per il 18 Marzo, anniversario della storia.


In realtà avevo intenzione di tornare proprio il 18, ma diciamo che questo capitolo è un regalo.
Yes, cara
_Atlas_, dico proprio a te, che hai predetto un aggiornamento di Phoenix per il 6 marzo... e visto tutto il supporto che mi hai fornito in questo periodo, il minimo che potessi fare era far avverare la tua profezia ;)
Grazie di tutto, davvero, se non fosse stato per te non avrei mai ripreso in mano la storia né la scrittura
<3


Tornare su questi schermi (?) dopo così tanto tempo è un'emozione e un'ansia allo stesso tempo, ma spero che qualcuno apprezzerà tutti gli sforzi che sono stati versati in questa storia da me e in precedenza anche da 
MoonRay (spero che prima o poi passerai di qui anche tu <3)

Come avrete notato questo è un altro capitolo di stallo, anche se mi sono decisa a introdurre nuovamente Pepper, sebbene a distanza. Nulla di nuovo, insomma, a parte un Tony più stabile del solito e un paio di indizi qua e là sulla trama.
Diciamo che il tono di questi capitoli sarà in linea con il titolo di questa seconda parte, Ashes, anche se la situazione si fa più movimentata già dal prossimo.

Chiudo il papiro ringraziando di nuovo infinitamente
_Atlas_, che si è impegnata a recensire tutti i capitoli corretti, e Alexandre94 che ha recensito lo scorso capitolo :)

-Light-

P.S. 
Per chi fosse un vecchio lettore (dubito fortemente) e abbia coraggio da vendere, consiglio di rileggere almeno parte dei capitoli precedenti, in quanto sono stati revisionati in toto con correzioni, aggiunte e modifiche a volte sostanziali. Sssì, Phoenix era invecchiata maluccio e c'era qualche buco di trama, ora corretto.

 




© Marvel

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Capitolo 33
*** It can only get better ***




32

 

 

It can only get better







"Can you tell me a story without any words
Then mold me misshapen from the soaking dirt
Keep feeding me courage that I don't deserve
So I don't feel broken like I have no worth"

[I'll Survive – Seether]





2 Maggio, Villa Stark

Tony Stark era abituato ad avere belle donne in casa e difficilmente si trovava in imbarazzo col gentil sesso. Dopotutto, aveva passato una vita ad affinare il suo charme da Casanova, e in quel momento avrebbe anche avuto un discreto bisogno di una compagnia femminile, anche se preferibilmente non alle sette e mezzo di mattina. Ma quando si affacciò intontito dal sonno in salotto e si ritrovò Nataša Romanov seduta tranquillamente sul divano, senza che neanche JARVIS avesse ritenuto necessario notificare la sua presenza, il suo livello di sconcerto e disagio schizzò improvvisamente alle stelle. Certo, era abituato ad avere donne in casa... ma all'epoca non aveva due arti meccanici e un occhio in meno che attiravano l'attenzione nei punti sbagliati. Ed era meglio dimenticare la sua ultima esperienza in merito.
«Immagino che tu sia la "fisioterapista",» esordì quindi a mo' di saluto, terminando la frase in uno sbadiglio e fermandosi sulla soglia della sua camera per riposare la gamba formicolante.
«Buongiorno anche a te, Stark,» replicò lei senza scomporsi, e alzò appena la testa dal libro che stava leggendo.
«Sì, sì, è proprio una bella giornata. Chi non vorrebbe avere un risveglio del genere...» borbottò lui in risposta, indeciso se lasciare il sostegno sicuro dello stipite e avvicinarsi o se rimanere a debita distanza da quella che era comunque una spia dello SHIELD addestrata a uccidere. «Quando Ian mi ha parlato di una "professionista" non pensavo intendesse te,» commentò poi, trattenendo un altro sbadiglio.
Nataša chiuse il libro con uno schiocco secco e lo poggiò sul tavolino da caffè, trapassandolo coi suoi occhi chiari e gelidi.
«Mi avevano detto che eri molto motivato a intraprendere la riabilitazione,» osservò piattamente, in vago tono di rimprovero.
Tony si passò una mano sul pizzetto e sfuggì il suo sguardo, puntando il proprio sulla vetrata.
«Non mi aspettavo che sentiste ancora il bisogno di tenermi d'occhio. Tutto qui,» precisò, con cenno infastidito del capo.
«Che tu ci creda o no, non è quello il mio compito. Non solo, almeno.»
Tony si lasciò sfuggire un verso di scherno, ma non replicò. Non si era certo aspettato di riconquistare la fiducia di Fury semplicemente facendo il bravo per qualche settimana, ma la sua apparente paranoia nei suoi confronti cominciava davvero a infastidirlo.
«Penso di poter sopportare una spia in casa, se mi aiuta a rimettermi in piedi come si deve.» 
Si staccò appena dal muro e face leva sulle stampelle per mantenersi in equilibrio come gesto esplicativo. 
«Non mi ci vedo molto a indossare l'armatura in queste condizioni. Mi toglierebbe mille punti allo stile.»
Nataša non commentò, ma gli parve di vedere un'ombra di disagio passare sul suo volto. Giusto: ormai era quella l'impressione che faceva alla gente. 
Si decise ad avvicinarsi a balzelloni fino al divano usando la gamba sana come appoggio e si sedette al capo opposto di Nataša per far riposare il moncherino, poggiando le stampelle per terra. Poteva sentire il suo sguardo posarsi di sottecchi su di lui, come un ricercatore che osserva il comportamento anomalo di un animale ferito. Represse il suo fastidio, ripetendosi che era solo un'impressione errata del suo orgoglio già abbastanza malandato. E aveva il coraggio di chiamare Fury paranoico...
Notò anche che di tanto in tanto
fissava il punto dove, un tempo, c'era stato il muro divisorio tra l'atrio e il salone. Non aveva bisogno di spiegarle la sua assenza: aveva probabilmente già letto tutti i rapporti riguardo all'incidente con Hulk e lui non aveva davvero intenzione di rivangare l'episodio.
Si trattenne dal chiederle come stessero gli altri. O cosa ne pensassero di lui. In realtà riusciva a immaginarlo senza fare grandi sforzi di fantasia: Rogers che lo biasimava, Banner che ridiventava verde solo a sentir parlare di lui, Thor disgustato da quello che riteneva probabilmente un atto vile, Clint che riprendeva a disinteressarsi di tutto ciò non riguardasse arco e frecce, Fury che puntava una batteria di missili su Villa Stark "per sicurezza", Coulson che si pentiva del giorno in cui aveva pensato di candidarlo per il progetto e Pepper... frenò il suo flusso di coscienza. Non voleva davvero sapere cosa ne pensasse di lui.
Sollevò lo sguardo su Nataša. Chissà cosa ne pensava lei, piuttosto. Nulla di positivo, a giudicare dalla sua aria decisamente scocciata e dai suoi modi freddi quanto un vento siberiano. D'altra parte, dubitava di averla mai vista con un atteggiamento diverso.
«Quanto rimani?» chiese infine, per rompere il silenzio.
«Questo dipende da te,» ribatté seccamente lei. «Non più del necessario per riportarti in uno stato fisico decente.»
Tony si sdraiò sul divano con la testa sul bracciolo, rivolto nella sua direzione; dovette sollevare manualmente la gamba artificiale rigida e inerte.
«Peccato. Mi mancava un po' di compagnia,» commentò malizioso, sogghignando nel notare lo sguardo inviperito della donna. «A prescindere da quanto rimarrai, è tutto a tua disposizione,» continuò poi, con un ampio gesto ad indicare la villa. «Io passo comunque la maggior parte del tempo in laboratorio e mi nutro d'aria e clorofilla.» 
Fece un sorriso ironico, ma non era poi così lontano dalla verità.
«Farò buon uso della sala cinema, della piscina e dell'impianto stereo, allora,» commentò lei con aria falsamente civettuola. «Anche se non credo che pernotterò spesso qui. Sono comunque un agente operativo con missioni di livello S da svolgere,» sottolineò più seriamente, a riprova del fatto che quella "missione-baby-sitter" era un fuori programma.
«Potrei convincerti, con un po' d'impegno,» insistette Tony, sfoggiando un sorriso dissoluto.
«Stark.»
«Va bene, va bene. Peggio per te,» sbuffò lui, fingendosi offeso e alzando le mani in segno di resa.
Il suo braccio emise un cigolio penetrante che fece socchiudere appena gli occhi a entrambi, e Tony lo riabbassò con cautela, sentendosi di nuovo osservato. Rimasero in silenzio per qualche secondo, poi Nataša si alzò e si avvicinò alla vetrata che dava prima sul terrazzo e poi sull'oceano luccicante. Era una bella giornata di inizio maggio e il sole aveva già riscaldato i vetri, rendendo l'ampio salone meno freddo del solito, illuminandolo di una luce dorata.
«Ti mancherà pure la compagnia, ma di sicuro non ti manca lo spazio,» commentò lei, quasi sovrappensiero.
«Spazio vuoto,» puntualizzò lui a denti stretti.
Si chiese se quella fosse una frecciatina per valutare la sua situazione emotiva; in quel caso non aveva intenzione di dare adito ad altre domande, visto che non sapeva neanche lui quale fosse. Sicuramente in condizioni migliori della sua situazione sessuale, concluse distogliendo a fatica lo sguardo dalle curve di Nataša. Lei ne era probabilmente consapevole, ma continuò a guardare oltre la vetrata evitando gentilmente di piantargli un meritato coltello in testa. Gli faceva strano non vederla in divisa e armata, vestita semplicemente in jeans e t-shirt. Più probabilmente, aveva davvero una decina di pugnali nascosti qua e là.
Si chiese se avesse svolto missioni di recente. Quell'incarico doveva sembrarle una vacanza in confronto a quelli che era abituata a svolgere; anche se, conoscendosi, l'avrebbe probabilmente fatta ricredere su quel punto.
«Toglimi una curiosità,» disse all'improvviso, non riuscendo a trattenersi oltre.
Nataša si voltò verso di lui, in attesa di una domanda che probabilmente si aspettava e che Tony non sapeva come porre. Negli ultimi tempi aveva iniziato a ponderare con più attenzione le proprie parole, ma la cosa gli riusciva ancora difficile, soprattutto per la carenza di interlocutori. E aveva pur sempre passato una vita intera a dare voce a tutto ciò che gli passava per la testa, più o meno senza conseguenze.
«Perché proprio tu?» disse infine, non riuscendo a trovare altro modo per formulare il suo pensiero. «Non fraintendermi, ma...» si affrettò a correggersi, ricordandosi di colpo che non stava parlando con una donna normale, ma con un'ex-assassina biopotenziata del KGB che aveva già tutti i buoni motivi per ridurlo al silenzio.
«Mi sono offerta io,» lo sorprese lei con schiettezza, ignorando il modo abbastanza goffo in cui si era espresso.
Lui rimase interdetto. Qualcosa non gli tornava.
«Quindi Ian ti ha...» si interruppe ancora più confuso, rendendosi conto di un ingranaggio mancante nel suo ragionamento.
«Il dottor Mitchell si è attenuto alla procedura, ovvero passare a noi qualunque questione riguardasse la tua salute e potesse coinvolgere altre persone oltre ai membri approvati dalla SHIELD,» sciorinò tranquillamente lei.
Tony reclinò la testa sul bracciolo del divano e incrociò le braccia, limitandosi a guardarla mentre assorbiva l'informazione.
Davvero ci era arrivato solo adesso?
«Non mi dire che non te lo eri immaginato.» 
La voce di Nataša era sinceramente stupita. Lui alzò le spalle sentendosi ottuso, una sensazione che ultimamente si trovava a provare un po' troppo spesso.
«Ho avuto altro a cui pensare,» tagliò corto. «Adesso mi sembra ovvio.» aggiunse, con un sospiro seccato.
Si ravviò i capelli, meditando su quell'informazione.
«Immagino che anche K sia stato "approvato" dall'eminenza grigia, prima di essere assunto,» commentò con improvvisa consapevolezza.
Nataša si limitò ad annuire e Tony si accigliò di nuovo.
«Pensavo che il Doc volesse tenere le distanze da voi.»
«L'ha fatto nei limiti del possibile. Abbiamo contattato il dottor Mitchell non appena hai messo piede in ospedale e da quel momento l'abbiamo monitorato e abbiamo vagliato tutte le sue proposte, incluso il signor Andrews. Era una situazione delicata: non potevamo permettere che persone inaffidabili venissero coinvolte negli affari dei Vendicatori o si avvicinassero a te e alle tue tecnologie,» spiegò con un'ovvia scrollata di spalle. «Assieme alla signorina Potts abbiamo anche fatto in modo che le tue industrie non piombassero nel caos o sfuggissero al tuo controllo – cosa che stiamo facendo anche ora. Magari saremmo anche riusciti a tenere segreta la tua identità, se non avessi voluto dare spettacolo al processo.»
Tony rifletté su quelle parole, rendendosi conto di quanto lavoro fosse stato portato avanti alle sue spalle mentre era impegnato a... a fare cosa?
Autodistruggersi?
Si passò una mano sul volto e rimase pensoso per qualche istante. Si accorse che la cosa non lo infastidiva più di tanto. Forse qualche mese prima avrebbe dato in escandescenze per essere stato spiato tramite persone che riteneva fidate a lui soltanto, ma adesso riusciva a provare solo una vaga ammirazione per la lungimiranza di Fury. Certo, gliel'avrebbe rinfacciato a vita, ma avrebbe potuto fare di peggio, dati i precedenti. Per esempio rinchiuderlo sull'Helicarrier nella gabbia a prova di Hulk.
Con Hulk.
Scosse la testa e infine gli sfuggì una risatina.
«Va bene, sono un idiota,»
ammise rassegnato ma allo stesso tempo divertito prima di riprendere a fissare Nataša, sorpresa dalla sua reazione bonaria.
Si stupì lui stesso della disinvoltura con cui riusciva a parlare con lei, poco più che una perfetta sconosciuta. Non era mai stato in alcun modo un tipo riservato, ma dal suo incidente aveva preso a relazionarsi in modo teso con chi lo circondava o, al contrario, con finta ed eccessiva giovialità. Anche con Pepper non era riuscito a mantenere quel rapporto spontaneo che amava. Il pensiero lo intristì, ma non lo diede a vedere e si costrinse a tornare al presente.
Con Nataša aveva sempre adottato un atteggiamento giocoso che lei ricambiava con circospezione; era ben diverso dalle frecciatine che si scambiava con Cap e dall'umorismo pacato che usava con Banner. C'era un'intesa diversa tra loro ed erano un buon team durante le missioni; nonostante sul campo si trovassero spesso in contrasto e non amassero il lavoro di squadra, lei riusciva a tenergli testa senza troppi problemi e senza la spocchia altezzosa di "Capitan Giustizia", e di rimando lui la rispettava in quanto agente in gamba ed estremamente più competente di lui nell'ambito del loro operato.
Adesso era contento che fosse lì, in modo imposto o meno.
Il senso di solitudine si era fatto più intenso dopo il processo e la calma che l'aveva seguito, e in quella settimana Kyle l'aveva chiamato solo una volta; Mitchell aveva rimandato la visita per un "impegno di lavoro" improvviso – adesso capiva quale: probabilmente era stato costretto a farsi un giro sull'Helicarrier per una riunione logistica. Il fatto che sprecassero risorse per seguirlo lo faceva ben sperare: Fury doveva aver capito che rinunciare al suo potenziale e ai suoi contributi poteva rivelarsi deleterio.
«Quindi ti sei offerta volontaria perché sei molto buona o è un modo carino per dire che avete tirato a sorte?» continuò Tony, con lo stesso tono tranquillo e un mezzo sorriso.
«Nessuna delle due cose, in realtà,» rispose infine Nataša, come sempre in modo indecifrabile. «Diciamo che non ero la persona più qualificata ad assumere l'incarico, ma ero l'unica disposta a farlo. E Fury ha insistito per mantenere la cosa il più circoscritta e controllata possibile, senza coinvolgere altri membri esterni allo SHIELD.»
"Dopotutto
è paranoico..."
«Se riprendessi ad organizzare feste con un minimo di duecento invitati gli prenderebbe un colpo, allora,» scherzò senza pensare.
Lei dovette notare l'uso del "se" e non del "quando", ma non commentò, e anche lui evitò di correggersi.
«Quindi... oltre ad essere una spia internazionale sei anche una personal trainer?» continuò in fretta, rendendosi conto del modo penetrante in cui l'aveva fissato Nataša.
«Non proprio. Diciamo che ho una certa familiarità con la ginnastica e la riabilitazione. Ma teoricamente il motivo è top-secret.»
«Teoricamente,» puntualizzò Tony, non nascondendo la sua curiosità.
Nataša sospirò e sembrò agitarsi, come se volesse chiudere lì la questione, poi replicò con un rapido sorrisetto:
«Dovrai guadagnarti queste informazioni. Prendilo come un motivo per impegnarti.»
«Pensavo che voler riprendere a camminare e vivere normalmente fosse una motivazione sufficiente.»
«
Melius est abundare quam deficere.» enunciò lei, lasciandolo inebetito per qualche istante.
«JARVIS?» capitolò infine, sotto lo sguardo sornione della donna.
«La signorina Romanov le fa notare che, vista la sua scarsa costanza, sarà meglio per lei avere più di un incentivo per dedicarsi interamente alla riabilitazione,» rispose monocorde il maggiordomo.
«Non sono sicuro che abbia detto
proprio questo.» 
Tony si tirò il pizzetto meditabondo, trovando conferma dei suoi sospetti nell'espressione divertita di Nataša; si chiese da quanto l'intelligenza artificiale avesse riattivato in modo autonomo il chip dell'umorismo. Scacciò i suoi improvvisi sospetti riguardo a un'imminente ribellione delle macchine e si decise a riprendere le stampelle, alzandosi con sforzo dal divano. Nataša non si avvicinò per aiutarlo e lui apprezzò la cosa: nonostante l'ovvia difficoltà che incontrava e la sua lentezza, era in grado di spostarsi in modo più o meno autosufficiente per qualche metro.
«L'unica cosa che so in latino è "
tempus fugit". Uno dei mille motti di mio padre,» aggiunse un po' acidamente mentre attraversava l'atrio. «Per una volta sono d'accordo con lui,» concluse, chiamando l'ascensore per scendere in palestra.


***


La sala era buia e c'era odore di chiuso. L'unica fonte di luce erano le finestre sulla parete di fondo, poste in alto e al livello del terreno. JARVIS attivò subito i neon, che sfarfallarono per qualche secondo prima di stabilizzarsi, rivelando la palestra privata di Villa Stark. Non era enorme come sembrava a prima vista, ma ospitava tutto il necessario per tenersi in forma, nonostante anche normalmente Tony usasse di rado gli attrezzi. Oltre alle panche, ai bilancieri e a un tapis roulant, al centro della stanza troneggiava un ring circondato da sacchi da boxe e manichini. Nonostante fossero passati diversi mesi dall'ultima volta che era entrato lì dentro, tutto era piuttosto pulito: il sistema di pulizie della villa aveva funzionato a dovere.
Nataša si guardò intorno con aria interessata.
«Direi che abbiamo tutto ciò che ci serve,» commentò soddisfatta, puntando le mani sui fianchi.
«Iniziamo subito?»
Tony non voleva sembrare impaziente, ma effettivamente non vedeva l'ora di mettersi all'opera. Quei mesi di inattività forzata iniziavano a farsi sentire: l'aveva già visto nei vari collaudi delle protesi, soprattutto quella inferiore. Era anche piacevole staccare per un po' dal lavoro mentale per dedicarsi a quello fisico; e poi spesso gli era capitato di avere intuizioni brillanti proprio quando era distrutto dalla fatica di una missione o di un allenamento. Era da un po' che sperava in un'illuminazione che gli permettesse di migliorare ulteriormente le protesi, che da qualche settimana languivano nel medesimo stato. Anche per quello si era convinto che intraprendere la fisioterapia fosse lo step successivo più ovvio e naturale.
«Non vedo perché aspettare,» concordò Nataša, dopo un istante di riflessione. «Vai a cambiarti,» gli intimò poi, accennando in modo eloquente alla t-shirt XL rosso-oro e ai bermuda che usava come pigiama. «Io do un'occhiata in giro,» disse, puntando con decisione una cesta con degli attrezzi ginnici nell'angolo.
Tony non se lo fece ripetere e zoppicò fino al piccolo spogliatoio adiacente alla palestra. Si appoggiò al suo armadietto per alleviare il peso sulla protesi e lo sbloccò con l'impronta del pollice, sperando che dentro fosse rimasto almeno un cambio pulito. Recuperò con successo un paio di pantaloncini e una canotta, gettandoli sulla panca lì accanto; stava per richiudere lo sportello quando notò altri vestiti appallottolati sul fondo. Li ripescò con l'intenzione di metterli a lavare, ma il suo gesto si congelò quando si accorse che era una delle tute aderenti che indossava sotto l'armatura.
Non ricordava neanche perché fosse lì dentro. Forse era tornato da una missione con ancora abbastanza energia per tirare qualche pugno al sacco. Magari voleva tenerne una a portata di mano in caso d'emergenza. Davvero non riusciva a ricordare. La sua stretta sul tessuto sintetico aumentò brevemente, poi la allentò di colpo e lasciò ricadere la tuta sul fondo. Chiuse l'armadietto con più forza del dovuto, poggiandovi poi contro la fronte.
Aveva perso e stava perdendo così tanto tempo...
Si sedette sulla panca sentendosi improvvisamente la testa pesante.
Tra le tante preoccupazioni che cercava di gestire, Iron Man si era sorprendentemente rivelata la più semplice da ignorare. Si era convinto a intraprendere la strada verso il suo ritorno un passo alla volta – aveva sperimentato cosa volesse dire accelerare i tempi e non sarebbe riaduto nello stesso errore – ma a volte la consapevolezza della sua assenza come supereroe lo frastornava e avrebbe voluto tutto, subito. Le sue evidenti limitazioni continuavano ad assillarlo e anche se riusciva a controllare la frustrazione molto meglio di prima ciò non gli rendeva più facile accettarle. Spesso gli rimbombavano in testa le parole di Rogers: "non ci serve un mezzo supereroe, tantomeno un mezzo uomo". Con la riabilitazione avrebbe scoperto finalmente cosa significasse di preciso quell'espressione.
Una morsa gli strinse il petto, familiare, e lottò per dissiparla. Si fissò le mani, coi palmi rivolti verso l'alto. Una rosea e piena, segnata da calletti, cicatrici sottili e scottature, l'altra grigia e leggermente asimmetrica, lucida sotto la luce del neon. Percepiva distintamente il dolore costante ai moncherini e al volto, memento costante delle proprie mancanze.
Prese un respiro profondo.
Ricacciò indietro quella massa scura che intravedeva dentro di sé, la soppresse sul nascere. La sua mano sinistra era scossa da un leggero fremito, la destra era immobile, fredda. Strinse con forza i pugni; la protesi eseguì con qualche istante di ritardo, più goffa e pesante, ma si mosse ed obbedì con un sibilo di giunture meccaniche.
Lasciò andare il fiato e percepì il petto rilassarsi.
Aprì e chiuse di nuovo i pugni con più convinzione, sentendo il proprio respiro che si calmava. Adesso era davvero tutto nelle sue mani.
"Da qui, può solo migliorare."


***


«Ci hai messo un po',» commentò Nataša, vedendo Tony che zoppicava verso di lei poggiandosi pesantemente sulle stampelle.
Lui sfoggiò un sorrisetto poco convincente, contornato da pieghe rigide.
«Volevo presentarmi al meglio per non sfigurare,» la blandì, e per un'attimo l'ombra del miliardario playboy si riaffacciò sul suo volto, prima di abbandonarsi poco aggraziatamente sulla panca di un bilanciere.
Adesso le protesi erano del tutto scoperte e Nataša si rese conto di quanto sembrassero massicce in confronto al resto del corpo dimagrito. Il braccio sembrava in uno stadio di progettazione più avanzata: era del tutto ricoperto da una placcatura antracite e solo una sezione dell'avambraccio lasciava intravedere i circuiti e i componenti sottostanti, probabilmente per permettergli di ricalibrarlo sul posto al bisogno. La mano era un po' tozza e rigida nei movimenti ma abbastanza funzionale da permettergli di imbracciare la stampella con fermezza. Forse troppa, a giudicare dall'impugnatura deformata e placcata in metallo per renderla più resistente. La gamba invece era poco più di una struttura metallica rudimentale, con fasci di cavi scoperti e giunture in vista. L'unica parte che sembrava prossima al perfezionamento era il piede, la cui articolazione sembrava decisamente più curata rispetto a quella del ginocchio, poco più di una sfera mobile piazzata a far da collegamento tra coscia e polpaccio.
Nataša aveva notato che anche quando "camminava" con l'aiuto delle stampelle la protesi inferiore rimaneva rigida, come se avesse una gamba ingessata più d'ostacolo che d'aiuto. Il braccio doveva aver subito un collaudo più lungo e aveva movimenti goffi ma più naturali. Sicuramente rompere ripetutamente le protesi a causa della miccia corta del loro ideatore non aveva giovato al loro sviluppo.
Era evidente che gli facessero entrambe molto male, ma era anche impressionante che riuscisse a spostarsi così speditamente dopo poco più di quattro mesi dall'incidente senza un aiuto esterno. Certo a questo contribuivano molto il suo orgoglio e la sua testardaggine, che però si erano attenuati dall'ultima volta che l'aveva visto. Sembrava aver smorzato anche il suo solito sarcasmo. Clint le aveva accennato un presunto "cambiamento" di Tony, ma non l'aveva preso troppo sul serio, nonostante il suo compagno si sbagliasse raramente a inquadrare qualcuno. Sicuramente il nuovo atteggiamento di Stark era ancora in fase di collaudo, visto il repentino cambio d'umore.
Ed era certa che ciò che aveva in mente di fargli fare non l'avrebbe rallegrato.
«Allora? Da dove cominciamo? Flessioni? Addominali? Devo rimettere in sesto anche loro...» commentò Tony, sollevando appena la maglietta per farle constatare la ritirata dei muscoli e l'insolita magrezza.
Oltre il suo tono scherzoso era chiaro che non avesse perso la sua determinazione.
"O la va, o la spacca," pensò lei, rassegnata.
«Prima di tutto, togliti le protesi.»
Tony la fissò stolidamente, preso in contropiede, ma Nataša non mosse un muscolo e continuò a fissarlo in paziente attesa. A quel punto l'espressione di Tony si fece infastidita. Lei non si scompose: se l'era aspettato. Le cose partivano male fin da subito.
«È proprio per muovere queste,» Tony si sforzò in modo encomiabile di mantenere la calma e accennò in particolare alla gamba, «che ho deciso di fare fisioterapia.»
L'unica reazione di Nataša fu un fugace movimento degli occhi verso l'alto, al che il volto di Tony divenne livido. Fece per tornare alla carica, ma la donna lo anticipò:
«Cominciare con quelle addosso sarebbe inutile,» disse piattamente. «È il tuo corpo ad avere bisogno di esercizio. A muovere le protesi penseremo dopo, quando avrai recuperato un po' di tono muscolare.»
Lui esitò. Sembrava turbato dall'aver considerato le protesi parte integrante del suo corpo. Nataša lo osservò senza mettergli fretta. La questione stava filando anche troppo liscia: si era aspettata come minimo un accesso di rabbia.
Dopotutto aveva davanti il genio che aveva attaccato briga con Capitan America e Hulk. Tony le scoccò un'ultima occhiata risentita, poi si chinò a rimuovere la gamba, sbloccando le sicure e tirando con cautela. Fece una smorfia quando il metallo si staccò dai contatti con un rumore di sottovuoto aperto. Poggiò delicatamente la protesi accanto a sé e fece cenno a Nataša di avvicinarsi.
«Reggi il braccio,» bofonchiò senza guardarla, cercando a tentoni le sicure sulla clavicola e dietro la spalla con la sinistra, premendole con un po' di difficoltà con pollice e medio.
Un altro schiocco, e il braccio ricadde inerte tra le mani della donna, che lo posò con accortezza accanto alla gamba percependone il notevole peso. Tony ruotò un paio di volte la spalla destra adesso stranamente leggera e iniziò a percepire un vago formicolio al moncherino inferiore, sospeso nel vuoto. Si mise di traverso sulla panca per appoggiarlo, attendendo nel frattempo istruzioni da Nataša, che sembrava meditabonda, ma che forse gli stava solo dando tempo per abituarsi alla situazione anomala.
Non si toglieva le protesi da... da quel giorno, in effetti. Un forte vuoto al petto seguì quella realizzazione. Per scacciare il pensiero si chinò a sistemare un paio di cavi sporgenti dalla piastra d'aggancio inferiore. All'improvviso qualcosa lo pungolò dolorosamente in mezzo alle scapole, facendogli raddrizzare di scatto le spalle incurvate. Si voltò di scatto verso Nataša, fulminandola, e lei ricambiò con aria sfacciata senza togliere il dito dalla sua schiena e, anzi, opponendo resistenza per mantenerlo in posizione.
«Cominciamo dalla postura,» disse semplicemente, liberandolo infine dalla pressione.
Tony sbuffò, ma si impegnò a tenere diritta la schiena, cosa decisamente meno stancante senza il peso del braccio meccanico. Non si era neanche accorto di essere così incurvato, e percepì il petto farsi più ampio grazie a quel piccolo cambiamento. Guardò di sottecchi le protesi accanto a lui e Nataša se ne accorse, sfoggiando un sorrisetto.
«Uno a zero per te,» concesse Tony, controvoglia. «Spero che la sessione di oggi non si riduca a questo.»
Il sorriso di Nataša si allargò nel porgergli un oggetto che aveva accuratamente tenuto nascosto dietro la schiena fino a quel momento. Lui si ritrasse d'istinto.
«No, mettila lì, odio che mi si porgano le cose,» protestò, indicando la panca e fissando con malcelato sconcerto la pallina di gomma blu dinanzi a lui.
«Seriamente?» sospirò lei, ma eseguì comunque la sua richiesta.
Tony prese la pallina con la cautela che avrebbe riservato a delle scorie radioattive e la tenne sollevata tra due dita, fissandola con evidente scetticismo.
«Spero sia uno scherzo,» commentò «Mi hai fatto togliere le protesi per giocare con una pallina?»
A questo punto Nataša si accigliò e il suo viso assunse delle ombre spigolose.
«Ti aspettavi di boxare sul ring alla prima sessione di fisioterapia?» chiese pungente, scrutandolo significativamente da capo a piedi.
«Qualche flessione mi sarebbe andata benissimo,» rispose lui tra i denti, ma allo stesso tempo lo sguardo gli cadde sul suo braccio sano e si incupì.
Di nuovo, la consapevolezza di quanto fosse diventato fragile lo colpì nel vedere quanta tonicità avesse perso. Fletté appena il bicipite e la differenza che percepì fu minima, quasi ridicola. Strinse una volta la pallina nel palmo, trovandola più resistente del previsto, e già avvertì un fastidio all'avambraccio. Guardò di nuovo la donna che continuava a fissarlo inespressiva, ma con una certa sicurezza che gli fece capire quanto fossero prevedibili le sue reazioni.
Sospirò e fissò quella stupida pallina blu in silenzio, in attesa.
«Fanne tre serie da trenta,» gli intimò Nataša, capendo che non avrebbe più opposto resistenza. «E dopo prova ad usare questo,» e gli poggiò accanto un manubrio a molla per allenare la mano. «Poi passeremo alla gamba,» concluse.
«E tu?» le chiese, inarcando un sopracciglio inquisitore.
«Io me ne starò qui a controllare che tu non batta la fiacca e a farmi i fatti miei,» cinguettò lei in tono falsamente amabile.
Si sedette sulla panca di fronte alla sua sulla quale era poggiato il libriccino nero di poco prima, che riprese a leggere intentamente. Tony compresse la pallina tre volte, contando a mente, ma fu subito interrotto dalla voce di Nataša:
«Stringila a fondo. E tieni dritta quella schiena,» aggiunse minacciosa, scoccandogli un'occhiata da sopra le pagine.
Tony si affrettò ad eseguire alzando l'occhio al cielo, col braccio già indolenzito. Sarebbe stata una lunga prima sessione.


***


2 Maggio, 21:45, Villa Stark

«... la Casa Bianca non si esprime. La Guardia Nazionale ha sospeso lo stato di emergenza in Nuovo Messico e smentisce l'ipotesi di una possibile minaccia agli Stati Uniti. La situazione sembra essere tornata alla normalità e...»
«JARVIS, almeno quando mangio vorrei non dover pensare alla sicurezza mondiale,» sospirò Tony, masticando con poco gusto il suo riso condito alla meglio con un po' di salsa di soia.
Il televisore della cucina si sintonizzò su un canale di documentari naturalistici, mostrando una veduta aerea di una foresta tropicale accompagnata da una voce narrante vagamente melodrammatica.
«Ecco, questo è più rilassante. Muto,» ordinò subito dopo, deglutendo a fatica l'ultimo boccone con un sorso di clorofilla.
Si sentiva più che sazio e in realtà avrebbe volentieri saltato la cena, ma quando Nataša aveva realizzato che "nutrirsi d'aria e clorofilla" non era una metafora gli aveva intimato di mangiare qualcosa che fosse vero cibo, se non voleva stramazzare a terra al secondo giorno di riabilitazione.
Quella prima sessione non era stata particolarmente faticosa, ma iniziava ad accusare i muscoli degli arti sani e degli addominali in fiamme. E la prospettiva era un'intera settimana di esercizi di allungamento e rinforzo. Sbuffò al solo pensiero, ma d'altronde cosa ne capiva, lui, di riabilitazione? Nataša invece, da quel poco che era riuscito a evincere dalle sue risposte sibilline, sembrava avere dimestichezza con esercizi ginnici di vario genere, particolarmente utili per la sua schiena decisamente squilibrata dalle protesi. Non si spiegava il nesso tra la ginnastica e il KGB, ma si era ripromesso di indagare – anche per conto suo, se necessario.
Fece per prendere il cellulare dalla tasca con la destra e si rese conto di non percepire il movimento del braccio. Una spiacevole sensazione di
deja-vù lo colpì, facendolo sudare freddo per qualche istante, prima di ricordarsi di non avere la protesi attaccata al corpo. Aveva deciso in modo autonomo di limitare in generale l'utilizzo del braccio finché non l'avesse alleggerito: a detta di Nataša, a lungo andare gli avrebbe deformato in modo permanente la schiena col suo peso, e lui non aveva alcuna intenzione di diventare Quasimodo, visto che esteticamente era già sulla buona strada. Ciononostante, svolgeva alcune azioni con la destra d'istinto, e ogni volta riviveva quegli attimi terrificanti in ospedale, quando aveva realizzato di aver perso il braccio. Insieme a tutto il resto.
Prese il cellulare con la sinistra, col cuore che ancora batteva più concitato del normale per lo spavento, e constatò di non avere messaggi né chiamate. A ricambiare il suo sguardo c'era solo il sobrio logo delle Stark Industries che aveva come sfondo, in sostituzione di quello di Iron Man che aveva abbandonato da mesi. Meditò se chiamare Kyle, ma era già piuttosto tardi, e poi avrebbe sicuramente portato il discorso sul processo... o sull'altra valanga di problemi. Non si sentiva in vena di affrontare argomenti impegnativi. Nataša era uscita un paio d'ore prima, probabilmente per qualche incarico dello SHIELD, e dubitava che sarebbe tornata prima della sessione dell'indomani. In generale sembrava volersi trattenere a Villa Stark lo stretto indispensabile per tenerlo d'occhio.
Il suo sguardo tornò allo schermo del televisore, stavolta occupato da una distesa arida e sabbiosa mossa dalle dune. Spense turbato il dispositivo.
Privo di altre occupazioni, si decise ad assolvere il compito più fastidioso della giornata e tirò fuori dalla tasca il rilevatore di tossicità. Dopo qualche secondo e un pizzico al dito, un tranquillizzante 14% lampeggiò sullo schermo. Scostò il colletto della maglia per osservare l'area attorno al reattore, ma non riscontrò alcun cambiamento. Le venature plumbee erano ancora lì, sottili e diafane, né più né meno di prima. Diede un colpetto al reattore arc, quasi una pacca d'incoraggiamento, prima di riporre in tasca il rilevatore. Rimase seduto al tavolo ancora per qualche istante, prima di imbracciare la stampella e alzarsi cautamente. Era sempre difficile mantenere l'equilibrio senza l'aiuto della protesi anteriore, ma riuscì ad arrivare più o meno integro alla sua camera, dove si lasciò sprofondare sul letto sentendosi improvvisamente esausto.
Rimase però a fissare la sveglia sul comodino, osservando i secondi che lampeggiavano nel buio trasformandosi in minuti. Aveva già capito che sarebbe stata un'altra notte insonne. Non capiva da dove provenisse quella sua angoscia sommersa. Era stata una giornata positiva, no? Aveva finalmente iniziato la riabilitazione. Magari passare il tempo a stringere palline e tendere elastici non era esattamente entusiasmante, ma necessario.
Era un passo avanti.
Di nuovo lo artigliò quella sensazione di impotenza, di lentezza inevitabile. La ignorò. Non poteva accelerare ancora: quello era il massimo che gli era concesso.

Serrò i denti. Sapeva che quei pensieri erano sbagliati e tossici: perché non riusciva a scacciarli? C'era una parte di lui che avrebbe voluto mettersi l'armatura e decollare così com'era ridotto per vedere cosa sarebbe successo.
Magari avrebbe funzionato. Poteva essere la soluzione che cercava: usare
subito Iron Man.
Sentì un vuoto allo stomaco al pensiero, come quello che provava quando spiccava il volo, e il suo cuore accelerò i battiti. I pensieri aumentarono d'intensità nella sua testa, sembrando insensatamente convincenti ad ogni secondo che si lasciava inebriare da quella prospettiva. Perché non avrebbe dovuto funzionare? Non poteva esserne sicuro se non ci provava.
Se avesse indossato l'armatura per volare
adesso...
"Ti schianti. Ecco cosa succede." 
La realizzazione s'infranse nella sua mente assieme ad Iron Man, annientando quelle riflessioni pericolose.
Si girò sul fianco sano per smettere di fissare la sveglia, tirandosi il lenzuolo sopra la testa.



***


4 Maggio, Villa Stark

«Oh, sono sicurissimo che al corso per aspiranti spie vi facessero fare roba del genere!» esclamò Tony tra i denti, mentre stava a gambe – si fa per dire – incrociate con il braccio teso verso l'alto, sentendosi un idiota.
«Era molto peggio, credimi. Adesso tendi il braccio verso l'esterno.» 
Nataša girò una pagina del suo libro. 
«E ringrazia di non dover fare esercizi sulle punte,» aggiunse, divertita.
Tony rimase a fissarla, sconcertato.
«Sulle punte? Ma che razza di...»
«Finisci la serie in silenzio e forse ne saprai di più,» lo stuzzicò lei.
«Di sicuro non ti hanno insegnato ad essere convincente,» ribatté lui sotto sforzo, cercando comunque senza troppo successo di allungare ulteriormente il braccio.
«Facciamo
due serie, allora.»
Tony imprecò tra i denti.


***


10 Maggio, Villa Stark

Il clangore della protesi che atterrava malamente a terra risuonò nella palestra insieme all'esclamazione soffocata di Tony. Si tirò su a sedere, un po' frastornato e decisamente dolorante.
«Direi che per oggi è sufficiente,» osservò Nataša facendo per avvicinarsi, ma Tony rifiutò il suo aiuto con un gesto brusco, issandosi da solo su una panca a forza di braccia.
«Ci riprovo,» ribatté caparbio, sfidandola a contraddirlo, cosa che lei fece puntualmente:
«Così ti riempirai solo di lividi, ti servono altri esercizi di coordinazione e rinforzo.»
«Altri?» ripeté lui, scettico. «Non ho fatto altro nell'ultima settimana, ma non mi sembra che ci siano stati miglioramenti!»
«Appunto. Per questo non mi sembrava una grande idea provare a camminare
adesso,» lo rimproverò Nataša, fissandolo con distacco.
Tony sostenne il suo sguardo.
«Prima o poi dovevo provarci.»
«Benissimo, ci hai provato. Ora torniamo alla nostra tabella di marcia con qualche acciacco in più.»
Tony le scoccò un'occhiata risentita. Nataša era stata estremamente severa e a tratti impietosa nel corso della riabilitazione, ma la cosa non lo aveva infastidito. Anzi, era quasi contento di non essere trattato come se fosse fatto di cristallo, nonostante l'avesse maledetta più volte quando lo obbligava a rimanere in posizioni sfiancanti o dolorose. Adesso però sentì un moto di rabbia nei suoi confronti : stava liquidando la questione con troppa superficialità. Aveva provato a camminare più volte e aveva fallito, ma se l'aspettava.
Per questo doveva riprovarci e riprovarci ancora.
Avrebbe voluto opporsi alla sua indifferenza, ma si costrinse a non reagire: non aveva senso inimicarsela.
Ci avrebbe riprovato; da solo, se necessario. Attese direttive, che non tardarono ad arrivare:
«Ruota la mano destra in una direzione e il piede destro in quella opposta.»
Le sue protesi fremettero a lungo, come impazzite di fronte a quell'ordine, finché non iniziarono a muoversi a scatti, totalmente scoordinate. Imprecò: ormai aveva perso la concentrazione.
«Ma se non riesco a farlo neanche con con gli arti buoni!» proruppe infine, frustrato.
«Ci hai provato per mezzo secondo.» 
La voce di Nataša vibrò di una nota fredda di fronte al suo atteggiamento indisponente.
«Beh, "direi che per oggi è sufficiente", no?» la scimmiottò stizzito.
Vide un lampo di rabbia passare negli occhi della donna e fu sicuro che stesse ponderando se minacciarlo o atterrarlo.
«Sono d'accordo,» rispose infine impassibile, prima di voltargli le spalle diretta all'uscita.
Probabilmente si era trattenuta dal picchiarlo solo per le sue condizioni già precarie. Tony si passò una mano tra i capelli, maledicendo la propria impulsività. Ne era passato di tempo, da quando aveva discusso con qualcuno... il ricordo gli lasciò l'amaro in bocca.
«Romanov, possiamo parlarne?» la trattenne in tono stanco, prima che varcasse la soglia.
La donna si fermò, squadrandolo guardinga. Lui sospirò.
«Lo so, ti aspettavi che tenessi il broncio fino a domani o che facessi una scenata, ma non ho tutto questo tempo da perdere. Quindi risolviamo la questione e torniamo al lavoro.»
Nataša sembrò fortemente indecisa tra ignorarlo e scagliargli un bilanciere addosso. Infine allargò le braccia, come a dire che non aveva molta altra scelta, e tornò sui suoi passi.
«Se è solo per chiedermi scusa, Stark, puoi risparmiarti...»
«Non è per chiederti scusa,» la interruppe, per poi rettificare all'istante, «Non che non voglia...» 
La sua occhiata lo convinse a tacere e lasciar cadere la questione. 
«Apprezzo quello che stai facendo, davvero, ma...»
quanto poteva essere ingrato? gli balenò in testa, «... mi sembra inutile.»
Nataša alzò entrambe le sopracciglia e perse una nota di colore in volto, ma lo lasciò continuare.
«Mi ero convinto che il problema fosse il mio corpo, ma adesso sto bene. O almeno, sto
molto meglio di prima,» cominciò, cercando di farle capire che era sincero.
In quel breve periodo aveva davvero ripreso un po' di tonicità e gli sembrava di essere meno affaticato e più resistente. Non era ancora lontanamente abbastanza, ma era un inizio.
«Il problema sono
queste,» sollevò il braccio prostetico, in un gesto quasi stizzito.
«Ci stiamo lavorando adesso,» osservò lei, di nuovo pacata.
«È inutile lavorare con qualcosa di incompleto. Fidati del comparto tecnico,» soggiunse, a bassa voce.
Nataša scosse la testa, guardandosi attorno come a cercare una risposta adatta a quell'osservazione.
«Con tutti gli esercizi che hai svolto, ormai dovresti essere in grado di muoverle meglio di così,» ammise infine.
«Ci ero arrivato anch'io.»
Lei rimase in silenzio per un po' dandogli modo di riflettere, cosa che lui apprezzò molto. Non sembrava essersela presa per il suo scoppio di poco prima. Anche lui si sentiva di nuovo in controllo di se stesso, ma ciò non lo tranquillizzava. Stava di nuovo perdendo tempo, tempo che sentiva di non avere e che rubava a chi ne aveva bisogno. Quante persone avrebbe potuto salvare fino a quel momento?
Di nuovo, riemerse quella morsa fredda che gli chiudeva il respiro. Si irrigidì senza volerlo e si costrinse a rilassare uno ad uno i muscoli contratti.
«Ho trascurato troppo le protesi,» rifletté poi ad alta voce. «Non ci sono stati progressi. Quindi non potrò farne neanch'io,» concluse a malincuore.
Era inutile cercare di negare il fatto che a quel punto dipendeva completamente dalle sue creazioni, anche se era una consapevolezza che iniziava a trovare disturbante.
«Vuoi tornare a dedicarti alla progettazione,» dedusse Nataša.
Tony annuì, pensoso.
«È l'unica cosa che posso fare,» mormorò, rendendosi conto che la prospettiva non lo attirava affatto.
Non aveva avuto alcuna "illuminazione", al contrario di quanto aveva sperato. Erano giorni che nelle pause della fisioterapia sedeva in laboratorio a fissare i progetti delle protesi, senza riuscire ad aggiungere né modificare nulla. Era come se non riuscisse più a capirle. Quando riusciva effettivamente a buttare giù qualche formula o ad effettuare qualche miglioria, si trovava a cancellarla o annullarla dopo pochi minuti, insoddisfatto. Per come le vedeva in quel momento le protesi gli sembravano complete, ma
sapeva che non era così. I suoi scarsi risultati nella fisioterapia ne erano la prova. Non era in grado di andare avanti, né mentalmente né fisicamente. Si sentiva arenato, o meglio in un mare in bonaccia senza alcun solido appiglio e l'idea di tornare a un periodo di stallo lo terrorizzava. Non si sentiva ancora abbastanza stabile per uscirne indenne.
Nataša lo osservò perdersi nelle sue riflessioni, notando quanto sembrasse stanco. Si era tenuta piuttosto in disparte nel corso della "questione Iron Man", pronunciandosi persino a suo sfavore riguardo alla sua permanenza nei Vendicatori, ma in fondo le dispiaceva per la piega che avevano preso le cose, e si era rallegrata nel sapere che sembrava aver ripreso le redini dei propri problemi. Quando le avevano detto del tentato suicidio era rimasta sinceramente scioccata: da un tipo come Stark, che ostentava un amor proprio e un narcisismo da manuale, non se lo sarebbe mai aspettato.
Si chiese quante facciate possedesse ancora quell'uomo, e quante volte ancora dovessero cadere prima che si decidesse a rinunciarvi. Di facciate, lei, ne sapeva qualcosa. E sapeva anche quanto fosse doloroso vederle infrangersi dinanzi ai propri occhi. Per questo trovava sorprendente vederlo in condizioni tutto sommato così buone, anche se era evidente che ormai era quasi l'ombra di se stesso. La facciata che indossava in quel momento sembrava molto più labile di quella che ricordava, come se la stesse ancora costruendo e testando, alla stregua delle sue invenzioni.
Nataša si trovò a chiedersi se, con qualcun altro al suo fianco al posto di una semplice conoscente e collega, sarebbe riuscito ad abbandonare quella farsa e riprendersi con più convinzione. Quando tornava sull'Helicarrier le capitava di incontrare Pepper, trovandola decisamente più cupa del solito. Sembrava piuttosto disinteressata alla sorte di Stark – e non poteva biasimarla – ma un paio di volte le era capitato di menzionarlo, per poi chiudere in fretta il discorso, lasciando intendere che il suo era un disinteresse piuttosto forzato. Magari con lei al suo fianco i suoi progressi sarebbero stati più rapidi. 
O forse sarebbe solo peggiorato ancor di più, chissà. Prima dell'incidente, l'imprevedibilità di Stark era così proverbiale da risultare paradossalmente più gestibile. Adesso era impossibile dire anche cosa avrebbe fatto da un'ora all'altra.
«Forse hai solo bisogno di una pausa,» si decise a suggerirgli, poco convinta.
Tony sobbalzò appena dopo quel lungo silenzio, poi scoppiò in una risatina derisoria.
«No, non se ne parla. Conoscendomi riuscirei solo a peggiorare le cose.» 
Si passò una mano sul volto, attento a non toccare lo sfregio sull'occhio e coprendosi quello sano. Rimase così per qualche secondo, come a raccogliere il coraggio per parlare.
«Dammi una settimana di progettazione e collaudo,» riuscì a dire, a voce bassa. «Ho bisogno di stare per conto mio e lavorare solo sulle protesi a pieno ritmo.»
«Interrompere la fisioterapia...» cominciò Nataša, ma lui la anticipò subito:
«Non ho intenzione di vanificare il tuo lavoro. Posso gestirmi da solo, almeno per una settimana. Conosco a memoria centinaia di formule, teoremi e progetti, penso di potermi ricordare qualche esercizio motorio,» la rassicurò, irritato dalla sua sfiducia.
Nataša non dubitava della sua memoria, piuttosto della sua costanza, ma non vedeva molte alternative. Stark sembrava non solo essere scoraggiato dalla mancanza di progressi, ma anche estremamente dubbioso riguardo a quelli fatti. In quello stato mentale dubitava che riuscisse a concentrarsi appieno sulla riabilitazione.
«Dovrò comunicarlo a Fury,» lo avvisò.
«Mandagli i miei saluti e un mazzo di rose,» ribatté lui con indifferenza.
Nataša sospirò. Il direttore non ne sarebbe stato affatto contento: lasciare nuovamente allo sbando Stark non rientrava nei piani.
«Una settimana. È tutto il tempo che ti concedo. Poi sarò io a decidere se quello che fai è utile o meno,» ribadì in tono severo.
Tony annuì accomodante, prima di rialzare lo sguardo su di lei.
«Perché ci tieni così tanto?» chiese all'improvviso. «Insomma, non volevi neanche che restassi nei Vendicatori.»
Nataša esitò, ponderando se rispondere o meno.
«Siamo una squadra,» dichiarò infine. «E cerco di fare ciò che è meglio per essa. Questo include anche cambiare idea sui suoi elementi più... compromessi,» enunciò, e storse il naso a quella parola, non trovandone però di migliori. «E non sono la persona più adatta per giudicarti in questo senso.»
«Lo so,» alzò le spalle lui, rivolgendole un'occhiata carica di significato che lei ricambiò senza vacillare.
«Hai letto i miei file della SHIELD.»
Non era una domanda.
«I firewall sono i miei,» rispose lui con ovvietà. «Ci ho messo circa trenta secondi ad aggirarli,» un sorrisetto spento balenò sul suo volto.
«E hai soddisfatto la tua curiosità?» 
Una traccia di irritazione trapelò dalla voce di Nataša, ma non era veramente arrabbiata con lui: si era aspettata che avrebbe provato a ficcare il naso nei suoi dossier e si era ripromessa di non strozzarlo quando l'avesse scoperto, anche se la tentazione era comunque forte.
«Il tutù ti stava bene,» commentò lui con forzata ironia. «Il resto... avrei preferito non saperlo,» ammise poi, più serio.
Nataša sospirò e si sedette accanto a lui, incupita.
«Ho qualche nota rossa di troppo sul mio registro per venire a rimproverarti un tentato suicidio.»
Si pentì di essere stata così diretta nel notare come Tony ebbe un evidente fremito a quelle parole; i suoi respiri si fecero più brevi e ravvicinati, ma rimase immobile.
«Dovresti vedere il mio,» replicò poi con voce contratta, come se stesse lottando contro qualcosa che gli ostruiva la gola. «Vent'anni e passa di manifattura bellica lasciano il segno. Sugli altri, soprattutto.» 
Portò repentinamente la mano al suo reattore, quasi volesse tenerlo al suo posto.
«Hai provato a cancellarlo: per questo ti hanno fatto entrare nella squadra,» gli fece notare lei. «E la squadra ha bisogno anche di te. Sei il nostro consulente, e sei Iron Man. Non puoi arrenderti di nuovo.»
Tony abbassò lo sguardo sulle protesi e una smorfia gli increspò volto.
«Non mi sto arrendendo. Non ne ho mai avuto il diritto,» ribatté inquieto, come se non riuscisse ad afferrare i pensieri che gli scorrevano in testa.
Chiuse il pugno meccanico con un lieve stridio di giunture.
«Ma potrebbe essere impossibile,» si lasciò sfuggire infine.
Nataša lo fissò, sorpresa dal cambiamento della sua voce adesso venata di tristezza.
«Dov'è finito il tuo ego? Sei uscito da situazioni peggiori, con mezzi peggiori,» gli ricordò debolmente.
Non era mai stata brava con le parole, se non negli interrogatori: essere di supporto a qualcuno non era il suo forte.
Tony scosse con forza la testa.
«Non intendo questo. Camminare, usare le protesi come fossero arti veri... potrebbe andare
oltre le possibilità di questa tecnologia,» puntualizzò lui, e si strinse le mani per tenerle ferme, agitato.
Nataša fissò il leggero tremito del suo corpo, attraversato da una tensione quasi dolorosa da quando aveva menzionato il suo suicidio. Nonostante le apparenze che cercava ancora in parte di mantenere, Stark era ancora sull'orlo baratro. Sarebbe bastato un soffio per farlo cadere di nuovo, o per riportarlo al sicuro. Pensò alle sue "note rosse", a quanto spiccassero ancora sul suo registro e a come alla fine fosse riuscita a voltare pagina per ricominciare da una intonsa, almeno per chi la circondava. Magari un giorno ci sarebbe riuscito anche lui.
«"Quando le possibilità non ci sono, se le inventa",» citò infine, a bassa voce.
Tony sollevò di scatto la testa, come folgorato, e il suo cuore mancò distintamente un battito: riconosceva quelle parole. Se le era sentite ripetere così tante volte... in tono serio o scherzoso o incoraggiante o di rimprovero, nel corso di più di dieci anni. Erano diventate una specie di motto su misura per lui, inventato dalla persona che lo conosceva più a fondo di chiunque altro.
«Hai parlato con... ?» la sua voce si spezzò.
Nataša gli sorrise appena, uno dei suoi rari sorrisi sinceri.
«Se non vuoi credere a me, almeno credi a lei.»




 
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Note dell'Autrice:

Oh oh oh! Incredibilmente riesco ad aggiornare quando promesso! Anche se a orari indecenti della notte...
Orsù, oggi Phoenix compie la bellezza di 6 anni! A pensarci mi fa veramente molto, molto strano, e non sono sicura che sia un traguardo positivo, considerando che tre anni e passa sono stati di stallo privo di aggiornamenti... sorvoliamo, va' :D

Questo capitolo invece è di quasi-stallo, ma l'ho ritenuto necessario sia per introdurre lo scoglio non indifferente della fisioterapia, sia per far "adattare" due personaggi ostici da gestire come Nataša e Tony. Ammetto che per me Nataša è abbastanza incomprensibile, nel senso che nel MCU è passata dall'essere un'assassina frigida a "zia Nat" in modo abbastanza inaspettato; qui diciamo che è un misto dei due caratteri, mantenendosi però prevalentemente sulla versione di Iron Man 2, visto che l'arco temporale è più o meno quello. Ho fatto dei riferimenti al suo passato come "ballerina" al Teatro Bol'šoj, senza scendere troppo nel dettaglio per ovvi motivi, ma era un fatto rilevante a giustificare in modo più o meno logico la sua scelta come fisioterapista da parte della SHIELD.
Qui Tony soffre come al solito, ma forse in modo un po' meno piagnone e un po' più costruttivo di quello a cui ci ha abituati negli scorsi 30 capitoli. Ovviamente la strada è tutta in salita e le ricadute sono dietro l'angolo, ma volevo sottolineare come nonostante la sua fragilità ancora molto evidente stia comunque cercando approcci diversi da "Hulk smash!" e prendersela con gli altri invece di risolvere i problemi.

Chiudo il papiro ringraziando infinitamente _Atlas_ per tutte le splendide recensioni che ha lasciato agli scorsi capitoli e per il costante supporto morale. Grazie, carissima <3
E grazie a chiunque leggerà e/o recensirà :)

Mi guardo bene dal promettere aggiornamenti a breve, visto le bugie enormi che ho sparato negli anni passati, ma ho una mezza idea di partire dal mese prossimo con un capitolo ogni due-tre settimane, se la stesura procederà in modo costante come adesso. Vedremo se sarà un proposito fattibile, anche considerando che starò fuori un paio di settimane in cui il tempo per scrivere sarà piuttosto esiguo.
Spero a presto,

-Light-




© Marvel

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Capitolo 34
*** Stay hungry ***




33

 

 
 

Stay hungry







"Rising up, back on the street
Did my time, took my chances
Went the distance
Now I'm back on my feet
Just a man and his will to survive"

[Eye Of The Tiger – Survivor]







Dove sono?"
Tony si risvegliò in un mare oscuro. Si sentiva galleggiare, ma sembrava una sostanza più densa dell'acqua, simile a inchiostro. Il reattore arc brillava nel suo petto, rilucendo appena sulla superficie metallica delle protesi. Quello strano liquido sembrava aiutare i suoi movimenti: si sentiva più leggero, quasi incorporeo. Provò a nuotare attraverso quella massa viscosa, ma si trovò solo a roteare su se stesso senza riuscire ad avanzare.
Rimase calmo, stranamente non allarmato da quella situazione anomala. Non percepiva dolore o fastidio, solo curiosità.
Intuì un movimento dal suo lato cieco e voltò la testa: in lontananza si era acceso un puntino luminoso che sembrava pulsare. Fece per dirigersi verso di esso, quando ne percepì un altro spuntare ai limiti della sua visuale, più grande del primo, seguito da un altro e un altro ancora, fino a che tutta l'oscurità non fu trapunta di luci ovunque posasse lo sguardo.
Stelle, gli balenò in testa. Erano stelle.
Quello che aveva scambiato per un oceano era in realtà il vuoto assoluto dello spazio. Tutto sembrava estremamente lontano da lui: stava andando alla deriva in un quadrante vuoto dell'universo.
Improvvisamente avvertì un tremito – nello spazio? – riverberargli nelle ossa e aumentare, come se qualcosa si stesse avvicinando. Si guardò intorno più volte, finché non individuò uno dei puntini in lento movimento verso di lui. Man mano che si avvicinava riusciva a distinguerne i colori – rosso e oro? – e finalmente si delineò la forma inconfondibile della sua armatura.
Si fermò davanti a lui e spense i propulsori innaturalmente silenziosi nel vuoto. Notò l'assenza del reattore nella cavità della corazza; anche le fessure dell'elmo erano spente, prive della consueta luce azzurrina. Si accorse subito che non era la Mark III: il suo design era più snello e il pattern della cromatura differente. Sembrava un'armatura leggermente più avanzata di quella che aveva perso nello scontro con Iron Monger.
Tese un braccio verso di essa e quella imitò il gesto, specularmente. Aggrottò le sopracciglia.
"Ancora specchi?"
Abbassò il braccio con una lieve inquietudine; l'armatura continuava a seguire i suoi movimenti. Si protese in avanti cercando di raggiungerla e quella diede una leggera spinta coi propulsori, arrivando a portata di mano. La afferrò d'istinto per il polso col braccio artificiale, senza incontrare resistenza. La protesi si mosse con agilità inaspettata. Con sua sorpresa, le placche dell'armatura si schiusero all'istante lasciando intravedere l'interno scuro e vuoto, come a invitarlo.
Esitò, ma l'armatura l'aveva già inglobato, saldandosi sulla sua pelle prima che potesse ritrarsi. Si ritrovò nella penombra familiare e stranamente fredda, priva di schermate virtuali. Provò ad attivare i propulsori, ma l'impulso non raggiunse l'armatura. Non riusciva a spostarla con la sua sola forza; poteva solo a sollevare appena gli arti meccanici, più potenti del normale.
Era in trappola, realizzò con un rantolo, sentendosi opprimere in quello spazio così angusto e rigido. Attraverso le fessure dell'elmo intravedeva solo buio: le stelle erano scomparse.
Doveva trovare un modo per riattivare l'armatura, ma sentiva il senso di claustrofobia che deviava i suoi pensieri. L'involucro metallico sembrava pesare sul suo corpo, schiacciandolo. Chiuse gli occhi in cerca di un barlume di lucidità e si sentì avvolgere da un'improvvisa calma; la stretta al petto svanì, così come il sudore freddo che gli imperlava la fronte.
Doveva trovare una soluzione, certo. C'erano molte cose che doveva assolutamente portare a termine... ma si sentiva protetto, là dentro.
Aveva davvero così tanta fretta di uscire?


***


Tony aprì a fatica l'occhio e fu colto da un senso di vertigine. La prima cosa che registrò fu una paurosa emicrania, seguita da una fitta al collo quando provò a muoversi. Fece una smorfia e scollò lentamente la guancia dalla scrivania sulla quale si era addormentato. Avrebbe mai avuto un risveglio piacevole?
«Ben svegliato, signor Stark. Sono le 10:45 del 12 maggio,» lo accolse non richiesta la voce elettronica di JARVIS.
Tony ebbe un sussulto nel sentire l'ora.
«Quanto ho dormito?» chiese con voce impastata, soffocando un enorme sbadiglio.
«Si è addormentato intorno a mezzanotte, signore.»
Tony emise un grugnito scontento: non poteva permettersi di oziare così a lungo.
«La prossima volta ti autorizzo a svegliarmi con la fanfara di Capitan America dopo al massimo sette ore,» bofonchiò.
Si poggiò allo schienale, sentendosi più indolenzito del solito, e si concesse qualche minuto per svegliarsi completamente e riattivare i neuroni ancora persi nel vuoto siderale. Iniziava ad averne abbastanza di quei sogni strampalati, soprattutto quando non gli fornivano intuizioni geniali. Come se avesse bisogno di un ulteriore promemoria riguardo all'urgenza di rimettersi in piedi per riprendere il suo ruolo di Iron Man.
Sbuffò, stropicciandosi la nuca nel tentativo di alleviare il mal di testa incipiente, mentre scandagliava la scrivania alla ricerca di qualcosa da bere. Individuò una borraccia e vi si attaccò assetato, venendo inondato dallo sgradevole sapore della clorofilla che gli anestetizzò la lingua, ma ormai ci aveva fatto l'abitudine. Subito dopo recuperò il rilevatore di tossicità, riscontrando che il tasso di palladio era ancora fisso al 14%. Forse doveva passare più tempo in laboratorio...
Ripose in tasca il congegno e si decise a riprendere il foglio su cui stava lavorando la sera prima. Sospirò: decifrare la sua scrittura mancina e assonnata non fu facile, soprattutto con un occhio solo. Nel frattempo stiracchiò il braccio e la gamba artificiali in un coro di cigolii e proteste metalliche. Sì, doveva decisamente fare qualcosa per le articolazioni, ribadì tra sé mentre sgranchiva goffamente le dita di mano e piede senza riuscire a controllarle appieno. Rilassò infine le protesi avvertendo delle spiacevoli fitte ai moncherini, come sempre più acute al mattino.
Poggiò il foglio sulla scrivania e vi scribacchiò un appunto per completare una frase lasciata in sospeso, poi afferrò le stampelle là accanto e si sollevò lentamente per completare la sua routine mattutina: colazione-lampo, antidolorifici, bagno, barba e medicazione dell'occhio. Avrebbe rimandato gli esercizi di fisioterapia a dopo pranzo: aveva già perso tempo dormendo più del dovuto, ma non aveva intenzione di scombinare del tutto i suoi bioritmi appena ritrovati.
Mezz'ora dopo era di nuovo operativo e si districava tra modelli 3D, esplosi delle protesi e vari ologrammi che fluttuavano pigramente attorno a lui mostrando dati e grafici. Ogni tanto dava un'occhiata alla protesi inferiore e prendeva qualche nota abbastanza disordinata, sorseggiando con parsimonia il suo unico caffè non decaffeinato della giornata. Si tamponò infastidito un taglietto sul mento che si era rimediato mentre si rasava: a volte la mancina si dimostrava ancor meno collaborativa della protesi. Represse la frustrazione per quei piccoli, costanti incidenti, e si concentrò nuovamente sui suoi calcoli.
Nei giorni precedenti era già riuscito a riprogettare la protesi trovando il giusto equilibrio tra resistenza, mobilità e peso, che aveva ridotto drasticamente: ora non gli restava che applicare le modifiche. Sicuramente avrebbero facilitato i suoi movimenti, ma era consapevole che il peso non era il problema primario. 
Stava infatti lavorando a un nuovo modello di articolazione, qualcosa che aveva in mente da tempo ma che aveva sempre rimandato, restio a modificare a tal punto il progetto originario. L'unobtanium svolgeva un buon lavoro nel sostituire la cartilagine, ma l'attrito era ancora troppo e le giunture rimanevano rigide, dando delle movenze robotiche e imprecise ai suoi gesti. Per piegare braccio e gamba doveva prima vincere una resistenza innaturale ed era anche per quell'impedimento che perdeva l'equilibrio mentre cercava di camminare. Aveva passato la scorsa notte a ideare delle capsule di sospensione in unobtanium gelatinoso che avvolgessero completamente l'articolazione, invece di fare solo da cuscinetto tra i punti di giunzione. Ciò avrebbe dovuto rendere più morbidi e meno faticosi i movimenti riducendo ulteriormente l'usura, ma realizzarle richiedeva molto più di una settimana – cinque giorni, ormai – e aveva bisogno di qualcosa che accelerasse i suoi progressi nell'immediato. Solo la fusione e la modellazione dell'unobtanium necessario per ginocchio e caviglia gli avrebbe portato via due settimane, forse dieci giorni se avesse lavorato ai ritmi massacranti di qualche mese prima. E quella non era un'opzione accettabile.
Finì di disegnare un bozzetto della capsula contornato di note a margine, percentuali e vettori, poi mise da parte il foglio su una risma ordinata in un angolo della scrivania, dove già erano impilati i progetti per la struttura alleggerita delle protesi, e ordinò a JARVIS di scannerizzarlo.
Fece oscillare tra le dita sane la penna e si dondolò sulla sedia girevole, pensoso. Gli veniva in mente almeno una decina di migliorie possibili, nessuna utile ad aiutare la sua mobilità. Sbuffò frustrato. Continuava a pensare che forse l'unica soluzione fosse modificare la piastra d'aggancio delle protesi, ma era un'idea al momento inapplicabile, oltre che pericolosa, e richiedeva l'assistenza di Ian.
Eppure la sua mente continuava a pungolarlo in quella direzione. Ci doveva essere qualche problema alla base, gli diceva l'istinto. E il suo istinto raramente... – gli eventi degli ultimi mesi passarono in rapida successione nella sua testa, demolendo la sua sicurezza. Ok, forse il suo istinto non era così infallibile, ma almeno per le questioni tecniche non l'aveva mai deluso.
Fissò il braccio prostetico, muovendo con attenzione le dita. Queste risposero come sempre con un leggero ritardo e a scatti. Corrugò le sopracciglia.
C'era stato un momento, subito dopo l'innesto del braccio, in cui muovere la protesi era stato più facile. Non certo facile, ma sicuramente più di adesso. Riusciva addirittura a impugnare una penna, anche se goffamente e spesso rompendola. Provò a farlo e, mentre gli riuscì più semplice trovare la giusta forza per non disintegrarla, non riuscì a controllare e coordinare le dita come avrebbe voluto. Le dita metalliche scivolavano sulla superficie liscia, senza fare presa – "palmo antiscivolo" appuntò velocemente su un foglio con la mancina cercando di non perdere la concentrazione, ma quello era il minore dei problemi. C'era troppo ritardo tra il suo impulso nervoso e l'esecuzione. Anche tenendolo da conto non riusciva a governare i suoi movimenti, che sembravano andare a singhiozzo. Non appena si distrasse, la penna cadde sulla scrivania con un toc sommesso.
Tony si accarezzò concentrato il pizzetto, fissando un punto indefinito tra i vari ologrammi che lo circondavano. Si ricordava di come prima riuscisse a muovere il braccio più liberamente; gestiva persino la fusione dell'unobtanium da solo senza troppi problemi. Non poteva dire che si muovesse in scioltezza, ma in confronto ad ora sembrava un giocoliere.
Cosa era cambiato? Lo sguardo gli cadde sulla bottiglietta di antidolorifici. Sicuramente prima ne assumeva molti di più. Potevano aver inficiato i nervi in modo permanente? Gli sembrava improbabile, o avrebbe avuto difficoltà motorie generalizzate, ma a parte una lieve atrofia muscolare dovuta all'immobilità, durante la riabilitazione non aveva riscontrato alcun problema grave.
Cosa era cambiato? Socchiuse l'occhio, cercando di riordinare i pensieri.
Adesso assumeva più clorofilla, ma difficilmente poteva essere determinante, se non nel dargli una marcia in più a un provino per il ruolo di Hulk. Gli si era staccata una mano al processo – uno dei momenti più alti della sua carriera, doveva ammetterlo – e poi... poi Rogers aveva completato il lavoro, distruggendola del tutto. Che in quell'occasione si fosse danneggiato il microreattore?
S'incupì: se davvero la causa di tutto era da imputare a quel damerino a stelle e strisce, non avrebbe risposto di sé. A ripensarci gli saliva ancora la rabbia, nonostante si rendesse conto di non aver fatto nulla per evitare il conflitto, anzi. Per colpa di quel disadattato temporale aveva dovuto riprogettare da zero braccio e gamba... anzi, la gamba fortunatamente no, quella era venuta dopo...
Si riscosse di colpo e schioccò di riflesso le dita buone, puntando lo sguardo sulla protesi inferiore come un detective che ha appena trovato una pista.
Ecco cos'era cambiato: si era impiantato la gamba!
"... e quindi?"
Il suo entusiasmo scemò un poco. Poteva sentire le sinapsi che si accapigliavano tra loro per cercare di trarre un senso da quella conclusione.
Più peso? Più unobtanium?
Picchiettò meccanicamente sul reattore in mezzo al petto, mordendosi nervoso le labbra. Arrestò bruscamente la marcetta che aveva preso a tamburellare sulla superficie metallica, dandosi dell'idiota mentre rivolgeva lo sguardo alla luce azzurrina: più reattori. Ecco la differenza che cercava. Un sorrisetto trionfante si allargò sul suo volto: il problema era alla base. In quel campo il suo istinto non lo tradiva mai.
«Ehi, JARVIS, capta le radiazioni elettromagnetiche emesse dai reattori arc,» ordinò, ruotando allegramente qua e là con la sedia per chiudere le varie schermate aperte.
Forse aveva finalmente dato una svolta al lavoro apparentemente inutile di quei giorni. Una luce verdognola prese a scansionarlo e un olografico apparve davanti a lui, con tre oscillogrammi che vi si dipanavano seguendo le variazioni di frequenza dei tre reattori. Apparivano abbastanza stabili, se non per dei lievi picchi simultanei. Tony selezionò con due dita uno dei picchi, ingrandendo la traccia con interesse.
«Sembra che vi siano delle interferenze reciproche tra i campi elettromagnetici dei reattori, signore,» disse JARVIS, anticipando la sua osservazione.
«Notavo. Ed è una gioia per il mio corpo, immagino.»
Una colonna di dati numerici affiancò il grafico, con dei valori evidenziati in tre colori diversi a rappresentare ognuno dei reattori.
«Il reattore cardiaco mostra di non risentire degli effetti in modo preoccupante,» rilevò JARVIS, ingrandendo i valori più bassi di poco superiori alla norma.
«Ringraziando il cielo, o sarei già morto d'infarto,» borbottò Tony corrucciato.
«Al contrario, i micro-reattori sono soggetti a variazioni di frequenza ingenti sia reciproche che causate dal reattore centrale.»
«Prima funzionava tutto a dovere... dev'essere stato il terzo reattore a mandare in tilt il sistema,» concluse Tony.
«Parrebbe di sì. Rilevo una concentrazione troppo alta di onde elettromagnetiche. Ipotizzo che ciò ostacoli la trasmissione degli impulsi nervosi.»
"Eureka," pensò lui, tetramente.
La sua soddisfazione era svanita. Un malfunzionamento dei reattori era irreparabile sotto ogni punto di vista. Portò una mano alla fronte, sentendosi improvvisamente spossato.
Come aveva fatto a non rendersene conto prima? Era perfettamente consapevole delle interferenze che si venivano a creare tra due flussi di energia arc; semplicemente non aveva pensato che potessero riguardare dei reattori così piccoli. Ripensò all'incidente avvenuto durante l'impianto del braccio, quando era quasi andato in arresto cardiaco: quanto era stato ottuso a non dare a quell'evento il giusto peso?
Strinse i denti, rimproverandosi ancora. Era stato troppo avventato nel volersi impiantare definitivamente i micro-reattori senza un periodo di prova. Ian aveva tentato di avvertirlo, ma no, lui doveva fare testa propria. Quella negligenza avrebbe potuto costargli la vita, oltre alla mobilità.
Si schiarì la gola, notando solo ora l'assenza dei commenti pedanti del suo maggiordomo virtuale.
«Qualche suggerimento per risolvere questo casino? A parte trovare un'alternativa al palladio,» si affrettò a precisare, vedendo apparire dinanzi a sé la proiezione di una tavola periodica.
«Sarebbe la soluzione più logica: sostituire il palladio con un ipotetico elemento compatibile modificherebbe l'orientamento delle molecole nei reattori, evitando...» continuò lui implacabile, aggiungendo un modello molecolare a un palmo dal suo naso.
Tony lo scacciò con un gesto seccato.
«Lo so, e grazie per aver messo in dubbio la mia laurea in fisica, ma ti sembra che abbia il tempo per inventarmi un nuovo elemento? Non dico che non potrei, ma ho una certa fretta di tornare a camminare.» 
Il suo sguardo corse involontariamente alle armature, ma lo distolse subito.
"Prima camminare, poi volare," si rammentò: Iron Man sarebbe stato tutt'altro problema...
Seguì un breve silenzio poco promettente da parte dell'intelligenza artificiale, al che Tony capì che ormai non poteva più parlare di "soluzioni", ma solo di "contenimento danni".
Riprese in mano la penna. Se gli impulsi nervosi avevano difficoltà a trasmettersi doveva cercare di amplificarli, per tentare di far arrivare un segnale più leggibile alle terminazioni artificiali. Aumentare la potenza dei reattori era impossibile e nocivo, ma almeno per il braccio poteva eliminare i resistori impiantati qualche mese prima, dicendo addio al calore del braccio: un sacrificio risibile, in confronto al poterlo muovere decentemente.
Poi avrebbe dovuto migliorare la conduttività dei nervi in unobtanium in entrambi gli arti. Per ora gli interessava solo la gamba: al braccio avrebbe pensato in seguito. Sperava solo che bastasse aumentarne la densità per aggirare il problema e avere più controllo sui propri movimenti. Probabilmente avrebbe di nuovo avuto difficoltà a dosare la potenza delle protesi e sarebbe tornato in modalità "elefante in una cristalleria", ma era un compromesso accettabile. Dopotutto non doveva certo informare i suoi amichetti in toga e parrucchino di ogni modifica potenzialmente pericolosa che apportava alle sue presunte "armi".
Cercò con lo sguardo il fidato robot telescopico e lo individuò in fondo al laboratorio.
«Ehi, tu! Mani di burro!» Dum-E si rianimò con un ronzio. «Rispolvera l'attrezzatura per la fusione. E niente pozze di unobtanium in giro, stavolta. Si torna al lavoro,» ordinò con vivacità, sentendosi rinvigorito dall'avere di nuovo qualcosa da fare.
Non era una soluzione, ma era tutto ciò di cui disponeva al momento.


***


13 Maggio, Villa Stark

«Ok, adesso piano. Piano!»
Dum-E scattò bruscamente in avanti facendogli perdere l'equilibrio, ma lui riuscì a mantenere la presa sul braccio telescopico e compensò la distanza con un cauto passo della gamba sana. Il moncherino protestò per la posizione scomoda, ma la protesi resse.
"Ora l'altra," si incoraggiò, cercando la percezione del suo arto meccanico.
In seguito alle modifiche gli sembrava leggermente più sensibile, infatti riuscì a muovere il piede di qualche centimetro. Si aggrappò più saldamente al robot, tentando di governare quell'impulso che sembrava sfuggirgli e che non riusciva ancora a localizzare. Il suo ginocchio fremette, ma il resto dell'arto non rispose.
Imprecò tra sé.
"Quanto potrà mai essere difficile muovere una stramaledetta gam–..." la protesi scelse quel momento per reagire inaspettatamente, sferrando un involontario calcio in avanti che assomigliava molto poco a un passo.
Frenò appena in tempo lo slancio, ma la pianta del piede impattò con durezza col pavimento, inviandogli una vibrazione dolorosa fino al moncherino. Serrò denti e occhio, grato per aver progettato un robot ottuso ma solido: sostenne il suo peso evitandogli di rovinare a terra, seppur con un lieve ronzio di protesta.
«Signore, secondo i miei calcoli la capacità di trasmissione...» cominciò JARVIS, inopportuno come sempre.
«Muto,» lo zittì lui con un sibilo sforzato.
Cercò a tentoni la sedia dietro di sé e vi si abbandonò sentendosi già esausto, ma determinato. Stavolta era riuscito a muovere la gamba, seppur non come voleva, ma la potenza del segnale era ancora troppo ridotta e instabile.
Rivolse uno sguardo sconsolato al piano di lavoro invaso di componenti elettronici, pozze semisolide di metallo, e cavi. Aveva passato una giornata intera a modificare la densità di ogni singolo nervo in unobtanium e adesso doveva ricominciare da capo per aumentarla ancora. E in futuro avrebbe dovuto fare tutto una terza volta per il braccio...
Si costrinse a riscuotersi da quelle considerazioni: non aveva tempo da perdere. Rimosse con un gesto deciso la gamba ignorando la replica della ferita e la poggiò nuovamente sul bancone, studiandola con aria di sfida. Era una sua creazione e avrebbe funzionato come voleva lui.
Si rimise gli occhiali protettivi e fece seccamente cenno a Dum-E di avvicinarsi, fissando nella sua pinza un saldatore caricato ad unobtanium e impugnandone un altro lui stesso.
«Tu, fai quello che ti dico io o diventerai la mia prossima stampella,» gli intimò, ricevendo un ronzio agitato in risposta. «JARVIS, memorizza i valori errati e resetta il collaudo. Ci riproviamo.»

***


17 Maggio, Villa Stark

«Che ti avevo detto?» sbottò Tony, sfoggiando un ghigno soddisfatto nonostante l'affanno che gli spezzava la voce.
Nataša non si mostrò particolarmente impressionata e si limitò a fissarlo con la faccia di qualcuno che sta seriamente prendendo in considerazione l'omicidio, anche se sembrava in realtà trattenere il suo stupore.
«Quante volte vuoi ribadire che avevi ragione?» sospirò infine.
«Tutte le volte che lo riterrò necessario,» rispose prontamente lui, piegando di nuovo la gamba meccanica con evidente sforzo.
Era sdraiato sulla schiena con la gamba a mezz'aria, impegnato coi soliti esercizi di mobilità con molto più successo, come aveva avuto modo di puntualizzare ripetutamente e in modo saccente nel corso dell'ultima ora.
Nataša non si era aspettata di trovare Tony d'umore più che positivo. Aveva pensato di doverlo minacciare per farlo tornare al lavoro: quando il miliardario aveva invocato una pausa per "migliorare le protesi", aveva creduto che fosse solo una delle sue scuse per potersi crogiolare nell'indolenza e nell'autocommiserazione, come aveva già fatto in precedenza. Invece aveva appena fatto in tempo a mettere piede a Villa Stark che si era vista il padrone di casa venirle incontro con aria euforica, rischiando di inciampare tra stampelle e protesi senza per questo curarsene, annunciandole che doveva assolutamente vedere gli "straordinari progressi" che aveva raggiunto in sua assenza.
Nataša si era mostrata scettica, ma le erano bastati i primi minuti di esercizi per capire che quelle di Stark per una volta non erano esagerazioni. Adesso era veramente in grado di controllare la gamba artificiale. Con difficoltà, ovvio, e tirando giù un intero calendario anche solo per alzare un dito, certo, ma non era più il peso morto che si trascinava dietro fino a una settimana prima. Assieme alla mobilità fisica sembravano ricomparse anche la sua arroganza e naturale indisciplinatezza, rendendolo decisamente più temerario di quando l'aveva lasciato. E gestibile quanto un bambino di cinque anni con troppo zucchero in circolo.
«Bene, direi di passare a qualcosa di più impegnativo!» stabilì infatti l'uomo, facendo leva sul bordo del ring per issarsi in piedi, ancora decisamente instabile.
Appunto.
"Ma come ha fatto Potts a sopportarlo per dieci anni?"
Se gli ordini di Fury non fossero stati categorici gli avrebbe già spezzato l'osso del collo... anche se doveva ammettere che preferiva questa sua versione energica e ribelle allo stato di quiete prossimo alla prostrazione in cui l'aveva trovato.
«A cuccia, Stark. Che ne dici di non mandare tutto a puttane subito, per una volta?» lo richiamò con cipiglio minaccioso, ma lui rispose con un verso di scherno, l'occhio illuminato da una luce ostinata.
«Ho passato tre notti insonni su questo gioiellino,» esordì scuotendo con orgoglio la gamba ancora restia ad eseguire i suoi ordini. «Ho tutto il diritto di testarlo come mi pare e piace,» sentenziò, e lasciò al contempo il supporto del ring.
Nataša fece per scattare in avanti per afferrarlo prima della prevedibile caduta ma si bloccò, interdetta: Tony era rimasto in piedi, oscillando appena, con le braccia sollevate in alto come a dimostrare che non c'era alcun trucco.
Un sorriso sghembo gli attraversava il volto sfidandola a dire qualcosa; solo le increspature della sua fronte tradivano il suo reale sforzo e la concentrazione che quel gesto apparentemente banale gli richiedeva. Dopo appena un paio di secondi, spostò il baricentro un po' troppo in avanti e fu costretto cercare di nuovo il sostegno della pedana, puntandovi i palmi senza però abbandonare la sua posizione eretta. 
La sua felicità era palpabile, al punto che lei non ebbe cuore di riprenderlo ancora. Incrociò le braccia, scuotendo la testa con falso rimprovero.
«Questa te la sei preparata,» si limitò ad insinuare divertita e Tony alzò le spalle con fare innocente, colto in fallo.
Quel piccolo movimento bastò a squilibrarlo del tutto, e fece per aggrapparsi convulsamente alle corde del ring per non far collassare la protesi. La mano meccanica mancò l'appiglio, le sue gambe s'incrociarono malamente e lui rovinò a terra, sbattendo lo zigomo sul bordo della pedana. Gli sfuggì un lamento prolungato, mentre si tastava con cautela il volto dolorante e si lasciava scivolare sul pavimento.
Nataša si avvicinò scuotendo la testa e si accovacciò al suo fianco, aiutandolo a raddrizzarsi seduto e assicurandosi che non si fosse rotto nulla; lo squadrò con severità.
«Che ti avevo detto?» lo prese in giro, imitando il suo tono derisorio di poco prima.
Tony scostò la mano dalla guancia arrossata, su cui sarebbe rimasto un bel livido, e Nataša si accorse che stava ancora sorridendo, come estraniato sia dalle sue parole che dal dolore.
«Funziona... sta funzionando!» riuscì ad esclamare infine, guardandola con lo sguardo che luccicava, e stavolta la sua voce era incredula e quasi tremante.
Nataša distolse lo sguardo, stringendolo appena per le spalle in un gesto che voleva essere di sostegno sia fisico che morale. Aveva la netta sensazione di essere di troppo. Non era lei a dover essere accanto a Stark in quello che probabilmente era il momento più importante della sua vita negli ultimi mesi. Strinse le labbra amareggiata mentre aspettava che si riprendesse dalla caduta, rimanendo comunque chinata alla sua altezza, senza muovere le mani.
«Ehi, cos'è quella faccia? Ti faccio disperare così tanto?» sbottò Tony dopo un po', nuovamente scherzoso, facendola sobbalzare.
«Non ne hai idea, Stark., scosse la testa lei, seccata per essersi fatta sorprendere con la guardia abbassata.
Si scostò da lui e si rimise in piedi riprendendo le sue distanze, ma gli rivolse un fugace sorrisetto: dopotutto era contenta di rivederlo così spigliato e quasi sereno.
«Prima o poi doveva toccare anche a te,» commentò lui, decidendo che rimanere seduto là era decisamente più comodo che tentare di alzarsi ancora.
Si accorse dello sguardo interrogativo della donna e si affrettò a chiarificare:
«Prima Coulson, poi Fury, poi Banner, poi Hawkeye, adesso tu...» elencò, cercando di contare sulle dita della protesi con un po' di difficoltà.
Si accigliò: doveva decisamente trovare il tempo di ricalibrare anche quella.
«Tutti voi vi siete trovati a supportarmi e sopportarmi in un modo o nell'altro. Più del solito, intendo. All'appello mancano solo Thor... e Rogers,» considerò infine, poco entusiast.a «Francamente, posso sopportare un semidio Asgardiano che gironzola per casa scolandosi il mio whiskey, almeno finché mi lascia analizzare Mjolnir, ma penso che chiuderei Mr. Frisbee nello stanzino a far compagnia alle anticaglie di mio padre.»
«Nessuno dei due sarebbe così entusiasta di avere a che fare con te, credimi,» osservò Nataša, chiedendosi se quell'uscita improvvisa fosse un modo tutto suo per dire "grazie".
«Ma dovranno! E prima o poi dovrò anche offrirvi da bere per la vostra pazienza... sì, anche a Rogers, sempre che regga l'alcol,» puntualizzò, storcendo le labbra imbronciato. «Mi ha sfondato la protesi, ma è grazie... beh, quasi grazie a lui che ho risolto qualche problema tecnico. Diciamo che ha involontariamente aiutato il processo logico, ma potrebbe fare di meglio,» minimizzò infine.
Fece leva sulla panca davanti a lui, issandosi a sedere con un altro lamento soffocato.
«Devo rimettermi in piedi al più presto. Ho un bel po' di problemi da risolvere con...» esitò, incupendosi brevemente e passandosi una mano tra i capelli spettinati. «Beh, con tutti, a pensarci bene. Ma a questo punto è impossibile non perdonami, no?» tornò a sfoggiare il suo solito sorrisetto impertinente, che sembrava aver ritrovato posto sul suo volto dopo una lunga assenza.
Nataša si sentì contagiare da quella ritrovata sicurezza e ricambiò con una delle sue occhiate enigmatiche, stemperata da un'aria di sfida giocosa.
«Vedremo,» rispose vagamente alla sua domanda e Tony ammiccò con sfrontatezza, prendendolo già per un sì.


***


19 Maggio, Villa Stark, 17:10

Kyle ringraziò Happy per averlo aiutato a scendere dall'auto e rivolse lo sguardo all'ingresso di Villa Stark, sontuoso come se lo ricordava. Sentì le ruote della macchina stridere sul vialetto d'ingresso e presto il rombo del motore si confuse con quello delle onde.
Il cielo era grigio e prometteva pioggia, ma l'aria era calda e quasi afosa. Un tuono brontolò in lontananza e Kyle si affrettò a sospingersi verso la porta d'ingresso; questa si sbloccò automaticamente. I sensori di JARVIS dovevano averlo identificato. Spinse un poco la sedia a rotelle e la porta si spalancò per facilitargli l'entrata. Kyle si ritrovò a sorridere: un maggiordomo virtuale avrebbe fatto comodo anche a lui.
«Benvenuto, signor Andrews,» la voce del computer risuonò nell'atrio.
Kyle si guardò intorno perplesso. Non mancava qualcosa? Dopo un altro paio di occhiate registrò l'assenza della parete divisoria tra ingresso e salone. Sembrava che fosse... crollata? Si raddrizzò gli occhiali sul naso, al colmo della perplessità.
Ian aveva accennato ad un' "accesa lite di Stark con uno dei suoi colleghi", e si chiese se quella fosse una delle conseguenze. In verità, preferiva non saperlo. Bastava Ian ad essere trascinato qua e là negli affari dello SHIELD contro la sua volontà e gli lasciava volentieri l'onore e l'onere di conoscere le informazioni extra al riguardo.
S'inoltrò un poco nell'atrio, trovandolo in un certo senso più vuoto del solito. Non entrava lì dentro da più di un mese: dopo il tentato suicidio aveva preferito lasciare a Tony un po' di respiro. Capiva fin troppo bene quello che stava passando il suo cliente – e compagno di sventure, in un certo senso – ed era più che consapevole che presentarsi a casa sua non invitato non sarebbe stato saggio, fino a qualche settimana fa. Certi eventi andavano metabolizzati in solitudine.
Adesso però si era convinto che fosse il momento giusto per fargli visita, soprattutto dopo averlo visto così pacato al processo. E anche per lo strano silenzio di Virginia, praticamente sparita sia dai suoi radar che da quelli di Ian. Il medico gli aveva suggerito di non immischiarsi – "sono adulti, idioti e vaccinati: lascia fare a loro" era stato il suo unico, burbero commento in proposito –, ma Kyle temeva che ci fosse stato qualche deleterio confronto dietro le quinte tra i due. E doveva ammettere che gli sarebbe dispiaciuto che troncassero i rapporti a quel modo, dopo tutto quello che avevano superato assieme. Non riusciva a spiegarsi altrimenti l'improvvisa irreperibilità della donna, quando fino a un paio di settimane prima sembrava accogliere di buon grado i suoi aggiornamenti sulla salute e le beghe legali di Tony.
Quest'ultimo, d'altro canto, era abile come sempre nel nascondere il suo reale stato d'animo; in quel breve periodo di conoscenza aveva imparato che non poteva fidarsi dell'apparente imperturbabilità del miliardario. Vederlo così sereno al processo poteva voler dire tutto e niente e il suo atteggiamento da sbruffone poteva nascondere ben più cupi pensieri, anche se il giudizio positivo di Ian sulla faccenda lo faceva ben sperare. Sperava di trovare conferma dell'anomalo ottimismo del suo medico.
Stava giusto chiedendosi come mai Stark non si facesse vivo, quando il campanello dell'ascensore trillò. Voltò la sedia a rotelle in quella direzione, chiedendosi in che stato avrebbe trovato il suo imprevedibile assistito. A uscire dall'ascensore fu invece una donna sconosciuta che lo trapassò subito con gli occhi di un gelido verde-azzurro. I capelli erano lunghi alle spalle, di un rosso cupo, e aveva un'espressione ombrosa che gli fece squillare un campanello d'allarme in testa. Non riuscì a nascondere del tutto l'espressione circospetta che gli affiorò in volto nel guardarla.
«Lei deve essere l'avvocato del signor Stark,» esordì lei con voce misurata ma cordiale, tendendogli la mano.
«Kyle Andrews, piacere, signorina...?»
«Nathalie Rushman. Sono la fisioterapista del suo cliente,» si presentò, con un sorriso che non raggiunse gli occhi.
Kyle sorrise appena di rimando, tendendole la mano e venendo ricambiato con una stretta molto più salda di quella che si aspettava. Ian era stato stranamente reticente sui dettagli riguardanti la riabilitazione di Tony e l'avvocato sospettava una nuova intromissione dello SHIELD. Non aveva intenzione di approfondire la cosa, ma aveva la netta impressione che la signorina "Rushman" non fosse esattamente una fisioterapista. Però aveva apprezzato l'assenza di commenti e sguardi di compassione nel vederlo: era abituato a venir squadrato dall'alto in basso in vari modi egualmente fastidiosi, ma ciò non lo rendeva più sopportabile.
«Spero di non disturbare,» buttò lì Kyle, rompendo il silenzio un po' teso che si era venuto a creare.
«No, assolutamente. Anzi, ha avuto un ottimo tempismo,» rispose lei, gli parve quasi con sollievo.
«Immagino. Stark non è esattamente la persona più semplice da gestire,» aggiunse con viva comprensione.
Lei sembrò voler concordare per un secondo, poi il suo volto tornò neutro:
«Diciamo che sa essere impegnativo. Sarò da voi tra poco,» si congedò infine con un cenno del capo, avviandosi verso la cucina.
Kyle ammirò la sua compostezza, sebbene forzata: Stark era davvero in grado far perdere le staffe a chiunque.
Si risolse ad entrare in ascensore e solo allora si accorse delle vibrazioni che aumentavano man mano che scendeva nel seminterrato. L'ascensore si fermò e non appena si schiusero le porte l'avvocato fu quasi sbalzato via dalla musica che si sprigionava a volume assordante dall'impianto stereo della palestra. Dopo qualche secondo riconobbe le note di un qualche singolo degli AC/DC oltre il muro di bassi frastornanti. Adesso capiva la fretta di Nathalie nell'uscire di lì...
Si avvicinò con cautela, individuando finalmente l'artefice di tutto quello scompiglio. Tony, ancora ignaro della sua presenza, era impegnato a camminare, o almeno a provarci, sorreggendosi a due sbarre di metallo parallele per non cadere. Kyle si bloccò, meravigliato da quello spettacolo insolito e dimentico dei fragorosi accordi di chitarra in sottofondo.
Tony forzò un passo stentato con la gamba meccanica, che reagì con rigidezza, fornendogli però un appoggio abbastanza solido per rimanere in equilibrio. Kyle lo vide contrarre il volto sudato per lo sforzo, mentre cercava di non cedere: mancavano due passi alla fine delle sbarre. Le sue nocche sbiancarono e le braccia ebbero un fremito che riuscì però a controllare. Mosse di nuovo la protesi e stavolta riuscì a piegare meglio il ginocchio, anche se il piede rimase immobile. Concluse l'ultimo passo sbilenco e si lasciò sfuggire un rumoroso sospiro di soddisfazione e stanchezza, inclinando il busto in avanti; continuò a sostenersi alle sbarre e rimase in piedi, nonostante le sue braccia tremassero visibilmente.
Fu solo a quel punto che voltò appena la testa, mettendo a fuoco Kyle, che sorrise di rimando. Sbarrò appena l'unico occhio, spiazzato e probabilmente imbarazzato per non essersi accorto di lui. Schioccò le dita e la musica scemò, diventando appena udibile.
«K! Da quanto...» dovette interrompersi, troppo affannato per parlare, e ripiegò su un generico cenno di saluto con la mano.
Fu scosso da un fremito e stavolta si lasciò scivolare a terra, vinto dalla spossatezza.
«Sono appena arrivato. Non volevo interromperti,» rispose l'avvocato, sempre sorridendo.
Tony si limitò ad annuire, ancora intento a riprendere fiato a grosse boccate. Aveva fatto appena dieci passi e si sentiva come se avesse corso una maratona. Si strinse la gamba nel punto di congiunizione tra carne e metallo e poggiò la fronte contro il ginocchio freddo: non ricordava l'ultima volta che gli aveva fatto così male. Anche il moncherino del braccio era provato per lo sforzo di sostenerlo e lo sentiva pulsare, a malapena attenuato dagli antidolorifici. Eppure voleva ricominciare da capo. Voleva rimettersi in piedi adesso, voltarsi e camminare di nuovo fino all'altra estremità delle sbarre. E poi di nuovo, e di nuovo, finché non fosse riuscito a camminare davvero.
Si accorse di sorridere e alzò la testa, incontrando lo sguardo preoccupato di Kyle.
«Tutto bene, Stark?»
Tony annuì di nuovo e deglutì a fatica, sentendosi la gola secca.
«Devo ancora abituarmi. È solo la terza volta che ci provo,» si schermì, allungandosi per prendere la borraccia di clorofilla, che bevve con più gusto del solito per la gran sete.
Non sentì arrivare risposta e quasi si strozzò nel realizzare la situazione. Si voltò a guardarlo con espressione colpevole: Kyle se ne stava seduto, ovviamente, con aria tranquilla, ma era sicuro che dentro di sé si stava chiedendo perché Tony Stark, egoista e megalomane ingrato con tendenza suicide, fosse in grado di scorrazzare qua e là mentre lui era costretto a guardarlo da una maledetta sedia a rotelle. Sentì la stretta del senso di colpa, che ultimamente gli stava diventando un po' troppo familiare. Da quant'era che non lavorava ai progetti per Kyle? O meglio, da quanto non ci pensava?
«Senti, K, in realtà le protesi non funzionano così bene come sembra e... insomma, non mi ero reso conto che...» stava per rimettersi in piedi, ma ci ripensò: magari era meglio rimanere lì per terra? Perse il filo del discorso.
Il giovane lo fissò stranito, non aspettandosi quella reazione sconclusionata, poi un lampo di comprensione balenò sul suo volto, che si rabbuiò repentinamente.
«Stark, qualunque cosa tu stia per dire, non dirla,» lo anticipò in tono duro, ma Tony non riuscì a trattenersi:
«Non è giusto, lo so, e capisco che tu sia arrabbiato, ma...»
«Credevo che avessi un'opinione più alta di me,» lo interruppe Kyle, risentito.
Tony batté le ciglia, interdetto. Kyle si avvicinò a lui con un sospiro, lo affiancò e gli offrì una mano, sporgendosi dalla sedia a rotelle. L'altro fissò incredulo il suo palmo teso, incerto su come reagire, al che Kyle la lasciò ricadere, alzando platealmente gli occhi al cielo.
«Pensi seriamente che metterò il broncio perché "tu puoi camminare e io no?"» impose alla sua voce una cadenza ironicamente lagnosa, come di un bambino che canzonasse qualcuno. «Per fortuna non sono così irritabile, o dovrei prendermela col mondo intero,» sbottò infine, e lasciò trapelare tutta la sua irritazione nonostante sul volto fosse ancora dipinta un'espressione giocosa.
«Ne avresti tutto il diritto. Di prendertela con me, intendo,» replicò Tony, abbassando lo sguardo e restio ad abbandonare il suo senso di colpa.
A quel punto Kyle diventò paonazzo, come sempre quando perdeva la calma.
«Io ti ho chiesto di fare qualcosa che tutti ritengono impossibile. Ho passato una vita a sentirmi dire che non avrei mai più potuto camminare,» esclamò accalorandosi. «E adesso, proprio adesso, tu ci stai riuscendo! Stai provando al mondo che non è impossibile!» si aprì in un ampio sorriso spontaneo che lasciò Tony a fissarlo con aria stolida, allo stesso tempo colpito da quell'inaspettata veemenza. «I tuoi successi saranno i miei successi. Io sto dalla tua parte, Stark.» concluse con fermezza, e gli tese di nuovo la mano con fare perentorio.
Tony esitò ancora un istante prima di accettarla.
«E io dalla tua,» replicò a bassa voce, concedendosi un accenno di sorriso.
Si issò in piedi, appoggiandosi un po' a Kyle e un po' alla sbarra e ritrovando un equilibrio precario. Non si azzardò a lasciare il suo sostegno, sentendo la gamba ancora troppo provata per reggere il suo peso.
Guardò di sottecchi Kyle. Non c'era traccia di falsità sul suo volto spigliato, con gli occhi animati dalla loro consueta luce limpida e vivace. Ripensò alla prima volta che l'aveva visto: anche allora si era chiesto da dove potesse provenire quella sua tenace allegria, in un corpo tanto fragile e ostile verso il suo proprietario. Sentì la propria ammirazione per quel ragazzo crescere ancora, insieme a un pizzico di fiducia in più nei suoi confronti.
Avrebbe potuto continuare a difenderlo per puro tornaconto personale, invece si spingeva al punto da incoraggiarlo e spronarlo con convinzione, ignorando il fatto che lui riuscisse sempre a deludere tutti. Forse un tempo anche Kyle era stato prima furioso e poi scoraggiato come lui, si trovò a pensare. Non poteva saperlo: non gliel'aveva mai chiesto. Era sempre troppo concentrato su se stesso per pensare agli altri, realizzò con amarezza.
«Comunque dovrei esserti grato per fare da cavia a una tecnologia sconosciuta,» sogghignò Kyle, per stemperare quel momento un po' troppo serio e intenso per i suoi gusti.
Tony si limitò a sorridere fingendosi divertito, chiedendosi se fosse il caso di informarlo dell'intossicazione da palladio. Magari non l'avrebbe riguardato, se fossero riusciti a realizzare il progetto del micro-reattore spinale. Dopotutto, a lui stava dando problemi principalmente il reattore cardiaco, un congegno con evidenti limiti e difetti strutturali ormai inalterabili. Gli effetti collaterali dei microreattori erano in realtà minimi.
Fissò il volto speranzoso di Kyle e tacque: non voleva lanciare un'ombra così cupa sul suo futuro.
«Direi di fare una pausa, prima che la "cavia" abbia un collasso,» decise, zoppicando verso la sua solita panca e sedendovisi quasi di schianto.
Recuperò un cacciavite, saggiando la tenuta delle viti sulla protesi inferiore e stringendone un paio. Notò lo sguardo incuriosito di Kyle.
«È ancora in fase di collaudo,» gli spiegò, sobbalzando nel sentire un scossa lungo i nervi quando mosse troppo bruscamente il cacciavite sulla rotula.
«Mi sembra che funzioni molto meglio di prima,» commentò Kyle, alzando le spalle ad ammettere la propria ignoranza in materia.
«Potrei elencarti nel dettaglio tutte le modifiche che ho apportato nell'ultimo mese e mezzo, ma penso che finiresti col farmi causa per molestie.»
«Mi accontenterò di osservare i risultati.»
«Anche la fisioterapia ha fatto la sua parte,» aggiunse Tony, con impensabile modestia.
«Non stento a crederlo. La tua fisioterapista mi è sembrata molto... autoritaria,» commentò Kyle, alla vana ricerca di un termine neutro.
«Oh, quindi hai incrociato Nataša,» s'illuminò Tony, imprecando poi contro un falso contatto.
«Intendi Nathalie?»
«Nathalie, Nataša, Nat...» sbuffò lui. «Che ne pensi di lei?» aggiunse, con un sorrisetto malizioso.
«In che senso?»
«In quel senso, K.»
Kyle arrossì un poco.
«Diciamo che non è esattamente il mio tipo.»
Tony smise di accanirsi su una giuntura del ginocchio e lo fissò sbigottito, come se avesse affermato che la terra era piatta.
«K, la bellezza è oggettiva, non deve rispecchiare per forza i tuoi gusti sess–...»
«Non starei con nessuno che mi guarda come se volesse uccidermi,» lo interruppe lui, incrociando con decisione le braccia.
Lui meditò per qualche momento su quell'informazione, per poi alzare le spalle con fare rassegnato.
«Quello è un grosso punto a suo sfavore, ma ho un debole per le rosse,» ammise sovrappensiero.
«Lo so,» commentò Kyle, sorridendo candidamente sotto i baffi.
Solo allora Tony si voltò a guardarlo di scatto con un moto di panico, realizzando le implicazioni di ciò che aveva appena affermato. Kyle si limitò a fissarlo sornione, mentre lui metteva a soqquadro il cervello alla disperata ricerca di una replica sagace, ma il suo server dell'umorismo sembrava momentaneamente offline.
Si sentì in quel momento il sibilo dell'ascensore in movimento, seguito dalle porte che si aprivano, suoni che Tony accolse come una salvezza provvidenziale per trarlo d'impaccio, attaccando a parlare a raffica di tutt'altro:
«Ehi, arriva Nataša! Tienti per te i tuoi pareri su di lei o ti ammazza veramente. Sono serio. L'ho vista atterrare il fossile a stelle e strisce per un commento sui suoi capelli.»
«Il fossile a cosa?»
«Bel soprannome, eh? Lui preferisce il titolo di "Primo Vendicatore",» Tony mimò delle esagerate virgolette con le dita, «ma rimane un vecchio attempato in calzamaglia che lancia un frisbee col mio marchio sopra.» 
Aveva gradualmente e incautamente alzato la voce, mentre Nataša si avvicinava accigliandosi per aver colto uno stralcio della loro discussione: Tony aveva sottovalutato il suo udito superiore alla norma.
«Non sono sicuro di voler o poter sapere queste...» cercò di frenarlo Kyle.
«Macché, tutti sanno di Capitan Ghiacciolo e della sua inutilità, almeno una volta a missione rischiava di farmi ammazzare col suo ...»
«Stark.»
«Ehi, Nataša!» si girò verso di lei senza cogliere appieno il livore del suo volto, che aumentò nel sentirsi chiamare col suo vero nome.
Tony continuò a parlare con aria gioviale:
«Digli di quella volta che hai battuto Mr. Muscolo con...»
«Stark!»
«Cosa, dolcezza?»
«L'espressione "copertura" ti dice nulla?» sibilò avvicinandosi a passo di carica, adesso incurante di mantenere un contegno dinanzi a Kyle; lui in tutta risposta cercò di apparire il più indifferente possibile e fece retromarcia di un metro buono.
«Nah, non mi dona; infatti la mia è durata molto poco e... ehi! Ehi! Mollami!» Nataša lo afferrò per il colletto, sbilanciandolo dalla panca. «Così è sleale, sono quasi invalido e senza armatura, non puoi...» si ritrovò per terra a gambe all'aria, stordito e sorpreso come sempre dalla sua forza.
«Non vedo l'ora che tu ti regga sulle tue gambe, Stark, così potremo cominciare anche le sessioni di allenamento vere,» indicò il ring con fare minaccioso, ma con un sottotono divertito che non gli sfuggì.
«Quando vuoi, è sempre un piacere fare a botte con te,» replicò Tony con un sorrisetto sfacciato, forte del fatto che almeno per il momento era intoccabile in quanto atterrato.
«Sono sicura che l'Agente Barton sarebbe molto felice di saperlo.»
Il sorriso si eclissò dal volto di Tony. Gli mancava solo una freccia infilzata da qualche parte...
«Poi dovrete spiegarmi il motivo di tutta questa segretezza.» bofonchiò, rimettendosi a sedere e lanciando un'occhiata esasperata a Kyle, che in tutto ciò si stava impegnando a fingere di non esistere.
«Si chiamano protocolli, Stark. Quelli che tu non segui mai
Tony non trovò di che ribattere e anche Nataša sembrò aver concluso la sua ramanzina.
«Bene. A quanto pare io devo tornare alla base, mi hanno appena convocata d'urgenza; starò via per qualche giorno... per faccende che non ti competono,» si affrettò a specificare, prima che il collega potesse tempestarla di domande.
«Se è un'emergenza, dovrebbe competermi,» precisò lui, imperterrito, tirandosi su a sedere.
«Non nelle tue condizioni.»
«Ehi, io sono prima di tutto un consulente, non ho bisogno delle gambe per...»
«Tu per ora sei sul libro nero di Fury,» gli ricordò Nataša, costringendolo a tacere. «Limitati ad essere "il Meccanico", almeno per ora... e cerca di non combinare troppi disastri,» sospirò in tono più gentile, stringendogli brevemente il braccio sano a mo' di congedo.
Tony fece un gesto esasperato con la mano, ma annuì e non protestò oltre, non nascondendo però la sua delusione per l'essere messo ancora una volta in disparte.
Nataša fece un breve cenno di saluto a Kyle che somigliava molto a un "ti tengo d'occhio".
«Tu non sai niente,» gli intimò.
«Sissignora,» rispose lui docilmente con un'alzata di spalle, mentre la donna usciva in tutta fretta senza voltarsi indietro.
Tony si grattò la testa, perplesso per la piega improvvisa degli eventi.
«Pare che la mia fisioterapista sia troppo impegnata per occuparsi di me,» osservò infine, girandosi verso Kyle con rassegnazione.
Lui sbuffò appena, con un mezzo sorriso incoraggiante.
«Ho un paio d'ore da sprecare prima di tornare ad occuparmi del tuo caso.»
«Prepara i popcorn.»


***


19 Maggio, Villa Stark, 21:00

Non ricordava l'ultima volta che si era impegnato così tanto in qualcosa. Ovviamente costruire le protesi gli aveva richiesto un'attenzione costante che aveva riempito totalmente la sua vita negli ultimi quattro mesi, ma era comunque qualcosa che era abituato a fare. Anche in passato gli era capitato di spendere giorni interi in laboratorio, immerso in qualche progetto particolarmente complesso. Era cresciuto tra macchinari e apparecchiature elettroniche: quello era il suo mondo, fatto di robot, computer e dispositivi futuristici che curava e perfezionava con dedizione.
Questo, invece...
Tony trattenne bruscamente il fiato nel poggiare il piede, ma riuscì a non sbilanciarsi in avanti e si artigliò alle sbarre di sostegno. Questo era molto più difficile di qualunque progetto su cui avesse mai lavorato, principalmente perché sentiva di non poter evitare in alcun modo i problemi che gli si paravano davanti. Quella era sempre stata la sua mentalità: se non puoi risolvere un problema, aggiralo. Aveva sempre funzionato, anche nella fase di costruzione delle protesi. Per quanto insormontabili gli fossero sembrati gli ostacoli tecnici in cui si era imbattuto, era sempre stato consapevole di essere in grado di superarli grazie al suo ingegno e a un po' di furbizia.
In quel caso il limite era il suo corpo e quegli ostacoli potevano solo essere abbattuti, a suon di tentativi, perseveranza e forza di volontà, oltre a un considerevole quantitativo di lividi.
Fece un altro passo, spingendo con la gamba meccanica. Gli sembrava un po' più stabile, o forse era solo il moncherino che si era intorpidito. Si sentiva bruciare i muscoli superstiti e aveva già dovuto contenere un paio di crampi. Nataša lo aveva avvertito di non forzare le cose e di prendersi il riposo necessario ma lui, nonostante le proteste del suo corpo, sentiva di poter continuare all'infinito. Sapeva che in fondo era solo un'illusione e che il mattino dopo si sarebbe risvegliato con dolori più atroci del solito, ma la sensazione elettrizzante di essere finalmente in piedi sulle proprie gambe lo inebriava, ed era disposto a pagare le conseguenze della sua testardaggine.
La sua concentrazione fu spezzata da un sibilo preoccupante proveniente da uno dei raccordi del ginocchio. Si affrettò a saltellare sulla gamba buona per raggiungere la panca. Valutò le condizioni della protesi, innaturalmente calda al tatto; intravedeva addirittura un sottile filo di vapore che scaturiva dal ginocchio. Assottigliò le labbra, contrariato.
Aumentare la capacità conduttiva dei nervi causava un surriscaldamento eccessivo e di quel passo l'articolazione si sarebbe usurata troppo rapidamente. A breve avrebbe dovuto interrompere nuovamente la fisioterapia per sostituire le articolazioni: non poteva rischiare di danneggiare irreparabilmente la protesi. Sospirò con rassegnazione, contraendo la mascella: quel continuo tira-e-molla lo esasperava.
«JARVIS, scannerizza i miei ultimi appunti ed elabora un modello digitale di quelle capsule in unobtanium. Tienilo pronto per domattina,» ordinò.
Seguì un segnale acustico affermativo da parte del computer che echeggiò nella sala deserta.
Kyle se n'era andato verso sera dopo aver pazientemente assistito ai suoi esercizi, facendogli addirittura il tifo ed alleviandone il peso; nelle pause si erano ritrovati a parlare del più e del meno, senza riferimenti a processi, protesi e agli eventi passati. Ciò l'aveva sollevato: si era sentito più loquace del solito e aveva accettato di buon grado la sua compagnia. Si era persino arrischiato a chiedere informazioni su Pepper, ma la risposta era stata estremamente vaga e Kyle aveva subito sviato l'argomento, così aveva rinunciato senza rammaricarsene troppo. Avrebbe avuto modo di far fronte anche a quel problema, prima o poi. Non poteva distrarsi proprio adesso che era così vicino alla prima tappa del suo percorso.
In compenso aveva ricevuto un resoconto dettagliato dei trascorsi amorosi dell'avvocato, trovandosi per la prima volta a corto di consigli in quel campo, a parte evitare come la peste camicie hawaiane e cravatte rosa shocking. Kyle sembrava aver trovato il suo imbarazzo molto divertente e si erano congedati su una nota scherzosa, nonostante l'avvocato gli avesse indirettamente ricordato di prepararsi al processo. Tony aveva risposto con un falsissimo sorriso rassicurante, cosciente che non si era avvicinato neanche per sbaglio alle scartoffie che Kyle gli aveva diligentemente lasciato da studiare settimane prima. 
Happy, passato a prendere Kyle, si era trattenuto brevemente per salutare, e nel solito fare burbero del suo autista Tony aveva colto una nota quasi commossa, unita alla promessa di un futuro incontro sul ring. Tony sperava con tutto il cuore che sarebbe arrivato presto.


***

Si era fatto buio da un pezzo, e le vetrate lasciavano intravedere solo le luci soffuse dei lampioni in giardino. Doveva essere molto tardi, ma non avrebbe saputo dire quanto.
Tony revisionò rapidamente la protesi, adesso più fredda, concludendo che era in grado di reggere almeno un altro paio di passeggiate zoppicanti. Poi, a nanna. Non poteva pretendere troppo dal suo corpo, o si sarebbe trovato di nuovo immobilizzato a letto. Fece leva sulle stampelle e si alzò un po'sbilenco, accigliandosi per quella prospettiva poco entusiasmante.
Riprese posizione alle sbarre, poggiandovi il proprio peso, e saggiò la stabilità delle sue gambe. Si preparò mentalmente ai dieci o quindici minuti che gli avrebbero richiesto quei pochi passi, poi si umettò le labbra, ignorando la stanchezza e concentrando le proprie energie sull'esatta sequenza di movimenti che avrebbe dovuto svolgere. Scaricò il peso anche sulla protesi e dopo qualche secondo di oscillazioni trovò un punto di equilibrio.
Si arrischiò a lasciare la presa dal suo sostegno, pronto a riafferrarlo, e con suo enorme stupore riuscì a rimanere in piedi per più di qualche secondo, sebbene con sforzo. Raddrizzò la schiena e la gamba meccanica tremò leggermente, così divaricò leggermente le piante dei piedi per ammortizzare meglio la vibrazione. Rimase immobile a lungo, testando la resistenza della protesi e del proprio corpo. Perse lentamente la percezione del moncherino, della pressione sulla piaga, della pesantezza e rigidità innaturali della gamba. Gli sembrava di non avere alcuna protesi: era una strana sensazione, ma in un certo senso rassicurante.
Ebbe un inatteso tuffo al cuore nel realizzare che era finalmente in piedi.
Sentì un fiotto di calore infiammargli il petto, improvvisamente conscio di quel che stava accadendo e la testa gli si fece leggera, confusa dal rimescolarsi di mille sensazioni; il suo volto non sapeva che espressione assumere e rimase vacuo per qualche istante, prima di aprirsi in un sorriso incredulo e poi in una risata liberatoria. Non si era mai immaginato di poter essere così felice per un gesto così semplice.
Si trovò a desiderare che ci fosse qualcuno lì a guardarlo, ad assistere al suo successo, alla conquista a cui aveva aspirato per tutti quei mesi. Il suo sguardo spaziò sulla palestra vuota e sentì la sua euforia smorzarsi un poco, sapendo in cuor suo chi avrebbe voluto avere al suo fianco in quel momento. Gli rimase comunque un'espressione soddisfatta stampata in faccia, nella segreta speranza che, forse, il giorno in cui Pepper avrebbe potuto vederlo in piedi sarebbe arrivato prima del previsto.
"Forse anche adesso..."
All'improvviso venne folgorato da un'idea molto sciocca, ma anche molto allettante.
«Ehi, JARVIS,» chiamò piano, timoroso di rompere il suo fragile equilibrio, e si stupì nel sentire il tremore emozionato nella sua voce. «Immortala il momento.»
«Vuole rendere noti al mondo i suoi progressi, signore?» chiese lui, con una curiosità insolita anche per un super-computer.
«Ancora no... per ora mi limito a spedire una cartolina allo SHIELD,» replicò lui, con sicurezza.
Uno schermo-specchio olografico si materializzò davanti a lui.
Tony osservò il suo riflesso e per la prima volta dal momento dell'incidente non provò rabbia o sconforto o rassegnazione nel vedersi. Era semplicemente
lui, stanco dopo una giornata di lavoro, coi capelli un po' arruffati e la solita aria impertinente, ben saldo sulle sue gambe. La canotta scura faceva risaltare la familiare, rassicurante luce azzurrina del reattore arc. Quell'immagine gli appariva naturale. E il nero gli donava, concluse in un guizzo d'amara autoironia, contemplando il rivestimento opaco delle protesi fin troppo evidenti. Si coprì esitante lo sfregio in volto con la mano, seguendo i movimenti del suo gemello olografico. Fece una smorfia dubbiosa e scoprì la ferita, per poi ripensarci, osservando l'effetto; si risolse a rimettersi la benda.
«Quando vuoi, JARVIS, non ho tutto il giorno,» lo spronò con uno schiocco di dita; iniziava a percepire una stanchezza tangibile, ma si sentiva proprio in vena di una delle sue trovate stravaganti e imprevedibili.
Un countdown di tre secondi lampeggiò sull'ologramma mentre il computer aggiustava la messa a fuoco, pronto a scattare.
Tony si mise in posa e sollevò entrambe le mani, sfoggiando due segni di vittoria e un sorriso da spaccone.




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Note Dell'Autrice:

Buonsalve, gente!
Torno prima del previsto ad aggiornare, principalmente perché la stesura procede bene e perché, lo ammetto, un po' smaniavo per pubblicare questo capitolo.
Considero questo capitolo una conquista sia per Tony, che Alleluja è finalmente in piedi, sia per la storia, che finalmente arriva al punto di svolta agognato sin dall'inizio della stesura. Scriverlo mi ha messo allegria e spero che possa trasmetterla anche a chi legge :)

Come è evidente, mi sono votata nuovamente alle parti tecniche, stavolta con l'appoggio di un Consulente che mi ha aiutato (e impedito) di scrivere troppe stronzate riguardo ai reattori. Rimane comunque pseudo-scienza, ma manterrà una sua logica nel corso della storia.
A parte ciò, ho finalmente voluto dedicare un po' di spazio a Kyle, che era stato messo abbastanza da parte negli ultimi capitoli. Spero di essere riuscita a renderlo un po' più "vivo" come personaggio, insomma. Vi rallegro anche con una chicca su di lui, ovvero il disegno a fine note, realizzato da una mia (all'epoca) compagna di classe, che un tempo aveva un account qui come Biatheginger (che a quanto pare ha eliminato, ma mi sembra giusto creditarla).

Detto ciò, sommergo come sempre di ringraziamenti la carissima _Atlas_, supporter nr.1 di questa storia e sua assidua commentatrice <3
E grazie a chiunque leggerà e/o recensirà!

Spero di riuscire ad aggiornare prima dell'uscita di Infinity War (la butto là: probabilmente sarà il giorno prima), visto che la stesura dei restanti capitoli procede abbastanza bene :D
Hasta la vista,

-Light-

P.S. L'arrivo di Eye Of The Tiger come colonna sonora di un capitolo era un pelino prevedibile e scontato, ma non ho resistito :P
P.P.S. E parlando di cose prevedibili, anche il titolo del prossimo capitolo lo è, credo...


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© Biatheginger    



© Marvel

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Capitolo 35
*** Stay foolish ***




34

 

  

Stay foolish







"I think I found my place
Can't you feel it growing stronger?
Little conquerors
Learning to walk again
I believe I've waited long enough
Where do I begin?"

[Walk – Foo Fighters]







24 Maggio, Villa Stark

«Non mi sembra una grande idea,» constatò ancora Tony, fissando dubbioso Nataša, al che lei alzò entrambe le sopracciglia.
«Ma come, non eri tu a dire sempre che a volte "bisogna correre prima di saper camminare"?» lo punzecchiò, facendogli poi cenno di muoversi.
«Era un'espressione metaforica. E mi sono ravveduto,» borbottò lui, ancora più riluttante a lasciare l'appoggio delle stampelle.
Nataša sospirò, presa in contropiede da quel suo atteggiamento stranamente cauto.
«Stark, fino a tre giorni fa scalpitavi per fare tutto subito, come sempre. Cosa ti ha fatto cambiare idea?»
Tony esitò, poi inclinò appena la testa di lato e una smorfia a metà tra il contrito e il perplesso gli attraversò il volto.
«I lividi?» tentò infine, poco convinto.
A quel punto Nataša si sedette di peso sulla panca, poggiò i gomiti sulle ginocchia a sorreggersi il mento e lo squadrò fissamente da capo a piedi. Era in attesa e Tony sapeva che non si sarebbe schiodata di lì finché non avesse fatto ciò che doveva. Nel caso specifico camminare, o almeno provarci.
Voltò la testa a sfuggire le sue iridi chiare e impassibili. Non era certo la prospettiva di qualche livido in più a frenarlo. A quelli si era abituato, così come al perenne dolore al petto, prima, e alle incessanti fitte ai moncherini, poi. A preoccuparlo era qualcosa di molto meno ovvio e si chiedeva con apprensione se la sua improvvisata fisioterapista, coi suoi anni di esperienza spionistica, riuscisse a intuirlo.
Finché aveva tentato quasi per gioco di stare in piedi o camminare da solo, ben conscio che fosse troppo presto per riuscirci, non aveva dato peso ai suoi fallimenti e aveva invece esaltato più del dovuto i suoi successi, per quanto minimi. Nataša si era sempre mostrata contraria a quelle bravate, insistendo che fossero controproducenti, ma voleva credere che anche lei fosse stupita dai suoi rapidi progressi. Lui stesso se ne meravigliava, quando fino a pochi mesi prima non riusciva a immaginarsi neanche di alzarsi da solo dal letto.
Adesso Nataša sembrava ritenerlo pronto per i primi tentativi "ufficiali". La cosa avrebbe dovuto entusiasmarlo. Al contrario, era paralizzato di fronte alla prospettiva di un fallimento stavolta ingiustificabile. Temeva di scoprire altri difetti in se stesso e nelle protesi, altre limitazioni alle quali non avrebbe saputo porre rimedio. Era quasi arrivato al capolinea: le protesi potevano ormai considerarsi complete. Doveva solo sostituire le vecchie articolazioni con le nuove, ma sapeva che anche quello non avrebbe migliorato in modo sostanziale il loro rendimento e le interferenze tra i reattori imperversavano, seppur in misura minore.
Intuiva con devastante chiarezza che non avrebbe mai raggiunto il controllo completo dei propri movimenti. Sentì un nodo alla gola nel dare forma definitiva a quel pensiero: non sarebbe mai riuscito a camminare così bene come aveva sempre  ottimisticamente prospettato. Con tutta probabilità sarebbe rimasto zoppo, e anche ammettendo che fosse un grande miglioramento rispetto al non avere affatto una gamba, non riusciva a capacitarsi di non poter fare di meglio.
Non voleva poi soffermarsi sui reali limiti del braccio, che finora aveva evitato di sperimentare appieno, ma la quantità di matite spezzate e oggetti rotti non faceva ben sperare. Così come il 15% di palladio nel suo corpo.
Aumentò la stretta sulle stampelle, sentendosi appesantito da quei pensieri e dalla fatica. A volte lo colpiva prepotente il desiderio di potersi risvegliare quel giorno di cinque mesi prima per poter compiere scelte completamente diverse da quelle che lo avevano portato in quella situazione, non solo per quanto riguardava le protesi. Lanciò un'occhiata sfuggente a Nataša chiedendosi se al suo posto avrebbe potuto esserci qualcun altro, potendo ricominciare.
Si decise a chiudere la porta su quei pensieri, prima che gli risucchiassero quel briciolo di volontà che riusciva ancora a raccimolare ogni mattina.
Lanciò un'occhiata alla palestra, come a verificare che non ci fossero altri spettatori, poi lasciò andare i suoi sostegni, facendoli cadere rumorosamente per terra. Mantenne l'equilibrio in modo abbastanza naturale: a quello si era ormai abituato, anche se non poteva ancora permettersi di perdere la concentrazione. Adesso doveva solo... muoversi. Sentì un velo di sudore freddo che gli imperlava la fronte, mentre si sforzava di trovare la percezione della propria gamba metallica. A quello non si era ancora abituato.
«Muovi prima la protesi,» gli arrivò la direttiva di Nataša, più un incoraggiamento che un vero e proprio consiglio.
Si era portata al suo fianco, così da poterlo sostenere in caso di bisogno. Si teneva comunque a una distanza ragionevole, rispettando quegli spazi ben delimitati dal suo orgoglio: sarebbe stato tutto molto più semplice se si fosse fatto guidare lei, ma c'era un limite alla sua tolleranza per l'aiuto altrui. L'estrema consapevolezza del suo corpo mutilato lo portava comunque a schivare attivamente ogni tipo di contatto fisico, anche se aveva finito per cedere un poco con Nataša.
Inspirò a fondo, tanto che sentì una leggera costrizione allo sterno, là dove il reattore compenetrava la gabbia toracica. Rilassò il petto alleviando la pressione.
Mosse cautamente il piede meccanico in avanti cercando di non pensarci troppo e riuscì a trascinarlo pesantemente sul pavimento. Vacillò appena per lo spostamento del baricentro e dovette allargare le braccia per non cadere. Nataša lo sostenne brevemente per una spalla e annuì piano a quel primo passo, ma era accigliata:
«Devi provare a sollevarla come faresti con l'altra. Stai dritto e abbassa le braccia.»
Lui si limitò a fare un cenno affermativo, troppo assorto per rispondere e sentendosi incapace di tenere a mente tutte quelle direttive. Si costrinse a rilassare le braccia lungo i fianchi per non sembrare un funambolo e trasferì lentamente il peso sulla protesi per tentare di muovere il passo successivo. Ci sarebbe stata una frazione di secondo in cui si sarebbe ritrovato in equilibrio su una gamba sola, prima di poggiare l'altra. Aveva simulato il movimento più e più volte, aveva fatto valanghe di esercizi per imparare a coordinare le due gambe, ma adesso gli sembrava di avere non una, ma due estremità inerti e insensibili ai suoi ordini.
"Salta prima di guardare," gli balenò in testa, e così fece, muovendo il passo con sicurezza.
La protesi cedette di schianto e si ritrovò carponi col volto a un soffio da terra; aveva avuto la prontezza di parare avanti almeno il braccio sano. Si prese qualche istante per assicurarsi di essere ancora tutto intero, ma a parte il palmo un po' arrossato e delle fitte più acute del normale ai moncherini non sembrava aver subito altri danni. Fortunatamente aveva avuto l'accortezza di rinforzare il rivestimento esterno delle protesi.
Accettò con riluttanza l'aiuto di Nataša e si rialzò sorreggendosi il meno possibile a lei, lasciandola non appena fu sicuro che il suo punto d'appoggio fosse stabile.
«Ok, quello era per scaldarmi,» buttò lì con disinvoltura, molleggiando lievemente sulle ginocchia per testare la tenuta delle articolazioni.
Il lampo accecante di dolore che seguì quel piccolo gesto fu tale che gli si appannò la vista e dovette simulare uno sbadiglio per mascherare l'espressione sofferente e le lacrime. Nataša inarcò un sopracciglio ma non commentò, probabilmente per non demolire la sua ritrovata buona volontà.
Tony ci riprovò, stavolta dosando con la massima attenzione i propri movimenti. Riuscì ad alzare appena il piede meccanico da terra e a riappoggiarlo senza sbilanciarsi; allargò di nuovo le braccia per mantenere l'equilibrio, sentendo un lieve fremito risalire lungo la sua gamba. Spostò avanti e indietro il suo peso, senza decidersi a fare leva sulla protesi per muovere il passo successivo. Si umettò le labbra secche, esitando ancora: in effetti non aveva così voglia di rimediarsi altri lividi, né di cadere ancora dando prova della propria incapacità.
"Cosa potrà mai succedere? Al massimo mi rompo l'altra gamba," s'incoraggiò infine tetramente.
Smise di guardare per terra e puntò lo sguardo su un punto indefinito di fronte a sé. Aveva ancora la percezione del suo appoggio; il pavimento era freddo sotto la pianta del piede nudo, e si convinse di poterlo sentire anche con quella artificiale. In qualche modo lo aiutò a focalizzare meglio la sua posizione. Per una frazione di secondo ebbe la percezione di se stesso avvolto nell'armatura, sollevato da terra dai propulsori. Tutto ciò era davvero tanto diverso rispetto ai suoi primi, goffi tentativi di volo? Sentì un pizzicore in fondo allo stomaco al pensiero e gli parve che qualcosa lo sospingesse in avanti con leggera fermezza.
Seguì l'impulso e mosse la seconda falcata, un po' bruscamente per paura di cadere di nuovo. Lo slancio fu troppo potente e fu costretto a compensare con un altro passo affrettato della protesi, che si abbatté rumorosamente a terra; si ritrovò a incespicare in avanti senza più riuscire a frenarsi. Inarcò la schiena all'indietro tentando di recuperare l'equilibrio e finì per atterrare a peso morto e ben poco dignitosamente sul sedere. Si tastò l'osso sacro dolorante, sforzandosi di non lasciarsi sfuggire neanche un lamento, concludendo che era meglio finire culo a terra in privato, piuttosto che in diretta come un paio di mesi prima.
Si lanciò un'occhiata circospetta alle spalle, dove Nataša lo osservava impassibile.
«Ehi, quelli valevano come cinque passi, no?» le chiese, con un ghigno tronfio.
Lei scosse la testa mentre si avvicinava, tradendo un accenno di sorriso.
«Più o meno,» si limitò a rispondere, offrendogli entrambe le mani e aiutandolo nuovamente ad alzarsi.
«Sto iniziando a capire,» affermò lui in tono saputo, piantandosi di nuovo saldamente sui suoi piedi come rinvigorito dalla caduta. «Dammi tre giorni e ti concedo quel match sul ring.» la sfidò poi con impertinenza.
Lei alzò gli occhi al cielo, ignorando le sue solite sbruffonate, ma sembrava lieta che avesse abbandonato la sua iniziale riottosità. In fin dei conti bastava poco per risollevargli l'umore e ancor meno per fomentare il suo ego.
«JARVIS, metti qualcosa che mi dia la carica; la playlist di volo della Mark III andrà bene,» esclamò Tony, attivando l'impianto stereo con un gesto della mano.
«Stark ti prego, non ricominciare con quella tua musica infernale o...»
«Casa mia, mie le regole!» la zittì con una linguaccia infantile, mentre la sua voce veniva coperta da un fragoroso accordo di chitarra elettrica.
Nataša si tappò le orecchie sensibili. Non vedeva l'ora che quell'incarico finisse, ma scosse la testa con fare divertito nel vedere Tony che cercava di camminare facendo finta di suonare una chitarra a mezz'aria.


***


26 Maggio, Villa Stark

«Stark, concentrati, ci sei riuscito fino a...»
«È il Doc che mi sta portando sfortuna!»
«È bello trovarla affabile come sempre, signor Stark.»
«No, davvero, non ero caduto fino ad ora! Non è una coincidenza!» 
Tony sbuffò, rifiutò l'aiuto di Nataša e si issò sulla sua solita panca, accaldato e guardando storto Ian; si attaccò alla borraccia di clorofilla senza staccargli l'occhio di dosso. La donna scambiò un'occhiata esasperata col medico, che alzò le spalle, ormai abituato alle esternazioni di "gratitudine" del suo paziente preferito.
«Se ne occupa lei per un po'? Ho davvero bisogno di una pausa,» sospirò la donna, sottintendendo un palese "altrimenti lo strozzo".
Era evidentemente sfiancata dopo aver passato gli ultimi tre giorni a tenere a bada un irrefrenabile e iperattivo Tony Stark che, tra una crisi di scoraggiamento e l'altra, sembrava voler compensare tutto l'ozio di quei mesi nel minor tempo possibile. Ian annuì comprensivo, osservando Nataša uscire a passo di carica. Era incredibile come quella donna, che dalle sue enigmatiche telefonate con Coulson aveva intuito essere parte dello SHIELD, non l'avesse ancora ucciso.
Il medico si avvicinò con falcate indolenti a Tony, che si stava premendo una borsa del ghiaccio sulla testa ammaccata scrutandolo ancora con espressione decisamente diffidente.
«Mi sembra che la sua riabilitazione stia andando bene,» commentò Ian, mettendosi le mani in tasca e attirandosi una nuova occhiataccia da parte sua.
«Fino a dieci minuti fa, ,» replicò acidamente Tony.
Ian si schiarì la gola con fare irritato:
«Quella non si chiama "sfortuna", ma "ansia da prestazione".»
A quelle parole Tony sollevò la testa di scatto, puntandogli contro l'indice:
«Io e un altro centinaio di persone possiamo confermarle che non soffro di nulla del genere e che...»
«Stark! Non era questo che intendevo!» lo interruppe Ian, diventando paonazzo e non volendo assolutamente sapere se quella fosse un'esagerazione o meno.
Tony ammutolì, rendendosi conto di aver reagito un po' troppo bruscamente e piuttosto a sproposito.
«Mi basta la Everhart a screditare la mia virilità in prima pagina. Non ci si metta anche lei, neanche per scherzo,» replicò infine piccato, e riprese a premere il ghiaccio contro il bernoccolo.
Ian mantenne un cauto silenzio, rendendosi conto di aver toccato involontariamente un nervo scoperto. Tony notò l'espressione impacciata del medico e si lasciò sfuggire un sospiro:
«Tranquillo, Doc, non me la prendo per così poco. Ho comunque tutte le mie altre "performance" a smentire le balle di Vanity Fair.» Terminò la frase con un sorrisetto sghembo che riportò al cielo gli occhi di Ian, e ripose la borsa del ghiaccio accanto a sé. «Comunque, l'ansia è fatta per essere superata,» continuò in tono esageratamente teatrale, cercando di alzarsi da solo ma rassegnandosi infine ad accettare l'aiuto di Ian, che gli porse discretamente una mano.
Il medico era già pronto a sostenerlo, ma Tony rimase saldamente in piedi, così si allontanò di un passo, aspettando incuriosito e con moderata aspettativa. Poco prima l'aveva visto muovere appena un paio di passi incerti prima che lui notasse la sua presenza e rovinasse a terra all'istante. Anche solo il fatto di reggersi sulle sue gambe era un risultato eccezionale, considerando le condizioni pietose in cui versava fino a un mese prima.
Per ora, Tony continuava a spostare nervoso il peso da una gamba all'altra, sentendosi troppo osservato. Fino a quel momento non si era minimamente posto il problema di come apparisse ad occhi esterni, ma adesso si sentiva come alla prima di uno spettacolo poco prima di salire sul palco. O almeno, pensò che così dovevano sentirsi gli attori o i musicisti: lui di panico da palcoscenico non se ne intendeva, visto che si comportava sempre come se fosse sotto i riflettori, con assoluta disinvoltura. Concluse solo che non era una sensazione piacevole, ma s'impegnò a tenerla sotto controllo.
Quella era l'occasione giusta per mostrare a Ian, sempre così scettico e negativo, che le protesi funzionavano e, soprattutto, che non doveva pentirsi di avergliele impiantate. Sapeva benissimo che il medico era afflitto da molte più preoccupazioni riguardo al suo operato di quanto lasciasse trasparire, e voleva cercare di alleviarne almeno una parte, visti anche i suoi recenti turbamenti sui quali continuava a mostrarsi estremamente riservato. Gli scoccò uno sguardo da sopra la spalla, con un sorriso furbo:
«Stia a guardare. Sta per assistere a qualcosa che non si vede tutti i giorni,» si vantò, suscitando un'espressione dubbiosa sul volto dell'altro.
Tony represse il nervosismo che gli stava facendo tremare la protesi e ripeté la sequenza che aveva ormai imparato a seguire ed applicare: fece un respiro profondo, trattenne l'aria e mosse il primo passo con la protesi, espirando. Barcollò appena. Fece lo stesso con l'altra gamba e poi ancora, e ancora, a ritmo col proprio respiro. Era un trucco così elementare che quando Nataša gliel'aveva suggerito era scoppiato a ridere, pensando che lo stesse prendendo in giro. Si era dovuto ricredere ben presto. Non faceva certo miracoli, ma almeno lo aiutava a cadenzare la camminata, anche se per ora, più che una camminata, era una marcetta ridicola e macchinosa. Ma riusciva a muoversi senza aiuto, e questo fatto da solo lo riempiva di una gioia che non provava da tempo. Era a malapena in grado di contenere l'entusiasmo per quei pochi, stentati passi che riusciva a mettere in fila.
Contò il settimo. Poco prima ne aveva fatti nove e si era messo in testa di fare sempre meglio della volta precedente, così ricacciò indietro il tremito dei suoi muscoli e si sforzò di non guardarsi i piedi, continuando ad avanzare e contare. All'undicesimo passo si fermò di scatto a corto di fiato, avvertendo un tremito cedevole nei muscoli; ridistribuì il peso su entrambe le gambe per non cadere di schianto e si prese qualche secondo per metabolizzare il suo successo. Sentiva il moncherino in fiamme, ma strinse i denti e si girò con cautela a guardare Ian che lo fissava con espressione quasi scioccata, nonostante cercasse di mantenersi compassato come sempre.
Tony lasciò trapelare appena la sua euforia, prima di sorreggersi con le mani sulle ginocchia per poi lasciarsi scivolare lentamente a terra, nel tentativo di riprendere fiato tra i denti serrati e di alleviare il peso sulla ferita. Si sedette di peso e piegò un paio di volte il ginocchio, ignorando le proteste della piaga e il cigolio della protesi. Si accorse del medico che gli si avvicinava e si accovacciava alla sua altezza, ma non alzò la testa per nascondergli la sua espressione ancora dolorante. A quel punto Ian ebbe qualche secondo di esitazione, per poi dargli una goffa pacca sulla spalla e stringerla appena, puntando però lo sguardo da tutt'altra parte.
Tony quasi sobbalzò, ma apprezzò il tentativo. Sapeva che il medico trovava difficile esternare ciò che pensava, soprattutto se era qualcosa di positivo: da parte sua quel gesto impacciato valeva più di mille parole. Si decise ad alzare il volto, con la tipica espressione sorniona stampata in faccia a coprire quella ancora provata dallo sforzo.
«Non è così difficile, dopotutto,» disse, in tono forzatamente leggero.
Dal lampo che passò sul volto di Ian era sicuro di dover ringraziare le sue condizioni di salute ancora incerte per non aver ricevuto un pugno in piena faccia. Strinse un poco la presa sulla sua spalla.
«E ci ha messo così tanto a capirlo?» lo rimproverò laconico, ma in tono pacato, scrutandolo da dietro le lenti.
Tony sentì la sua soddisfazione rimpicciolire di fronte a quelle parole accusatorie. Si scostò i capelli umidi dalla fronte e distolse lo sguardo, improvvisamente a disagio. Intuiva perfettamente ciò che intendeva Ian, anche se di solito cercava di non pensare a tutto ciò che era successo prima. E soprattutto al tempo perso. Preferiva concentrarsi sui successi dell'ultimo mese, su quei progressi incredibili che non avrebbe mai immaginato di poter compiere in così breve tempo, sia mentalmente che fisicamente. Ritrovarsi in piedi era stato un fulmine a ciel sereno, e mentre sapeva che era in gran parte merito suo, si rendeva conto di dovere moltissimo anche agli altri. A dirla tutta doveva loro la vita, che aveva un valore infinitamente più alto di qualche bravata con le protesi. La gratitudine non era una sentimento a lui familiare, ma si era ritrovato a provarlo sempre più spesso in quell'ultimo periodo, soprattutto verso l'unica persona che gli mancasse in quel momento.
«Sarò anche un genio, ma sono un po' lento in queste cose,» tentò di sdrammatizzare, per camuffare il suo turbamento.
Era fin troppo consapevole che avrebbe dovuto iniziare a mostrarsi riconoscente molto, molto prima, quando invece gli unici sentimenti che lo affliggevano erano fastidio, frustrazione e insofferenza verso chiunque cercasse di entrare nel guscio impenetrabile che si era impegnato a delimitare accuratamente, e che aveva infine tentato di distruggere insieme a se stesso. Aveva davvero molto da farsi perdonare, ma doveva pur cominciare da qualche parte.
Si accorse con stupore che un sorriso appena accennato aleggiava sul volto di Ian.
«Meglio tardi che mai.»

***


29 Maggio, Villa Stark, 08:20

Tony si svegliò particolarmente indolenzito e passò una buona mezz'ora a crogiolarsi nel letto senza trovare la voglia di alzarsi. Sentiva di meritare un po' di riposo dopo i successi dei giorni prima e per una volta non si sentiva incalzato dal senso d'urgenza che aveva permeato quelle ultime settimane, né dalla spossatezza rassegnata che lo trascinava spesso nell'apatia.
In quel caso aveva solo voglia di concedersi un po' di sano riposo: i suoi progressi superavano le aspettative e non sarebbero state un paio d'ore d'ozio a rallentarli. Si rifugiò di nuovo sotto le lenzuola appena lambite dalla luce dorata del sole, godendosi il tepore e la quiete del mattino mentre ondeggiava in un labile e piacevole dormiveglia.
Dopo poco, però, la sua naturale irrequietezza ebbe la meglio sulla pigrizia e si destò del tutto. Si sedette sulla sponda del letto e saggiò la stabilità della gamba, trovandola come sempre troppo dolorante per mettersi in piedi senza sostegni come aveva ingenuamente sperato. Si lasciò sfuggire un sospiro deluso, ma non lasciò che quell'inconveniente abbattesse il suo buonumore e afferrò le stampelle issandosi in piedi. La protesi anteriore cigolò spiacevolmente strappandogli una smorfia infastidita. Fece qualche passo di prova, concludendo che poteva poggiarla appena senza troppe conseguenze e si avviò in bagno, ansioso di abbandonarsi nella vasca per ridurre la pressione che sentiva sui moncherini, in attesa degli antidolorifici. Poi avrebbe potuto dedicarsi a qualche esercizio di "consolidamento delle articolazioni", come li aveva chiamati Nataša.
La donna aveva evidentemente esaurito la dose di buona volontà e pazienza nei suoi confronti e il giorno prima aveva stabilito che adesso era in grado di cavarsela da solo, ma gli aveva lasciato qualche compito a casa e aveva minacciato di scatenargli contro Rogers se avesse battuto la fiacca o, al contrario, se avesse fatto pazzie.
Lui si era limitato ad annuire e borbottare dei "sì" assenti ad ogni sua raccomandazione decisamente inutile: non aveva alcuna voglia di rompersi di nuovo le protesi per ricominciare tutto da zero, di nuovo. Nonostante ciò, l'aveva ringraziata con sincera riconoscenza e anche lei sembrava soddisfatta del lavoro che aveva svolto con lui, arrivando a congedarsi con un fiducioso "a presto", accompagnato da uno sguardo meno gelido del solito e coronato da un rapido, saldo abbraccio che l'aveva sorpreso. Tony si era limitato a sorridere di rimando e ricambiare in modo un po' impacciato: Nataša aveva fatto per lui molto più di quanto si sarebbe aspettato e probabilmente più di quanto le fosse stato ordinato. Sapere di essere forse riuscito a riconquistare almeno la sua fiducia, dopo quella di Clint, lo riempiva di ottimismo e alimentava la speranza che un giorno sarebbe stato di nuovo bene accetto tra i Vendicatori. Quel pensiero portò con sé una ventata di serenità, e si godette il bagno con un lieve sorriso ad aleggiargli sulle labbra.
Dopo essersi districato goffamente tra vasca, accappatoio e vestiti, riuscendo miracolosamente a non cadere, scese al piano terra, deciso a fare una colazione rapida e a non perdere altro tempo. Avrebbe speso la mattinata in laboratorio calibrando il braccio, visto che, da quando aveva finito di modificare i nervi, la sua eccessiva potenza gli era già costata tre bicchieri, un telefono e una stampella.
«JARVIS, proiettami un modello della protesi anteriore,» ordinò, mentre sorseggiava la sua prima razione di clorofilla al posto del caffè.
Premette distrattamente il dito sul rilevatore di tossicità: ancora 15%. Allargò il colletto della maglia per sbirciare il reattore e intravide il solito leggero reticolo di vene scure a circondarlo. Tutto nella norma.
L'ologramma era sospeso sul tavolo della cucina e lui prese a ruotarlo qua e là mentre cercava di stemperare il saporaccio del "succo d'erba" con un toast un po' bruciacchiato. Non era una combinazione vincente, concluse con una smorfia schifata, ingrandendo intanto la capsula del gomito. Avrebbe dovuto decidersi a realizzare le nuove articolazioni, ora che non aveva più scuse per rimandare la cosa...
«Di' ai robot di preparare un'altra partita di unobtanium. Me ne servirà un bel po', calcolane almeno tre o quattro di chili,» precisò, tracannando l'ultimo sorso dell'intruglio imbevibile.
«Subito. Robot operativi,» rispose il suo maggiordomo, stranamente laconico anche per essere un'entità incorporea.
Seguì un breve silenzio interrotto solo dal ticchettio distratto delle dita meccaniche di Tony sul tavolo, intento a ruminare sulla sua colazione e sugli schemi azzurrini.
«Oggi è il 29 maggio 2009,» annunciò inaspettatamente JARVIS. «Buon compleanno, signore.»
Tony rimase col toast a mezz'aria, preso alla sprovvista.
«Oh, giusto. Grazie, JARVIS,» riuscì a dire infine, riprendendosi dallo stupore e addentando il toast con ancor meno appetito.
Rimase pensieroso per qualche minuto, rimuginando sui suoi trentanove anni appena compiuti mentre finiva di mangiare. Doveva ammettere di aver perso completamente il conto dei giorni. Era consapevole che il suo compleanno si avvicinava, ma aveva volutamente ignorato la cosa, troppo preso dai suoi recenti successi per prenderlo come un evento davvero significativo – come se gliene fosse mai importato qualcosa, in effetti.
«C'è qualche messaggio per me?» chiese dopo un po', suo malgrado speranzoso.
Una schermata della sua posta elettronica fu proiettata sulla superficie lucida del tavolino. Tony prese a scorrere pigramente i messaggi, col mento sorretto dalla mano meccanica.
«Ha ricevuto un centinaio di e-mail di auguri dai soci delle Stark Industries e dai suoi ammiratori, oltre a quelli dei suoi affiliati e...»
«Intendevo messaggi
importanti. Da gente che conosco di persona e che non ho incontrato una sola volta in vita mia ubriaco a qualche festa o convegno,» lo interruppe lui, scurendosi in volto mentre selezionava con un gesto tutte le mail arrivate quel giorno.
Le estrasse virtualmente dalla loro finestra, le compresse in un agglomerato di pixel olografici e le gettò a mo' di palla da basket nell'icona del cestino 3D, che registrò il canestro con un jingle da sala giochi.
«Ha un SMS da parte del Colonnello Rhodes.»
«C'è ancora chi manda SMS? Anzi, esistono ancora?» commentò lui, nascondendo lo stupore e connettendosi a distanza col suo telefono, probabilmente sepolto sotto un mucchio di ciarpame in laboratorio.
L'SMS si rivelò essere un lapidario
"Auguri." che suonava più come un'intimidazione. Apprezzò lo sforzo di Rhodey, ma evitò di rispondere con un altrettanto minaccioso "Grazie."
«Tutto qua?» sbottò infine, senza nascondere la propria delusione.
«Signore, è innegabile che il suo recente comportamento non abbia ispirato sentimenti positivi verso di lei, nemmeno nel giorno del suo compleanno.»
«Spero che questa predica non sia il
tuo regalo,» sbuffò lui.
"Scommetto che se avessi organizzato una delle mie feste qui mi sarei ritrovato mezza Los Angeles alla porta, pronta a darsi alla pazza gioia," pensò infine con amarezza, senza riuscire a trovare la voglia di alzarsi da tavola.
Aveva sempre saputo che il suo enorme giro di conoscenze era formato in gran parte da ipocriti e opportunisti che lo frequentavano unicamente perché era Tony Stark: geniale, avvenente, ricco, e soprattutto generoso. Una combinazione che non poteva che attirare sciami di adulatori come mosche sul miele. Col tempo si era convinto di aver trovato delle persone che guardassero oltre i suoi completi firmati, ma una gli mandava frecciatine spacciate per auguri, l'altra l'aveva cacciata lui stesso dalla propria vita, e l'ultima si era rivelata una serpe e l'aveva ridotto in quello stato pietoso. Si accorse di aver contratto la mascella e si impose di rilassarsi, avvertendo un rancore bruciante che l'avrebbe probabilmente portato a rompere la prima cosa gli fosse capitata a tiro. Fece bruscamente leva su una stampella, allungandosi per afferrare l'altra, quando sentì il metallo cedere sotto la spinta eccessiva della protesi; si sostenne al tavolo con la mano libera e sollevò l'attrezzo, prendendo atto con sgomento della maniglia deformata e dell'asta completamente incurvata.
«Buon compleanno a me,» canticchiò avvilito, alzando l'occhio al cielo.
Mollò per terra di malagrazia quell'arnese ormai inservibile, sentendo la rabbia che scemava a poco a poco, a ritmo coi respiri profondi che si imponeva di fare. Non era il caso di mettere di nuovo a soqquadro la cucina. Si destreggiò attraverso la stanza con la stampella superstite e dopo qualche passo scoprì di non cavarsela così male come credeva: l'impedimento più grande era l'attuale dolore al moncherino, ma a parte ciò riusciva a spostarsi con relativa agilità.
Si trasferì zoppicando in bagno – era
decisamente l'ora dei suoi antidolorifici – usando la stampella a mo' di bastone da passeggio con il braccio sano per evitare di danneggiare anche quella. Non era una soluzione malvagia, concluse adocchiando lo strumento. Sicuramente adesso che controllava meglio la protesi poteva essere un miglioramento rispetto alla sua solita andatura a balzelloni, anche se così si spostava molto più lentamente. Finché non riprendeva a camminare in modo decente avrebbe potuto farci un pensierino. Fissò il suo riflesso accigliato, con una piega amara a solcargli le labbra: d'altra parte, dubitava che sarebbe mai più riuscito a camminare senza un qualche tipo di sostegno. Mandò giù con più sollievo del solito le sue pasticche.
Un quarto d'ora dopo era stravaccato indolentemente sul divano, di nuovo in pace con se stesso e con l'impianto stereo che faceva vibrare i vetri con gli spericolati riff dei
Van Halen. Ascoltava distratto, muovendo appena il piede meccanico a ritmo con la musica. La consapevolezza che fosse il suo compleanno allontanava la sua mente dal senso del dovere, indirizzandola verso una condizione di noia e fiacchezza. Avrebbe voluto festeggiarlo in qualche modo, ma non c'era davvero molto che potesse fare, a parte prendersi una pausa dal lavoro. Aveva constatato con fastidio che la piscina era vuota e inutilizzabile, non era dell'umore per guardare un film, non era esattamente un amante della lettura e stava già dando fondo alla sua collezione di vinili che non l'avrebbe tenuto impegnato a lungo.
Avrebbe potuto riprendere qualche lavoretto sulle sue macchine d'epoca. C'era ancora la Ford Flathead del '32 che non era mai riuscito a perfezionare come voleva... ma che gusto c'era a riparare auto se poi non poteva guidarle? Coi riflessi e la vista che si ritrovava il quel momento sarebbe precipitato dalla scogliera alla prima curva. E poi chi lo sentiva Fury...
Il suo sguardo si aggirò svogliato per il salotto, registrando con una punta di rammarico la piattaforma un tempo occupata dal pianoforte. Non che avrebbe mai potuto sperare di combinare nulla di che con una mano sola, ma sarebbe comunque stato un diversivo piacevole. Peccato che avesse avuto la brillante idea di schiantarcisi sopra con la Mark II, e poté quasi sentire i comprensibili rimproveri di sua madre.
Sprimacciò il cuscino sotto la testa, assorto. Era fin troppo conscio del fatto che il più bel regalo di compleanno sarebbe stato poter indossare l'armatura e volare anche solo per qualche minuto. Sentì il familiare senso d'incompletezza farsi strada in lui, ma lo soppresse con veemenza: almeno per quel giorno non voleva dare vita ai suoi pensieri negativi. Dovevano rimanere inerti: solo per quel giorno voleva vederli come semplici ombre in lontananza, incorporee e innocue.
Quindi... aveva già escluso tre quarti di ciò che amava fare. Ed erano appena le dieci del mattino. Sospirò annoiato.
Forse passare un po' di tempo in laboratorio non era un'idea così malsana. Avrebbe sempre potuto progettare qualcosa di assolutamente frivolo e inutile... per esempio un bastone da passeggio all'avanguardia che non l'avrebbe fatto sembrare un relitto appena uscito da una casa di riposo.
Si lasciò sfuggire un mugolio annoiato: sembrava che l'unico vero passatempo rimasto fosse la tv, che accese con un gesto svogliato della mano. Stava giusto scorrendo una cineteca virtuale, alla ricerca di qualcosa che non lo facesse addormentare dopo cinque minuti – evitando la fantascienza: basta rivolte delle macchine – quando adocchiò la console sotto l'enorme schermo piatto in salotto, rimasta a prendere polvere nel corso degli ultimi anni.
Si tirò la punta del pizzetto e scostò da parte l'ologramma, improvvisamente tentato.
Da quanto non faceva una partita?


***


29 Maggio, Helicarrier, 10:30

Pepper cancellò per l'ennesima volta il messaggio e mise nuovamente in tasca il cellulare, sapendo che probabilmente non avrebbe resistito a lungo prima di riprenderlo.
Si costrinse a riportare l'attenzione sulla riunione gestionale dello SHIELD, al confronto della quale il summit annuale delle Stark Industries sembrava l'evento più divertente di sempre. Soprattutto quando il proprietario si decideva a presenziare, trasformando il tutto in uno spettacolo di cabaret. Si accorse di sorridere al ricordo e la sua mano ripescò come di riflesso il cellulare, causandole un moto d'irritazione che dissolse il sorriso dal suo volto, riportandolo a una maschera corrucciata.
Si ritrovò a fissare la schermata del nuovo messaggio ancora intonsa, con la stanghetta di pixel neri che lampeggiava come incitandola impazientemente a scrivere.
L'unico campo compilato era quello del destinatario: "Tony Stark".
Accanto al nome c'era una miniatura della foto che lui le aveva praticamente imposto di assegnare al suo contatto: si distingueva Tony con degli occhiali da saldatore indossati al contrario e una smorfia comica sul volto, col laboratorio a soqquadro a fargli da sfondo. All'epoca aveva tentato in tutti i modi di cambiarla, ma lui doveva aver criptato chissà come il file per evitarlo: tipico di Tony. Fu colta da un misto di rabbia e nostalgia. Dalla foto si intravedeva già il puntino luminoso del reattore: notarlo le richiamò come sempre un leggero tremito nelle mani e una sensazione viscida e serpeggiante nello stomaco.
Sospirò e spense lo schermo, fingendo di interessarsi a ciò che stava blaterando Coulson, anche se dalla sua voce monocorde non interessava probabilmente neanche a lui. Dopo pochi minuti la disattenzione ebbe di nuovo la meglio su di lei.
In quel lasso di tempo trascorso allo SHIELD aveva avuto modo di pensare. E anche di non pensare. Aveva passato due lunghe settimane assorbita dal lavoro, serena e libera da preoccupazioni. Era stato come concedersi un sonno ristoratore, e, quando i pensieri che l'avevano angosciata avevano ricominciato a fare capolino, aveva avuto la certezza di poterli affrontare con mente fresca e razionale come era abituata a fare. Non sentiva più il bisogno di ignorarli, così aveva accostato la porta che aveva tenuto chiusa fino ad allora, lasciando trapelare tutto ciò che aveva deciso di accantonare momentaneamente.
Si era ritrovata a pensare sempre più spesso a Tony, soprattutto in termini negativi: il ricordo di ciò che aveva tentato di fare a stesso continuava a tormentarla. A volte ripensava a quegli attimi eterni di panico e terrore, al buco straziante che le aveva perforato il petto quando aveva veramente creduto che fosse morto davanti a lei. In quei momenti avrebbe solo voluto trovarselo davanti per potergli urlare in faccia quanto fosse stato un idiota e un ingrato e di quanto in quel momento l'avesse odiato con tutta se stessa. Anche adesso pensarci le provocava un miscuglio di sollievo nel saperlo viv,o e di cieca rabbia per averlo visto lasciarsi andare a quel modo.
Le capitava ancora di svegliarsi agitata nel bel mezzo della notte senza sapere perché, ma in cuor suo riusciva a intuire cosa avesse sognato e ciò non faceva che aumentare la sua frustrazione. A volte però scorreva nella sua testa anche tutto il resto: visioni fugaci di quei dieci anni in cui aveva imparato a conoscerlo più di chiunque altro, almeno così le era sembrato, arrivando a segnare tappe che andavano decisamente oltre al puro rapporto lavorativo per scivolare in un affetto sincero. Non provava alcun rancore per quegli anni, anzi, avrebbe voluto tornare a quei giorni prima dell'incidente, anche egoisticamente prima di Iron Man, nonostante sapesse quanto Tony tenesse a quella parte di sé e quanto lei stessa avesse preso a guardarlo con occhi diversi da quando aveva intrapreso quella strada tutt'altro che semplice. Nel costruire Iron Man e accettare tutto ciò che ne conseguiva, aveva dimostrato una purezza d'ideali che mai si sarebbe aspettata da una persona in apparenza superficiale e materialista, costantemente barricata dietro sorrisi falsi, occhiali scuri e completi costosi.
Ricordava chiaramente la loro discussione al riguardo e fino a quel momento non lo aveva mai visto parlare in modo così serio e con così tanto trasporto di qualcosa. Le sembrava che avesse iniziato a vivere veramente solo nel momento in cui aveva indossato l'armatura, dandosi un obiettivo concreto.
Poteva davvero biasimarlo fino in fondo per la reazione che aveva avuto dopo l'incidente, quando aveva creduto di aver perso tutto ciò per sempre? Quel pensiero empatico verso di lui fu offuscato dalla rabbia che riemerse nel rammentarsi seccamente che, nonostante il percorso di redenzione che si era imposto, aveva tentato di porre fine alla sua vita, e quello non avrebbe mai potuto giustificarlo.
Pepper chiuse per un breve istante gli occhi, riprendendo il controllo sui suoi pensieri così atipicamente irresoluti.
Di una sola cosa era certa: prima o poi uno di loro si sarebbe inevitabilmente trovato a fare un passo verso l'altro. Una parte di lei esigeva che fosse lui. Le sembrava semplicemente naturale, visto come erano andati i fatti. Era estremamente raro e inusuale che Tony chiedesse scusa a qualcuno, ma era riuscito a farlo in un paio d'occasioni, di cui una fin troppo recente e dolorosa. Sarebbe stato ragionevole aspettarselo anche in questo frangente, ma aveva la netta impressione che non sarebbe andata così, per il semplice motivo che, se era raro che Tony ammettesse di aver sbagliato, era ancora più inaudito che provasse vergogna. E aveva la certezza che si vergognasse profondamente del suo comportamento: l'aveva percepito durante la loro ultima discussione, quando lui aveva avuto a malapena il coraggio di guardarla negli occhi dopo averle fatto male. Si toccò inconsciamente il braccio, che non recava ormai alcuna traccia di quel gesto avventato ma, ne era cosciente, involontario. Tony poteva essere insopportabilmente arrogante, indisponente ed egoista, ma non si era mai permesso di sfiorarla neanche con un dito, figurarsi ferirla di proposito. E soprattutto, pur di proteggerla aveva messo a rischio la sua stessa vita, finendo per perderne proprio la parte più importante. Ma quello era un pensiero che le causava un gorgoglio acido nello stomaco e troppi dardi roventi nel cervello.
Comunque fosse, non era sicura che Tony fosse in grado di superare quel muro di senso di colpa di propria iniziativa, e per questo era consapevole che, forse, il primo gesto doveva venire proprio da lei. Ciò la indispettiva: le sembrava un'ammissione di resa, un messaggio secondo il quale tutto poteva essergli perdonato. E lei non aveva alcuna intenzione di farlo, né adesso, né mai. Forse un giorno avrebbe potuto accettare la cosa con occhi diversi e leniti dal tempo, ma non sarebbe mai stata in grado di dimenticare quella parte rabbiosa e ostile di lui che era emersa così prepotentemente, impossibile da contenere e dannosa per se stesso e gli altri. Non era un qualcosa che si potesse semplicemente aggiustare: sarebbe sempre rimasta una crepa a segnare quella rottura.
Quella consapevolezza la addolorava, ma sapeva che era inevitabile, se mai fossero davvero riusciti a radunare i cocci per porre rimedio a quel disastro. Per il momento si era imposta di non tentare nulla di avventato che potesse risultare fraintendibile o di cui si sarebbe potuta pentire.
Poi, una settimana prima, aveva ricevuto la sua mail. Non era riuscita a forzarsi ad aprirla subito, ma dopo poco aveva capito che non era stata recapitata solo a lei, ma a tutto lo SHIELD, sollevando un lieve scompiglio tra il personale in un misto di incredulità, scetticismo e pettegolezzi. Pepper si era quindi decisa ad aprirla, trovando una semplice riga di testo – "per una volta cammino prima di correre" – con una foto in allegato. Nel vederla aveva capito lo scalpore che aveva suscitato: si vedeva Tony in piedi e senza sostegni, con le mani a formare due "V" di vittoria e il solito sorriso irriverente e compiaciuto di sé a illuminargli il volto.
Pepper sospettava che Fury avesse volontariamente lasciato correre la cosa. In fondo, sotto quella scorza d'acciaio, sapeva avere dei momenti di umanità inaspettata, e nonostante la breve, estremamente seccata comunicazione via intercom che invitava gli agenti a ignorare l' "esibizionismo da diva di Stark", era propensa a credere che la notizia dei rapidi progressi di uno dei suoi collaboratori lo rallegrasse e rassicurasse allo stesso tempo.
Soprattutto, dopo l'innaturale riservatezza di Tony, che aveva incredibilmente tenuto un basso profilo anche al processo e aveva addirittura accettato di intraprendere la riabilitazione facendosi seguire da Nataša senza prenderla come un'umiliazione, Pepper era abbastanza convinta che quello si potesse considerare ben più di un passo avanti. Anche dai brevi scambi che aveva avuto con l'agente Romanov, con la quale in realtà si era lasciata sfuggire più di quanto volesse, le era sembrato che tutti avessero un'opinione più positiva di lui, anche gli stessi Vendicatori. Persino Coulson aveva mitigato le sue considerazioni pungenti, forse anche vedendola più serena.
La realizzazione l'aveva raggiunta con qualche giorno di ritardo: Tony si stava rialzando. Stavolta per davvero e senza paura di mostrarsi a tutti così com'era. 
E adesso lei non riusciva neanche a spedirgli un messaggio di auguri. Aveva passato gli ultimi tre giorni a chiedersi se fosse il caso di farsi viva in modo così improvviso.
Il compleanno di Tony era sempre stato un momento molto delicato dell'anno, immancabilmente onorato da un party grandioso e monumentale alla Villa o in qualche locale di lusso; Tony, col suo carisma e la sua dissolutezza, non aveva mai avuto problemi ad essere l'anima della festa e l'anfitrione più desiderato da tutti. Ma questo era come voleva apparire agli occhi degli invitati, spesso degli sconosciuti che non avrebbe più rivisto in vita sua.
Solo lei aveva avuto il raro e dubbio privilegio di vederlo subito prima della sua festa, e quell'immagine strideva nettamente con quella che lui voleva far trasparire. Era il ritratto di un uomo solo e taciturno, perso tra macchinari e ologrammi digitali, con una tuta da lavoro addosso e olio per motori sulle mani, sprofondato nel cofano di qualche auto d'epoca. Era difficile credere che nel giro di qualche ora avrebbe indossato il suo smoking migliore, sfoggiando un sorriso smagliante e irriverente per tuffarsi tra fiumi di invitati, alcool e fuochi d'artificio.
In quel giorno Pepper non l'aveva mai visto ricevere visite da nessuno, se non Rhodey quando capitava che non fosse in servizio o Stane quando se ne ricordava. Nessun parente, nessun amico. Solo l'occasionale giornalista che sperava in un'esclusiva e che veniva ricacciato indietro senza tanti convenevoli, o al massimo qualche magnate o amministratore delegato che sperava di fare buona impressione presentandosi a sorpresa con un regalo molto costoso. Tony aveva per loro solo sorrisetti di circostanza e una generale freddezza che gli era altrimenti estranea; persino il suo lato da dongiovanni si attenuava e rifiutava inviti e visite di donne a cui normalmente non avrebbe saputo dire di no, almeno fino alla festa.
Con lei si poneva invece nel solito modo di fare giocoso e impertinente e, anzi, la cercava più spesso del solito. Pepper aveva finito per convincersi che fosse felice di essere in sua compagnia in un giorno che avrebbe altrimenti passato in completa solitudine. Era sicura che, anche se non lo avrebbe mai ammesso, rimanere solo in quel giorno lo facesse soffrire.
Probabilmente anche in quel momento stava lavorando senza sosta per non pensarci.


***


29 Maggio, Villa Stark

«DEVI COSTRUIRE ALTRI PILONI.»
«Lo so, chiudi il becco!» sbottò Tony.
Diede una schicchera allo schermo virtuale dei comandi che galleggiava di fronte a lui per scacciare il box della notifica e piazzò in campo l'ennesimo pilone azzurrognolo con un gesto esasperato.
«Signore, se posso permettermi, trovo l'intelligenza artificiale di questo software oltremodo...»
«Muto. Non ti ci mettere anche tu, JARVIS, è un momento delicato,» lo zittì, riportando lo sguardo allo schermo principale, preoccupato dalle navicelle nemiche che si avvicinavano pericolosamente alla sua base.
Ora ricordava perché non giocava spesso ai videogiochi: diventava fin troppo competitivo e finiva per perdere la pazienza o, come in questo caso, era terribilmente tentato dall'inserire nel programma qualche stringa di codice in più che gli garantisse dei "vantaggi strategici" non del tutto leciti. All'ennesimo squadrone d'attacco che venne sbaragliato senza troppi problemi dall'avversario si decise a chiudere con stizza la schermata prima di veder comparire il fatidico game over.
Il silenzio tornò nel salotto e lui reclinò la testa sullo schienale del divano, sbuffando: era ancora mezzogiorno. Non ricordava che oziare fosse così impegnativo. E neanche di essere così arrugginito coi giochi di strategia... scoccò un'occhiataccia alla console e trattenne la tentazione di riaccenderla per una rivincita.
Una ventina di minuti passati a fissare il vuoto gli fecero capire che neanche quello non era un modo costruttivo per impiegare il suo tempo, così si decise ad alzarsi per scendere in laboratorio, dare un senso alla giornata e finirla là con quella storia del suo compleanno. Si sentiva frustrato. Almeno negli anni passati aveva avuto la prospettiva di una festa notturna durante la quale avrebbe potuto darsi alla pazza gioia per compensare l'apatia che si autoimponeva nel corso della giornata. Stavolta non c'era neanche Pepper a rendergli più piacevole quel giorno odioso in cui diventava improvvisamente consapevole di quanto fosse solo.
Mentre attraversava lentamente la stanza, posò involontariamente lo sguardo sulla porta dello studiolo chiuso a chiave e voltò subito la testa di scatto, forzandosi a fissare invece la vetrata. Deciso a distrarsi, si puntellò sulla stampella per fermarsi a guardare l'oceano, scintillante sotto il sole a picco. 
La sua espressione si fece nostalgica. Una nuotata non gli sarebbe dispiaciuta, anche se dopo le strane allucinazioni che aveva avuto in fin di vita non era sicuro di riuscire affrontare la cosa con serenità. Guardò con amarezza le sue protesi: in effetti il problema non si poneva, nelle sue condizioni.
"Già, le mie condizioni..."
Si stropicciò l'occhio e tastò con cautela lo sfregio che ultimamente aveva preso a irritarlo più del solito, continuando a esitare sul posto e a rimuginare su quei pensieri deleteri. Si decise infine ad aprire la porta-finestra e a uscire in terrazzo. 
Si sporse dalla balaustra a picco sull'oceano, scrutando l'orizzonte accecante. Era una giornata calda, ma una brezza marina tesa e frizzante gli solleticava la pelle, rinfrescandolo. Aspirò a pieni polmoni l'aria densa di salsedine; il vento portava con sé delle minusole goccioline d'acqua e ben presto percepì il sapore del sale sulle labbra. Sentì il metallo delle protesi scaldarsi rapidamente al sole e gli venne da sorridere, senza sapere bene perché.
Guardò in basso, verso le onde di un blu profondo che si schiantavano contro la ripida parete della scogliera, e avvertì un'improvvisa ma piacevole stretta di vertigine allo stomaco, simile a quella che provava nel decollare con l'armatura. Si trovò a seguire con una punta di malinconia il volo dei gabbiani, che per il puro gusto di farlo si gettavano in picchiata verso la spuma lanciando alte strida, per poi risalire con elegante rapidità sulle ali delle correnti d'aria.
Era una cosa che aveva amato fare anche lui, fino a non troppo tempo prima. Distolse a fatica l'attenzione da quelle acrobazie aeree e seguì la linea degli scogli aguzzi che sporgevano a pelo d'acqua, con le onde che vi si abbattevano in forme sempre diverse. Inconsapevolmente si trovò a calcolarne la traiettoria, cercando di indovinare dove e in che modo si sarebbero infrante contro la roccia rossastra; nel rendersene conto gli venne da rimproverare quella sua parte fin troppo scientifica e razionale che s'intrometteva in un momento così spensierato.
Il suo sguardo si soffermò sulla piccola insenatura sabbiosa incastonata nel fianco della scogliera, che poi si allargava fino a diventare la sterminata spiaggia dorata che si stendeva fino a Santa Monica. Seguì con gli occhi la stradina lastricata e abbastanza agevole che si dipanava direttamente dal suo giardino fino alla caletta, una cinquantina di metri più sotto in linea d'aria, poco più di duecento a piedi. 
Picchiettò sul reattore e poi prese a lisciarsi il pizzetto, meditabondo e improvvisamente ispirato. Forse, in effetti, avrebbe potuto farsi un regalo di compleanno...
Guardò di sottecchi la stampella, dubbioso: con quella non sarebbe arrivato lontano. Si staccò dalla balaustra e la soppesò con aria assorta, sorridendo tra sé.
«È ora di un upgrade, bellezza.»


***


Per l'ennesima volta, Tony esaminò con aria critica l'attrezzo che aveva appena realizzato, reputandolo definitivamente un'idea molto sciocca.
Aveva davanti quello che a prima vista sembrava un banale tubo d'acciaio, che però terminava da una parte in un grossolano pomello. Forse era davvero un po' troppo rozzo, ma doveva essere qualcosa di provvisorio e funzionale, non un'opera d'arte. A quello magari avrebbe provveduto dopo.
Gli diede una schicchera con la mano meccanica e quello produsse un tintinnio acuto che gli infastidì i timpani. Si risolse a smetterla di temporeggiare e sollevò il bastone da passeggio, impugnandolo goffamente con la sinistra e soppesandolo. Era più pesante di quanto volesse, ma per un qualcosa arrangiato sul momento andava più che bene. Lo puntò per terra facendo leva per alzarsi, incontrando qualche difficoltà. Riuscì nell'impresa di non cadere a faccia avanti al primo tentativo e scaricò tutto il peso sul bastone, costringendosi a mantenere l'equilibrio e cercando di abituarsi a quel nuovo supporto, meno ingombrante delle stampelle, ma anche più complesso da maneggiare.
Forse aveva bisogno di fare un po' di pratica, prima di rompersi l'osso del collo con le sue passeggiatine fuori programma.
Provò a muovere un passo ancora rigido e insicuro, accompagnando la falcata col bastone e usandolo come appoggio insieme alla protesi, per poi usufruire del supporto aggiuntivo per muovere quello seguente. Quel movimento gli era del tutto estraneo e si mosse in modo goffo, scoordinato, ma era sicuramente meglio che avere entrambe le mani occupate dalle stampelle; inoltre sarebbe almeno stato costretto a usare davvero le gambe invece di relegare tutto lo sforzo sulle braccia. Ultimamente lo snodo della spalla gli stava facendo vedere le stelle ed era un sollievo poter riposare il braccio meccanico.
La gamba non ne voleva sapere di muoversi come avrebbe dovuto: percepiva ancora chiaramente dei fugaci punti morti nel segnale, causati da quelle maledette interferenze.
Riuscì ad arrivare all'angolo-cucina all'altro capo del laboratorio affaticato ma integro, senza troppe ripercussioni sul moncherino comunque dolorante. Quello che lo estenuava era lo sforzo mentale, il dover pensare costantemente ad ogni minima flessione e contrazione delle sue gambe per non rovinare faccia a terra. Sapeva che prima o poi sarebbe diventato un automatismo, ma per ora stava rivivendo in modo cosciente quello che un infante provava nell'imparare a camminare – scivoloni, capitomboli e bernoccoli inclusi.
Sospirò. Si era abituato alla vita con un reattore, prima, e a volare con un'armatura, poi. Sarebbe riuscito a controllare anche le protesi.
Sorseggiò di malavoglia un bibitone di clorofilla, più per dovere che per sete, poi si staccò dalla credenza e tentò qualche altro passo claudicante. La sua idea sembrava funzionare. Magari avrebbe dovuto perfezionare un po' quel suo nuovo accessorio un po' stravagante, per lo meno da punto di vista estetico: dopotutto gli era sempre piaciuto fare le cose con stile.
Anche se in quel caso...
«JARVIS, quanto sono ridicolo da uno a dieci?» sospirò, fermandosi per sostenersi al banco di lavoro.
«Signore, i bastoni da passeggio sono un'utilità ben nota anche ai nostri tempi, sebbene assai antiquati. Solitamente si preferiscono bastoni ortopedici più moderni, ma...»
«Riesci sempre ad avere una parola d'incoraggiamento per me, cervellone, unita alla capacità di demolirmi l'autostima,» lo troncò con uno sbuffo.
A volte si pentiva di aver programmato un computer così sagace.
"Io sarei 'antiquato'?" pensò poi infastidito, coprendo i pochi passi che lo separavano dalla sua sedia e venendo accompagnato dal battito metallico del bastone.
Si sedette, osservando attentamente e con più convinzione il suo nuovo amichetto pseudo-tecnologico. Sarà anche apparso ridicolo e anacronistico, ma lo preferiva a una di quelle diavolerie a tre piedi che aveva adocchiato in rete o, ancora peggio, a un deambulatore. Certo, adesso gli sarebbe bastato piazzarsi un cilindro in testa e inforcare un monocolo per sembrare uscito da un romanzo Vittoriano. Era sicuro che gli avrebbero donato, soprattutto il monocolo, magari sull'occhio sbagliato. Si stropicciò di riflesso lo sfregio sul volto, suo malgrado ironicamente divertito all'idea. Anche i Vendicatori si sarebbero fatti grasse risate nel vederlo...
Si piazzò il bastone sulle spalle, appoggiandovi i polsi con fare indolente, e si concesse un attimo di respiro prima di riscuotersi: era ora della prova sul campo.


***


29 Maggio, Malibu Beach, 18:20

Tony maledisse se stesso, le sue idee, la sua testardaggine, il suo orgoglio e il suo corpo, il tutto più o meno simultaneamente mentre arrancava lungo la stradina che si era rivelata non essere poi così agevole come ricordava. Incespicò sui suoi stessi piedi e frenò la caduta col bastone, fermandosi a prendere fiato.
Si guardò intorno per l'ennesima volta, stentando a credere a ciò che stava facendo. Da mesi non usciva di casa se non in terrazzo o per qualche spiacevole processo. Non si era accorto quanto gli fosse mancata l'aria aperta e adesso se ne stava inebriando ad ogni passo. Nonostante continuasse borbottare imprecazioni a mezza voce e a convincersi che fosse un po' troppo presto per andarsene a zonzo da solo, si sentiva più forte e saldo sulle gambe doloranti, anche se si rendeva conto che forse stava forzando un po' troppo i suoi limiti, incluso quello della sua tolleranza agli antidolorifici.
"Nataša mi ammazza... poi Ian mi salva e mi ammazza di nuovo," riuscì a pensare con uno sbuffo affaticato.
Mancavano poche decine di passi che percorse quasi trascinandosi: la fatica e il pulsare bruciante del moncherino gli annebbiavano i pensieri e non riusciva più a controllare i movimenti della gamba, tornata ad essere un pezzo di ferro pressoché inerte. Arrivò ad avanzare sulla sabbia morbida, ondeggiando con difficoltà crescente. Si adagiò infine il più delicatamente possibile sul bagnasciuga e si tolse le scarpe, tirando un profondo sospiro di sollievo e soddisfazione nel sentire le onde che gli lambivano i piedi.
Quella scena gli era familiare.
Era simile al sogno, o forse era stata più un'illusione voluta e agognata dalla sua mente esausta in un momento che era riluttante a richiamare. Il ricordo trapelò appena oltre il filtro che si era imposto per quel giorno e capì di non poterlo trattenere. Percepì un senso di vuoto nel petto, come se si fosse di nuovo tolto il reattore, e fu di nuovo conscio dei minuscoli barbigli metallici incastonati a pochi centimetri dal suo cuore. Respirò a fondo per calmarsi, puntando lo sguardo sul mare che tremolava placidamente dinanzi a lui.
Non voleva ripensare al suo suicidio. Gli interessava quel che era venuto subito dopo: quello stesso mare, la spiaggia, la sensazione di felicità incontenibile nel riavere la sua vecchia vita. Per degli istanti infiniti si era sentito felice e completo.
Adesso non sentiva la sabbia sotto le proprie dita, non poteva nuotare, non aveva l'agilità che ricordava di aver avuto in sogno, aveva ancora le protesi, non c'era nessuno ad aspettarlo sulla spiaggia. Ma era lì e ci era arrivato da solo. Portò una mano al petto, al suo fidato reattore: nel sogno non aveva avuto neanche quello. Voleva dire che nella sua mente non era mai stato rapito, non aveva mai avuto dei frammenti di bomba nel petto, non aveva mai conosciuto Yinsen. Non era mai diventato Iron Man.
Forse non era stato un sogno così bello, concluse con amarezza, e anche una punta d'orgoglio nel constatare quanta strada avesse percorso da quel giorno di due mesi prima. Ormai aveva accettato da tempo il reattore come una parte di sé. Avrebbe quasi potuto affezionarvisi se non fosse stato per l'intossicazione, ma anche quella era inclusa nel prezzo del cambiamento e di ciò che aveva deciso di poter sopportare per essere migliore dell'uomo indifferente e vile che aveva abbandonato nel deserto afghano. Magari un giorno sarebbe riuscito ad accettare anche le protesi non come dei semplici aiuti e supporti, ma come parte integrante di se stesso. Potevano diventare qualcosa di più di due pezzi di ferro semoventi, avere una storia da raccontare che andasse oltre il dolore e la frustrazione. Potevano diventare dei simboli di vittoria, come lo era diventato il reattore.
Si sdraiò sulla sabbia e sollevò il braccio meccanico verso il cielo terso, come a prendere le misure, a voler controllare quanto ancora fosse lontano da quella meta. Lo lasciò ricadere lentamente, sentendosi più vicino che mai.
Tornò a sedersi e a guardare l'oceano, stanco ma soddisfatto, finché il cielo non iniziò ad assumere una tinta calda man mano che il sole si avvicinava all'orizzonte. Si godette il tramonto sul mare, finché il globo rossastro non lanciò un ultimo raggio morente, lasciando posto al crepuscolo e a un'improvvisa brezza che lo fece rabbrividire nei suoi vestiti leggeri.
Si riscosse e scoccò un'occhiata preoccupata alla stradina che aveva percorso, rendendosi conto di quanto in effetti fosse ripida, vista da laggiù. Il moncherino inferiore pulsava in modo sordo e costante, scoraggiandolo dal provare ad alzarsi. 
Si arruffò i capelli pieni di sabbia, accigliandosi.
"Sì, è tutto molto bello e poetico... ma adesso come ci torno a casa?"


***


29 Maggio, Villa Stark, 19:45

«Grazie per il salvataggio.»
«Come sempre, capo.»
Happy lo osservò dal finestrino mentre lui chiudeva la portiera.
«È tutto, signor Stark?»
Tony ebbe un leggero sussulto a quelle parole familiari, ma si ricompose in fretta:
«Sì, Happy. Spero di aver bisogno più spesso di passaggi,» aggiunse con un mezzo sorriso.
Happy ricambiò, poi rimise in moto l'auto con un cenno di saluto e svanì ben presto alla vista. Gli avrebbe davvero dovuto dare un aumento... non si era aspettato che rispondesse con tanta prontezza alla sua chiamata fuori programma, invece si era dimostrato quasi entusiasta ed era stato stranamente loquace durante il brevissimo tragitto in macchina.
Non appena rientrò in casa, tutta la stanchezza accumulata gli si rovesciò addosso lasciandolo stordito nell'atrio e per un attimo fu sicuro di svenire. Si mosse come un sonnambulo per raggiungere il divano, dove collassò stremato. La gamba meccanica reagiva a malapena ai suoi comandi e anche il braccio era diventato difficile da controllare. Si sentiva come al rientro da una missione, se non peggio, ma allo stesso tempo lo riempiva un senso di spossata completezza che non provava da mesi. Si abbandonò mollemente sui cuscini e abbassò le luci con un gesto stanco della mano, soffocando uno sbadiglio. 
Un sorriso si delineò sul suo volto nel realizzare di aver appena festeggiato il suo compleanno nel modo migliore che poteva. Il pensiero fece appena in tempo a prendere forma nella sua mente che si addormentò di colpo, facendolo decollare in sogni di voli, acrobazie e vertigini sempre più vividi.


***


29 Maggio, Helicarrier, 19:50

Pepper lasciò squillare a vuoto il telefono per quasi un minuto, prima di riattaccare a metà tra il deluso e il sollevato. Rimase a fissare lo schermo, non sapendo come interpretare quel silenzio imprevisto. Si convinse a non dargli troppo peso: dopotutto Tony era famoso per rifiutare e ignorare telefonate prima ancora di sapere chi lo stesse chiamando. Sospirò, rendendosi conto che la delusione superava di gran lunga il sollievo.
Alzò appena gli occhi e notò Coulson che la osservava di sbieco seduto alla postazione di fianco alla sua. Lei si affrettò a riporre il telefono, tornando alle sue pratiche come se nulla fosse e ignorando l'espressione incuriosita del collega.
«C'è qualche novità?» butto lì Phil con nonchalance.
«Nessuna,» ribatté secca lei, arrossendo fino alla radice dei capelli.




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Note Dell'Autrice:

Prima di tutto: la mia ansia per Infinity War è tale che sto aggiornando in anticipo per paura di un infarto prematuro. Almeno vado al cinema serena di aver pubblicato :'D
Dunque, questo capitolo è interminabile. Mi rendo conto che potrebbe essere indigeribile, ma siete avvertiti: la lunghezza standard rimarrà più o meno questa. Ho optato per spezzettare i capitoli dall'interno e farli più lunghi, piuttosto che spezzare la storia in capitoli più brevi. Spero che non si riveli una scelta troppo pesante, ma a questo punto ritengo importante che ogni capitolo faccia progradire la trama il più possibile per non trascinare la storia.

Finalmente mi sono decisa a far "tornare" Pepper, anche se solo a distanza e con molta confusione in testa. Negli ultimi capitoli Tony è stato relativamente poco riflessivo per i suoi standard e mi sembrava giusto lasciare spazio a lei.
Volevo anche che per contrasto Tony sfoggiasse più sicurezza e intraprendenza, invece di lasciarsi in balia degli eventi come al solito.
Ah, d'ora in poi, salvo diversa indicazione, quando Tony "cammina" lo fa sempre con l'ausilio del bastone da passeggio. Mi rendo conto che può sembrare un'aggiunta fuori luogo, ma non ambisco a far tornare Tony "perfetto", almeno per ora, e volevo che iniziasse a confrontarsi anche con la parte puramente "estetica" della sua condizione, a partire dal rimanere zoppo.

Per il resto credo e spero che il resto del capitolo parli da sé :)
Tony, ve lo assicuro, ha ancora tanta strada da fare, ma siamo nella curva positiva di questa seconda parte, quindi godetevela finché dura :D

Ringrazio come sempre
_Atlas_ che recensisce puntualmente questa storia e mi riempie di gioia nel sapere che ancora la segue. Grazie anche per averla citata nelle note della tua one-shot Undisclosed Desires (che è bellissima come tutto ciò che scrivi <3), mi hai resa un sacco felice :D
E grazie a chiunque leggerà/recensirà :)

Adesso non mi rimane che attendere con angoscia l'uscita di Infinity War, sperando che la Marvel non decida di farmi cadere in depressione col suo sadismo. 
Au revoir,

-Light-

P.S. Piccola aggiunta forse pretenziosa: magari sono io a volermi convincere che la sopracitata Atlas non sia l'unica intrepida rimasta a leggere la storia e non sono davvero il tipo da elemosinare recensioni... ma ho notato un leggero aumento delle visite e qualche "seguita" in più tra le statistiche di Phoenix e mi farebbe veramente piacere ricevere un qualsiasi tipo di feedback da parte di chi legge/segue, fosse anche una mezza riga di critiche che mi arriva tramite MP.
Sto dedicando a questa storia moltissimo del mio tempo e ricevere le opinioni di chi la legge significherebbe molto per me anche per capire come e dove potermi migliorare :)

P.P.S. Tony sta giocando a Starcraft, un gioco di strategia che manderebbe ai pazzi chiunque. Il "devi costruire altri piloni" è uno dei tormentoni che deve sorbirsi chi gioca.

EDIT: Il mio estro "artistico" è riemerso negli ultimi tempi: qui sotto trovate uno schizzo senza pretese della scena sulla spiaggia :) (prima o poi lo inchiostrerò, ma il terrore di devastarlo mi frena :'D)




 

© Marvel

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Capitolo 36
*** Friends will be friends ***




35

 

Friends will be friends




"All my life
I have been fighting
For this dream in my soul
And I won't let it go
You know that all my life
They try to keep me down but I just get higher"

[Higher – The Score]


4 Giugno, Portland, 07:30

L'agente Coulson aveva ormai sviluppato un istinto molto fino per riconoscere le brutte giornate. Perciò, quando quella mattina aprì senza un solo pensiero al mondo la sua posta elettronica, con tutte le intenzioni di declinare qualunque richiesta da parte dello SHIELD per godersi la sua meritata settimana di ferie a Portland, e vide di aver ricevuto un messaggio da Tony Stark, capì subito che quella sarebbe stata una pessima giornata.
Ponderò per un minuto buono di ignorarlo. Poi pensò di leggerlo, per poi ignorarlo. E poi di leggerlo e valutare se ignorarlo o meno.
Sospirò piano. Perché doveva essere sempre così ligio al dovere?
Si alzò dal letto in punta di piedi riuscendo a svicolare dalla stanza senza svegliare Audrey e si trasferì in cucina: un buon tè avrebbe forse mitigato la probabile crisi di nervi che gli avrebbe provocato la mail di quel coacervo di problemi che era diventato Stark. Soltanto quando fu con le mani strette attorno alla tazza bollente e avvolto in una vestaglia decisamente fuori stagione si decise ad aprire il messaggio con una pressione decisa del dito. Ovviamente il suo contenuto fece apparire non poche rughe corrucciate sulla sua fronte ampia, e si ritrovò ad assottigliare gli occhi sempre più ad ogni parola di quel breve messaggio:

Agente, dimentichi per un attimo le spiacevoli circostanze del nostro ultimo incontro: ho bisogno di parlarle con urgenza. Di persona.
Parole chiave: Vendicatori&Iron Man. Massima priorità.
La aspetto alla villa (Nick non è invitato).
TS
P.S. Saluti la sua violoncellista.

Nel leggere il post scriptum Phil non si disturbò nemmeno ad assumere un'espressione stupita: non voleva immaginare come facesse a sapere che era a con Audrey, ma era tipico di Stark ficcare il naso nei fatti altrui. Era più occupato a decifrare quel messaggio criptico e straordinariamente conciso per un tipo come lui. Si era aspettato di tutto, da foto inappropriate e vanitose a pagine e pagine dei suoi soliti sproloqui messi per iscritto, ma non quell'insolita stringatezza quasi formale.
Stando agli ultimi resoconti degli agenti Barton e Romanov, correva voce che il vulcanico miliardario avesse messo la testa a posto, oltre alle gambe. Phil si riservava il diritto di rimanere scettico in proposito.
Diede una rapida occhiata al calendario sul telefono, rendendosi conto che proprio il giorno prima si era tenuta l'ultima udienza dell'infinito ed estenuante processo su Iron Man: non gli fu difficile collegarne l'esito al messaggio appena ricevuto. Eppure l'udienza precedente era filata liscia... cosa aveva combinato Stark di così grave da spingerlo a contattare proprio lui con tanta "urgenza"? D'altra parte, se la conclusione fosse stata così disastrosa era certo che il direttore l'avrebbe prelevato con la forza dalle sue ferie per avviare le procedure di contenimento danni.
Phil scosse tra sé la testa, sentendosi come sempre irritato al solo pensiero del cosiddetto "genio". Sin dal principio Tony Stark non aveva suscitato le sue simpatie. Egocentrico, arrogante, sfacciato e privo di qualsivoglia autocontrollo: aveva avuto il presentimento che si sarebbe rivelato un'enorme fonte di guai per tutti loro. E proprio per questo aveva suggerito a Fury di tenerlo d'occhio molto, molto da vicino, a costo di invischiarlo collateralmente nel Progetto Vendicatori. Certo, poi aveva dato prova di essere una risorsa di tutto rispetto sia sul campo – anche se nessuno l'aveva mai invitato ufficialmente a partecipare alle missioni – che dietro le quinte, ma ciò non evitava a Coulson di mantenere del sano riserbo nei suoi confronti. La serie di azioni sconclusionate e nocive che aveva compiuto a partire dall'incidente, culminate col suo tentato suicidio, non aveva fatto altro che confermare le sue prime impressioni.
In altre circostanze, dopo aver ripulito quel disastro, avrebbe semplicemente scrollato le spalle con un laconico "io l'avevo detto" indirizzato a Fury. Quelle circostanze non includevano vedere Virginia Potts in preda a un attacco di panico dopo aver tentato disperatamente di rianimare il suo capo egoista e idiota sospeso a un passo dalla morte.
I suoi lineamenti si indurirono al solo ricordo. Aveva passato mezza giornata accanto alla donna, riuscendo infine a calmarla e attendendo con lei che Stark venisse dichiarato fuori pericolo dalla squadra medica. Si era rifiutata di schiodarsi dalla villa finché non aveva udito la notizia con le sue orecchie e non aveva visto Stark dormire fin troppo serenamente coi suoi occhi, nonostante quello che l'uomo le aveva appena fatto passare.
Coulson si era sempre chiesto come la volontà ferrea di una donna intelligente come Virginia potesse puntualmente vacillare dinanzi alle trovate sempre più nefaste di un individuo dissoluto e incostante come Stark. O meglio, si chiedeva perché avesse deciso di sfruttare quella volontà per cercare di indirizzarlo su una strada in salita sulla quale lui chiaramente non aveva alcuna intenzione di inerpicarsi, visto che aveva preferito gettarsi nel dirupo adiacente. Una risposta a quegli interrogativi Coulson se l'era data già da tempo, e non del tipo che lasciasse presagire razionalità nelle azioni della donna.
Per questo era rimasto di stucco quando, poche decine di minuti dopo che le condizioni di Stark si erano stabilizzate, si era ritrovato davanti una Virginia Potts più seria e compita del solito con una borsa da viaggio a tracolla e la richiesta di potersi trasferire allo SHIELD seduta stante. Richiesta che lui aveva soddisfatto senza pensarci due volte, memore anche delle parole di Bruce riguardo a quell'evenienza – e che Fury lo degradasse pure per quell'iniziativa individuale.
Coulson si rigirò la tazza ormai vuota tra le mani, consapevole che accogliere la donna era stata con tutta probabilità l'unico freno che le aveva impedito di crollare definitivamente. Dalla loro ultima discussione Virginia gli era sembrata più serena e in pace con la scelta di lasciare che le cose facessero il loro corso senza crucciarsi troppo, qualunque fosse la conclusione a cui era arrivata. E Phil era abbastanza sicuro di poterla intuire. Non aveva potuto fare a meno di notare come quel cambiamento d'umore si fosse accentuato dal giorno in cui Stark aveva inviato la sua "foto vittoriosa" all'intero SHIELD. Doveva ammettere che aveva strappato un sorriso incredulo anche a lui, anche se prevaleva ancora l'istinto di sferrare un pugno in faccia a quel pallone gonfiato, che adesso aveva avuto la malsana idea di rivolgersi a lui per... cosa, di preciso?
Phil rilesse il messaggio intentamente, come se sperasse di trarne fuori qualche significato cifrato e insondabile, ma quelle parole erano tanto brevi quanto univoche persino dinanzi alla sua consumata esperienza controspionistica e investigativa.
Magari
era importante. E se era importante per lui, poteva esserlo di riflesso anche per Virginia. Aveva l'impressione che i passi avanti che Stark stava compiendo in quell'ultimo periodo, metaforici e non, si tramutassero per lei in altrettanti passi verso una stabilità che aveva perso e che stava lentamente recuperando. Sentiva di non avere alcun diritto di turbare o interferire con quel recupero.
Fu così con riluttanza che selezionò il numero di Stark dalla rubrica, avviando la chiamata. Dopo una lunga serie di squilli udì il segnale acustico della segreteria telefonica risuonargli penetrante nell'orecchio, seguito dalla voce scanzonata di Stark:
«Risponde la segreteria telefonica di Tony Stark: genio, miliardario, playboy, filantropo. Si prega il signor Agente di evitare chiamate inopportune e di presentarsi personalmente a Villa Stark, Malibu Point 10880, California, entro tre giorni, se è tanto interessato a parlarmi. Astenersi perditempo, vecchietti in calzamaglia e pirati irascibili.»
Coulson riattaccò con un sospiro. Ecco, registrare un messaggio di segreteria telefonica personalizzato era già più in linea con il miliardario irriverente che conosceva. Giunse le mani davanti al volto coi pollici a sostenere il mento mentre rifletteva, ma in realtà gli rimaneva un'unica cosa da fare, esattamente quella che si era ripromesso di evitare per tutta la durata delle sue brevi ferie.
Prese di nuovo il telefono e premette il pulsante di chiamata rapida.
«Agente Coulson, che succede?» la voce di Fury risuonò dopo il primo squillo, bassa e apparentamente adirata come sempre, ma l'orecchio allenato di Phil colse anche una vena di apprensione nel suo tono burbero.
«Stark mi ha contattato,» gli comunicò senza giri di parole.
Ci fu un brevissimo silenzio dall'altro lato della cornetta, poi udì quello che pareva uno sbuffo seccato.
«E cosa vuole?»
«
Non ne ho idea, vuole parlarmi di persona. Ha detto che riguarda Iron Man e i Vendicatori, il che...»
«
... potrebbe voler dire tutto e niente,» completò Fury, e Coulson poteva immaginarselo mentre marciava ad ampie falcate sulla plancia dell'Helicarrier, seminando preoccupazione e timore tra i suoi poveri sottoposti.
«Lascialo cuocere nel suo brodo. Non ho intenzione di assecondare ancora i suoi capricci da primadonna,» sbottò infine.
«Ha detto che è urgente,» buttò lì Coulson, consapevole di essersi appena dato la zappa sui piedi e desiderando di potersi rimangiare quelle parole.
«Per Stark anche la sua manicure è "urgente",» commentò caustico il suo capo, e stavolta l'agente ebbe la visione del suo sguardo che fulminava chiunque capitasse disgraziatamente nel suo raggio d'azione.
«Anche a me è sembrato urgente.»
Coulson udì un altro sospiro, stavolta rassegnato.
«Quando vuole vederti?»
«
Entro tre giorni.»
«
Adesso si permette anche di dare ultimatum...» lo sentì rimuginare tra i denti, e si chiese come stesse frenando la tentazione di puntare un missile a lungo raggio su Villa Stark.
Conoscendolo, a fatica.
«Agente Coulson, goditi ancora due giorni di vacanza,» si sentì dire infine. «Poi va' a Malibu e cerca di arginare o impedire qualunque disastro stia architettando quello spostato.»
«
Ricevuto.»
«
Attendo aggiornamenti.» 
La comunicazione si chiuse, ma Coulson rimase ancora col telefono all'orecchio, chiedendosi perché avesse appena deciso di mandare in fumo un incantevole finesettimana con la sua ragazza per tramutarsi nella balia privata di Stark Jr. Come richiamata dalle sue riflessioni, una voce femminile risuonò nella stanza:
«Phil?» Audrey fece capolino in cucina con la sua cascata di capelli bruni e lui si voltò a guardarla, ammirandone il viso ancora un po' assonnato e sereno.
Per poco.
«Chi era, a quest'ora?» la donna trattenne uno sbadiglio.
Lui si alzò per andarle incontro e sforzò un sorrisetto rilassato, preparandosi in realtà alla tempesta.
Ecco, quella sarebbe stata una discussione spiacevole.


***


Tre giorni prima, 1° Giugno, Villa Stark

«Deve sempre strafare...»
«
Sto benissimo, Doc. E poi dicono che l'aria di mare faccia bene.»
«
A lei farebbe bene un po' di buonsenso.»
«
Il buonsenso mi annoia.» 
Tony addentò con gusto un altro waffle, divertito dall'espressione intransigente che emerse sulla faccia del suo medico, poi sprimacciò il cuscino dietro la schiena e sprofondò meglio contro la testiera del letto. Trascinò in aria lo schermo olografico con la videochiamata, aggiustandolo al livello del suo sguardo mentre si allungava per afferrare un altro waffle dal piatto sul comodino. Erano bruciacchiati, ma da qualche giorno aveva un appetito tale da farlo soprassedere sui disastri culinari dei suoi robot. Colse l'occhiata di rimprovero che Ian scoccò al suo cibo decisamente insalubre e prese un altro morso con deliberata lentezza.
«Piuttosto, com'è Chicago?» chiese bofonchiando tra un boccone e l'altro.
«Troppo lontana per tenerla d'occhio, per i miei gusti,» sospirò il medico. 
L'inquadratura traballò e fu scossa per qualche istante mentre si muoveva nella sua camera d'albergo, indaffarato a cercare qualcosa.
«Ma allora si preoccupa davvero per me!» sogghignò Tony. «Però adesso si plachi, mi fa venire il mal di mare,» aggiunse, distogliendosi dallo schermo divenuto un turbinio confuso di colori e forme sfocate.
L'inquadratura si stabilizzò, puntata su un anonimo soffitto, e Tony stette ad ascoltare Ian che, mentre disfava i bagagli in sottofondo, gli riassumeva in modo stranamente loquace il suo viaggio in Illinois per un ciclo di seminari a cui partecipava anche il dipartimento medico delle Stark Industries, soffermandosi in modo per lui quasi entusiasta sulla conferenza di quella mattina. Tony sogghignò: era segretamente soddisfatto che il medico fosse così su di giri per il suo lavoro alle Industries, e per l'ennesima volta si congratulò con se stesso per averlo convinto a riprendere il suo ruolo dopo il loro periodo di "rottura".
«Deduco che è contento di lavorare per me,» lo interruppe quindi  dopo qualche minuto, con malcelato compiacimento.
«Quando non è occupato ad attentare alla sua salute, sì,» rispose l'altro burbero come sempre, ma Tony colse il sottotono divertito nella sua voce. «Allora, come si sente?» chiese poi facendo di nuovo capolino nello schermo.
La nota pungente emersa nei suoi occhi acquamarina comunicava che stavolta non avrebbe potuto sottrarsi alla domanda come aveva abilmente fatto poco prima. Ian era andato in escandescenze quando gli aveva raccontato della sua scampagnata sulla spiaggia, anche se era poi sembrato enormemente in imbarazzo quando lui gli aveva fatto notare che era stata una sorta di regalo di compleanno improvvisato per se stesso – erano seguiti gli auguri più impacciati che avesse mai ricevuto in vita sua. In fondo, capiva le preoccupazioni del medico e non poteva dargli torto, visto che era praticamente bloccato a letto dal giorno della sua impresa, afflitto da continui crampi al moncherino inferiore e incapacitato a muoversi se non per svolgere le funzioni basilari. Per fortuna grazie al suo ingegno aveva una casa gestita da un'intelligenza artificiale totalmente autosufficiente. E grazie al cielo esistevano le consegne a domicilio.
«Diciamo che mi sento meglio,» mentì, trangugiando l'ultimo waffle.
«Stark?» Ian non se la bevve.
Lui alzò l'occhio al cielo.
«E va bene, sono bloccato qui da due giorni. Deve essere lo scotto da pagare per il progresso tecnologico. Ma a parte la noia mortale, sto bene,» concluse con fermezza.
Ian si stropicciò gli occhi da sotto le lenti, evidentemente a corto di commenti di fronte alle sue solite gesta scapestrate.
«Aumenti leggermente gli antidolorifici al bisogno. Con criterio.»
«
Tranquillo, Doc, non ho intenzione di andare in coma farmacologico,» sospirò Tony, chiedendosi se desse davvero l'impressione di aver bisogno di controllo costante ventiquattr'ore al giorno.
«E stia a riposo, deve essere in forma per il processo,» disse ancora Ian, con una severità che gli ricordò spiacevolmente quella di suo padre, fugando il dubbio precedente.
«Sì, giusto. Il processo. Ovviamente,» borbottò, incrociando le braccia dietro la testa fingendo rilassatezza.
«Se n'è dimenticato?»
Il silenzio eloquente di Tony servì da risposta e Ian si limitò a un teatrale sospiro.
«Pensa di riuscire a presentarsi in aula entro due giorni? Le rammento che non tornerò in tempo per presenziare, quindi eviti di farsi venire un colpo in mia assenza.»
«
Mi sono presentato in aula con quaranta di febbre e in delirio, se ben ricorda. Sono stato peggio.» Tony si grattò a disagio il naso, per poi incupirsi un poco. «Volevo fare un ingresso in scena coi fiocchi, in stile Barnum, con tanto di squilli di trombe ed elefanti, ma credo che ci sarà un'involuzione verso la sedia a rotelle,» fu costretto ad ammettere, cavandosi a forza ogni parola dalla bocca e celando col sarcasmo la sua delusione per quell'inconveniente.
«Saggia idea, signor Stark. Non è il caso di farsi notare,» concordò Ian. «C'è altro che dovrei sapere? O posso dormire sonni tranquilli?» chiese poi in tono quasi implorante: era chiaramente esausto per la lunga giornata.
Tony si lisciò il pizzetto, riflettendoci per qualche istante.
Qualcosa c'era. E se non l'avesse detto a qualcuno, fosse anche il suo medico scontroso e misantropo, sarebbe impazzito. A sua discolpa, non era assolutamente il caso di presentarsi al processo più squilibrato del solito.
«Oh, mi ha chiamato Pepper,» buttò lì alla fine, con forzata noncuranza.
«La sezione "cuori infranti" la gestisce Kyle,» ribatté serafico l'altro.
«
Doc!» la voce di Tony virò sullo stridulo.
Al dottore sfuggì un mezzo sorrisetto, soddisfatto per la sua reazione.
«E cosa le ha detto?» s'interessò poi, scrutandolo con aria pettegola.
«Non meriterebbe di saperlo,» ribatté Tony, imbronciato. «Ma il problema non si pone: non ho risposto.»
«
Come, non ha...» Ian s'interruppe, portandosi un palmo alla fronte in un gesto esasperato.
«
Non l'ho sentito, stavo dormendo!» si giustificò in fretta lui, chiedendosi perché avesse tirato fuori la questione e soprattutto perché diavolo stesse avvampando.
«Persino Kyle potrebbe impartirle lezioni di savoir-faire sospirò il medico, scuotendo la testa incredulo. «Ho sentito dire che esiste il tasto "richiama": le è familiare come concetto?»
«
Non potevo certo richiamarla... insomma, era il mio compleanno, mi avrà chiamato per... uhm, gli auguri, no? Perché altrimenti mi avrebbe... cioè, credo fosse per quello... e comunque non posso richiamare la gente solo per farmi fare gli auguri, neanch'io sono così egocentrico!» 
S'impappinò e si impose poi di sigillare la bocca, prima di ricominciare a balbettare senza ritegno, ed evitò di soffermarsi sul fatto che in svariate circostanze aveva telefonato sia a Pepper che a Rhodey per farsi fare gli auguri senza troppi problemi. Ian sembrava godersi lo spettacolo del playboy vissuto che si incartava con le sue stesse mani come un liceale alle prese col primo appuntamento, poi tornò improvvisamente serio:
«Signor Stark, le vostre vicende personali non sono affar mio...» esordì, grave.
«... ma ritiene comunque opportuno metter bocca,» osservò Tony in tono leggero, non abbastanza da mascherare il fastidio emerso sul suo volto.
«... ma la signorina Potts ha deciso di chiamarla dopo tutto quello che ha dovuto sopportare da parte sua negli ultimi mesi. E le consiglio un ripasso mentale in proposito,» rincarò acuendo lo sguardo, e Tony si sentì costretto a distogliere il suo .«Ci rifletta,» concluse semplicemente.
Tony annuì in modo secco: come se avesse fatto altro negli ultimi giorni, tanto più che era confinato a letto e non aveva molti altri modi intelligenti per passare il tempo. Oltre a impugnare il telefono ogni tre per due chiedendosi se fosse il caso di richiamarla o meno.
«Ho capito, Doc: mi darò alla meditazione. Magari quel suo fantomatico collega ha ragione e mi guarirà da ogni male,» sospirò ironico, scrutando però con interesse la reazione del medico.
In cuor suo era ansioso di chiudere la chiamata e dimenticare quella conversazione, ma non poteva esentarsi dal raccimolare qualche dato in più sull'unica persona che poteva forse evitargli di impersonare un pirata a vita. Soprattutto se riusciva anche ad allontanare il discorso da un argomento che riteneva a dir poco delicato e imbarazzante.
«Non mi sono dimenticato, signor Stark,» puntualizzò subito Ian, incupendosi appena. «Le ho detto che la terrò aggiornato.»
«Non ho fretta... solo che sto esaurendo la scorta di bende e vorrei sapere se quella del suo amico è una proposta seria o meno.»
«Sto cercando di capirlo anch'io,» ammise l'altro, togliendosi gli occhiali e prendendo presumibilmene a lucidarli al di fuori dell'inquadratura. «Al momento credo che stia attraversando una fase di disorientamento.»
«Non è proprio il termine che userei io... "discesa verso il misticismo" mi sembra già una definizione più calzante,» commentò Tony, senza velare la criticità che trapelava dalle sue parole.
«Vogliamo parlare della sua fase di "disorientamento"?» lo rimbeccò Ian pacata severità, inforcando di nuovo gli occhiali. «Quella come la definirebbe?»
Tony finse di pensarci per qualche istante, per poi alzare le mani in segno di resa.
«Ho un paio di idee che comprendono un largo uso dell'aggettivo "idiota" e sue varianti... ma non credo che si aspettasse davvero una risposta,» realizzò poi, notando lo sguardo impaziente e decisamente assonnato di Ian.
«Mi aspetto di dormire entro due minuti.»
«Messaggio ricevuto. Grazie per il consulto multidisciplinare e sogni d'oro.»
«
Non faccia stronzate,» gli ricordò il medico in tono più leggero prima di chiudere la chiamata, strappandogli un mezzo sorriso.
Tony rimase a fissare lo schermo adesso oscurato con espressione vacua, chiedendosi se quel suo "periodo di disorientamento" fosse davvero finito. Per quanto lo riguardava si sentiva ancora fin troppo nel pallone. Magari avrebbe dovuto dormirci su, ma come al solito il rimescolarsi incessante di pensieri nella sua testa gli impediva di lasciarsi scivolare facilmente in sonni tranquilli.
Si riscosse dopo qualche minuto, improvvisamente deciso a non combattere l'insonnia per impedirsi in tutti i modi di pensare; in quello ormai era diventato bravo. Fece apparire un box virtuale azzurrino stipato di file e ne selezionò uno, trascinandolo sul display olografico e facendo apparire una schermata di riproduzione video.
"La meditazione può aspettare. E anche le stronzate."
«Ehi, JARVIS, di' ai robot di fare un'altra dozzina di waffles,» ordinò, ingrandendo lo schermo davanti a sé e mettendosi comodo per l'ennesimo rewatch di Star Trek.


***


3 Giugno, Tribunale di L.A, 10:30

"Azzurro con un gessato marrone? Buon Dio..."
«Signor Stark, potrebbe degnarsi di rispondere e almeno fingere interesse?»
Tony si riscosse e distolse lo sguardo dal completo di Knight, ritrovandosi osservato – anzi, trapassato – dai suoi occhi slavati, sottili e decisamente seccati.
«La sua cravatta mi distrae,» ribatté flemmatico, additando l'oggetto celestino in questione. «Credo sia illegale distrarre un testimone... non c'è qualche legge a tutelarmi?» si guardò intorno in cerca d'appoggio.
«Signor Stark, invece di impartire doverose lezioni di stile a Knight e appellarsi a diritti inesistenti, potrebbe provare a concentrarsi?»
Tony si voltò sorpreso verso la fonte della voce; ovvero non Knight, non il Senatore Stern, né qualche altro individuo deciso a condannarlo... bensì il suo avvocato difensore, che al momento sembrava alla ricerca del modo più efficace per incenerirlo con lo sguardo. Si mosse a disagio sulla sua sedia a rotelle, rendendosi conto che forse aveva di nuovo esagerato.
«A quanto pare riesce ad esasperare proprio chiunque.» 
Knight si lasciò sfuggire un sorrisetto beffardo.
«È un talento naturale...» si ricompose Tony, prima che Kyle riuscisse nel suo intento omicida. «Dicevamo?»
«
Parlavamo della sua attività come Iron Man.»
«
Sì, sono Iron Man,» rispose lui un po' assente, senza avere la minima idea di cosa gli avesse chiesto poco prima il procuratore.
«Per sua sfortuna, sì. Quindi, come giustifica i suoi ripetuti interventi in conflitti armati?»
Tony riprese finalmente il filo del discorso:
«Erano interventi necessari.»
Poteva vedere Kyle fremere dietro al banco della difesa, probabilmente incrociando le dita e applicando qualsiasi segno o rituale scaramantico di sua conoscenza per evitare che dalla bocca del suo assistito uscissero idiozie. Per una volta anche Tony stava cercando di ponderare ciò che diceva... con un criterio tutto suo, ovviamente. Per fortuna l'ammonizione aveva reso Knight più cauto con le domande e ciò lo aiutava non poco nel non lasciarsi sfuggire informazioni compromettenti. Non che gli fosse rimasto molto altro da rivelare, in effetti.
Fino a quel momento il processo non si era rivelato così turbolento come temeva: la questione dello scontro con Stane era stata nuovamente accantonata, grazie anche alla sua prontezza nel dirottare la discussione sul ruolo di Iron Man, tema che gli risultava immensamente più semplice da gestire rispetto al presunto omicidio del suo "padrino".
«Signor Stark, in base a cosa definisce i suoi interventi "necessari"?» insistette il procuratore, come sempre determinato a metterlo all'angolo.
«Se avesse prestato attenzione, signor Knight, saprebbe che il mio obiettivo principale era distruggere le armi delle Stark Industries vendute sottobanco da Stane. Non appena ne rintracciavo una partita o un deposito mi recavo sul posto per provvedere di persona.»
«Perciò in
ognuna delle sue intromissioni nelle regolari operazioni militari, statunitensi e non, erano coinvolte le sue armi?»
Tony fiutò il pericolo in quella domanda e rispose evasivamente: stava imparando a riconoscere le trappole di Knight.
«Molti si sono rivelati falsi allarmi, ma alcune delle circostanze in cui mi sono trovato coinvolto mi hanno comunque obbligato a prendere parte agli scontri in atto per difendermi,» rispose senza esitazioni.
«E in questi "scontri" da che parte si sarebbe schierato?»
«
Per difendermi sottolineò ancora Tony. «Inizio davvero a temere che lei abbia problemi d'udito. Mi sono limitato a seguire la procedura d'estrazione standard. Ovvero ritirarmi, se possibile pacificamente, dopo aver constatato l'assenza delle mie armi,» concluse con fermezza.
Colse con la coda dell'occhio un gesto incoraggiante da parte di Kyle: erano entrambi consapevoli di quanto fosse delicato quell'argomento, visto che tecnicamente le missioni dei Vendicatori e dello SHIELD in cui si era infiltrato erano top-secret e non avevano proprio nulla a che fare con le sue armi. Knight valutò la sua risposta, evidentemente dubbioso sulla sua veridicità, ma la spada di Damocle della sua ammonizione l'aveva reso molto meno aggressivo e più incline a soppesare le sue accuse.
«Quindi l'incidente coi Whiplash nella no-fly-zone di Gulmira è da considerarsi...»
«.
.. un incidente, signor Knight, come le ho ripetuto fino allo sfinimento per tre udienze,» lo interruppe Tony, trattenendosi dallo sbuffare in faccia al procuratore. «E poi accusa me di essere distratto...» aggiunse però a mezza voce.
«Ed è avvenuto nel corso di una cosiddetta "procedura d'estrazione"?» 
Knight era evidentemente deciso a non mollare l'osso e Tony iniziava suo malgrado a perdere la pazienza. Stava giusto per ribattere a tono, quando qualcuno lo fece al posto suo:
«Signor Knight, tutte le informazioni riguardanti l'incidente coi Whiplash sono contenute nel mio rapporto ufficiale, di cui ha sicuramente ricevuto una copia.»
Tony non riuscì a nascondere il suo totale sconcerto nel sentire la voce di Rhodey levarsi dal pubblico, e rimase stolidamente con la bocca semiaperta. S'inclinò appena per scorgerlo, seduto in alta uniforme tra le prime file, mentre tutta l'aula rivolgeva a sua volta l'attenzione verso di lui. Persino Kyle era stato preso alla sprovvista, e l'espressione di Knight era decisamente seccata, oltre che imbarazzata.
«La ringrazio per il promemoria, Colonnello Rhodes,» enunciò con gelida cordialità.
«E grazie anche per l'assist, Rhodey!» aggiunse con un sogghigno Tony, decidendo di cogliere quell'inaspettata circostanza per...
"... risolvere le tensioni? O qualcosa del genere."
«Ma mi interesserebbe sentire la versione del signor Stark, se non le dispiace,» continuò imperterrito Knight, ignorando l'intervento del suddetto.
«Per la decima volta?» vociò a quel punto Tony. «So di essere bravo a intrattenere il pubblico, ma sono un po' stanco di concedere bis. A questo punto pretendo un compenso per le mie prestazioni,» s'illuminò, rivolgendosi sfacciatamente al giudice.
Lo schiocco del martelletto interruppe sul nascere la diatriba.
«Qui stiamo solo perdendo tempo,» stabilì il Senatore, ignorandolo. «La questione dei Whiplash è stata ampiamente chiarita e non vedo motivo di soffermavisi ancora, se non tenendo conto che si tratta comunque di una violazione dei protocolli militari da parte del signor Stark.»
Tony approfittò dello spaesamento di Knight per rivolgere un occhiolino a Rhodey, che ricambiò con un impercettibile cenno del capo e un'espressione meno truce del solito.
«Molto bene,» concesse infine il procuratore. «Resta il fatto che non può giustificare il suo intervento né in Gulmira né negli altri scontri in cui si è intromesso.»
«
Obiezione. Signor Knight, eppure le è appena stata fatta notare la sua ridondanza: il signor Stark ha spiegato chiaramente il motivo della sua presenza in zone di guerra.» 
Il tono di Kyle sfiorava l'annoiato.
«Non mi risulta che il signor Stark, e di conseguenza Iron Man, faccia parte di alcun corpo o unità speciale autorizzata dal Dipartimento della Difesa a intervenire in tali situazioni,» ribatté l'altro.
«Ho agito come privato cittadino nell'interesse comune; potreste anche ringraziarmi...» chiosò l'interessato, alzando l'occhio al cielo.
«Ciò non rende più legale la sua "attività supereroistica".»
«
Non pensavo ci volesse una licenza apposita,» sospirò tra sé.
Si abbandonò contro lo schienale della sedia a rotelle, agognando il momento il cui avrebbe potuto collassare su un divano per far riposare il cervello da quelle fesserie.
«Dovrebbe esistere, visti i potenziali pericoli che questa attività comporta.»
"Oh, Capitan Harlock sarà felice di sentirselo dire..."
«Signor Knight, non so dove voglia andare a parare con tutto questo, ma se si aspetta che io legalizzi la mia posizione di "supereroe" arriva al momento sbagliato, visto che sto per abbandonarla,» scandì Tony scambiando un'occhiata d'intesa con Kyle, che approvò appena con un gesto discreto del capo.
Prevedibilmente il tribunale fu pervaso da un brusio attonito che crebbe ben presto d'intensità, costringendo Stern a riportare l'ordine. Tony sorrise appena sotto i baffi, segretamente soddisfatto. Aveva avuto intenzione di usare quel jolly in un momento più critico, ma preferiva non addentrarsi in una discussione che avrebbe potuto tirare in ballo lo SHIELD. Non aveva alcuna intenzione di inimicarselo ulteriormente.
«Signor Stark, vorrebbe spiegarsi meglio?» lo incalzò Knight, quando fu tornata la calma.
Tony dovette sforzarsi di cancellare il sogghigno che era affiorato sulla sua faccia nel constatare come il suo diversivo avesse funzionato a meraviglia. S'impose un tenore più serio, ma non poté evitare un'occhiata trionfante verso il banco della difesa. Ebbe un involontario moto di delusione nel realizzare che gli occhi azzurri che aveva cercato sovrappensiero non erano lì, ovviamente; riportò la sua attenzione alla superficie lucida del banco dei testimoni, accigliandosi appena e realizzando che Knight attendeva impaziente una sua risposta. Si costrinse a uscire da dietro le quinte dei suoi pensieri per tornare sul palcoscenico:
«Beh, come dire... Io, anzi Iron Man, è in pausa a tempo indeterminato,» buttò lì con nonchalance.
«In pausa?»
Tony poggiò il gomito sul banco, rivolgendo il palmo della mano verso l'alto in un gesto incredulo:
«I supereroi non hanno forse diritto a ferie?» chiese retorico.
Knight era evidentemente confuso dalla piega che stava prendendo la situazione.
«Quindi non ha intenzione di riprendere il ruolo di Iron Man?»
«
Non ho detto questo, ho detto solo che lo metterò momentaneamente da parte.»
«
Quando si deciderà a fornire una risposta chiara e coerente alla corte non sarà mai troppo tardi, signor Stark,» intervenne il Senatore, con un sospiro esasperato.
«Pensavo fosse cristallino: al momento sono impossibilitato a riprendere il ruolo di Iron Man.» 
Nel parlare, sollevò di peso e con fare esplicativo la protesi fasulla e inerte con due dita della mano sana, facendo appello a tutta la sua faccia tosta per nascondere il turbamento che gli causavano quelle affermazioni. Odiava recitare la parte della vittima e sentiva le pareti dello stomaco bruciare d'orgoglio represso, ma doveva reggere il gioco, almeno per un altro po'.
«Di conseguenza non ho alcun interesse né a ricostruire l'armatura, né qualsiasi altro congegno potenzialmente offensivo finché non uscirò da questa situazione poco piacevole... cosa che i "signori della corte" stanno provando a impedirmi col sequestro delle protesi che dovrebbero servirmi per la riabilitazione,» concluse in tono deliberatamente afflitto, sollevando un'ondata di commenti dal pubblico molto influenzabile, come previsto.
Di nuovo Tony e Kyle si scambiarono uno sguardo d'intesa e un'espressione complice attraversò i loro volti.
«Signor Stark, fare la parte della vittima non le sarà di alcun aiuto,» lo intercettò duramente Knight, squadrandolo con aperto astio e fin troppo consapevole che il processo non stava girando a proprio favore.
«Obiezione. Signor Knight, si astenga da commenti inutili e volti a insidiare l'imputato,» intervenne Kyle.
«Accolta. Le ricordo la sua ammonizione,» osservò pigramente il giudice.
Knight aveva un'espressione che ricordava quella di un serpente pronto a sputare veleno, cosa che fece subito dopo:
«Ricordo ai signori della corte e a tutti i presenti che le protesi sono state ufficialmente interdette all'utilizzo pubblico per la loro potenziale pericolosità, ma il signor Stark ha ancora il diritto di utilizzarle privatamente per la sua riabilitazione.»
«E mi spiega che me ne faccio di una riabilitazione basata su delle protesi complete, se poi non posso usarle neanche per andare a fare la spesa?» commentò beffardo Tony, e Knight esitò, rendendosi conto di stare per entrare in un vicolo cieco.
«Vostro Onore,» s'intromise a quel punto Kyle, «a prescindere dalla pericolosità delle protesi, possiamo concordare sul fatto che restringerne l'utilizzo alla sola sfera privata comporti delle ingenti limitazioni alla libertà stessa del signor Stark.»
«Le limitazioni alla sua libertà derivano dalle scarse capacità di controllo dimostrate, signor Andrews, appurate negli scorsi processi...» s'intromise con prontezza il procuratore.
«... con prove di discutibile origine e respinte dalla giuri,» completò l'altro, interrompendolo sul nascere.
Tony si agitò appena al banco dei testimoni, scrutando preoccupato il suo avvocato e cercando di comunicargli con lo sguardo quanto non volesse riportare la discussione sulle foto della Everhart. Le successive parole di Knight vanificarono le sue speranze di glissare sull'argomento:
«
Vanity Fair ha ritenuto le prove legittime, a quanto pare, assieme alle dettagliate testimonianze che le corredavano,» insinuò infatti, evidentemente alle strette e umiliandolo giusto per ripicca.
Tony si rabbuiò all'istante e decise che ne aveva abbastanza di quelle frecciatine:
«Signor Knight, se è così interessato alle mie abilità amatorie posso darle una dimostrazione pratica in privato... ma per ora vorrei continuare a parlare di protesi nel senso stretto del termine, se non le dispiace,» sbottò a metà tra il serio e il faceto, ma il suo sguardo rimase tagliente e decisamente poco divertito.
Lo schiocco del martelletto riportò l'ordine nell'aula, ora attraversata da un brusio ilare e pettegolo.
«Signor Knight, signor Stark, invito entrambi ad astenervi dal gossip: siamo in un'aula di tribunale, non a un talk-show,» ricordò loro con fare seccato Stern. «Ciononostante, l'imputato ha indubbiamente fatto sfoggio di instabilità nelle scorse udienze e, si presume, al di fuori,» continuò poi impassibile.
«Non vi è alcuna valutazione psicologica ufficiale a sostegno delle tesi dell'accusa, Vostro Onore. E le ricordo che nel corso dell'ultima udienza l'imputato era febbricitante e fortemente debilitato da quelle stesse operazioni necessarie a impiantarsi le protesi che, in seguito a un possibile sequestro, si rivelerebbero solo un'inutile sofferenza,» sciorinò Kyle con sicurezza. «E ciò sarebbe un considerevole danno economico, emotivo e sociale per il mio cliente.»
«E mondiale,» aggiunse Tony di getto. «Niente protesi, niente Iron Man... e niente "deterrente nucleare" per gli Stati Uniti,» si arrischiò ad aggiungere, rimediandosi un'occhiata ammonitrice dal suo avvocato, ma dal pubblico arrivò un mormorio di consenso che sfatò la sua preoccupazione per quel commento azzardato.
«Una perdita davvero incommensurabile,» osservò sarcastico Knight, ma passò ignorato.
«È innegabile che ciò lederebbe la vita privata del signor Stark, ma cosa suggerisce per scongiurare questi "danni" e le "limitazioni" alle protesi, signor Andrews, considerando le conclusioni della giuria in merito?» insistette il giudice, dimostrandosi inaspettatamente incline al dialogo.
A quel punto l'avvocato si concesse un lieve sorriso sicuro di sé. Tony dal canto suo si sentì balzare il cuore in gola e si ritrovò a incrociare tutte le dita che gli rimanevano, pregando che la faccenda andasse per il verso giusto: erano finalmente arrivati al punto cruciale del processo, al quale avevano mirato con prudenza sin dal principio.
«Se le protesi sono davvero considerate alla stregua di "armi", potrebbero essere messe in regola con una banalissima licenza, come avviene normalmente per qualsiasi altro tipo di arma.»
Il breve silenzio attonito che seguì la sua affermazione fece capire a Tony che avevano appena colto nel segno: Knight era rimasto interdetto e si potevano quasi scorgere i suoi pensieri ristagnare dietro agli occhi chiari, come se fosse momentaneamente incapace di elaborare ciò che aveva appena sentito. Dopo aver meditato per qualche istante, il giudice si rivolse a Kyle prima che Knight potesse formulare una replica coerente:
«Signor Andrews, si rende conto che stiamo parlando di congegni che esulano dal concetto stesso di "arma"?»
«Non vedo perché non dovrebbe essere possibile regolamentarle seguendo delle direttive speciali e preposte al caso in questione,» ribatté prontamente lui. «Dopotutto, non costituerebbero un pericolo molto diverso da una comune pistola, tanto più che dovrebbero essere considerate come armi contundenti e non da fuoco.»
«Obiezione!» la voce di Knight risuonò innaturalmente alta e allarmata. «Non siamo ancora a conoscenza della reale capacità offensiva delle protesi, e ritengo assolutamente prematuro avanzare richieste del genere,» concluse, piuttosto debolmente.
«Per questo ho autorizzato una perizia tecnica sulle protesi non appena le avrò ultimate,» ribatté serafico Tony godendosi la reazione di Knight, che fu di puro sconcerto nel vedere apparire un documento che passò dalle mani di Kyle a quelle della guardia di sicurezza e infine del giudice, che lo lesse incuriosito facendo sprofondare nuovamente il tribunale in un mormorio agitato.
«Signor Stark, non ha fornito una data precisa per questa "perizia",» osservò Stern a lettura ultimata.
«Le protesi sono ancora in fase di collaudo: preferisco aspettare fino al loro completamento precludendomi qualche gita fuori porta. Odierei dover ripetere tutto una seconda volta, soprattutto se sarà Hammer a metterci su le mani,» puntualizzò lui con malcelato fastidio.
Il giudice annuì appena e prese a parlottare coi membri della giuria, mentre tra loro circolava varie volte il documento in esame, con grande aspettativa di Tony e Kyle.
Quasi sobbalzarono quando il martelletto schioccò di nuovo.
«La corte mette agli atti l'autorizzazione controfirmata dal signor Stark,» annunciò infine Stern.
Tony si ritrovò a sorridere con enorme soddisfazione mista a sollievo, cercando con fare saccente gli occhi irati di Knight, adesso impalato rigidamente davanti al banco dell'accusa e per una volta a corto di parole taglienti con cui metterlo in difficoltà.
«La questione delle protesi verrà archiviata fino alla loro ultimazione, a patto che il signor Stark continui a rispettare le limitazioni impostegli. Ogni violazione in tal senso verrà severamente punita.» 
Stern trapassò con lo sguardo Tony, come a sottolineare la serietà di quella minaccia. Lui si limitò ad alzare le spalle e a soffiargli un irriverente bacetto di ringraziamento, incurante del rischio di vedersi sbattere al gabbio seduta stante; per sua fortuna il giudice si limitò a sbuffare sonoramente, già pentito della sua magnanimità.
Tony scoccò un'occhiata di sottecchi a Kyle, che con sua sorpresa non stava ancora facendo una ola di gioia per il risultato appena raggiunto. L'avrebbe fatta volentieri lui, ad avere due braccia funzionanti, ma per ora gli bastava non riuscire a togliersi dalla faccia un ghigno soddisfatto e indirizzato soprattutto a un Knight paonazzo e ribollente di frustrazione.
«Signor Stark, anche escludendo le protesi, lei è comunque in possesso di armi devastanti, sebbene non sia al momento in grado di usarle,» tornò alla carica, in tono molto meno conciliante di prima. «E queste, non essendo sotto il controllo dell'esercito, potrebbero essere sottratte e utilizzate in modo improprio come con la tecnologia arc.»

«Ho i miei metodi per assicurarmi che ciò non accada più, signor Knight. Ho imparato la lezione,» ribatté Tony laconico, accennando alla benda sull'occhio.
«E noi dovremmo fidarci della sua parola?»
«Dovreste fidarvi del fatto che Iron Man è sempre rimasto in mio esclusivo possesso, escludendo la penosa imitazione di Stane che mi sono premurato di porre sotto mia diretta custodia. O almeno, ciò che ne rimane dopo il tuffo nel reattore.» 
Tony si rese conto con un brivido d'inquietudine di aver portato il discorso in una direzione pericolosa, ma Knight sembrava troppo accanito contro Iron Man per cogliere l'opportunità:
«La sua parola non è una garanzia sufficiente. Le "protesi" potranno anche passare come giocattoli, ma spero non vorrà convincere la corte a concederle un porto d'armi anche per Iron Man,» sbottò con sarcasmo.
«Lungi da me, signor Knight,» sospirò Tony, chiedendosi quante energie dovesse avere il procuratore per mandare avanti quella pantomima estenuante.
«Signor Stark,» intervenne a quel punto il giudice, «le faccio notare che la detenzione di armi di tale portata deve necessariamente essere regolamentata e approvata dal Dipartimento della Difesa. Siamo stati fin troppo clementi con lei: la invito caldamente e per l'ultima volta a smantellare e consegnare di sua volontà l'arma Iron Man, o saremo costretti a processarla ufficialmente per possesso illegale di dispositivi ad alto potenziale bellico,» annunciò con fredda formalità, e a quelle parole Knight s'illuminò come non mai.
Al contrario Tony sprofondò in un'espressione tetra, sentendosi messo alle corde e prendendosi qualche secondo per rispondere. Incrociò goffamente le braccia con un cipiglio contrariato.
«Obiezione,» s'intromise con pacatezza Kyle. «Il signor Stark non è attualmente in possesso di armi simili, come dichiarato in precedenza.»
«Non abbiamo la certezza che il signor Stark non possegga armature in questo momento,» replicò Knight, come rinvigorito dalle affermazioni del giudice.
«Se proprio insistete, vi invito per un tè a casa mia così da constatare con mano l'arsenale che secondo voi sto nascondendo nella Bat-caverna. Ma temo che troverete solo un sacco di rottami, computer e auto d'epoca,» intervenne Tony, e alzò le spalle falsamente dispiaciuto, reggendo il gioco azzardato di Kyle.
Vi furono lunghi, pesanti secondi di silenzio, interrotti solo dal fitto confabulare di Stern con la giuria. Knight osservava il tutto con circospezione e pacata aspettativa. Infine il Senatore si raddrizzò sul suo scranno, intercettando lo sguardo di Tony.
«Stia pur certo che accetteremo presto l'invito, signor Stark.»


***


3 Giugno, Tribunale di L.A., 13:40

«K?»
«Stark?»
«Non ho ben capito se è andata bene o male.» 
Tony si passò una mano sulla nuca con fare perplesso, attendendo un'illuminazione da parte dell'avvocato, che però non arrivò. Kyle era intento a rileggere il verbale dell'udienza e si faceva sempre più scuro in volto ad ogni pagina che scorreva.
«K?» lo chiamò ancora, con più insistenza.
A quel punto il giovane chiuse seccamente la cartellina, come a chiudere con essa anche le sue riflessioni.
«Siamo in pareggio,» annunciò infine, con aria un po' assente.
«Già, avevo avuto quest'impressione,» concordò lui, con uno sbuffo.
«Non mi sembri particolarmente preoccupato. Ti hanno praticamente annunciato una perquisizione e il sequestro di Iron Man,» commentò l'altro, scrutandolo coi suoi penetranti occhi verdi come a voler svelare il segreto di quella calma così insolita.
«Che venissero pure in gita alla villa: dovrò solo smantellare la Mark II. Non è un grosso problema,» commentò Tony, con una percepibile punta di rammarico.
«Il Dipartimento della Difesa non si accontenterà così facilmente: vorranno i progetti delle armature. E c'è la questione dei tuoi interventi nelle operazioni militari... non sei Iron Man adesso, ma lo sei stato, e se decideranno di appigliarsi ancora a quello, e lo faranno, neanch'io potrò esserti d'aiuto.»
«Me la caverò come sempre.» 
Tony alzò le spalle con noncuranza. Lo sguardo di Kyle si fece ancora più penetrante.
«Stark, se hai qualcosa da dire, dilla adesso, non tra un mese quando saremo di nuovo in aula.»
«Sono in fase meditativa. Sappi solo che ho un piano. Credo...» aggiunse, inclinando appena la testa di lato con aria assorta.
Kyle non sembrò affatto rassicurato, ma decise di lasciar correre, almeno per il momento. A quel punto Tony s'illuminò repentinamente, rivolgendogli un sorriso raggiante:
«Il nostro piano però ha funzionato: abbiamo praticamente vinto la causa delle protesi!»
L'avvocato non poté fare a meno di sorridere di rimando, contagiato dalla sua euforia.
«Almeno quella è stata una vittoria. Merito della mia strategia,» aggiunse, portandosi una mano al petto in uno sfoggio di immodestia.
«Merito del mio charme, vorrai dire! Devo aver finalmente fatto colpo su Knight: oggi aveva uno sguardo da triglia più intenso del solito,» lo rimbeccò Tony, sogghignando.
«Oh, attento, sono quasi geloso, Stark.»
L'altro ridacchiò, per poi tornare a fissarlo accigliato:
«Come diavolo facevi a sopportarlo? Io l'avrei picchiato al primo appuntamento,» scosse la testa, incredulo e squadrandolo con malcelata curiosità.
«Infatti la cosa non è durata molto. E a poter tornare indietro lo farei,» aggiunse, quasi sognante al pensiero di assestare un gancio sul muso del procuratore. «Piuttosto, oggi ti sei comportato quasi bene. Devo preoccuparmi?» commentò poi, chiudendo con decisione l'argomento.
«Non più del solito,» l assecondò Tony. «Ho semplicemente deciso di provare l'ebbrezza di attenermi ai "protocolli",» mimò delle virgolette infastidite.
Kyle lo fissò dubbioso per qualche istante, ponderando quelle parole.
«Avvicinati,» lo invitò d'un tratto.
Tony arcuò perplesso entrambe le sopracciglia, sporgendosi però cautamente verso di lui dalla sedia a rotelle:
«K, capisco che tu voglia congratularti con me, ma una stretta di mano è più che sufficien–... Ahia!» esclamò, sobbalzando al secco scappellotto che Kyle gli aveva appena rifilato a tradimento sulla nuca.
«Se avessi avuto la decenza di seguire le mie direttive fin dall'inizio, a quest'ora saresti un uomo libero!» sbottò l'altro, piantandogli un indice a un palmo dal naso con fare accusatorio e diventando rosso in volto.
Tony si massaggiò la testa storcendo la bocca in una smorfia, senza osare ribattere e sapendo quanto l'avvocato avesse ragione.
«Messaggio ricevuto,» borbottò dopo un po' con aria colpevole. «Ma è sbagliando che s'impara,» aggiunse subito dopo con fare saputo, e un sorrisetto da discolo riprese a inclinargli le labbra.
«Tony!» la voce stentorea di Rhodey lo riscosse, e si scoprì a sorridere più apertamente nel vedere l'amico che gli si avvicinava ad ampie falcate, con la solita espressione di pietra sul volto.
Kyle dovette intuire al volo di essere di troppo, perché richiamò discretamente l'attenzione di Tony con una rapida pacca sul braccio:
«Stark, io vado, ho un sacco di tuoi casini da gestire. E chiamami quando elabori il tuo "piano",» gli ingiunse minaccioso, al che Tony alzò l'occhio al cielo, ma annuì conciliante.
«Colonnello...» Kyle si portò due dita alla fronte in un accenno di congedo militare prima di defilarsi e lasciarli soli.
Tony si sistemò meglio sulla sedia a rotelle, improvvisamente a disagio nel ritrovarsi sotto gli occhi dell'amico dopo così tanto tempo... e soprattutto dopo averlo praticamente chiuso fuori dalla sua esistenza senza alcun motivo preciso, se non il suo orgoglio. Rhodey lo salutò con un lieve cenno del capo, per poi piazzarsi di fronte a lui un po' impettito come al solito. Tony lo scrutò brevemente: aveva l'impressione che le medagliette appuntate sulla divisa fossero aumentate.
«Bel gioco di squadra, là dentro,» esordì con leggerezza, indicando le porte dell'aula alle loro spalle.
«Non ho certo stilato un rapporto per vederlo ignorare,» si limitò a commentare Rhodey a mo' di giustificazione.
Tony si accorse che lo fissava con un misto di curiosità, sconcerto e preoccupazione: si chiese come avrebbe reagito nel vederlo appena un paio di mesi prima, con molti chili in meno, un costante velo di febbre e il doppio delle occhiaie. In quel momento la cosa più disturbante era probabilmente lo sfregio che gli deturpava il volto, da cui lo sguardo di Rhodey sembrava involontariamente calamitato. Non gliene fece una colpa, ma dovette trattenere la tentazione di rimettersi la benda che aveva riposto in tasca dopo il processo: i suoi sentimenti verso quel pezzo di stoffa erano altalenanti e volubili, e raramente mostrava coerenza al riguardo. Adesso però non vedeva motivo di nascondersi di fronte al suo migliore amico, soprattutto dopo averlo tenuto all'oscuro di tutto per così tanto tempo. Sapeva perfettamente cosa si provava ad essere messi in disparte.
"Quanto posso essere ipocrita?" si ritrovò a pensare con colpevolezza.
«Non c'eri allo scorso processo,» osservò infine, con tenue curiosità.
«Mi è toccato un viaggetto in Afghanistan. Qualche sopralluogo, nulla di che,» minimizzò subito con aria assente, reprimendo la sua chiara riluttanza a rispondere.
Tony si accigliò.
«Mh. Hai portato i miei omaggi ai Dieci Anelli?»
«Più o meno. La situazione è ancora calda.»
La conversazione morì per qualche istante, finché non fu Rhodey a rompere definitivamente il ghiaccio:
«Ho ricevuto la tua mail. E la foto,» osservò cautamente.
Tony lo fissò con improvvisa consapevolezza: adesso credeva di intuire cosa avesse spinto l'amico a riprendere i rapporti. L'incrollabile fiducia che Rhodey aveva in lui era a volte disarmante, ma se ne sentì rallegrato. Con una buona dose di senso di colpa a irritargli lo stomaco per come l'aveva trattato negli ultimi mesi, ovviamente. Si trovò a pensare che
forse quel messaggio di auguri non era così minatorio come si era convinto che fosse...
«So di essere fotogenico, ma non immaginavo di averti colpito così tanto,» scherzò senza incontrare i suoi occhi.
«Pensavo di trovarti in piedi,» continuò Rhodey ignorando la sua battuta, sempre con l'aria di chi si sta addentrando nelle sabbie mobili timoroso di sprofondarvi ad ogni passo.
Tony volse ostentatamente lo sguardo al soffitto, camuffando l'imbarazzo:
«Ci sono state delle complicazioni,» esordì vago, sentendosi sotto esame quando lui assottigliò lo sguardo. «Per usare le parole del mio segaossa, ho "strafato",» concluse a malincuore.
«Chissà perché, non mi sorprende.»
Tony non trattenne un risolino autoironico:
«Mi conosci troppo bene.»
«Ti trovo bene,» ribatté di slancio lui.
L'altro lo fissò sorpreso e momentaneamente senza parole, ma si ricompose alla svelta senza dare a vedere quanto gli avesse fatto piacere quello che vedeva come una sorta di riconoscimento ufficiale dei suoi progressi. E da parte di Rhodey, che riteneva pressoché incapace di dimostrare alcuna emozione che non fossero orgoglio e dedizione al proprio lavoro, contava come se gli avesse appena consegnato personalmente un trofeo – e stavolta non era un inutile Apogee Award.
«Starei anche meglio se il governo la smettesse di starmi col fiato sul collo,» sbottò, sfoggiando una smorfia contrariata nel tentativo di celare la sua contentezza.
«Non sei nella migliore delle posizioni,» riconobbe Rhodey, adombrandosi a sua volta e muovendosi a disagio sul posto.
«Posso contare su un altro assist provvidenziale?» chiese a quel punto Tony, quasi facendogli gli occhi dolci; Rhodey non trattenne un mezzo sorriso, ma il suo tono rimase severo:
«Tony, io posso ammorbidire gli alti gradi, ma non faccio miracoli. Il governo e l'esercito vogliono Iron Man, possibilmente senza includere te nel pacchetto.»
«Avevo intuito un certo astio nei miei confronti, ma pensavo fosse solo una mia impressione,» sbuffò lui, poggiando il mento sulla mano e sporgendo il labbro con fare imbronciato.
«Non scherzare: se non consegni Iron Man metterai in pericolo anche le Stark Industries, quindi evita altri colpi di testa,» gli ricordò l'amico, spronandolo a rimanere serio.
«Ehi, è finita la mia "fase ribelle",» lo rassicurò lui, lievemente irritato. «Ora sono in quella "pensa-prima-di-agire".»
«E prima di chiudere tutti fuori dal tuo mondo,» osservò Rhodey pungente.
«Quella non è stata una buona mossa,» riconobbe a malincuore, passandosi una mano tra i capelli un po' troppo lunghi e riconoscendo che l'amico si era trattenuto anche troppo a lungo dal rimproverarlo direttamente.
«A proposito, dov'è Pepper?»
«Domanda di riserva?» 
Tony lo fissò con un sorrisetto tirato e implorante: non era assolutamente dell'umore per affrontare l'argomento, soprattutto non con lui.
«Tony... sei un disastro.» 
Rhodey si portò una mano al volto e chiuse gli occhi, probabilmente immaginando chissà quali scenari apocalittici che potessero giustificare l'assenza della donna in un frangente così critico. Il che non si sarebbe discosto poi molto dalla verità. Tony incassò il commento, ritenendo più opportuno non rivelargli anche del suo tentato suicidio in un momento in cui sembrava incline a lasciarsi i loro trascorsi alle spalle. Il pensiero della sua potenziale reazione a quella notizia lo impensieriva più di quanto volesse ammettere, ma sapeva che prima o poi gli sarebbe toccato rivelargli anche quella sua "prodezza", a costo di perdere definitivamente la sua amicizia: non era di certo un tipo comprensivo né incline ad abbandonare la sua rigorosità. Si accorse di aver poggiato la mano sul reattore e confermò tra sé la sua decisione di rimandare quella chiacchierata. Non era poi così sicuro di poter già parlare della faccenda con chi gli stava a cuore come se niente fosse, soprattutto contando il numero di notti insonni che gli aveva causato.
«Tornando a noi...» riprese cautamente, allontanandosi da quel campo minato. «Ho una mezza idea per uscire da questo pasticcio, ma forse mi servirà un po' più di un mese.» 
Lo guardò di sottecchi con fare eloquente, e Rhodey sospirò incrociando le braccia.
«Vedo che posso fare, ma non ti assicuro nulla. Che intenzioni hai?»
A quel punto Tony si rilassò nella solita espressione sorniona che assumeva quando gli veniva un'idea che riteneva geniale. E la maggior parte delle volte si rivelava tale.
«Tanto per cominciare, dovrò rovinare le vacanze a qualcuno...»




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Note Dell'Autrice:

Ehilà!
Sto aggiornando in un orario che non so se definire notte o mattina, quindi mi dimenticherò probabilmente mille cose che volevo dire nelle note.
Innanzitutto ho finalmente avuto la meglio sull'HTML e sono riuscita a cambiare il layout del testo come volevo, cioè con l'interlinea 1,5 che rende più arioso il testo. Vi prego di segnalarmi eventuali problemi nella visualizzazione:)

Passando al capitolo... sì, torna il processo, per l'ultima volta. Il resto delle udienze verrà riportato in forma indiretta, per vostra gioia. Mi rendo conto della pesantezza, che ho cercato di smorzare per quanto possibile, ma questo era un passaggio importante per la storia, come avrete intuito. La questione del "porto d'armi" per le protesi suonerà forse ridicola, ma era la soluzione originaria che avevamo elaborato agli albori della storia e ho deciso di mantenerla per non complicare e allungare la questione, dato che in questa parte le protesi scivoleranno comunque in secondo piano rispetto ad altri argomenti e problematiche.

Credo che si noti la volontà di inserire un certo personaggio, almeno indirettamente... non dico nulla di esplicito, ma credo di aver fornito abbastanza indizi qui e negli scorsi capitoli (coffcoff riguardatevi il capitolo 3 coffcoff). Devo ancora incastrarlo per bene nella storia e non credo apparirà mai direttamente, ma penso che possa essere un'aggiunta interessante.
A parte ciò: sì, la Everhart alla fine ha pubblicato il servizio di vario tipo in cui mette alla berlina Tony in seguito alla loro scappatella poco riuscita. È stronza? Ovviamente. Ha rilevanza? La avrà, non molta, ma la avrà... *sadism intensifies*
Il riavvicinamento di Rhodey potrà sembrare repentino, ma in realtà è una scelta ben ponderata. Lui e Tony sono due testoni orgogliosi, ma Rhodey sa riconoscere quando è il momento di mettere da parte le questioni personali. D'altro canto, non sa ancora della "prodezza" di Tony, quindi è più incline a dimostrarsi conciliante con lui. Ma non durerà in eterno.
E Pepper è ancora una volta "nell'ombra"... giuro che prima o poi ne esce :P

Detto ciò, ci tengo a ringraziare 50shadesofLOTS_Always ed Emyclarinet che hanno recensito lo scorso capitolo, rendendomi felicissima nel sapere che questa storia è ancora seguita e viene addirittura "scoperta" a distanza di anni <3
Un ringraziamento speciale alla mia cara _Atlas_ che, oltre a recensirmi ovunque e sorbirsi le mie risposte chilometriche, sopporta anche i miei scleri infinity su Infinity War e le mie recensioni moleste. Tesevobbene <3 
Grazie anche a chiunque leggerà/recensirà :)

Prevedo un aggiornamento entro il 25 maggio, forse prima, forse dopo, a seconda di come procederà la stesura (e anche perché ho un po' di strizza a pubblicare il prossimo capitolo, perché ci tengo assai ma allo stesso tempo è mooolto opinabile, strambo eeee niente, paro le manO avanti fin da ora).
Dasvidanija, people,

-Light-


P.S. Per rispondere ad Atlas riguardo a Kyle e Knight... direi che i tuoi film mentali sono più che confermati :D





© Marvel
 

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Capitolo 37
*** Show and tell ***



36


Show and tell




"I get mine and make no excuses, waste of precious breath
The sun shines on everyone, everyone love yourself to death
So you gotta fire up, you gotta let go
You'll never be loved till you've made your own
You gotta face up, you gotta get yours
You'll never know the top till you get too low"


[I'm So Sorry – Imagine Dragons]




7 Giugno, 22:40, Villa Stark

Quando Coulson fermò l'auto nel patio di Villa Stark, fu fortemente tentato dal riavviare all'istante il motore e fare dietrofront finché era in tempo. Oppure rimanere chiuso nell'abitacolo fino allo scadere dell' "ultimatum", in poco più di un'ora, così da evitare quel compito ingrato e tornarsene tra le braccia di Audrey.
Poggiò le mani sul volante e il mento sulle dita intrecciate, scrutando l'oscurità interrotta dai lampioni oltre il parabrezza. La villa era insolitamente buia; solo un lieve chiarore si diffondeva dal seminterrato, dov'era il laboratorio del miliardario. Un paio di luci isolate erano accese al pianterreno, come sospese nel nulla. Il tutto aveva un'aria più sobria del solito, come se l'edificio avesse deciso di rispecchiare l'umore e le vicissitudini del proprietario in quegli ultimi mesi.
La titubanza di Coulson si risolse quando vide l'atrio illuminarsi a giorno e pochi secondi dopo la sagoma di Stark fare capolino dalla porta a vetri dell'ingresso, in sua chiara attesa. Doveva essersi accorto da tempo del suo arrivo. L'agente si decise ad aprire con studiata lentezza la portiera, rivolgendogli un impercettibile cenno di saluto col capo, che lui ricambiò appena con un gesto della mano prima di dileguarsi per attenderlo in salone.
Coulson varcò la soglia e si avviò senza fretta all'interno avvertendo un lieve nervosismo, considerate le ultime circostanze in cui si era trovato costretto a venire in "visita" alla villa. Il suo sguardo fu inevitabilmente catturato dalla parete mancante, di cui ancora si scorgevano i resti semidistrutti.
«Cominciavo a dubitare che avrebbe risposto al mio appello, Agente,» lo accolse Tony a mo' di benvenuto. «Mi coglie impreparato.»
Coulson avanzò di qualche passo nel salone, individuando il suo interlocutore seduto sul divano e intento a trafficare con la protesi del braccio al momento disgiunta dal suo corpo.
«In realtà ne dubitavo anch'io, ma ho ricevuto ordini ben precisi,» rispose, scrutando con perplessità l'ingegnere che poggiava il braccio meccanico accanto a sé, prendendo poi a rigirasi in mano un cacciavite con aria irritata.
Era una scena molto simile a quella a cui aveva assistito durante l'ultima, disastrosa riunione dei Vendicatori in quello stesso salotto, con un Tony decisamente più alterato e incline a farsi beffe del mondo intero.
«Sono stupito che Barbanera non si sia accodato a questa visita di piacere.»
«Ha ancor meno voglia di vederla di me, Stark.»
«Non gli do torto.» 
L'altro alzò le spalle con noncuranza e Coulson non colse alcun sarcasmo in quelle parole. Osservò meglio l'uomo, con occhi allenati da anni di spionaggio che registrarono all'istante i sottili cambiamenti rispetto all'ultima volta che l'aveva visto: sembrava più rilassato, anche se si scorgevano ancora delle pieghe rigide sul suo volto un po' smunto, probabilmente dovute all'insonnia. E forse a molti pensieri sgradevoli, viste le ombre annidate nel suo unico occhio che lo scrutava con cauta diffidenza. Il suo aspetto era più curato di quanto si aspettasse, sebbene al momento sembrasse appena reduce da una sessione in laboratorio, a giudicare da uno sbaffo di fuliggine sul volto e dai capelli scarmigliati e dalla piega viziata, come se avesse portato a lungo degli occhiali protettivi. Indossava una semplice polo verde da cui faceva capolino il reattore, scoordinata rispetto ai pantaloni da basket che lasciavano scoperta la protesi inferiore fino al ginocchio, probabilmente per comodità. Sembrava perfettamente a suo agio, anche senza un braccio e con la gamba meccanica in bella vista, ma non sapeva dire quanto quell'atteggiamento fosse ostentazione forzata e quanto reale disinvoltura.
Coulson accennò col mento al braccio prostetico poggiato accanto a lui:
«Pensavo avesse smesso di "smontarsi".»
«In realtà si è smontato da solo,» ribatté Tony, decisamente poco divertito dal commento, e Coulson notò come sfiorò inconsapevolmente la zona in cui era incastonato il reattore, quasi a controllare non si fosse "smontato" anch'esso. «Ci dev'essere qualche problema con le giunture, ma non sono ancora diventato un contorsionista, quindi dovrà sopportarmi così almeno finché il Doc non verrà a riaggiustarmi,» spiegò rapido, cercando con fare esplicativo di raggiungere una vite sul retro della sua scapola, chiaramente fuori dalla sua portata.
Rinunciò con un sospiro snervato, lanciando poi con un gesto preciso il cacciavite nello svuotatasche di cristallo sul tavolo, già stracolmo di componenti elettronici non meglio identificati.
«Al momento però ho problemi più urgenti.» 
Stark fece per incrociare le braccia sovrappensiero e non riuscì a nascondere la smorfia di fastidio e perplessità quando si rese conto di non esserne in grado al momento; corresse il gesto portando bruscamente il braccio sano a sorreggersi la nuca.
«Sentiamo,» replicò serafico Coulson, decidendosi ad avvicinarsi.
Si piantò di fronte a lui con le mani giunte davanti a sé e continuò a scrutarlo in un misto di scetticismo e tenue curiosità.
«Ha saputo del processo?» esordì il suo ospite.
«Ero in ferie.» 
Gli scoccò un'occhiata accusatoria. In realtà aveva ricevuto il verbale da Fury, ma non aveva intenzione di scoprirsi troppo finché non avesse capito cosa passava nella testa dell'uomo.
Tony fece una smorfia colpevole e si pizzicò il naso, come indeciso su come uscire indenne da quella prima gaffe.
«Beh, se può consolarla, non sapevo a chi altri chiedere aiuto,» si decise a dire infine, con franchezza.
Coulson si concesse una lieve espressione sorpresa, trasmessa da un movimento impercettibile delle sopracciglia verso l'alto. Tony Stark che chiedeva aiuto? Si aspettava che da un momento all'altro un meteorite si abbattesse sulla villa per ristabilire l'ordine cosmico.
«Per farla breve: c'è qualche problema con la "questione Iron Man",» spiegò, non nascondendo il suo cruccio nel pronunciare quelle parole.
«Dice?» 
Coulson stavolta non trattenne una decisa vena di rimprovero. L'altro si accigliò ulteriormente, forse presagendo dove sarebbe andato a parare il discorso, e Coulson fu ben felice di confermare i suoi sospetti:
«I suoi "problemi con Iron Man" sono iniziati nel momento in cui lei ha deciso di ignorare deliberatamente ogni nostra direttiva, scambiando il processo per il suo spettacolino personale e rivelando al mondo la sua identità,» gli illustrò in tono compassato, ma il suo volto tradiva la seria irritazione che provava al solo pensiero di quanto si fosse imbestialito Fury quella volta... e ovviamente era stato lui a dover fare da punching ball metaforico per far sbollire la sua ira.
«Agente, è venuto per ascoltare ciò che ho da dirle o per farmi l'ennesima paternale?» 
Stark non si mostrò affatto toccato da ciò che gli aveva appena detto; sembrava solo impaziente di lasciar da parte quella discussione sterile per arrivare al dunque. 
«La avverto che ho già una ventina d'anni d'esperienza con mio padre alle spalle, anche se adesso sono un po' arrugginito,» continuò con più asprezza.
«Sono venuto per ricordarle in che posizione si trova in questo momento, di ponderare con criterio qualunque richiesta o proposta voglia sottoporre alla mia attenzione e di aspettarsi che venga cordialmente rifiutata o respinta,» sciorinò tranquillamente Coulson, senza perdere un colpo.
A quel punto Tony si limitò a scuotere con lentezza la testa, improvvisamente più scuro in volto e con una luce quasi adirata nello sguardo.
«È incredibile vedere come proviate gusto a vanificare ogni mio sforzo per risolvere la situazione. Fa parte della vostra agenda?» osservò piattamente, prima di riprendere con più veemenza: «Ho sbagliato. So di aver sbagliato in ogni modo possibile. Adesso possiamo andare avanti?»
Coulson non replicò, ma in cuor suo era decisamente sorpreso dal tono tutto sommato pacato e ragionevole in cui si stava svolgendo la discussione. Si era già preparato a dover subire l'ennesimo accesso di collera del "genio", che stava invece dimostrando un autocontrollo che riteneva impensabile, per un tipo che aveva avuto la sconsideratezza di accapigliarsi con Rogers e Banner. E aveva davvero appena ammesso di aver sbagliato? Quel meteorite era decisamente in ritardo.
«Spero solo che si renda ben conto di ciò che le sue azioni hanno causato,» commentò solo, imperturbabile e restio a lasciare l'ultima parola a un individuo che, fu costretto a rammentarsi, aveva piombato lo SHIELD nel caos a più riprese senza pensarci due volte, oltre a ferire tutti coloro che aveva intorno e a distanziarsene per puro e ottuso orgoglio.
«Mi sono scritto un promemoria, nel caso me lo dimenticassi,» ribatté lui sferzante. «Ora, prima che possa ripartire per la tangente ricordandomi una per una tutte le stronzate che ho fatto, gradirei arrivare al punto.»
Solo allora Coulson si decise a sedersi sulla poltrona di fronte a lui, a braccia conserte e in attesa di scoprire finalmente il motivo di quella convocazione inattesa, concludendo che per il momento aveva messo sufficientemente alla prova l'autocontrollo di Stark. Si ritenne soddisfatto e anche un po' meravigliato dai risultati ottenuti.
«La ascolto.»
«Il governo mi accusa del possesso di armi illegali, ovvero le armature,» esordì Tony dopo un breve momento di silenzio e con insolita sinteticità. «In realtà ho appena smantellato la Mark II. Mi aspetto una visita con perquisizione in omaggio a giorni, ma non troveranno niente di compromettente. Il problema è che se dovessero porre sotto sequestro i progetti non potrei costruirne altre.»
«Mi sembrava che avesse deciso di rinunciare al suo ruolo.»
«È stato solo un modo per... ehi! Allora non è vero che non ne sa nulla, del processo.»
Lo squadrò storto, ma Coulson si limitò a sfoggiare un sorrisino eloquente che suscitò un sospiro da parte sua.
«Dovevo immaginarlo... in ogni caso, non ho alcuna intenzione di ritirarmi definitivamente, ma ho dovuto fare buon viso a cattivo gioco e dare un contentino ai pagliacci del governo. Non sono comunque ancora nelle condizioni di indossare l'armatura,» accennò alla protesi disarticolata, «quindi per ora non ho intenzione di costruirne altre... almeno non per me,» aggiunse cautamente, suscitando la curiosità di Coulson.
«Che intende?»
«Quanta fretta, Agente, ci sto arrivando. Pensavo non le interessasse ciò che avevo da dire,» lo redarguì, con un chiaro compiacimento che Coulson decise di ignorare. «Non si tratta solo del futuro di Iron Man, ma anche del suo passato, per metterla in modo poetico. Le missioni che ho svolto con voi durante lo scorso anno non sono passate inosservate e la corte mi sembra abbastanza propensa a farne il fulcro del prossimo processo, visto che ho agito in veste non ufficiale.»
Fece una pausa, scrutando la reazione di Coulson, che dal canto suo continuava ad ascoltarlo in silenzio, assorto e cercando di capire dove volesse andare a parare. E a non pensare a tutte le volte che Stark si era infiltrato nelle missioni dei Vendicatori nonostante fosse un semplice consulente, spesso causando problemi, più spesso risolvendoli, ma provocando sempre qualche accesso isterico al direttore.
«Si sono impuntati sulla "legalità" di Iron Man, che ovviamente non posso dimostrare,» Tony a quel punto sfoggiò un sorrisetto, «a meno che io non riesca casualmente a rientrare nelle grazie di una certa organizzazione in grado di legittimare i miei interventi passati e futuri in quanto membro ufficiale di un certo progetto,» concluse, scoccandogli un'occhiata penetrante.
Coulson in tutta risposta si limitò ad accavallare le gambe e a spostare pigramente lo sguardo al soffitto, prendendosi del tempo per elaborare ciò che aveva appena sentito. Ed evitare di farsi saltare le coronarie.
«Lei ha mandato a monte le mie ferie, mi ha costretto a volare fin qui dall'Oregon in tutta fretta e ha spacciato tutto ciò per qualcosa di urgente solo per chiedermi di rientrare nei Vendicatori?» scandì infine, in tono pacato ma decisamente sul punto di inalberarsi. «Perché continuiamo a darle retta?» sbottò poi, più con incredulità che con astio.
Lo sguardo di Tony non vacillò, anzi, diventò ancora più ostinato:
«Probabilmente perché sapete di aver bisogno di me.» 
Coulson si concesse una smorfia dubbiosa di fronte a quella supponenza. 
«E anche se non ne avete bisogno ora, non potete negare che vi farebbe comodo riavermi tra i vostri. Altrimenti mi avreste lasciato affondare tempo fa,» dedusse concluse senza scomporsi.
«Lei mi sembra sempre più pieno di sé e sempre meno in grado di giudicare la situazione in cui si trova.»
«Che ci crediate o no, so quello che sto facendo.»
«La sua recente valutazione psicologica fa pensare diversamente.»
«Quale valutaz–... un'altra?» proruppe Tony, adesso esasperato.
«Ne abbiamo una cartella piena, con molte variazioni sul tema "psicologicamente e fisicamente...»
«... inadatto al progetto Vendicatori", lo so; me lo tatuerò sul braccio buono,» quasi ringhiò l'altro.
«C'è da dire che l'agente Romanov ha messo una buona parola per lei, ma non è abbastanza per scuotere l'opinione generale della squadra e del direttore,» aggiunse Coulson per amor di sincerità.
Tony ebbe un lieve moto di sorpresa e portò la mano alla protesi inferiore, prendendo a tamburellare nervosamente sul rivestimento metallico. Si staccò poi dallo schienale del divano sporgendosi verso di lui e sembrò concentrare tutto se stesso in quel gesto, come sperando di riuscire a influenzarlo se si fosse dimostrato abbastanza motivato. Coulson si pose sul chi vive: Stark era sempre stato molto abile con le parole e aveva una capacità di persuasione non indifferente a cui si ripromise di non cedere con tanta facilità.
«So quello che faccio,» ripeté l'ingegnere, in tono più controllato. «E so anche che voi non potete permettere che Iron Man venga sequestrato dal governo. Sarebbe un disastro, si immagina l'esercito con uno squadrone di Mark male assemblate che svolazzano qua e là?» Tony esibì un'espressione atterrita. «E sarebbero probabilmente pitturate a stelle e strisce, come se non bastasse quell'attempato in calzamaglia patriottica a...»
«Se anche il processo dovesse volgere a suo sfavore, non c'è pericolo che l'armatura finisca nelle mani sbagliate.» Coulson si affrettò a interrompere quelle visioni apocalittiche. «Iron Man è... tutelato,» continuò, scegliendo con accortezza le proprie parole.
Tony ammutolì, preso in contropiede, per poi rilassarsi appena e concedersi un sorriso sollevato e incredulo:
«Allora non devo preoccuparmi! Potevate dirlo prima, mi avete fatto passare mesi d'inferno con questa storia del...»
«Ho detto che Iron Man è tutelato,» ribadì Coulson, senza abbandonare la sua espressione neutrale.
L'altro rimase di nuovo interdetto per qualche secondo e il sorriso si eclissò dal suo volto quando comprese il reale significato di quelle parole.
«Giusto,» scandì, e stavolta il suo tono trasudava risentimento, nonostante cercasse evidentemente di tenerlo a freno. «"Iron Man: sì. Tony Stark: non consigliato",» citò con amara delusione, prima di abbandonarsi nuovamente allo schienale in modo scomposto. «Dovevo aspettarmelo,» disse dopo un po' con un filo di voce, più a se stesso che a Coulson.
«Al momento lei rappresenta una responsabilità che non siamo in grado di sostenere,» lo riscosse l'agente, vedendo che sembrava perso nei suoi pensieri, come se quell'ultima notizia avesse stroncato tutti i suoi buoni propositi, lasciandolo inerte.
«Oh, sono così importante? Non mi sembrava,» rispose lui, distratto ma con un fondo di serietà.
«Pesante, piuttosto,» lo corresse Coulson, ma il suo tono divenne meno tagliente.
Percepì una punta di disagio nel demolire una richiesta che, in realtà, non aveva ancora ascoltato fino in fondo. Si chiese remotamente se non stesse davvero vanificando ogni tentativo di Stark di riparare i torti commessi per partito preso, come l'aveva accusato di fare lui stesso poco prima. Guardò l'uomo davanti a sé, sprofondato nel divano con la mano a coprirsi la benda sul volto mentre era immerso nei suoi pensieri. Per una volta non captò alcuna traccia di arroganza o sdegno nel suo sguardo: intravide solo quella che assomigliava molto a disperazione, unita a una fermezza che Stark aveva dimostrato in poche altre occasioni in vita sua. E in quelle occasioni le sue scelte si erano rivelate positive e dettate da intenzioni sincere: smettere di produrre armi, diventare Iron Man, unirsi ai Vendicatori nonostante fosse stato respinto. Gli venne da pensare che, probabilmente, c'era qualcuno che avrebbe saputo elencargli altri momenti in cui Stark aveva preso la decisione giusta.
Coulson batté ritmicamente la punta della scarpe per terra con improvviso nervosismo. L'impulso era quello di alzarsi e andarsene, soprattutto dopo il pensiero involontario a Virginia che aveva rievocato il suo ultimo incontro con Stark. Si costrinse a sopprimere quella tentazione, sentendosi meschino per quell'atteggiamento assolutamente non professionale. Non poteva abbandonarlo con tanta leggerezza nel pozzo buio che si era scavato da solo: per la prima volta era stato lui a tendere la mano in cerca d'aiuto, dopo aver rifiutato tutte quelle che si erano tese verso di lui. Il minimo che poteva fare era stringerla; poteva sempre decidere in seguito se era davvero troppo pesante o troppo rischioso tirarlo fuori.
Si schiarì la gola, richiamando la sua attenzione:
«Stark, che cosa mi stava chiedendo, esattamente?»
Lui rialzò lo sguardo, sorpreso dal suo repentino cambio di tono, ma si riprese in fretta con un brillio vivace nell'iride nocciola:
«Le chiedo di ascoltarmi. E di convincere Fury e gli altri a fare lo stesso.»
«Vorrebbe incontrare la squadra?»
Tony si limitò ad annuire con un unico, fermo cenno del capo; la tensione del suo corpo tradì l'ansia che stava provando nell'attendere una risposta.
«E quest'improvvisa voglia di un incontro va interpretata come una proposta seria o come l'ennesima esternazione delle sue manie di protagonismo?»
«Racchiude entrambe. Ultimamente mi sto impegnando ad equilibrare piaceri e doveri,» sbuffò piano, e poggiò la caviglia sinistra sul ginocchio metallico scivolando in una posa decisamente più sicura di sé, quasi fosse perfettamente cosciente di aver ormai fatto breccia nella sua cortina scettica e disinteressata.
Coulson emise un profondo sospiro, chiedendosi perché si stava ostinando a impelagarsi in quella questione senza uscita.
«Ciò che mi chiede è difficile. E non sono sicuro che il direttore sia così bendisposto nei suoi confronti, visto lo stato delle cose.»
«Non ho intenzione di presentarmi a mani vuote.» 
Tony lo fissò con la sicurezza di chi sa di essere sempre un passo avanti a tutti e si limitò ad attivare un olografico azzurrino a mezz'aria con uno schiocco di dita. Navigò con gesti precisi attraverso alcune cartelle, fino a trascinare in mezzo a loro quello che sembrava il progetto virtuale di un'armatura non molto diversa da quella che aveva sempre usato. Gliela mostrò con un ampio e teatrale gesto della mano.
«Agente, le presento la Mark IV.»
Coulson spostò lo sguardo da lui all'ologramma senza nascondere la sua perplessità: aveva decisamente perso il filo.
«Cosa dovrebbe essere?»
Le labbra di Tony si schiusero in un sogghigno trionfante:
«Il mio salvacondotto.»


***


25 Giugno, Helicarrier

Tony scrutò criticamente le navette attraccate nell'hangar interno dell'Helicarrier.
«Certo che senza di me il progresso tecnologico langue,» commentò con sufficienza, battendo le nocche metalliche sulla fusoliera di un mini-jet supersonico. «Questo è il rottame in cui avete ripescato Rogers?» sbuffò ironico.
«Non si faccia cacciar via prima del tempo, Stark,» lo riprese Coulson, probabilmente tentato dall'acchiapparlo per la collottola e trascinarlo via di peso.
«Se me lo chiedete con garbo posso riprogettarvi questa bagnarola da cima a fondo,» ribatté lui, lanciandosi un'occhiata insoddisfatta attorno, ma si decise a seguire l'agente nel notare il suo sguardo pericolosamente accigliato.
La ristrutturazione dell'Helicarrier poteva attendere.
La base della SHIELD era semideserta e Tony se ne rallegrò, visto il suo aspetto insolito. Si era abituato abbastanza rapidamente a camminare col bastone; si era persino concesso il vezzo di farsene fabbricare uno d'ebano con un'elegante impugnatura d'argento, ma non poteva fare a meno di sentirsi fuori luogo a zoppicare qua e là. Come se non bastasse, la benda adesiva che aveva deciso di indossare per quel giorno non gli dava pace e continuava a irritargli lo sfregio. Per lo meno le nuove articolazioni in unobtanium funzionavano a meraviglia, ma il controllo della protesi inferiore era ancora spigoloso e doveva concentrarsi al massimo per non inciampare sui suoi stessi piedi; si costrinse a pensare in positivo e godersi la sensazione quasi dimenticata di poter camminare sulle proprie gambe, sebbene decisamente doloranti e poco collaborative.
Lo preoccupava maggiormente il nodo formicolante d'ansia in cui si era attorcigliato il suo stomaco. Si rassicurò per la centesima volta da quando si era svegliato quella mattina – a un'ora improponibile per via dell'insonnia. Andava tutto bene, aveva tutte le carte in mano per non sfigurare e poteva compensare gli eventuali scivoloni con la sua abilità oratoria. Aveva tenuto dozzine di discorsi di fronte a migliaia di persone in circostanze decisamente più sfavorevoli che spesso comprendevano un massiccio tasso alcolico nel suo sangue. In caso d'emergenza avrebbe sempre potuto avviare una gara d'insulti con Rogers.
"Va tutto bene. È una riunione di famiglia. Sei solo la pecora nera..."
In effetti non era un pensiero molto rassicurante.
Coulson sembrava aver fretta di arrivare alla sala riunioni e procedeva a passo spedito attraverso i labirintici corridoi della base, costringendolo a forzare la sua andatura già stentata per tenere il passo. Come se non bastasse, la gamba meccanica gli stava dando problemi: il moncherino era ancora sensibile nonostante la dose doppia di antidolorifici che aveva preso prima di partire e prevedeva già un'altra settimana a letto. Stavolta Ian l'avrebbe veramente ammazzato. Non chiese di rallentare, ma alla fine fu costretto a fermarsi affannato e si poggiò di peso sul bastone per riprendere fiato, tirando una smorfia sofferente.
«Agente, abbia pietà di un povero infermo,» lo richiamò, più seccato di quanto volesse ammettere per i limiti del proprio stupido corpo.
"Iron Man un corno... Palla di Neve ha novant'anni ed è messo decisamente meglio di me."
Coulson si fermò di colpo, lanciando occhiate nervose in giro; sembrava stranamente in allerta per essere nel luogo più sicuro del mondo. Tony si guardò intorno a sua volta, riconoscendo l'ala dei laboratori. Magari dopo avrebbe potuto fare una capatina nel suo... se fosse andato tutto come previsto e non si fosse trovato scaraventato fuori dall'Helicarrier da un cazzotto verde o con uno scudo in vibranio spiaccicato in faccia o con Mjolnir a invalidargli i gioielli di famiglia. Rabbrividì a quelle possibilità tutt'altro che allettanti e si concentrò sul loro obiettivo attuale: l'ascensore una ventina di metri più avanti, che se ricordava bene li avrebbe condotti sulla plancia di comando e da lì alla sala riunioni.
«Che fretta c'è?» cercò di placare l'inusuale irrequietezza di Coulson. «Gli ospiti speciali si fanno sempre attendere,» scherzò, sentendosi già un po' più saldo sulle gambe nonostante le stilettate che gli risalivano l'arto inferiore come mille punture di uno spillo arroventato, scoraggiandolo dal ricominciare subito a camminare.
«Non è davvero il caso di arrivare in ritardo proprio oggi, non le pare?» lo rimbrottò l'altro, sollecitandolo con lo sguardo.
Tony stava per controbattere con un'osservazione sagace relativa alle sue innate doti ansiogene, quando lo vide sgranare leggermente gli occhi e, per la prima volta da quando lo conosceva, gli udì pronunciare a mezza voce una singola parolaccia:
«Merda.»
Tony si voltò allarmato, già presagendo di trovarsi alle spalle una qualche entità aliena pronta a sbranarlo. Incrociò invece lo sguardo sorpreso del dottor Banner, appena sbucato da dietro l'angolo con una cartelletta sottobraccio che per poco non gli cadde di mano nel riconoscerlo. Si raddrizzò gli occhiali sul naso come a fugare ogni dubbio su ciò che stava vedendo.
«Tony?» riuscì ad articolare dopo qualche istante, in un misto di sconcerto e circospezione.
«Ehi, Banner,» replicò lui in modo involontariamente piatto, ondeggiando appena sul posto.
Non era sicuro di cosa prevedesse il galateo nel trovarsi di fronte un caro amico che l'aveva quasi ridotto in poltiglia e che con tutta probabilità era ancora letteralmente verde di rabbia nei suoi confronti, così optò per un silenzio neutrale.
Bruce si avvicinò cautamente a loro, sempre senza abbandonare la sua espressione basita. Tony si chiese se fosse dovuta al vederlo lì, al vederlo vivo o al vederlo in piedi. Probabilmente una combinazione delle tre cose. Si schiarì la gola a disagio, ma il fatto che il dottore non si fosse ancora trasformato in un concentrato di rabbia verdognola e devastante era un buon segno... no?
«Che ci fai qui?» disse Bruce in tono tutt'altro che conciliante, incrociando le braccia e facendo vacillare le sue previsioni ottimistiche.
Poté notare che gli occhi scuri del dottore rimasero cupi nel fissarlo, come adombrati da pensieri scuri e pesanti, o più probabilmente da ricordi di chiacchierate filosofiche con lui impegnato a reggergli la testa su un cesso. Si costrinse a rispondere con naturalezza, scacciando quell'immagine tragicomica dalla mente:
«Sono venuto per la riunione, no?»
«Partecipi anche tu?» lo stupore nei suoi occhi vinse per un momento l'astio.
Stavolta toccò a Tony rimanere perplesso.
«Certo. Perché, non vi hanno...» la realizzazione lo folgorò in quell'istante e si voltò di scatto verso Coulson, impegnato a mimetizzarsi con la parete, «Non li ha avvertiti?» esalò, sentendo l'ansia che s'impennava alle stelle e il nodo allo stomaco che diventava un cappio strozzato.
Probabilmente fu per lo shock momentaneo che riuscì a suonare quasi calmo e non isterico come invece sentiva che sarebbe diventato di lì a pochi istanti.
«Direttive dall'alto,» rispose Coulson senza guardarlo «Quest'incontro era fuori programma,» aggiunse accennando a Bruce, che fissava ora l'uno ora l'altro nel tentativo di raccapezzarsi.
Con grande sorpresa di entrambi, Tony sbottò in una mezza risata amara:
«Proprio quando pensavo di potermi fidare di voi. Perché continuo a darvi retta, Agente?» commentò, riprendendo sdegnato le sue stesse parole.
A quel punto Coulson riattaccò a parlare concitato:
«Stark, il direttore ha apprezzato l'idea del suo "salvacondotto" e voleva parlare con lei faccia a faccia per decidere personalmente la sua reintegrazione nella squadra, ma...»
Tony lo fulminò con ira, stringendo l'impugnatura del bastone fino a sbiancarsi le nocche.
«E allora perché illudermi che avrei partecipato alla riunione?! Quante altre cazzate avete intenzione di...»
«... ma io ho deciso di ignorare i suoi ordini!» lo bloccò Coulson, sovrastando le sue invettive e facendolo ammutolire con un sussulto. «La sto davvero portando alla riunione. Non vi ho informati per evitare ingerenze da parte del direttore,» aggiunse rivolto a Bruce.
Tony non poté far altro che rimanere impalato sul posto, stordito da quelle parole che gli suonavano quasi insensate.
«Fury voleva tenerci all'oscuro di tutto e decidere senza consultarci?» intervenne a quel punto Banner, con voce pacata che nascondeva appena il suo evidente fastidio.
«Infatti non condivido la sua scelta,» chiarificò Coulson con fermezza, per poi rivolgersi nuovamente a Tony:
«Penso che lei debba parlare prima con loro,» accennò a Banner, «e che Fury debba accettare la vostra decisione,» concluse con un sospiro soddisfatto, riacquistando all'istante la sua compostezza come se non avesse l'avesse mai persa.
Tony rimase ancora in silenzio, senza la minima idea di come reagire, né di come interpretare quel comportamento inspiegabile. Fissò l'agente, che sfoggiava il solito sguardo vitreo corredato da un accenno di sorriso enigmatico.
Perché si stava esponendo per lui? Gli era sempre stata evidente l'avversione che provava nei suoi confronti e non riusciva a spiegarsi perché proprio ora, nel momento in cui era più inutile, problematico e danneggiato che mai, si fosse improvvisamente offerto di prendere le sue difese.
«Ok, questo non è l'Agente Coulson, ma un suo Life Model Decoy, altrimenti non mi spiego...» cominciò con titubante ironia, ma lui lo interruppe con fermezza:
«Stark, sono ancora la persona più scettica e meno incline a fidarsi di lei che ricorda, ma devo svolgere il mio lavoro tenendo conto dei fatti e dei rapporti su di lei, non delle mie simpatie.»
«Vuol dire che ho fatto bingo con Bonnie e Clyde?»
«Vuol dire che le sto offrendo un'opportunità, basata anche sui rapporti degli agenti Barton e Romanov. Non la sprechi.»
Tony sorrise incerto, ma era frastornato da quel gesto che avrebbe potuto essere la sua salvezza ma che, dentro di sé, sentiva di non meritare. A quel punto sentì Bruce che gli poggiava una mano sulla schiena, sospingendolo appena per invitarlo a camminare verso l'ascensore.
«Sto facendo tardi alla riunione,» rispose con naturalezza al suo sguardo sorpreso. «Se arriviamo tardi in due, magari non se la prendono troppo.»


***


Era abituato a tenere discorsi dinanzi a migliaia di persone, su palcoscenici illuminati a giorno e col suo primo piano proiettato su megaschermi nei quali era possibile distinguere ogni singola contrazione e piega che attraversava il suo volto; era passato ripetutamente in diretta nazionale e internazionale, e ai suoi party non mancava mai di porsi al centro dell'attenzione per tramutarsi nell'intrattenitore di innumerevoli serate. Gli piaceva stare sotto i riflettori e li cercava anche nei momenti meno indicati – riunioni amministrative, conferenze stampa e tribunali inclusi. In quel momento, cinque paia d'occhi bastarono a farlo vacillare e a fargli riconsiderare tutto ciò che aveva pensato di dire o fare davanti a loro, rendendolo intensamente consapevole di ogni minimo movimento impacciato che compiva col suo corpo malandato.
Il suo arrivo alla riunione aveva ovviamente causato scompiglio, con Steve che era balzato in piedi esterrefatto, Thor che aveva stentato ad articolare parole di saluto coerenti e Hawkeye che aveva sgranato gli occhi rimanendo pietrificato sul posto; Fury era assente, probabilmente impegnato a testare la resistenza del collo di Coulson con le sue stesse mani. Banner, che non aveva comunque pronunciato una sola parola durante il tragitto con lui, si era limitato a sedersi al tavolo lasciandolo muto e impalato sulla soglia, alla mercé di sguardi perplessi, ostili e diffidenti.
A risolvere la tensione fu Nataša.  Gli si fece incontro quasi a passo di carica e, in modo del tutto sbalorditivo per qualcuno che Tony dubitava conoscesse il concetto di "esternazioni affettive", lo abbracciò brevemente per poi piantarglisi di fronte a braccia conserte.
«A quanto pare hai fatto il bravo.»
Tony cadde dalle nuvole e riuscì finalmente a riemergere dallo stato d'inerzia in cui era sprofondato.
«Chi? Io?» gli sfuggì con un'alzata di sopracciglia, per un attimo dimentico di essere il fulcro dell'attenzione di altre persone.
«Sei vivo e sei in piedi. Per te è un risultato notevole: direi che ho fatto proprio un buon lavoro di recupero.»
A quel punto Tony si riscosse del tutto:
«Veramente è tutto merito mio, della mia inventiva e della mia innegabile abilità tecnica,» elencò con semplicità disarmante; nel parlare s'inclinò di lato col busto e si piazzò in una posa ostentatamente vanitosa, col bastone a fargli da perno.
«Bello il nuovo look. Dove hai lasciato il cilindro?» 
Nataša sollevò appena un sopracciglio nell'osservarlo criticamente, strappandogli un sorrisetto.
«Spiritosa...» borbottò lui raddrizzandosi, per poi scostarla gentilmente da parte; nel farlo le strinse appena il braccio, in un ringraziamento discreto per aver stemperato una situazione che aveva minacciato di destabilizzarlo prima del tempo.
Adesso si sentiva di nuovo padrone di se stesso, del suo ghigno beffardo e della sua parlantina accattivante.
«Un uccellino mi ha detto che c'era un party a cui non ero invitato...» esordì con brio. «Così mi sono preso la libertà di auto-invitarmi per ravvivarlo.» 
Nel parlare si piazzò a capotavola, poggiandosi in piedi allo schienale della sedia con disinvoltura – e sollievo per la sua gamba – e prendendo a squadrare sornione i suoi interlocutori.
«Che pensiero gradito.» 
Il commento di Steve suonò forse meno caustico e più incredulo del solito, ma l'occhiata che gli riservò era altera come ricordava.
«Parli proprio tu! Da Bella Addormentata nei Ghiacci dovresti sapere che rischi si corrono a non invitare qualcuno alle feste,» si finse basito Tony.
Lui rimase in silenzio, con l'aria di un pugile sul ring che sta studiando un avversario per individuare una breccia nella sua guardia.
«Dài, mi sono pure sforzato di trovare una citazione abbastanza antiquata per farla cogliere anche a te...» Tony sospirò con ostentata delusione, «... per te invece non ho nulla, Katniss: credo che tu abbia già largamente superato la tua quota annua di parole.»
Hawkeye reagì alla battuta con un sorrisetto appena trattenuto, unito a un piccolo cenno di saluto.
«Tu piuttosto, Braveheart,» Tony si rivolse a Thor, «è bello rivederti sulla Terra e non disperso tra un mondo e l'altro; almeno ti sei risparmiato i momenti più eclatanti della mia carriera....»
L'asgardiano ricambiò il saluto con un mezzo inchino del capo. Sembrò voler dire qualcosa, ma Tony non gliene diede modo e si rivolse all'ultimo Vendicatore rimasto, senza tentare di celare la propria espressione fattasi un po' colpevole:
«... al contrario di Bruce. Ecco, tu hai il grande merito di avermi fatto scoprire i pregi dell'open-space totale.» 
La sua faccia tosta s'incrinò appena nel notare quella ancora torva dell'amico, forse anche accompagnata da una sfumatura verdognola. 
«Magari la prossima volta è meglio fare meno danni e dedicarci alla fisica nucleare, piuttosto che all'architettura.»
«O allo scoprire quanto alcol possa sopportare un corpo umano prima di collassare.»
Lui incassò il colpo con una smorfia ironica:
«Nah, ero ancora in condizioni decenti. Non sarà mai peggio di Baltimora nel 2001,» dichiarò con sicurezza.
Tony battè un paio di volte sul tavolo col bastone a mo' di martelletto, come a concludere la sua introduzione in modo ufficiale. Si trovò a sorridere sotto i baffi: cominciava a divertirsi, dopotutto.
«E ora, signori e signora,» scoccò un'occhiata suadente a Nataša alle sue spalle, che ricambiò con sguardo nuovamente omicida e uno leggero spintone nel tornare al proprio posto, «direi che dopo il giro di convenevoli possiamo anche passare al tema della giornata...» si raddrizzò, lasciando l'appoggio della sedia e allargando leggermente le braccia come se fosse realmente su un palcoscenico. «Me. O Iron Man, se preferite il nome d'arte.»
«Io preferirei capire perché sei qui, Stark.»
Steve lo guardava fisso con la sua solita espressione corrucciata che lasciava trapelare una discreta curiosità, in attesa di una risposta convincente. Era ancora in piedi con le braccia incrociate, rigidamente impettito e stretto nei suoi soliti vestiti demodé.
«Non l'ho appena detto? Per parlare di me. Anzi, di noi. Ah, così la faccio sembrare una consulenza di coppia...» si portò dubbiosamente la mano al pizzetto. «Comunque! Magari la cosa vi stupirà, ma mi mancano un po' le nostre uscite goliardiche per fare a botte coi cattivi.»
Vi fu un momento di silenzio che sembrò prolungarsi più del dovuto.
«Vorresti rientrare nei Vendicatori?» interpretò infine Steve, guardando gli altri come a conferma di aver sentito bene.
«Vorrei convincervi a farmi rientrare,» ribatté Tony, stavolta più serio.
Il Capitano non trattenne un verso di scherno.
«Sarà difficile,» intervenne Thor con la sua voce profonda. «Sei caduto più in basso di quanto avrei mai potuto immaginare, uomo di ferro,» lo rimproverò con asprezza.
«Troppo gentile,» mormorò Tony, sfuggendo il suo sguardo. «Ma adesso mi sembra di essere di nuovo in sella.» 
Fece un paio di passi a dimostrazione della sua ritrovata stabilità, attirandosi con soddisfazione gli sguardi dei suoi compagni.
«Un guerriero caduto non si rialza così facilmente,» lo contraddisse con durezza il semidio.
Tony fece una smorfia a quelle parole che sarebbero suonate molto più appropriate in qualche sala del trono asgardiana. Era chiaro che il suo sdegno per essersi quasi tolto la vita non sarebbe stato così semplice da dissipare.
«"Guerriero caduto" mi è nuova. L'espressione più calzante con cui mi hanno definito ultimamente è stata "idiota patentato", ma penso di potermi far andare bene anche la versione aulica,» concluse con un breve sorriso spento.
Lasciò vagare lo sguardo sui suoi compagni di squadra, chiedendosi quanti di loro lo ritenessero un fallito, quanti un egoista pericoloso, quanti un qualcosa di rotto da buttar via, ma non riuscì a leggere i loro volti, che gli sembravano tutti improvvisamente vacui. I loro occhi erano puntati su di lui, ma si sentiva come se non fosse neanche lì. Non era ancora davvero lì, si rese conto... ma voleva esserci con tutto se stesso.
«Non dovevi convincerci?» la voce di Hawkeye si levò quasi annoiata, ma fu abbastanza per riscuoterlo e gli lanciò un'occhiata grata, incrociando il suo sguardo acuto.
"Ci siamo."
Pescò il cellulare dalla tasca e lo poggiò sul tavolo; dopo un paio di tocchi precisi un ologramma 3D si sollevò dallo schermo, proiettando un modello virtuale della Mark IV.
«Questo gioiellino è il nuovo prototipo della mia armatura e la prima fase della mia "opera di convincimento".»
«Pensi di indurci ad riaccettarti con le tue diavolerie high-tech?» la voce di Bruce era scettica, quasi offesa dalla sua apparente superficialità.
«Penso che possa essere un buon incentivo,» lo corresse. «Sarà un'armatura teleguidata,» spiegò poi, e il volto del dottore si fece confuso. «Questo vuol dire che non avrete bisogno di me fisicamente. Prendetelo come un omaggio della casa, nel caso doveste decidere di escludermi dal vostro club. Un Iron Man vi farà comodo, anche se non ci sono io dentro. Certo, sarebbe un vero spreco,» concluse in fretta, rendendosi poi conto che la sua dichiarazione li aveva spiazzati.
«Saresti davvero disposto a farti da parte?» stavolta fu Nataša parlare, con una chiara nota d'incredulità.
«Mi sto ripetendo che anche contribuire al Progetto Vendicatori da dietro le quinte potrebbe essere gratificante. Ma il mio obiettivo è non dovermi fare da parte. Sono qui apposta, no?» concluse furbescamente.
Prese un breve respiro e si riposizionò capotavola, decidendo contro ogni buonsenso di rimanere in piedi. Scrutò i suoi compagni, la cosa più vicina che avesse a degli amici e, forse, a una famiglia. Steve si era finalmente deciso a sedersi, ma era ancora a braccia conserte e stringeva appena la stoffa della camicia a quadri; Thor sedeva al capotavola opposto, col capo leggermente inclinato e i lunghi capelli a fare da schermo ai suoi occhi; Bruce si era appoggiato al tavolo e lo scrutava da dietro gli occhiali in modo apparentemente neutrale, ma la sua bocca era tirata in una piega rigida; Hawkeye era rimasto compostamente in piedi; Nat si era accomodata seduta alla sua destra e lo fissava con tranquilla aspettativa.
Si fece coraggio e iniziò a parlare:
«Avevo preparato un discorso molto elaborato per scusarmi e mostrarvi la mia serietà riguardo ad Iron Man e tutto ciò che implica riprenderne il ruolo, ma non sono la persona più adatta a seguire le direttive, anche se sono le mie...»
Tirò fuori un foglietto spiegazzato dalla tasca posteriore dei jeans, sotto gli occhi in parte incuriositi, in parte perplessi dei Vendicatori.
«"Prendo atto delle mie azioni ingiustificabili e posso solo sperare che i Vendicatori vorranno perdonare..." bla bla bla,» declamò falsamente pomposo, per poi appallottolare bruscamente il foglio e gettarlo nel cestino. «Un mucchio di frasi fatte. Magari avrebbero anche funzionato.» 
Fece una pausa, scrutando i suoi ascoltatori e poggiandosi di nuovo allo schienale della sedia per far riposare le gambe. Non trattenne una smorfia infastidita quando la pressione sul moncherino diminuì bruscamente.
«Ma non credo che sia questo il modo giusto per convincervi. Non sento nemmeno di dover chiedere scusa a voi per quello che ho deciso di fare con la mia vita, per quanto opinabile. Quella è una questione tra me e... e me stesso. Sono qui per parlare del resto.»
Quelle parole portarono ombre più severe sui loro volti, ma si rese conto che lo stavano davvero ascoltando, incluso Cap, che nonostante la sua solita non-espressione gli lanciava sguardi meno ostili, come interdetto dalla sua capacità di rimanere serio per più di qualche secondo. Tony si passò una mano sulla nuca a raccogliere i pensieri e si scostò nuovamente dallo schienale, sentendosi irrequieto e spostando il peso da un piede all'altro nell'avvertire un fastidio sempre più persistente al moncherino. Imprecò tra sé: non era davvero quello il momento giusto per bloccarsi, né per soffermarsi sui suoi problemi fisici.
Incrociò di sfuggita gli occhi di Nat, che gli parvero quasi incoraggianti e in un certo senso... soddisfatti? Forse vedere i risultati del suo impegno stare in piedi dinanzi a lei era un buon motivo per quell'espressione stranamente amichevole che faceva capolino sul suo viso. Si sentì in parte rincuorato nel riscontrare la stessa assenza di freddezza sui volti degli altri Vendicatori, adesso non più simili a maschere bianche e impassibili, ma piuttosto a dei semplici spettatori in attesa di un numero. E lui era sempre stato bravo a intrattenere il pubblico.
«Mio padre...» si arrestò e colse delle occhiate perplesse.
Non voleva cominciare da quello, ma le parole gli erano sfuggite con una spontaneità che non era riuscito a contenere. Deglutì, facendosi forza e riprendendo possesso del palcoscenico.
«Mio padre fu uno dei capi fondatori dello SHIELD. Tranquilli, non lo sto dicendo per arrogarmi chissà quali diritti, non sono un fan del nepotismo. Comunque, fino a meno di un paio d'anni fa ne ero assolutamente all'oscuro. Se me l'avessero detto mi sarei messo a ridere. Insomma, un'organizzazione per la difesa mondiale? Lui? Era un mercante di morte, cosa diavolo gli importava della pace nel mondo?» 
Scosse la testa, arricciando le labbra. 
«Cosa importava a me, della pace nel mondo?» aggiunse, più cupamente.
«Ci ho messo un po' ad elaborare la cosa. Quest'immagine di lui non coincideva con quella che conoscevo. Non riuscivo a spiegarmela, ma credo di averci capito qualcosa proprio in quest'ultimo periodo.»
Fece una breve pausa, chiedendosi dove mai sarebbe andato a parare, ma gli sembrava che quelle parole stessero risalendo naturalmente verso la sua bocca, e non si stava sforzando affatto per trovarle. Decise di fidarsi del suo istinto e seguire quel flusso che aveva tenuto a freno per tutti quegli anni e che si rimescolava nei suoi pensieri contorti ogni notte, intrecciandosi alle sue mille altre preoccupazioni e angosce.
«Per farvi capire, devo fare un passo indietro,
» cominciò cauto. «Mi ricordo mio padre soprattutto nella sua assenza. Quando penso a lui non lo vedo a casa, ma a un qualche meeting aziendale che probabilmente celava anche i suoi incontri con lo SHIELD. Quando tornava da noi si chiudeva in laboratorio. A volte riemergeva per i pasti, ogni tanto si ubriacava, era costantemente irritato, scontroso e aveva un tasso di sarcasmo insopportabile. Magari vi ricorda qualcuno.»
Fece un sorriso amaro, rendendosi conto di quanto volesse discostarsi da lui e di quanto, invece, finiva con l'essergli simile sotto molti aspetti.
«Uno dei suoi tormentoni era "non perdere tempo, Anthony",» mimò inconsapevolmente la sua voce burbera, che risuonava cristallina nelle sue orecchie come se fosse lì accanto a lui, «e da ragazzo lo detestavo e lo ignoravo. Ho continuato a ignorare quelle parole fino a poco tempo fa, e i risultati si sono visti. Ho davvero perso troppo tempo.» 
Non trattenne un sospiro, seccato con se stesso.
«L'altro tormentone è più divertente,» rivelò, guardando di sottecchi Rogers. «Non la piantava un istante di parlare di te, Cap, al punto che per un brevissimo periodo sono stato un tuo grande ammiratore. Con tanto di costume ridicolo, scudo giocattolo e spocchia cento per cento patriottica. Poi a tre anni ho scoperto la robotica e sono guarito, grazie al cielo.»
Si concesse un sorriso scherzoso: anche Steve pareva divertito all'idea e sapeva che gliel'avrebbe rinfacciata a vita sotto forma di battutine pungenti.
«Quel tuo scudo ce l'aveva appeso in laboratorio. Era una copia ovviamente, ma ci teneva come se fosse stato quello vero. Ogni tanto me lo indicava e mi diceva "questo è il motivo per cui sono ancora qui. Trova anche tu qualcosa che diventi la tua ragione di vita". Io non capivo. Volevo solo che mio padre uscisse da quel suo covo e mi degnasse di una parola.» 
Si perse in quei ricordi amari, stentando per un momento a riprendere il filo. 
«Ovviamente scoprii solo molto più tardi il suo vero ruolo durante la guerra. È sempre stato abbastanza riservato al riguardo, ma col tempo ha preso a parlarne più spesso e io ho iniziato a ficcare il naso nei suoi appunti e ricerche. Era... oserei dire ossessionato dal Progetto Rebirth. Ripeteva che era l'unica cosa buona che avesse fatto in vita sua e che non sarebbe mai riuscito a fare di meglio. Che lo scudo era il simbolo di ciò che era riuscito a fare.»
Tony scrollò appena le spalle con fare noncurante e si sistemò distrattamente la benda sull'occhio.
«Per me quello era solo un pezzo di latta appeso al muro. Un giorno, poco prima di laurearmi, portai di nascosto lo scudo a un party del MIT... non ricordo perché, credo fosse una qualche scommessa. Non vuoi sapere cosa ci abbiamo fatto,» aggiunse rivolto a Steve, che alzò gli occhi al cielo.
Tony a quel punto si rabbuiò.
«Mio padre era freddo, calcolatore. Si arrabbiava in continuazione, ma non alzava mai la voce. Non l'ho mai visto così infuriato come quando tornai a casa quella notte. Disse che ero un fallito e che non avevo mai capito nulla né di lui, né del suo lavoro, che ero irrecuperabile e non avrei mai concluso nulla in vita mia. A distanza di anni ho capito che l'avevo ferito, forse per la prima volta in modo inconsapevole: avevo arbitrariamente deciso che il lavoro di una vita intera valeva quanto un giocattolo per far divertire me e qualche compagno sbronzo. All'epoca me ne fregai: gli dissi di tenersi il suo stupido frisbee e me ne tornai al college. Non venne alla mia laurea. Poi mi spedì a studiare all'estero. Morì... morirono poco dopo,» concluse asciutto.
"E non l'hai salutato, non gli hai detto che ti dispiaceva," gli rimbombò in testa.
Colse uno sguardo addolorato da parte di Steve e si affrettò a continuare:
«Il punto della storia strappalacrime è che aveva ragione, almeno in parte. È odioso ammetterlo, per di più a distanza di quasi vent'anni, ma non avevo davvero capito nulla di lui. Non mi ero mai fatto troppe domande su quel che faceva. Ho semplicemente continuato a farlo. Fino a quando non mi sono visto esplodere in faccia una bomba col mio nome sopra e non ho iniziato a chiedermi "dove ho sbagliato?" Il resto lo sapete.» 
Alzò le spalle con ovvietà. 
«Credo che lui si sia chiesto per tutta la vita dove avesse sbagliato e forse, al contrario di me, non ha mai avuto il privilegio di capirlo.»
Rialzò lo sguardo sui suoi compagni, rendendosi conto di aver fissato fino ad allora il modello azzurrino dell'armatura che girava lentamente su se stesso, come ipnotizzato.
«Io ho buttato all'aria quel privilegio. Ho commesso molti errori. E alla fine ho... ceduto.» 
Lasciò che quell'affermazione sprofondasse nel silenzio, sentendosi improvvisamente vulnerabile nell'essersi esposto così tanto, nonostante non avesse rivelato neanche la decima parte di tutto ciò che gli era passato in testa nel momento in cui si era tolto il reattore. Dubitava di poterne essere del tutto consapevole lui stesso, e quel pensiero continuava a pungolarlo ad ogni respiro che era ancora in grado di compiere.
Si costrinse a riprendere:
«Sto cercando di rimediare. Lo devo a me stesso, a chi mi ha salvato e a tutto ciò che è venuto... prima
Incrociò gli occhi di Nat e seppe che stavano pensando entrambi al loro "registro macchiato" e a quelle note rosse da cancellare. 
«Forse un po' lo devo anche a mio padre,» ammise, e storse appena la bocca, pronunciando malvolentieri quelle ultime parole.
«Adesso ho capito che il Progetto Rebirth e lo SHIELD furono per lui quello che Iron Man è diventato per me, anche se poi lui non è stato in grado di continuare sulla strada che aveva scelto. È sceso a compromessi e ha iniziato a commettere errori su errori. Per tutta la vita mi sono ripromesso di essere migliore di lui e non ho intenzione di rimangiarmi ciò che ho detto. So di essere un esibizionista. E adoro essere Iron Man,» confessò, con un fugace sorriso che apparve spontaneo sulle sue labbra. «Mi comporto come se non me ne importasse nulla, ma l'armatura non è solo una "diavoleria hi-tech" con qualche cromatura fiammante. È l'unica cosa giusta che sento di aver fatto in vita mia e l'unica in cui creda ancora, a questo punto. E sono venuto fin qui sulle mie gambe per farvi capire che non saranno queste a impedirmi di essere Iron Man,» sollevò il braccio meccanico, «e non è solo quella a permettermi di esserlo,» accennò all'armatura virtuale.
Il suo tono si era fatto energico, intessuto di una fermezza ferrea.
«Non credo che mio padre intendesse "trovare una ragione di vita" in senso così letterale.»
Picchiettò leggermente sul reattore al centro del suo petto, metallo contro metallo.
«Ma Iron Man è qui. E questo non possiamo cambiarlo né voi, né io.»
Tacque, con la gola secca.
Si sentì improvvisamente svuotato e incapace di focalizzarsi su un'emozione ben precisa, con la testa leggera e quasi estraniato da tutto ciò che aveva appena detto, come se fosse stato qualcun altro a pronunciarlo attraverso lui. All'improvviso il peso degli sguardi appuntati su di lui divenne eccessivo e tangibile. Si staccò dalla sedia con un movimento brusco e ricostruì la sua solita spavalderia di facciata, ansioso di rimarginare quella fessura che aveva incautamente esposto a tutti.
«Bene, immagino che a questo punto la riunione debba proseguire a porte chiuse,» disse a mo' di congedo, recuperando il telefono e facendo un passo frettoloso e sbilenco verso la porta.
Sembravano tutti troppo indecisi sul da farsi per tentare di fermarlo, ma Thor si alzò dalla sua sedia, irrequieto, e Steve scoccò un'occhiata sbieca a Bruce, come in una domanda silenziosa. Colse Nataša che stava per dire qualcosa e decise di non avere abbastanza energie per affrontare subito le ripercussioni del suo discorso improvvisato, così le impedì di parlare:
«Ah, ne approfitto per dire che quanto ho detto riguardo al frisbee a stelle e strisce non voleva assolutamente essere un elogio alla qui presente Regina delle Nevi,» indicò Steve con il bastone, « e faceva tutto parte del piano della manipolazione emotiva,» dichiarò, con un gesto condiscendente della mano artificiale.
«Fatemi sapere; io vado a sgranchirmi le gambe, visto che posso,» concluse con un mezzo sogghigno tirato mentre arretrava verso l'uscita, poggiandosi infine con la schiena contro la porta per uscire a ritroso dalla plancia di comando.
Quando fu in corridoio riprese finalmente a respirare e i suoi pensieri tornarono a circolare a un ritmo normale invece di ristagnare in modo quasi doloroso al centro del suo cervello. Colse un brusio vivace oltre la porta e zoppicò un po' più in là per impedirsi di origliare ciò che avveniva alle sue spalle.
Si guardò intorno alla ricerca di una sedia, o un qualunque altro piano orizzontale su cui abbandonarsi: rimanere in piedi era stata una mossa azzardata e la stava scontando con crescente rimorso. Individuò una vetrata di fianco all'ascensore, con una sorta di davanzale inclinato che poteva fare al caso suo. Si trascinò per quella decina di metri e si lasciò cadere di peso sulla superficie metallica, stringendosi il moncherino e ringraziando che il dolore gli impedisse di pensare troppo lucidamente al fatto che con tutta probabilità aveva sprecato la sua unica occasione per rientrare nei Vendicatori. Si scollò con sollievo la benda dall'occhio e la ripose in tasca, in un gesto un po' troppo brusco dettato dalla frustrazione.
Come gli era venuto in mente di parlare suo padre? Era seriamente tentato di mettere ancora in dubbio la propria sanità mentale, ma non riuscì a pentirsi del tutto di ciò che aveva detto su di lui, anche se ciò non attenuava il risentimento che provava nei suoi confronti. Il dolore fisico scemò quel tanto che bastava perché le sue riflessioni riprendessero un andamento più lineare.
Quando sua madre gli diceva che Howard era "tormentato", non aveva mai capito appieno quella parola, traducendola quasi inconsciamente con "distratto" o "indifferente". Quanto era ancora in diritto di rimproverarlo dopo tutto quello che lui stesso aveva fatto negli ultimi mesi? Si trovò a stringere con forza il reattore in mezzo al petto, con un velo di sudore freddo che si posò sulla sua fronte.
In quel momento avrebbe davvero voluto trovarsi suo padre davanti per chiedergli se quello che aveva appena detto su di lui fosse vero, o se era solo un'illusione azzardata che si era costruito per giustificare i comportamenti di entrambi, per accorciare quella distanza incolmabile che era sempre esistita tra loro. Si costrinse a lasciare la presa dal congegno, scacciando al contempo quei desideri insensati e comunque irrealizzabili.
"Forse sto davvero invecchiando," pensò scoraggiato.
Per distrarsi, gettò lo sguardo oltre il vetro, sulla vista vertiginosa delle nuvole rade e sfilacciate immerse in un azzurro terso. Migliaia di metri più in basso si scorgeva l'oceano, una compatta lastra blu cobalto. Poggiò la fronte sulla superficie lucida, fissando quello spazio con nostalgia e immaginando di poterlo attraversare in volo per distogliersi dalle fitte di nuovo lancinanti alla gamba e dai suoi pensieri tetri. Rimase così per quasi mezz'ora, tranquillizzandosi a poco a poco e recuperando almeno una parvenza di serenità, indotta anche dal quieto scorrere delle nuvole e dalle sue fantasticherie di volarvi attraverso.
"... e poi attiverei i deflettori, farei una cabrata proprio vicino a quella lì, poi un mezzo giro della morte attraverso quell'anello e scenderei in picchiata fino a..."
«
Stark.»
Tony fu ridestato dal suo sogno ad occhi aperti e non poté evitare un sussulto quando riconobbe la voce di Rogers; si staccò di colpo dal vetro, consapevole di non essere del tutto in grado di mascherare la sua espressione sofferente, col moncherino che aveva accusato quel movimento troppo brusco. Steve gli si stava avvicinando quasi a passo di marcia, stranamente pimpante, e non poté fare a meno di mettersi in allerta, maledicandosi al contempo per essersi tolto la benda.
Quando entrò nel suo raggio d'azione arrestò la sua avanzata puntandogli il bastone da passeggio contro il petto.
«Ah-ah! Distanza di sicurezza, vecchio, non ho nessuna voglia di mettermi nuovo a...»
Rogers non lo fece neanche finire di parlare che scostò con facilità il bastone e gli tese la destra, in un gesto inaspettatamente amichevole. Tony fu preso alla sprovvista e spostò lo sguardo dalla mano al suo viso per una volta privo della sua consueta ostilità; esitò a stringerla, studiandola con lo stesso sospetto che avrebbe riservato a una trappola per orsi. Vedendo la sua titubanza Steve sospirò platealmente e gli afferrò a sorpresa la mano meccanica in una stretta salda.
"Ma che diavolo...?"
Tony ricambiò d'istinto, per poi piombare nella confusione più totale, chiedendosi cosa diavolo fosse successo in sala riunioni in sua assenza e se c'entrasse l'influsso di qualche sostanza allucinogena.
«Hai il mio supporto,» dichiarò semplicemente Rogers, allentando subito la presa e recuperando mezzo passo di distanza, come rendendosi conto solo in quel momento di ciò che aveva appena fatto.
Tony lo fissò confuso, con la mano ancora ferma a mezz'aria.
«La manipolazione emotiva ha funzionato?»
«Mi hai sorpreso,» replicò Steve.
«Non ci vuole molto: anche quando hai visto uno smartphone ti sei sorpreso,» puntualizzò lui, mettendo il pilota automatico al suo sarcasmo mentre tentava di dare un senso a ciò che era appena accaduto.
Steve alzò gli occhi al cielo.
«Intendo dire che sei riuscito a parlare di tuo padre, del mio scudo e ad ammettere i tuoi errori nello stesso discorso senza battere ciglio e senza fare del tutto un elogio di te stesso. E sei stato convincente.» 
Fece una breve pausa. 
«Mi hai sorpreso,» ripeté, apparentemente a corto di parole.
"Il che non è strano per un supersoldato tutto muscoli e niente... ok, forse poco cervello."
Tony distolse lo sguardo, non sapendo in verità nenche lui come replicare e trovando l'intera situazione molto imbarazzante.
«Non era un discorso preparato,» buttò lì tanto per dire qualcosa.
«Magari se fossi sempre un po' meno "preparato" saresti quasi sopportabile.» 
Steve lo squadrò con severità. Lui si limitò a sbuffare gonfiando le guance, apprezzando in cuor suo il ritorno della tipica criticità nei suoi confronti, decisamente più gestibile di quella cortesia spiazzante. Si passò una mano tra i capelli, scostando qualche ciocca ribelle dalla fronte e cercanto di inclinarla a coprire almeno parte dello sfregio, mentre scoccava un'occhiata furtiva alla porta della sala riunioni.
«Tutta questa molesta espansività da parte tua significa che...?» insinuò guardingo, non riuscendo a celare del tutto la sua aspettativa ma sforzandosi di reprimere il sorriso che sentiva affiorargli sulle labbra.
«Siamo in fase decisionale,» lo tenne sulle spine Rogers, riprendendo il suo tono neutrale e compassato. «Thor non è convinto; credo che ad Asgard siano molto rigidi su... certe cose.»
«L'avevo intuito.» Tony storse la bocca, contrariato. «Pensavo lo fossi anche tu,» sbottò prima di potersi trattenere.
«Lo sono,» ribatté lui con fermezza. «L'unica volta che ho tentato consapevolmente di uccidermi è stato per buttarmi su una granata ed evitare la morte dei miei compagni.»
«Figurarsi.» 
Tony schioccò la lingua con fare derisorio.
«Mi chiedo se tu saresti in grado di fare lo stesso,» lo rimbrottò Steve, fissandolo con improvvisa intensità.
Tony tacque brevemente, grattandosi la tempia pensoso.
«Prima di buttarmi su una granata cercherei di disinnescarla, deviarla prima che venga lanciata o gettarla da un'altra parte,» concluse con un sorrisetto saputo.
«Sempre una via d'uscita, eh?» 
Steve scosse la testa e Tony si rallegrò per essere riuscito ad irritarlo come sempre.
«Se non c'è, me la creo,» aggiunse un po' mestamente. «Buttarsi sulla granata è una via d'uscita un po' troppo facile.»
Steve lo studiò per qualche secondo, infine sospirò appena.
«Invece, magari lo faresti davvero,» commentò quasi tra sé. «Sono qui appunto perché voglio darti il beneficio del dubbio,» concluse in modo evasivo.
Tony lo scrutò con intensità, sondando quelle parole, poi inclinò appena la testa tirando le labbra in un smorfia dubbiosa.
«Non me la bevo,» sbottò, rivolgendogli uno sguardo inquisitore. «Ci sono migliaia di universi paralleli al nostro e in nessuno di questi mi daresti mai ragione su qualcosa solo perché "ti ho sorpreso" o perché vuoi "darmi il beneficio del dubbio".» 
Incrociò le braccia, continuando a fissarlo di sbieco. Il soldato spostò il peso da un piede all'altro e voltò appena il capo, improvvisamente meno impettito del solito. Quando parlò lo fece senza guardarlo, con gli occhi puntati sulla distesa di nuvole oltre la vetrata:
«Un tempo ero io quello considerato "fisicamente non idoneo".» La sua mascella si irrigidì visibilmente al ricordo. «Mi è stata data una seconda possibilità e tuo padre vi ha contribuito. Fare lo stesso con te mi sembra un buon modo per... "chiudere il cerchio".» 
Pronunciò con esitazione quelle ultime parole, come riluttante a credervi, e il suo sguardo si fece quasi interrogativo.
«Niente male. Ci hai messo solo qualche decennio per capire di dovere qualcosa a qualcuno,» commentò Tony, fingendo di essere colpito. «Anche se quel qualcosa è la padella che ti porti appresso,» puntualizzò, trattenendo un sorrisetto compiaciuto nel vedere i vari gradi di crescente stizza passare sul volto del Capitano. «Per quanto riguarda me, preferisco dire che mi sto costruendo una seconda possibilità,» precisò poi, più serio.
A quel punto Steve liberò un verso esasperato, fissandolo con improvvisa e familiare antipatia; il suo tono si alzò, diventando aggressivo:
«Come al solito sei incapace di capire quando qualcuno sta veramente cercando di venirti incontro per colpa del tuo maledetto ego che...»
Tony lo interruppe, alzando a sua volta la voce per sovrastarlo:
«Senti, ti ricordo che non troppo tempo fa mi hai dato del "mezzo uomo", il che è assolutamente...»
«... meschino, e mi dispiace, ma ciò non ti autorizza a...»
«... inesatto,» lo contraddisse lui con voce squillante e Steve si accigliò confuso. «Insomma, non sono ancora diventato Robocop, ho solo due arti di metallo e un reattore cardiaco! Pretendo di essere considerato uomo almeno per tre quarti,» concluse facendo un ironico gesto di OK con la mano meccanica.
Steve esitò e un'ombra di sorriso involontario passò di rimando sul suo volto a quell'atteggiamento leggero e privo di rancore, ma si affrettò a ricomporsi per ribattere a tono. A quel punto Tony scorse Banner diretto verso di loro con la sua solita andatura circospetta e un po' impacciata e gli fece un ampio cenno di saluto, grato che il suo arrivo interrompesse sul nascere una discussione che si sarebbe altrimenti protratta per ore.
«Sei tornato in modalità "angelo custode"?» lo accolse, con un sorriso un po' incerto.
«In verità ho ancora un po' voglia di picchiarti,» replicò lui, accigliato e con un mezzo sospiro.
Tony si ritrasse d'istinto, sentendo il suo sguardo pesare su di lui come un pugno del suo amico verde, ma si rasserenò un poco nel vedere che non sembrava essere così ostile come pensava. E, soprattutto, di un colorito roseo e innocuo.
«Oh, anch'io, credimi,» borbottò quasi tra sé, per rompere il silenzio.
«Sembra che tu abbia smosso qualcosa, là dentro,» commentò poi il dottore, facendolo illuminare all'istante in volto. «Questo non toglie che non sei ancora scusato,» puntualizzò nel notarlo.
«Lo so.» Tony poggiò la testa al vetro, guardando entrambi i suoi interlocutori con aria quasi annoiata. «Vi manderò un mazzo di... di... quali erano i fiori per chiedere scusa? Le violette? Insomma, un mazzo a testa e la chiudiamo là.»
«Dovrai impegnarti un po' più di così, quasi-Consulente,» lo rimbrottò Steve.
Tony lo ignorò, facendosi assorto. Fissava Bruce quasi senza vederlo, ripercorrendo tra sé le circostanze del loro ultimo incontro con un misto di vergogna e colpevolezza. Si ritrovò a ticchettare sul reattore, come sempre quando si perdeva nelle sue riflessioni, ma smise subito nel notare l'occhiata allarmata di entrambi.
«Avevi ragione e avevi torto allo stesso tempo,» dichiarò in fretta. «Questo fa di te un paradosso. E verde, per di più,» e puntò Bruce con l'indice meccanico come a riconoscergli ufficialmente la cosa.
Lui fece un mezzo passo indietro guardandolo interrogativo, e Tony si accinse a spiegarsi meglio:
«Qualche tempo fa mi hai detto che per me non ci sarebbe stato nessuno a sputare il proiettile,» disse d'un fiato, sentendo che se si fosse fermato a riflettere sul reale significato di quelle parole si sarebbe addentrato in un sentiero tortuoso, dal quale non era sicuro che sarebbe riuscito a trovare la via del ritorno.
Percepiva già un senso di oppressione al petto solo a menzionare la questione. Bruce quasi sobbalzò e Steve spostò nervosamente lo sguardo dall'uno all'altro, come chiedendosi se fosse il caso di troncare lì la discussione, in un modo o nell'altro.
«Ti sbagliavi. Magari io non volevo salvarmi, ma qualcun altro ha deciso di farlo per me e ha deviato quel proiettile.» Fece una breve pausa, domando il lieve tremito nella sua voce. «E invece avevi ragione quando hai detto che non ero solo. L'ho solo capito troppo tardi.» 
Sorrise appena, con rammarico.
«Bastava un "grazie", Stark,» commentò Steve a sguardo basso, spostando il peso da un piede all'altro.
«Tu devi impegnarti un po' di più per meritarti un grazie da parte mia, Rogers,» lo rimbeccò, serio. «Non basta una stretta di mano.»
«E non bastano delle belle parole,» gli fece notare lui a sua volta.
Tony lo fissò per qualche istante, tentato di ribattere ancora, poi concluse che avevano raggiunto un punto di stallo abbastanza onesto per chiudere lì la discussione. Gli rivolse solo un secco cenno del capo, a intendere che non si sarebbe affatto fermato alle parole, e lui gli restituì lo stesso sguardo di sfida. Ruppero il contatto visivo solo dopo qualche secondo, riacquistando entrambi una postura più rilassata e tornando a includere Bruce.
«Finito?» commentò quest'ultimo, guardandoli come avrebbe fatto con due bambini intenti a mettersi il muso a vicenda.
«Per ora,» risposero involontariamente in coro loro due, scoccandosi poi un'altra occhiata risentita; Tony alzò l'occhio al cielo e si rivolse di nuovo a Bruce in tono più leggero:
«Per oggi ho fatto il pieno di discorsi impegnati. Ho bisogno di far prendere aria al cervello,» stabilì. «Ed è un bel po' che non faccio una capatina nel mio laboratorio su questa bagnarola,» buttò lì.
Vide con compiacimento un lampo d'interesse accendersi negli occhi del dottore, così lo incalzò:
«Ricordo chiaramente che noi due avevamo un esperimento in sospeso riguardo a metamateriali e campi elettromagnetici... Trilly, tu potresti fare da pubblico,» si rivolse a Steve con un mezzo ghigno, facendogli storcere il naso al suo ennesimo soprannome. «Andiamo, ci serve un po' di terapia di gruppo!» li incalzò con più vivacità.
«E va bene...» gli concesse Bruce, con più entusiasmo di quanto intendesse. «Tanto là dentro ne avranno ancora a lungo: Thor si sta agitando ed è arrivato Phil a gestire la situazione prima che Nat e Clint perdano la calma e si scateni una guerra tra Asgard e Midgard.»
«Oh, Agente è ancora vivo? Dovrò ringraziarlo in qualche modo...» borbottò poi tra sé, decidendosi a fare leva sul bastone per rialzarsi.
Ignorò la protesta della gamba e la mano tesa di Bruce, ma quando fu in piedi vacillò sul punto di cadere e venne prontamente agguantato per la collottola da Steve.
«Meno male che c'è "Trilly" a salvarti,» lo schernì col suo solito tono saccente stemperato da un mezzo sorriso.
Lui si liberò con uno strattone, lieto però di non essere collassato a terra.
«Giù le zampe, distruttore di protesi.»
«Guarda che te l'eri cercata.»
Tony scosse la testa e non rispose, cedendogli il punto e piantandosi in attesa davanti all'ascensore col bastone a fargli da perno in una posa che ormai era diventata abituale.
«Mi ricordi qualcuno,» commentò Bruce, accarezzandosi pensoso il mento.
«Probabilmente un dottore cinico, zoppo ed emotivamente instabile,» replicò lui prontamente.
Steve ridacchiò, al che si girarono entrambi a fissarlo perplessi. Lui tornò di colpo serio.
«Giuro che ho colto la citazione,» disse sulla difensiva.
«In effetti si presta a varie interpretazioni. Bel colpo, Rogers.» 
Tony gli assestò una decisa pacca sul braccio con la protesi e sogghignò quando lo vide trasalire per l'inaspettata potenza, sforzandosi allo stesso tempo di non darlo a vedere.
«Evitate di azzuffarvi nei miei dintorni, per favore?» sospirò Bruce, frapponendosi tra i due a fare da cuscinetto.
Tony si limitò a fissarlo con aria ribelle, mentre già pregustava il suo ritorno al laboratorio dell'Helicarrier, dove avrebbe potuto lanciarsi in qualche brillante disquisizione scientifica con lui irritando a morte Steve che non avrebbe capito un'acca.
In quel preciso istante, proprio quando si soffermò su quei pensieri così futili, realizzò che dopo tutto quel tempo le cose stavano andando per il verso giusto. Era in piedi e stava scherzando coi suoi compagni di squadra: alcuni dei pezzi scoordinati del suo puzzle erano finalmente andati al posto giusto e si sentì levitare a un palmo da terra, quasi avesse di nuovo addosso l'armatura. Adesso avrebbe di nuovo potuto prendere parte alle riunioni, sarebbe uscito indenne dal processo... avrebbe potuto dedicarsi ad Iron Man. Poteva ricominciare da capo.
La realizzazione lo colpì, potente e incontenibile, e liberò la risata leggera che gli era salita alle labbra.
In quel momento l'ascensore si aprì con un sibilo. Tony si voltò, ancora sorridente, e si trovò a incontrare gli occhi azzurri di Pepper.




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Note Dell'Autrice:

Massalve!
Se siete arrivati fin qui meritate a prescindere un premio, data la lunghezza abnorme del capitolo... eeee ci sarebbe veramente tanto da dire in proposito ma non so quanto posso permettermi di dilungarmi ulteriormente senza ricevere insulti, quindi mi concentrerò sui punti salienti.

Ciò che mi preme dire è che questo è il primo capitolo il cui il "nuovo Tony" inizia ad emergere in modo significativo. Volevo che fosse un punto di svolta netto, quindi ho preferito scrivere di più dicendo però tutto ciò che ritenevo necessario a questo punto della storia. Per questo il discorso di Tony occupa gran parte del capitolo e per questo ho introdotto in modo così "prepotente" il rapporto problematico con suo padre: ammetto che sembra saltar fuori dal nulla; in realtà ho cercato di lasciare intendere più di una volta quanto effettivamente ci rimuginasse sopra e quanto le questioni che tira fuori in questo frangente lo stessero turbando o spronando già da tempo. Come avevo preannunciato, le protesi scivolano in secondo piano per lasciare un po' di posto alla psiche di Tony, alle sue varie problematiche emotive & co.

I riferimenti a dialoghi, situazioni ed eventi successivi e precedenti ad Iron Man Iron Man 2 sono innumerevoli ma credo anche ben identificabili, a partire dal dialogo con Cap, che è allo stesso tempo un riadattamento del loro diverbio in Avengers e una "riparazione" allo scontro avvenuto nel lontano Capitolo 11 (Sinking).
Ci tengo a precisare che Tony a questo punto è in una situazione molto diversa da quella del MCU e di conseguenza le sue reazioni e pensieri differiscono per forza di cose da quelli che ci si aspetterebbero, rimanendo però coerenti con gli eventi che l'hanno segnato in Phoenix. È un IC nell'OOC, in un certo senso.

Sì, alla fine ce l'ho fatta a far tornare Pepper. Con un cliffhanger vergognoso (e credo perseguibile per legge in tutta la galassia), ma finalmente è tornata sui nostri schermi :D (e forse ci rimane pure. Chissà *fischietta*)

Chiudo qui prima di svalvolare più del necessario. Meno male che dovevo essere breve...
Un grazie a chi leggerà e/o recensirà :) E ringrazio come sempre tanto tanto tanto _Atlas_ (santa che mi sopporti più o meno ovunque <3) e Emyclarinet (grazie per continuare a seguire <3)che hanno recensito lo scorso capitolo rendendomi come sempre felicissima :D

Il prossimo aggiornamento sarà probabilmente tra un mese, se non più, perché la mia sessione estiva comincia brutalmente la settimana prossima e non avrò tempo per vivere, figurariamoci scrivere :'(
Sayonara,

-Light-

P.S. Ho revisionato credo per la 54esima volta il primo capitolo della storia, giusto per informazione; sto continuando a sistemare il layout degli altri capitoli e, visto che ci sono, a correggere gli errori di battitura (Atlas, avevi ragione, sono una quantità imbarazzante :'D)
P.P.S. La canzone dell'intro si chiamerà pure I'm So Sorry, ma ne consiglio vivamente l'ascolto per non farsi trarre in inganno dal titolo #TonyBAMF
P.P.P.S.(L'ultimo, giuro): quando Tony scherza sul dottore zoppo e cinico, si riferisce a Dr. House; Steve fraintende e pensa a Dr. Jekyll :P
 




© Marvel

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Capitolo 38
*** No man is an island ***



37


No man is an island




"'Cause love's such an old-fashioned word
And love dares you to care for
The people on the edge of the night
And love dares you to change our way of
Caring about ourselves"

[Under Pressure – David Bowie/Queen]




25 Giugno, Helicarrier

Un anno e mezzo prima era sceso da un aereo militare con passo stentato, un braccio al collo e senza le solite lenti scure a celare gli occhi gonfi e le escoriazioni sul volto, oltre alle ombre cupe che lo avrebbero insidiato ancora a lungo. Quel giorno il sole era a picco, il cielo terso, non spirava un alito di vento e tutto sembrava quasi sospeso sull'asfalto infuocato e grigio, come un miraggio rimasto ancorato per sbaglio al suo posto.
Ricordava quel momento con chiarezza cristallina, perché allora era finalmente riuscito a ignorare il senso d'oppressione che per tre mesi gli aveva occluso il petto martoriato. Si era concentrato unicamente sul paio di occhi azzurri e lucidi che lo scrutavano dall'altro capo dalla pista d'atterraggio, incorniciati da ciocche ramate, e sul sussulto che aveva scosso il suo petto
a metà tra il cuore e il reattore nell'incrociarli. Ricordava anche di aver temuto follemente che una delle maledette schegge avesse deciso di stroncarlo lì, proprio quando era riuscito a tornare a tutto ciò che gli era mancato.
Invece si era trovato davanti a quegli occhi limpidi, avvolto dalla sensazione più piacevole che avesse provato dopo quei mesi di prigionia, e aveva pensato che, dopotutto, poteva davvero ricominciare a vivere. E aveva scelto di farlo nel migliore dei modi possibili.
Quegli stessi occhi, velati però di tristezza e incredulità, avevano accolto il risveglio peggiore della sua vita, anche più di quello in Afghanistan: inerme su un letto d'ospedale, a pezzi, con il terrore che gli aveva avvolto le membra rimaste dissipato dalla semplice, lieve stretta di una mano fidata. C'era stato di nuovo quel sussulto vicino al reattore e poi più nulla. Solo un vuoto freddo che si era radicato nel suo petto. Si era rifugiato in quell'apatia, perché allora sentire qualunque cosa avrebbe voluto dire sprofondare nel pozzo buio che aveva intravisto davanti a lui, senza accorgersi che era già dentro di sé. Si era aggrappato a quella mano come se fosse l'unica cosa che potesse trattenerlo dal cadere, e l'aveva sostenuto davvero, anche quando lui era stato deciso a mollare la presa.
Era caduto. Si era rialzato a stento, ferito, ed era caduto di nuovo. Lei l'aveva afferrato ogni volta. Ancora, e ancora, e ancora, sempre più in basso, ogni volta più a pezzi e più confuso, più determinato a lasciarsi cadere.
Finché quegli occhi non si erano riempiti di delusione e rammarico e la mano si era tesa un'ultima volta. E lui l'aveva sfiorata volendola stringere con tutto se stesso, per poi ritrarsi, consapevole che anche tutto se stesso non sarebbe mai stato abbastanza; consapevole che era troppo rotto per essere abbastanza, per meritarsi qualcosa, per tener testa a quell'azzurro limpido col suo nocciola torbido e mutilato. Si era lasciato cadere in fondo al pozzo, nel fango, assieme ai pezzi del suo guscio ormai infranto e a quelli che già erano caduti laggiù da anni senza che se ne fosse neanche reso conto.
Rialzarsi non gli era mai sembrato così difficile come quando aveva visto l'uscita solo come una capocchia di spillo lontana sopra la sua testa. Ma in qualche modo era riuscito a raccattare i pezzi più importanti e a risalire verso essa, un passo alla volta, con un guscio più fragile, ma anche più leggero. Voleva credere di essere arrivato quasi in cima. In realtà sapeva di non essere neanche a metà strada e di poter cadere di nuovo da un momento all'altro, nonostante le altre mani alleate che si erano tese verso di lui e che aveva finalmente deciso di accettare.
Adesso il medesimo, inatteso sussulto di un anno e mezzo prima gli fece mancare un battito nell'incrociare di nuovo i suoi occhi, questa volta illuminati da una viva sorpresa, subito sostituita da una freddezza estranea e dolorosa.
Il suo primo istinto fu di ritrarsi. In alternativa, di poter scomparire o rimpicciolire a comando per sfuggire a quello sguardo un tempo salvifico e adesso insostenibile, lontano dai quegli occhi cerulei e da quelle labbra che non era riuscito ad accettare e che probabilmente non avrebbe mai davvero meritato. Avrebbe voluto fuggire di nuovo, ma qualcosa dentro di lui si ribellò con violenza a quell'idea, anche se adesso avrebbe potuto farlo, grazie alle sue gambe appena riconquistate.
Invece rimase piantato al suo posto, ravvivò nuovamente il sorriso di una risata trattenuta troppo a lungo prima che svanisse del tutto dal suo volto, e si rifiutò di cedere ancora una volta alla sua stessa vigliaccheria:
«Non ho mai creduto al caso, ma sto cominciando a cambiare idea,» commentò, con un'alzata di sopracciglia e il tono più disinvolto che gli riuscì, nonostante il peso che gli premeva nel petto fosse tangibile e cercasse di arrestare quelle parole spigliate. «Salve, signorina Potts,» aggiunse con garbo.
Pepper rimase comprensibilmente spiazzata, ma ebbe abbastanza prontezza da rispondere quasi all'istante con la medesima cordialità, cosa di cui d'altra parte non aveva affatto dubitato:
«Buongiorno, Signor Stark. Sono sorpresa di vederla qui.»
«Oh, non è l'unica,» replicò lui, bloccando col bastone le porte dell'ascensore che avevano iniziato a richiudersi e svicolando dentro con un passo un po' ondeggiante.
Notò con chiarezza la donna che si irrigidiva stringendo la sua cartella di documenti come uno scudo e fu tentato di schizzar via di lì all'istante, rendendosi conto del suo disagio, ma ormai il danno era fatto.
«Noi stavamo giusto andando in laboratorio,» aggiunse, trattenendo ancora le porte e scoccando un'occhiata eloquente a Bruce e Steve, che sembravano essersi tramutati in statue di sale.
Ignorarono palesemente il suo non tanto velato invito a salire a loro volta, per stemperare quella situazione decisamente disagevole. O imbarazzante.
"Catastrofica," concluse tra sé, nel realizzare che probabilmente stava per imbarcarsi da solo nei due minuti in ascensore più lunghi della sua vita.
«
Tu intanto vai...» lo incitò Bruce, riprendendosi e indietreggiando di un passo. «Quanto a noi, credo che sia meglio andare a controllare che stanno combinando là dentro, con Thor e tutto... Capitano?»
«Buona idea, Dottore,» concordò l'altro, stranamente docile e accodandosi all'istante, con tanti saluti al famigerato coraggio del Vendicatore a stelle e strisce che prendeva a pugni i nazisti.
"Figurarsi."
Tony stentò un sorrisetto gelido che prometteva ripercussioni molto dolorose su entrambi, non appena fosse stato in grado di rimettersi l'armatura.
«Stronzi,» commentò a mezza voce, ma abbastanza forte da arrivare alle loro orecchie, poco prima che le porte si sigillassero in modo definitivo.
Era dell'idea che probabilmente una cripta sarebbe stata molto meno tetra e inospitale di quei tre metri quadri d'ascensore. Scoccò un'occhiata al pannello dei pulsanti e notò che anche Pepper era diretta al piano dei laboratori, dieci livelli più su. "Grandioso. Oggi il caso mi ha preso in simpatia."
Non aveva ancora avuto la forza di guardarla volontariamente e lei teneva lo sguardo fisso sulle porte come se volesse indurle ad aprirsi con la forza del pensiero. Iniziò a pensare che quello non fosse esattamente il modo migliore per riallacciare i rapporti, ma evidentemente tre mesi di recupero psicofisico non erano stati sufficienti a ridimensionare la sua avventatezza. Iniziava a sentirsi soffocare, lì dentro. Giurò a se stesso che il prossimo progetto che avrebbe presentato per migliorare l'Helicarrier sarebbe stato per degli ascensori supersonici...
«La trovo meglio.»
Tony trasalì e dovette convincersi di aver davvero sentito quelle parole, perché era abbastanza convinto che il suo cervello gli stesse giocando brutti scherzi, ma una fugace occhiata laterale lo convinse di non esserselo immaginato, visto che adesso Pepper stava guardando senza ombra di dubbio nella sua direzione. Di sottecchi e con circospezione, ma stava almeno riconoscendo la sua presenza.
«Dice?» mormorò, a voce più bassa di quanto avesse voluto, quasi stesse parlando con un timido animale selvatico pronto a dileguarsi al primo gesto troppo brusco. «Anch'io. Nel senso, trovo meglio entrambi anche se non è difficile che lei mi trovi meglio rispetto a...» s'interruppe. «Mh, lasciamo perdere.» 
Portò una mano sul reattore, ticchettandovi un paio di volte le dita nel suo solito gesto automatico, ma smise all'istante nel notare la reazione tesa della donna, che sembrò scansarsi appena da lui. All'improvviso desiderò solo avere qualcosa per coprire la luce azzurrina che gli brillava in mezzo al petto, vistosa contro la stoffa scura.
Tirò su nervosamente col naso: con quella falsa partenza, era sicuro che potesse scordarsi qualsiasi possibilità di intavolare una discussione civile con lei. Senza contare che l'aveva irritata e forse turbata, visto che le stava imponendo la sua presenza e la stava forzando a parlare con lui, presumibilmente l'ultima persona sulla Terra con cui volesse avere a che fare. Si sentì riempire di una frustrazione tale da renderlo assolutamente insofferente alle quattro pareti metalliche in cui era rinchiuso. Adocchiò il display dell'ascensore, notando che mancavano solo tre piani: la sua finestra d'opportunità stava per chiudersi.
«Time-out,» proruppe infine, costringendosi con ogni fibra del suo essere a voltarsi del tutto verso di lei. «Posso ricominciare?»
Pepper non lo degnò di uno sguardo, adesso di nuovo concentrata in un punto davanti a sé, apparentemente sorda alle sue parole.
«Ok, proviamo un altro approccio: le va un caffè?»
«Signor Stark, lei è assolutamente...»
«... impaziente di uscire di qui, esatto,» rettificò all'istante lui, e premette più volte il pulsante del piano, come se così potesse far accelerare quel mezzo infernale.
Lei non replicò e lasciò a metà il suo commento, ma Tony si accorse che lo stava di nuovo osservando con la coda dell'occhio e colse un lieve sospiro da parte sua, immaginò di esasperazione. Accolse l'apertura delle porte come fossero i cancelli del Paradiso. Varcò in un solo passo claudicante la soglia, ansioso di chiudere se stesso in laboratorio e il resto del mondo fuori anche solo per qualche ora. Doveva darsi da fare con la Mark IV; avrebbe potuto cominciare a buttar giù il prototipo lì per poi...
«Va bene.»
Tony si arrestò così bruscamente su una gamba sola che per poco non perse l'equilibrio. Si voltò di scatto verso di lei, bilanciandosi col bastone appena in tempo per non cadere.
«Cosa?»
Pepper uscì dall'ascensore quasi sovrappensiero, avvicinandosi appena a lui.
«Il caffè. Va bene.»
Tony boccheggiò per qualche istante, con la netta impressione che il suo cuore stesse per implodere, non sapeva dire se di gioia o paura.
«L'ha detto davvero o sto delirando?» chiese conferma, fissandola incredulo.
Lei ricambiò con gli stessi occhi inespressivi che gli aveva riservato poco prima, ma stavolta erano accesi da un'aguzza punta di rimprovero.
«Non mi faccia cambiare idea.»
«Caffè, ricevuto. Offro io.»


***


Macchiato, due cucchiaini di zucchero e bollente da far male. In vita sua aveva portato a Pepper forse tre caffè, contro il probabile migliaio che gli aveva portato lei, ma non dovette neanche chiederle come lo volesse, tanto quell'informazione gli era rimasta impressa.
La zona relax dell'Helicarrier era fortunatamente deserta e sperò rimanesse tale, contando anche sul buonsenso di qualunque incauto avesse avuto la malaugurata idea di concedersi una pausa in quel momento così delicato. Aveva praticamente costretto Pepper a sedersi a uno dei tavolini metallici, insistendo per lasciar fare a lui, con una battutina molto poco felice sul fatto che ora sapeva destreggiarsi in una cucina senza devastarla. In verità avrebbe solo voluto sedersi anche lui per far riposare il moncherino, ma si costrinse a resistere. Si puntellò con le mani sul bancone, serrando l'occhio nel tentativo di smorzare il dolore alla piaga. Aveva un tubetto di analgesici in tasca, ma preferiva svenire per il dolore piuttosto che prenderli davanti a lei. La benda nell'altra tasca rappresentava una tentazione ben più concreta alla quale s'impose a fatica di resistere. La ferita all'occhio si stava finalmente cicatrizzando, anche se la cosa non migliorava poi molto il suo aspetto generale, e ormai l'aveva visto a volto scoperto. Si tastò cautamente lo sfregio, come se così potesse renderlo meno visibile, ripetendosi che non era certo quello il suo problema più grave al momento.
Il bip della macchinetta del caffè lo riscosse prima che potesse indugiare ulteriormente su quelle considerazioni. Posò sul piano-cucina il caffè di Pepper, passando al suo; esitò sui tasti, per poi selezionare con rassegnazione il decaffeinato. Non aveva davvero bisogno di avere i nervi ancor più a fior di pelle. Stava temporeggiando per dare una parvenza di ordine ai suoi pensieri, ma la cosa non stava dando i suoi frutti, anzi, così si rassegnò a doversi sedere letteralmente a tavolino per intraprendere una discussione al confronto della quale sentiva che avrebbe rimpianto le amene chiacchierate coi suoi aguzzini dei Dieci Anelli, waterboarding incluso.
Fece per prendere le tazze, e solo allora si rese conto che in quel momento difettava di una mano, essendo una impegnata dal bastone. Avrebbe potuto metterselo sottobraccio e prendere così entrambe le tazze, ma dubitava che sarebbe riuscito a coprire quella breve distanza senza far traboccare le tazze o rovinare a terra.
E comunque, chiedere alla sua protesi di non sbriciolare qualcosa di fragile sarebbe stato decisamente azzardato.
"Cominciamo bene..."
Prima che potesse farsi venire in mente un qualche commento sagace per camuffare la sua evidente difficoltà, si trovò Pepper accanto: era tanto preso ad arrovellarsi su come risolvere quella questione così banale che neanche l'aveva sentita avvicinarsi. La donna prese senza una parola entrambe le tazze, tornando poi verso il tavolo e sedendosi come se non si fosse mai alzata, col suo caffè fumante stretto tra le mani a coppa. Tony rimase impalato sul posto per qualche secondo, sentendosi vagamente umiliato per il fatto che anche in quella situazione così sensibile avesse dovuto ricordargli di non essere autosufficiente. Scacciò quella sensazione e si risolse a interpretare il gesto come una semplice gentilezza, senza per questo confidare abbastanza nella sua voce per riuscire a pronunciare un "grazie" senza balbettare o suonare sarcastico.
Sedette a sua volta di fronte a lei, rivolgendole una breve occhiata prima di prendere a fissare il caffè di fronte a lui. Ne bevve un sorso, ustionandosi e chiedendosi cosa sarebbe successo ora; anche lei nascose brevemente il volto dietro la tazza, prolungando il silenzio e confermando l'impressione che nessuno dei due avesse la minima idea di cosa fare.
Forse non era l'unico ad essere stato avventato, concluse con una punta di sollievo.
«Ok, come ci si comporta in queste situazioni? Ho perso un po' la mano,» ammise infine con malcelata frustrazione, in un debole tentativo di rompere il ghiaccio.
A quelle ultime parole lo sguardo della donna si spostò di riflesso sulla sua protesi; Tony realizzò solo allora l'ironia della sua affermazione.
«Giuro che è stato involontario,» puntualizzò, alzando un indice della mano in questione. «Neanch'io faccio battute così scontate.»
«Un intero tribunale potrebbe smentirla,» replicò lei, inclinando appena il capo e scrutandolo pungente.
Un fugace sorriso brillò sul volto di Tony, per poi svanire in un'espressione più composta. C'era un accenno di tensione in meno da parte di entrambi.
«Com'è la vita sull'Olandese Volante?» le chiese con disinvoltura, concentrando però l'attenzione sul simbolo dello SHIELD stampato sulla tazza.
«Monotona e impegnata, ma non posso lamentarmi. È un lavoro come un altro.»
«Pensavo odiasse cercare altri lavori,» commentò lui, per poi serrare la bocca chiedendosi se avesse osato troppo.
Pepper prese un piccolo sorso di caffè, lasciandosi tempo per rispondere, e Tony ne approfittò per scandagliare rapidamente il suo volto alla ricerca di qualche traccia di fastidio. Lo trovò rilassato nella sua serietà. Molto più rilassato di quanto ricordasse, e bello come sempre, rilevò tra sé. Forse era la sua mente che si divertiva a trarlo in inganno, ma gli sembrava di contare più lentiggini sulle sue guance. O forse era lei ad avere un colorito più sano e roseo.
«È vero,» rispose infine senza sbilanciarsi, e Tony si chiese se dovesse cogliere una vena accusatoria nelle sue parole.
"Nel dubbio, me lo merito."
«Lei come sta?» gli chiese poi, con una chiara titubanza che s'impegnò inutilmente a mascherare.
«Oh, mi sono dato da fare, come ha visto,» sollevò il bastone da passeggio e lo posò sul tavolo accanto per sbarazzarsi dell'ingombro. «Anche se mi immagino già le caricature in stile Zio Paperone,» alzò appena l'occhio al cielo, realizzando per la prima volta che in futuro la satira avrebbe avuto molto materiale da cui attingere per metterlo in ridicolo, «ma anch'io non posso lamentarmi,» concluse con un'alzata di spalle.
«Sono contenta di vedere che sta bene,» disse lei, in modo fin troppo distaccato e formale.
Tony compresse le labbra, chiedendosi se quello fosse un mero commento di circostanza, ma il modo in cui lo guardava tradiva un accenno di calore in fondo ai suoi specchi cerulei. Bastò quello a convincerlo della sua sincerità e si rimproverò per averne dubitato.
«Lo sono anch'io,» replicò semplicemente, riportando l'occhio alle proprie mani asimmetriche senza frenare il sorriso che gli increspò un angolo della bocca.
Il naturale silenzio che seguì quelle parole li avvolse come una bolla serena. Per un attimo, Tony poté fingere che tra loro non fosse accaduto nulla, e volle credere che anche lei si stesse aggrappando a quello stesso pensiero.
«Di cosa voleva parlare?» 
La domanda di Pepper parve piombare tra loro con una pesantezza impensata per delle parole tanto innocue, rompendo l'illusione di essere immersi in una chiacchierata come tante.
"Di un paio di miliardi di cose spiacevoli, nulla di che."
Tony impose al proprio cervello di filtrare il più possibile il suo istintivo sarcasmo, onde evitare disastri. Prese a rigirarsi la tazza tra le mani, non sapendo in verità da dove cominciare. Erano entrambi consapevoli di dove sarebbe andata a finire prima o poi quella discussione, ma si rendevano anche conto di non potervi arrivare direttamente.
«Delle nostre "esistenze complicate", suppongo,» si decise a rispondere infine, rialzando per pochi istanti lo sguardo.
Lei strinse le labbra, esitante.
«Direi che sarebbe meglio partire dalla sua, prima di parlare delle nostre,» replicò infine con lentezza, soppesando ogni parola.
«Andata,» concordò subito lui, pensando che dopotutto aveva ragione ed era decisamente lui l'addendo più problematico di quell'operazione.
Battè un paio di volte il fondo della tazza sul tavolino, come a spronarsi a parlare.
«Partiamo da qualcosa di semplice,» sospirò poi, mettendosi a braccia conserte sul tavolo. «Quando mi ha chiamato per farmi gli auguri non l'ho ignorata. Non ho davvero sentito il telefono: ero più o meno in letargo dopo una... uh, sessione extra di fisioterapia particolarmente intensa,» spiegò in modo vago, scrutando la reazione della donna, che rimase forse sorpresa dal modo frivolo in cui aveva deciso di iniziare la discussione.
«Cosa le fa pensare che l'avessi chiamata per farle gli auguri?» indagò senza scomporsi.
«Non si è mai dimenticata in quasi dieci anni. È un'ipotesi più che valida,» la fissò con impertinente sicurezza, mordendosi le labbra per evitare a un sorrisetto di sfuggirgli, ma lo vide affiorare quasi di rimando negli occhi brillanti di Pepper.
«Non mi ero dimenticata,» confermò, con voce più morbida.
«È meglio che non le abbia risposto. Non meritavo quegli auguri, non da lei,» disse lui di slancio, per poi ammutolire a sguardo basso.
Si era appena gettato a capofitto nella parte oscura di quella discussione in cui temevano entrambi di addentrarsi, come se stessero camminando sugli argini di un fiume in piena pronto a straripare.
«Forse no,» ammise lei, sfuggendo il suo sguardo con improvviso nervosismo, il volto nuovamente adombrato.
«Perché mi ha chiamato, allora?»
«Era riuscito a rialzarsi da solo. Ho pensato che forse voleva dire qualcosa.»
«E lo pensa ancora?»
Pepper passò un dito sul bordo della tazza con fare assente, provocando un lieve stridio sulla ceramica umida.
«So che qualche mese fa non saremmo stati qui a parlarne e forse neanche avremmo voluto.»
«A parlare di cosa, poi?» mormorò lui, con un lieve sbuffo spazientito. «Non ha risposto alla domanda,» le fece notare.
«Penso che sia cambiato qualcosa. O almeno lo spero,» si corresse.
«Non ho più istinti suicidi, se è questo a cui vuole arrivare,» replicò lui in tono piatto, ostentando una noncuranza che non sentiva.
Pepper si irrigidì, e sapeva che nella sua testa stava rivivendo il momento in cui l'aveva trovato in fin di vita. Si sentì crudele a rivangare quei ricordi in modo così brusco, ma era anche stanco di girare attorno alla questione come se fosse una mina pronta ad esplodere.
«Ha la più pallida idea di cosa...» esordì lei con calma forzata e il tono gelido in cui aveva imparato a riconoscere il preludio alla tempesta.
«No,» la interruppe subito, intuendo il seguito e correndo ai ripari. «Non posso neanche immaginare cosa abbia passato. E non era mia intenzione...»
«Non era "sua intenzione"?» Pepper a questo punto lo freddò con un'unica occhiata che parve trapassarlo come una freccia ghiacciata. «Cosa credeva che sarebbe successo?»
Tony incassò la testa tra le spalle a quelle parole improvvisamente sferzanti e comprese di non avere argomentazioni abbastanza solide per controbattere.
«Quello che fortunatamente non è successo,» rispose senza pensare, sentendosi incapace di far fronte a una rabbia che non si era ancora abituato a vedere in lei, e che probabilmente non avrebbe neanche mai visto, se solo avesse compiuto scelte diverse.
Nel frattempo iniziava ad avvertire un senso di vuoto schiudersi al centro del petto, sotto il reattore, ed era improvvisamente a corto di fiato come se qualcuno gli stesse stringendo la gola in una presa ferrea.
«È stato un gesto stupido, e avventato,» ammise a fatica, per non lasciar scivolare la discussione nel silenzio e per distrarsi dalle sensazioni spiacevoli che gli stava inviando il suo corpo.
«Oh, davvero?» la donna inarcò appena un sopracciglio. «Credevo fosse un altro dei suoi colpi di genio per "risolvere la situazione".»
Pepper non faceva spesso uso del sarcasmo gratuito – Tony compensava ampiamente per entrambi – ma nei rari momenti in cui vi ricorreva risultava sempre tagliente come un bisturi. Anche in quel caso, il colpo andò a segno con precisione chirurgica.
«Non ero esattamente lucido, in quel momento,» replicò a denti stretti, sentendosi ferito da quella stilettata sferrata apparentemente senza alcun rimorso.
«L'avevo intuito dalla sua performance assolutamente sobria davanti alla stampa, da qualche parete crollata e dallo stato pietoso in cui l'ho ritrovata.» Pepper non si fece intenerire, apparentemente decisa a non lasciargli l'ultima parola. «O dal fatto che non si sia minimamente preoccupato delle conseguenze del suo gesto per gli altri.» 
A quel punto la sua voce fu attraversata da un lieve tremito, che sembrò riverberare di rimando nelle ossa di Tony. Questi si limitò a chinare il capo senza rispondere. Aveva accettato di venire rimproverato nel momento in cui le aveva chiesto di parlare, ma era comunque doloroso sentirle pronunciare quelle parole traboccanti di delusione e risentimento verso di lui.
«Quando... quando l'ho trovata avevo appena deciso che valeva ancora la pena starle accanto, nonostante tutto,» la sua voce traballò e fu costretta a fare una pausa. «Ha idea di quanto mi sia spaventata?» lo incalzò poi, fremente.
Tony scosse appena la testa storcendo la bocca in una piega amareggiata, continuando a tacere.
«E nonostante tutto mi ha salvato la vita,» mormorò infine, scrollando le spalle ancora incredulo. «Lo so che a questo punto non vale nulla, ma... grazie.» 
Nel dirlo riuscì a fissarla per la prima volta negli occhi senza esitare. Lei non rispose, ma dal suo sguardo Tony capì che stava soffrendo anche solo nel ricordare quei momenti. Lui di quegli attimi terrificanti ricordava solo la consapevolezza che ci fosse lei ad aspettarlo, al di là del muro d'acqua oltre il quale era scivolato. Era riemerso anche grazie a lei, al suono distante della sua voce, ma questo non poteva dirglielo senza che lo prendesse per pazzo, se già non lo pensava.
«Lo rifarei. Ma non avrei mai voluto trovarmi nella condizione di farlo e non posso perdonarla per avermi obbligata.» La voce di Pepper era tesa come una corda di violino e virò quasi sullo stridulo. «Non riesco ancora a capire come è potuto succedere,» aggiunse in fretta, come se temesse che quelle parole si ritraessero prima di poterle pronunciare.
Lui sbuffò piano, sempre più irrequieto e in cuor suo impaurito dalla piega che stava prendendo la discussione.
«Non è importante,» affermò sbrigativo, con un gesto secco della mano.
«Lo è per me,» lo contraddisse lei, stavolta in tono più gentile.
Tony si rifiutò di incontrare i suoi occhi, anche se poteva percepirli mentre lo scrutavano a fondo, quasi intimandogli di alzare il proprio.
«Ho fatto una stronzata. Non c'è nient'altro da dire,» ripeté, sentendo il suo respiro che accelerava senza motivo e l'urgenza quasi fisica di chiudere quell'argomento adesso.
«Sto cercando di capire, Tony. Non mi chiuda di nuovo fuori,» lo riprese lei, con una durezza quasi rassegnata.
Lui soppresse la risposta acida che gli era salita alle labbra, l'ennesimo tentativo di fuga a cui cercava di indurlo la sua mente, cogliendo solo con un po' di ritardo l'importanza di ciò che gli aveva appena detto. Quand'era stata l'ultima volta che qualcuno aveva cercato di capirlo, invece di limitarsi a rimproverarlo? Nessuno gli aveva mai neanche chiesto come si fosse sentito. Aveva solo ricevuto parole di biasimo, delusione e stizza che sentiva di meritare, ma che suonavano comunque vuote e impersonali alle sue orecchie.
Sospirò profondamente e trovò il coraggio di guardarla. Incrociò per appena un secondo i suoi occhi, ma di nuovo non riuscì a sostenerli. Tornò a fissarsi le mani, sentendosi più vulnerabile che mai nel realizzare che, oltre la cortina di severità e delusione che li offuscava, brillava ancora quella luce limpida che l'aveva sempre spinto a fidarsi di lei oltre i limiti di quanto avrebbe ritenuto ragionevole. Probabilmente c'era sempre stata, anche quando lui non aveva voluto vederla. E c'era adesso, in un momento in cui avrebbe avuto tutto il diritto di negargli qualsiasi aiuto e comprensione.
Serrò la mascella, improvvisamente frustrato. Come faceva a spiegarle tutto quando non riusciva a spiegarselo lui stesso?
Esitò ancora, scandagliando la massa intricata dei suoi pensieri alla ricerca di un punto di partenza.
«Mi sentivo in un vicolo cieco. E mi ero convinto che quella fosse la soluzione più semplice per tutti,» confessò infine, appena udibile, scuotendo la testa con rammarico.
"Soprattutto per me," si trovò a pensare con vergogna.
«Tony, ho passato–... abbiamo passato mesi a preoccuparci solo per lei e a cercare di aiutarla in ogni modo possibile,» gli fece notare incredula, ma anche avvilita da ciò che aveva appena detto.
Lui non rispose, ma contrasse le mani attorno alla tazza: era consapevole di quanto fossero illogiche le riflessioni che si erano affollate nella sua testa in quel momento così buio. Quando cercava di ricordare con esattezza cosa avesse pensato incontrava solo una spessa, impenetrabile lastra nera che gli spaccava in due la testa oscurando qualsiasi razionalità. Una crepa si delineò sullo smalto della tazza e rilassò di colpo la mano meccanica, attraversata da un lieve tremito che la fece tintinnare contro il manico.
«Non riuscivo più a pensare,» esalò con un filo di voce.
Il senso di asfissia si faceva sempre più intenso e dovette lottare per trarre i respiri successivi, mentre sentiva il cuore che iniziava a battere in doppio tempo. Ebbe l'improvvisa percezione di ogni singola scheggia infissa nel petto che sembrava lottare per farsi strada attraverso le sue carni.
«Non avrei mai voluto obbligarla a... credevo che ci sarebbe voluto meno per...» adesso gli sembrava che i suoi pensieri avessero preso a spezzarsi a metà e a ricongiungersi tra loro senza un ordine logico. «Quando ho tolto il...» tentò di nuovo, ma gli si bloccò il fiato in gola.
Non riuscva più a parlare e il suo intero corpo sembrava compresso in una morsa metallica, come quando stava annegando nel sogno, o nell'allucinazione, o in quel limbo a un passo dalla morte che–
Si coprì di scatto la bocca con la mano, obbligandosi a respirare dal naso e cercando di frenare la forte nausea e i brividi che lo squassavano da capo a piedi. Si voltò di lato, chinato in avanti, e fece un rapido cenno di diniego in risposta allo sguardo ora colmo di apprensione e inquietudine di Pepper, che era già scattata in piedi bloccandosi poi sul posto, un plmo puntato sul tavolo.
Non riuscì a evitare di stringere convulsamente il reattore, come se così potesse impedirgli di lasciare il suo posto. Trasse subito conforto dal ronzio sommesso che si propagava lungo il braccio meccanico e chiuse l'occhio, domando i capogiri.
«Tony...?»
«Sto bene.» 
La sua voce trapelò ovattata dal suo palmo, poco convincente e innaturalmente acuta. Allentò appena la presa sul reattore, ma il suo cuore continuava a sbatacchiare contro le costole come un uccellino impazzito che tenti di uscire da una gabbia troppo piccola.
«Non...» deglutì a fatica. «Non pensavo che parlarne mi trasformasse in un adolescente con gli ormoni in subbuglio,» riuscì ad articolare con ironia forzata dopo un altro paio di respiri profondi, non riuscendo a scacciare del tutto la persistente sensazione dell'acqua salata che gli riempiva a poco a poco i polmoni.
Lei lo osservò per qualche secondo, valutando le sue condizioni con aria guardinga, rimettendosi a sedere con lentezza.
«Credo che questa reazione sia un bene,» giudicò infine con fin troppa calma, ma le occhiate che continuava a scoccargli lasciavano trapelare chiaramente lo spavento che le aveva provocato.
Tony annuì scosso, capendo quello che intendeva: sarebbe stato molto peggio parlarne come se fosse stata una cosa da nulla.
Un'intensa fitta al moncherino del braccio lo colpì senza preavviso e represse un'imprecazione, che comunque non sfuggì a Pepper. Anche la gamba gli stava dolendo in modo sempre più intollerabile. Lo stress gli scatenava sempre quelle crisi: sapeva che tra poco la situazione sarebbe degenerata, e non era in grado di gestire contemporaneamente la sua psiche e il suo corpo imbizzarriti.
Emise un sospiro rassegnato nel tirar fuori dalla tasca il tubetto di antidolorifici, che aprì sotto al tavolo per celarlo alla vista di Pepper; lo schiocco del tappo che si apriva risuonò comunque in modo inequivocabile. Si affrettò a cacciarsi in bocca la pasticca e a mandarla giù con un sorso di caffè, incrociando fugacemente lo sguardo attento di Pepper nel processo.
«Sono antidolorifici, non psicofarmaci,» ci tenne a chiarificare, riponendo il tubetto e sentendo il dolore che scemava all'istante e prematuramente per l'effetto placebo.
"Magari mi servirebbero," si trovò a pensare, poco divertito.
Lei scosse appena la testa, come a significare che non era una precisazione necessaria. Tony riprese una postura composta, ignorando il gelo innaturale che ancora sentiva sulla pelle, il lieve senso di vertigine e il fastidioso retrogusto di bile in bocca che neanche il caffè riusciva a dissipare.
Rimasero in silenzio per quella che a lui parve un'eternità, anche se probabilmente fu meno di un minuto.
«Devo riuscire a parlarne,» mormorò poi frustrato, fissando la superficie lucida del tavolino.
Intravide il proprio riflesso sfigurato e strinse il pugno metallico.
«Non deve forzarsi adesso, abbiamo...»
«Voglio riuscirci,» s'incaponì con voce ancora turbata.
Puntò l'indice sul tavolo contro la sua immagine distorta, come sfidandosi a fissare quel concetto:
«Sono sopravvissuto a una bomba, ai terroristi, a un reattore nel petto, all'incidente e a due operazioni; fare una chiacchierata sul mio... sul mio suicidio,» si obbligò a scandire quasi in un singulto, «non sarà peggio di aver vissuto tutto ciò, e non ho intenzione di tirarmi indietro solo perché mi ritrovo col subconscio di un tredicenne confuso,» concluse con intensità crescente.
Annaspò per un attimo, a corto di fiato.
«E voglio parlarne con lei,» asserì infine, rialzando lo sguardo.
Vide con chiarezza lo stupore che si disegnò sul volto della donna a quelle parole, come se non si aspettasse tutta quella veemenza da parte sua. In verità non se l'aspettava neanche lui, ma iniziava a provare una viva avversione per la sua incapacità di controllare le proprie debolezze. Rimettersi in piedi e "ripararsi" voleva dire affrontare anche quelle. Non si sarebbe fatto sviare di nuovo dalla sua rotta, non ora che l'aveva finalmente ritrovata e che si sentiva di nuovo al timone, invece che alla deriva e in balìa delle correnti.
Pepper rimase in silenzio e si poggiò allo schienale, scrutandolo.
«La sua testardaggine non è cambiata,» osservò infine in tono neutro, ma i suoi occhi gli sembrarono meno freddi, come se constatare quel fatto la rassicurasse.
«Non posso cambiare del tutto, altrimenti non potrei più chiamarmi Tony Stark. Poi sarebbe un casino dal punto di vista legale e ho già abbastanza problemi in quel settore.» 
Alzò le spalle con ovvietà e riprese un tono spigliato, sollevato nel vedere l'espressione più conciliante della donna.
«Quindi sta davvero cercando di cambiare.»
Tony rifletté brevemente su quella che, più che una domanda, sembrava una constatazione speranzosa. Incrociò le braccia sul petto coprendo il reattore, quasi a farsi da scudo contro tutto ciò che poteva ferirlo ancora.
«Prima... prima ero furioso. Avrei voluto distruggere tutto, anche me stesso. Ovviamente non era la soluzione giusta, ma non ci voleva un genio come me a capirlo,» aggiunse in un blando tentativo di alleggerire i toni.
«Direi di no,» commentò solamente Pepper con fare colmo di sottintesi, al che Tony sospirò appena, sentendosi di nuovo al banco dei testimoni mentre tentava di giustificarsi senza essere messo all'angolo.
Non c'erano vie di fuga, stavolta.
«Adesso sto cercando altri tipi di soluzione meno... irruenti.»
«E crede che stia funzionando?»
«L'ha detto anche lei che va meglio, no?» 
Gli sfuggì un sorrisetto, suo malgrado soddisfatto nel notare di aver colto nel segno: lei in apparenza rimase assolutamente impassibile, ma fu tradita dalla luce più morbida che le illuminò gli occhi.
«Il mondo non è disposto a cambiare per me,» dichiarò infine. «Il che è estremamente scortese, considerando tutto ciò che ho fatto per lui. Ma non ho molta scelta,» concluse poi, accigliandosi e rendendosi conto di aver appena mancato il nòcciolo della questione.
Gli vennero in mente i discorsi di Bruce a quel proposito, colmi di biasimo e conditi da metafore di ceneri e rinascite un po' troppo poetiche in bocca a un tizio in grado di diventare un gigante verde radioattivo. Allora affermare di voler morire era stata più un'esternazione di impotenza dettata dall'alcol che un vero e proprio desiderio. Guardare indietro e vedere quella versione di se stesso prostrata, furente e assolutamente sorda a qualsiasi offerta d'aiuto lo riempiva di vergogna.
Il suo stesso suicidio era stato qualcosa di talmente impulsivo da farlo rabbrividire. Per settimane aveva avuto il terrore di ripetere quel gesto in modo inconsapevole, ripiombando nel blackout mentale che aveva soppresso il suo raziocinio. Tutt'ora si svegliava spesso nel cuore della notte convinto di essersi strappato il reattore nel sonno, con le ultime parole di Yinsen che gli rimbombavano in testa, adirate e colme di delusione.
E fino a qualche tempo prima non sarebbe stato in grado di rispondere alle domande di Bruce. All'epoca non si sentiva in grado di tornare ad essere se stesso, figurarsi Iron Man o anche solo una versione migliore di ciò che era stato. Adesso era riuscito a riprendere una presa salda su ciò in cui credeva ed era di nuovo in piedi, con tutti i suoi difetti e le sue imperfezioni che gli ricordavano di non poter mollare neanche per un istante, se non voleva cadere di nuovo. A quel punto non era del tutto sicuro di poter cambiare del tutto se stesso, né di volerlo: sarebbe stato come sostituire il suo guscio con un altro, senza preoccuparsi di capire quali fossero le falle del precedente, né volersene davvero sbarazzare.
E lui detestava non capire qualcosa, che fosse il motore di un'auto bizzosa o la sua psiche in subbuglio.
Bevve un sorso di caffè, a mascherare il volto teso per lo sforzo di venire a capo dei suoi pensieri. Il calore della bevanda dissipò un poco il gelo concentrato in un unico blocco compatto al centro del suo corpo. Percepiva ancora un lieve tremito nelle mani, ma l'ondata di panico che l'aveva avvolto poco prima sembrava essersi ritirata, anche se ne avvertiva un imminente ritorno più burrascoso, come il momento di secca prima dello tsunami.
«In realtà non è questo il punto. Non si tratta di cambiare e basta, non... Me l'ha detto anche Banner, non avrebbe senso...» s'interruppe, confuso, e si lasciò cadere di peso col gomito puntato sul tavolo a sorreggergli il mento, scuotendo appena la testa.
Sospirò, frustrato e incapace di esprimere chiaramente tutto ciò che gli stava scorrendo in testa. Si passò una mano sul viso quasi ciò potesse ripristinare un'espressione neutra e resettare anche le sue sinapsi al momento scoordinate. Pepper non si intromise nel discorso e si limitò a rimanere in silenzio, scrutandolo attenta. Capì che gli stava lasciando tempo. Tempo per riordinare i pensieri, per parlare, per spiegarsi, per tirar fuori tutto quello che aveva compresso e tenuto a bada per mesi.
Da quanto aspettava quel momento? Da quanto lo aspettava lei?
Si sentì in dovere di sfruttarlo al meglio: il minimo che potesse fare era essere sincero, in tutto e per tutto. Gli balenò davanti l'immagine del reticolo di palladio che si dipanava sul suo petto e il suo volto s'incupì.
"Quasi tutto..."
Si rigirò nervosamente la tazza tra le mani, guardando con aria assente il liquido che sciabordava al suo interno in onde scure e concentriche.
«Quando stavo per morire ho costruito Iron Man per salvarmi,» esordì, lasciando semplicemente fluire le parole che arrivavano alla sua bocca, come poco prima coi Vendicatori. «Ha funzionato.»
Alzò le spalle per chiudere l'argomento, percependo il vivo disagio da parte di Pepper nell'affrontarlo.
«Adesso però...» scosse la testa, sentendo nuovamente un vuoto al petto e presagendo l'ondata di panico che si avvicinava pericolosamente.
Si maledisse per la propria debolezza, ma non poté far altro che posare una mano sul reattore per ritrovare la calma, anche se notò come Pepper si accigliò a quel gesto. Si concentrò sulle lievi vibrazioni che si trasmettevano al suo palmo e contò fino a dieci – si contava sempre fino a dieci, no?
Sembrò funzionare, perché l'ondata si ritrasse prima di abbattersi su di lui, tornando verso l'orizzonte. Schiuse le labbra e si sforzò di lasciar trapelare le successive parole senza esitare.
«Sono stato io a voler morire,» esalò sfuggendo lo sguardo di Pepper. «Stupidamente,» aggiunse come se non fosse già abbastanza ovvio.
Non ebbe bisogno di guardarla per vedere la delusione e il dolore riaccendersi nei suoi occhi.
«Vorrei davvero spiegarle tutto, ma non lo capisco neanch'io. Si... si è rotto qualcosa. E non capisco come,» sbottò frustrato, come sempre quando qualcosa gli sfuggiva.
Riuscì a scostare la mano dal reattore, sebbene con sforzo, e si obbligò a poggiare entrambi i palmi sul tavolo.
«Adesso non posso costruire un altro Iron Man.» Fece un debole sorriso a schernire la sua stessa affermazione. «L'ho già detto alla squadra, prima: sono io Iron Man. Se non funziono, il resto va a rotoli.»
Fece una breve pausa, umettandosi le labbra.
«Devo ripartire dalle basi. Da... da qui.» Fece un gesto vago verso se stesso. «Ho perso molto tempo e molte cose. E ne ho rotte altrettante.»
Rialzò lo sguardo su Pepper con involontaria intensità, costringendosi a non distoglierlo, e lei lo sostenne.
«Devo prima capire. È come un progetto,» affermò d'impeto, aggrottando le sopracciglia con fare concentrato. «Puoi avere le idee più geniali di questo mondo, ma se non sai organizzarle e capire come renderle concrete rimarranno per sempre solo idee. Non devo cambiare, devo solo... ecco, devo riprogettarmi,» stabilì trionfante, e un guizzo vivace passò nell'iride nocciola illuminando il suo volto. «Adesso so per certo che almeno le basi sono giuste, e non ho più intenzione di dubitarne. E dopotutto sono un ingegnere, progettare cose è il mio lavoro,» concluse, dando voce a quell'intuizione improvvisa con un sorriso esitante ma spontaneo.
Pepper abbassò lo sguardo, come colpita da ciò che aveva detto, e sperò solo che fosse in modo positivo. Aveva semplicemente espresso ciò che pensava, per quanto ingarbugliato, nonostante nel corso delle sue notti insonni si fosse preparato discorsi molto più completi ed elaborati in previsione di quel momento. Non si pentiva di ciò che aveva detto.
«Non me l'aspettavo,» commentò infine Pepper, rialzando gli occhi chiari.
Tony si accigliò, circospetto.
«Lei è la seconda persona che mi dice questa cosa, oggi. Capitan Fierezza l'ha battuta sul tempo,» commentò con brio un po' forzato per tastare il terreno. «Cosa non si aspettava?» aggiunse, non ottenendo reazione da parte sua.
«Tutto... questo. Il fatto di riuscire finalmente a parlare come... come avremmo dovuto fare da tempo,» si bloccò, forse non del tutto padrona di ciò che stava dicendo.
Aveva preso involontariamente a gesticolare; Tony si trattenne dal sorridere nel riconoscere quel segno di nervosismo per cui l'aveva presa in giro innumerevoli volte in passato.
«E anche di vedere che non sta facendo finta che... che "vada tutto bene come al solito",» aggiunse, citandolo.
Tony annuì appena, mordendosi il labbro con lieve nervosismo nel ripensare a quanto si era sentito scoraggiato quando aveva pronunciato quelle parole.
«E cosa si era aspettata, allora?» le domandò poi, suo malgrado incuriosito e allo stesso tempo timoroso della risposta.
«Non lo so... una fiera del sarcasmo, o qualcosa del genere,» rispose, quasi distrattamente.
«Ammetto che trattenermi è difficile, ma se le è mancato così tanto rimedio subito.» 
Stavolta lasciò che il suo solito ghigno sfacciato gli emergesse sul volto e si sporse verso di lei inclinando la testa di lato con fare impertinente. Lei non rispose e chinò il capo a fissare la tazza vuota, celando gli occhi dietro la frangetta, ma Tony captò un accenno di sorriso sulle sue labbra e si sentì come se avesse conquistato per primo la vetta di una qualche montagna inaccessibile. Il suo entusiasmo scemò un poco nel notare che Pepper non sembrava avere intenzione di rialzare lo sguardo, e che aveva appena preso a tormentarsi le mani. Il che non era mai un buon segno.
«Questo è il punto in cui lei dovrebbe dirmi cosa ne pensa di me, o cosa ha intenzione di fare sapendo ciò che le ho appena detto,» cercò di spronarla con leggerezza, sentendosi in cuor suo di nuovo irrequieto per quel lungo silenzio e lasciando quindi il freno della sua parlantina: «Può dirmi qualuque cosa, ormai me ne hanno dette di tutti i colori... ma sono contento che abbia finito il suo caffè: non avrei sopportato che mi macchiasse anche questa maglietta, soprattutto perché mi sembrava che piacesse molto anche a lei,» continuò in tono forzatamente vivace, accennando alla sua storica T-shirt dei Black Sabbath.
A quel punto lei rialzò cautamente la testa e Tony realizzò con sconcerto che i suoi occhi erano lucidi e sul punto di traboccare. Si sentì un insensibile per aver scherzato a quel modo su un episodio che, a pensarci bene, non era stato bello né divertente, anche senza considerare le docce di caffè.
"Forse mi servono davvero quelle lezioni di savoir-faire da K..." gli balenò in testa.
«Pepper?» pronunciò allarmato il suo nome come se potesse racchiudere ogni possibile domanda, inclusa quella che non conosceva e che poteva fargli ottenere una spiegazione a quel repentino cambio di atteggiamento.
«Sono un'ipocrita,» proruppe lei, scuotendo appena la testa.
«Cos– perché mai?» 
Tony si agitò sulla sedia, spiazzato.
«Perché l'ho accusata per tutto questo tempo di non voler parlare, mentre io facevo esattamente la stessa cosa. E l'ho rimproverata per la sua sfiducia, quando invece...
» respirò a fondo, «... adesso lei sta parlando di tutto e io non riesco neanche a...» si interruppe, facendo un evidente sforzo per ricacciare indietro le lacrime.
Tony cercò in ogni modo di non dare troppo a vedere il suo spaesamento per quell'improvviso rovescio della situazione: avrebbe dovuto essere lui quello a scusarsi e autoaccusarsi per... per tutto, in effetti.
E adesso lei era sul punto di piangere?
Lei, Virginia Pepper Potts, era la sua donna di ferro, che non aveva bisogno di un'armatura per esserlo e che avrebbe sempre creduto assolutamente incrollabile e del tutto immune al pianto, se non l'avesse vista in lacrime coi suoi occhi al suo risveglio dall'incidente. Fu pervaso da un senso d'angoscia crescente al pensiero che qualunque cosa la stesse spingendo al suo limite, doveva avere una gravità almeno pari a quell'episodio.
"Oddio, che cavolo faccio, adesso?"
I suoi pensieri tornarono repentinamente a qualche mese prima, quando avevano avuto una discussione molto poco piacevole riguardo a psicologi e fiducia, terminata con una brocca schiantata contro il muro. Non uno dei suoi momenti più alti, in effetti, ma ringraziò i suoi neuroni disorientati per aver ripescato provvidenzialmente l'episodio.
«Ero sincero quando le dissi che poteva parlare con me,» si offrì impacciato, senza riuscire a nascondere un po' di rammarico per il fatto che all'epoca non avesse voluto confidarsi.
Pepper non rispose, ma il suo sguardo non lasciava spazio a fraintendimenti riguardo al fatto che qualcosa la turbasse da tempo, nel profondo. In realtà lui ne aveva sempre avuto una vaga percezione, fin dall'incidente, ma era stato talmente assorbito dai suoi problemi da estraniarsi da tutto il resto. Anche quando si era chiesto cosa pensasse o provasse Pepper, era sempre in relazione al suo comportamento con lui.
"Dopotutto, sono un egoista," si rammentò con amarezza.
«L'offerta vale ancora,» insisté in tono più morbido, e poteva leggere sul volto di Pepper quanto volesse accettarla.
La donna si asciugò rapidamente gli occhi, nonostante non una sola lacrima fosse sfuggita alle sue ciglia, e giunse le mani di fronte a sé come raccogliendo le forze.
«Non è questo il momento più adatto per parlarne,» stabilì con fermezza.
«Il momento più adatto sarebbe stato sei mesi fa, ma non sono la persona più adatta a farle la ramanzina per aver procrastinato,» la rimbeccò Tony, e lei ebbe un lieve sussulto, facendogli capire di aver colto nel segno.
La vide esitare e barricarsi di nuovo dietro la sua compostezza, ma notò il lieve tremito del suo volto e seppe che quella facciata non avrebbe resistito a lungo.
«Tony, ho premuto io quel pulsante,» disse infine, tutto d'un fiato.
«Quale?» 
Le sopracciglia dell'uomo si aggrottarono appena mentre tentava di raccapezzarsi.
«Quando era sul tetto, con Stane.»
«Sì, me l'ha detto,» replicò lui con lentezza, con un brutto presentimento.
«L'ho premuto troppo tardi. Probabilmente non se lo ricorda, ma me l'ha chiesto più volte e... e io ho esitato.» Si interruppe, trattenendo le lacrime che le erano nuovamente salite agli occhi. «E se non mi fossi trovata in pericolo... se solo fossi riuscita a scappare, lei non sarebbe dovuto intervenire e...» s'interruppe di nuovo, a corto di fiato.
Tony si sentì improvvisamente la bocca secca, capendo infine quello che gli stava dicendo.
«No,» riuscì a dire soltanto, alzando la mano come a frenare quelle affermazioni. «No, no, Pep, non provare neanche a...» 
Si prese la radice del naso tra le dita, senza credere a ciò che stava sentendo. Respirò a fondo, sentendosi improvvisamente furioso con se stesso.
«È stata colpa mia,» proruppe lei, e sentire la sua voce rotta fu peggio di qualunque sofferenza fisica che avesse affrontato in quei mesi.
«No, Pepper,» ripeté con veemenza. «Stavi agendo su mio ordine, ti ho messa io in quella situazione e non avevamo idea di chi fosse davvero Stane,» si adoperò per imporre tutta la fermezza possibile alle sue parole, vedendo che Pepper non ne sembrava assolutamente convinta. «E ti ho chiesto io di sovraccaricare il reattore: sapevo quello che sarebbe successo e...»
«Non potevi saperlo,» proruppe lei, facendolo ammutolire.
Non riuscì a trovare una risposta adeguata, nella consapevolezza che, no, non aveva minimamente immaginato le conseguenze della sua richiesta, ma si odiò ferocemente per averla costretta a compiere una decisione simile, obbligandola a vivere con quell'immeritato senso di colpa.
«Se non l'avessi premuto...»
Lui si riscosse, contenendo a stento la rabbia ribollente verso se stesso.
«Sarei morto,» completò con forza.
Si arrischiò a sfiorarle il polso con la punta delle dita, celando a stento il suo stupore quando lei si aggrappò alla sua mano quasi con foga. Rimase per qualche istante senza parole, sentendo la sua mano sottile stringerlo con forza inaspettata.
«Finora mi hai salvato la vita per ben tre volte. E non sto neanche a contare tutte quelle in cui mi hai impedito di fare qualcosa di stupido prima di tutto questo casino. Non hai nulla da rimproverarti.»
Pepper tacque un poco, nel tentativo di ricomporsi.
«Per tutto questo tempo ho avuto paura che tu mi chiedessi qualcosa al riguardo,» riprese poi, con voce umida di lacrime trattenute. «E allo stesso tempo avrei voluto dirti tutto, ma non era... non era mai il momento giusto,» concluse con una traccia di rammarico.
«Anche prima ti avrei risposto nello stesso modo. Io non ti ho mai ritenuta responsabile di nulla. Il colpevole è solo Stane,» la rassicurò lui, senza riuscire a nascondere il rancore verso il suo ex-socio, sempre pronto a riemergere. «Semmai sono io ad averti messa in pericolo. Più volte,» aggiunse, abbassando lo sguardo sul braccio che le aveva ferito tempo prima senza volerlo, colpito come allora da un bruciante rimorso.
Pepper continuò a tenere lo sguardo puntato sulle loro mani, in silenzio, ma tirò le labbra in un'espressione poco convinta.
«Non voglio che pensi queste cose.» 
Tony parlò piano, quasi cullandola con quelle parole mentre le accarezzava appena le dita col pollice.
«Non riesco a non pensarci,» confessò lei.
«Lo so.» Tony si limitò a sorridere mestamente. «Ormai me ne intendo di pensieri insensati.» 
Le strinse appena la mano e fu contento di essere riuscito a incurvare appena le sue labbra verso l'alto.
«E ha anche qualche consiglio per ignorarli?» gli chiese con voce flebile, riprendendo le distanze almeno con le parole.
«Ascoltare gli altri è un inizio,» mormorò lui, abbassando di nuovo lo sguardo con colpevolezza. «Quindi mi ascolti quando le dico che non è colpa sua.»
«Non può dirlo con certezza, ha un'amnesia e...»
«Io so che non è colpa sua,» ribadì lui, irremovibile. «Senza di lei... non sarei qui,» aggiunse senza avere il coraggio di spiegare davvero tutto ciò che racchiudeva quell'affermazione.
Era stata la sua voce a richiamarlo dalle viscere di una grotta buia, era grazie a lei che aveva avuto un cuore di riserva a salvargli la vita, era seguendo la sua eco che era riemerso dall'abisso delle proprie paure. Continuò semplicemente a stringerle la mano in una presa gentile, incapace di comunicarle tutto ciò in altro modo. Lei non si ritrasse al contatto, che sembrava colmare il silenzio tra loro.
A quel punto allungò appena l'altra mano, esitante, per poi posarla su quella meccanica di Tony rimasta inerte lì accanto. Lui trasalì appena, e nonostante non potesse percepirlo poté giurare di sentire le sue dita esili poggiarsi delicatamente sulle nocche fredde e metalliche. Abbassò lo sguardo, tirando le labbra nel tentativo di mantenere il suo volto impassibile mentre veniva attraversato da una valanga di emozioni contrastanti che rischiavano di straripare da un momento all'altro.
Quella era la mano che l'aveva ferita, che aveva distrutto così tante cose e legami da averne perso il conto. Aveva voluto vederla come un simbolo di vittoria, ma era anche un memento di quanto fosse imperfetto. E lei adesso stava accettando quell'imperfezione.
Aprì e chiuse la bocca un paio di volte, ma ancora una volta non riuscì a trovare parole che esprimessero l'immenso calore che gli stava trasmettendo con quel contatto, anche se dovette domare l'istinto di ritrarsi. Si trovò a fissarla con sguardo liquido e appannato, sperando solo che capisse quanto significasse per lui quel semplice gesto, quel contatto nuovo che non sapeva come gestire e che stava rischiando di sopraffarlo.
«So che non è colpa sua, perché mi fido di lei,» mormorò all'improvviso, stupendosi della fermezza della sua voce, totalmente in contrasto col caleidoscopio di pensieri che si agitava alla rinfusa nella sua mente. «Mi sono sempre fidato,» aggiunse, e stavolta il suo tono era di scuse.
«Anch'io mi fidavo. Vorrei poter fare lo stesso ora,» rispose lei distogliendo lo sguardo, ma non si ritrasse e anzi, strinse con più forza le sue mani, entrambe.
Tony si aspettava un commento simile, ma fu comunque un duro colpo. D'altronde, le aveva mentito troppo a lungo per aspettarsi un perdono immediato. E in realtà le stava ancora mentendo, si rammentò con un fugace, doloroso pensiero alla sua intossicazione.
«Tornerà a fidarsi come prima. Glielo prometto,» si sforzò di sfoggiare il suo solito sogghigno spavaldo, ma era incrinato e si spense ben preso lasciando posto a un'espressione mesta e incerta.
Pepper sorrise per lui, un sorriso sottile ma sicuro di sé che lo scaldò nel profondo. Si era dimenticato delle fossette che si formavano sulle sue guance e di come socchiudesse appena gli occhi in quel gesto così naturale che gli era mancato più di quanto si fosse reso conto.
«Non deve sempre fare tutto da solo.»
«Da solo potrei anche farcela,» ribatté lui con un pizzico di studiata arroganza. «Ma in due è più semplice,» ammise poi con la sua solita aria furbetta.
Rimase brevemente in silenzio con lo sguardo fisso sul tavolino, frastornato da ciò che stava succedendo e sconcertato dal fatto che, per una volta, a confonderlo fossero tutte emozioni positive. Tornò a guardarla e si trovò ad affondare in quell'azzurro ravvivato da una traccia del calore che ricordava; lei ricambiò riflettendo il suo stesso sguardo, quello di qualcuno che ha finalmente ritrovato qualcosa di caro dopo tanto tempo. Nessuno dei due sembrava intenzionato a rompere quell'esile vincolo tra le loro mani.
«Qualche tempo fa mi ha detto che avevo chiesto "scusa" troppo tardi per essere preso sul serio,» esordì lui dopo un po', catturando di nuovo la sua attenzione.
Era sicuro che ricordasse in che occasione gliel'aveva detto, e una parte di sé sperava che ricordasse anche tutto ciò che le aveva detto lui, temendolo allo stesso tempo. Realizzò che poteva comunque intuirlo facilmente dal modo in cui la stava guardando: per lei non era mai stato difficile intuire i suoi pensieri.
«Adesso sono fuori tempo massimo. Perciò lascerò semplicemente parlare i fatti. Vorrei che fosse lei a decidere quando e se le avrò davvero chiesto scusa.»
Pepper schiuse appena le labbra, presa in contropiede e in cerca di una replica adeguata, per poi optare per un silenzio interrotto da un lieve cenno del capo, a significare che accettava quell'idea.
«E quando vorrà, la mia porta è sempre aperta,» aggiunse lui con lieve titubanza, e lei parve improvvisamente in difficoltà. «Dovrà pur controllare i miei, uh... progressi ogni tanto, no? Lo sa che sono un lavativo,» si difese ironico, voltando appena la testa con fare nervoso, echiedendosi se si fosse spinto troppo oltre.
«Ogni tanto,» replicò lei, con riserbo.
Tony si rabbuiò appena, ma almeno non era un "no".
«Dica la verità, almeno la villa le è mancata,» insinuò poi per trarsi s'impaccio, e seppe di aver fatto centro dal modo in cui lei abbassò imbarazzata gli occhi.
«Un po',» ammise cautamente. «Vorrei solo lasciarle i suoi spazi,» aggiunse a mo' di spiegazione.
Tony rifletté brevemente sulla cosa, poi le strinse appena la mano con quella sana, come a rafforzare ciò che stava per dire:
«I miei spazi sono vuoti, e persino io non riesco a riempirli da solo. E non ho nessuno se non lei.» 
Fece la stessa, buffa faccia che aveva fatto molto tempo prima, quando le aveva detto per la prima volta quelle esatte parole, con un brillio vivace negli occhi e un sorriso sghembo. Come allora, Pepper sentì accendersi quella che pareva una flebile fiammella nel suo petto, tiepida e rassicurante.
Si rendeva conto che in realtà non avevano ancora risolto nulla: tutto ciò che li opprimeva si era semplicemente allontanato un po' dalle loro teste e continuava a incombere minaccioso come una nube temporalesca, tenuta a bada solo dalla volontà di entrambi di rimanere nell'occhio del ciclone, in quella tregua che erano riusciti a conquistarsi dopo un'attesa così lunga.
Adesso però avevano finalmente il tempo per lavorare insieme e arrivare a firmare una pace definitiva e duratura.
Ricambiò la stretta delle sue mani con delicata fermezza.
Quello poteva essere il primo passo.




____________________________________________________________________________________

Note Dell'Autrice:

Oh-oh-oh, guardate chi è arrivato in anticipo? Esatto, il fluff! (e pure l'aggiornamento, perché grazie ai graditissimi scioperi dei docenti ho avuto una pausa anticipata limortacciloro vepossino <3)
Ok, questo capitolo è un mattone dialogato, la fine sprizza melenso ovunque, l'ho riscritto trentasette volte e se non l'avessi pubblicato adesso avrei continuato a rimaneggiarlo peggiorandolo esponenzialmente.

Le uniche novità sono che 1) SI' sono arrivati i mirabolanti attacchi di panico di Tony, anche se in forma ancora piuttosto "blanda". Dopotutto non è passato per un portale alieno, ma ha comunque visto la morte in faccia e ho immaginato che questo avesse delle ripercussioni; 2) Finalmente scopriamo cosa ha tormentato Pepper per la bellezza di 37 capitoli. Vorrei solo precisare che si sente in colpa per tutta la situazione che si è venuta a creare al settore 16: l'aver premuto il pulsante è solo la punta dell'iceberg e ciò che la turba di più a livello conscio. 3) La solidarietà maschile va allegramente a cortigiane :D

Ringrazio immensamente _Atlas_, 50shadesofLOTS e Emyclarinet che hanno recensito lo scorso capitolo e Sherlock_Watson, lettrice storica di Phoenix che è tornata del tutto inaspettatamente e sta recuperando gli aggiornamenti *-* grazie del commento, è stata una sorpresa bellissima <3

Per il capitolo successivo me la prenderò con un po' più di calma, perché sto finendo quelli pronti e tutto sommato i prossimi 3 sono delle bombe a idrogeno per quantità di contenuti, quindi ve li lascerò digerire più a lungo.
Arrivata a questo punto mi sento di annunciare che, salvo modifiche drastiche, mancano esattamente 10 capitoli alla conclusione *stappa già lo spumante*, quindi posso pronosticare con relativa certezza che entro settembre, al più presto, o dicembre, al più tardi, a Phoenix verrà apposta la meritata parola "fine".
Detto ciò, mi eclisso sperando che il capitolo vi sia piaciuto e ringraziando chiunque passerà da queste parti, leggerà e deciderà di lasciare un commento, una recensione o uno sberleffo :P
Nasvidenje,

-Light-


P.S. @Atlas, ora sai cosa non volevo spoilerarti nell'ultima risposta riguardo ai giudizi e alla comprensione nei confronti di Tony, e sai anche che ti ho mentito sul fluff :P
P.P.S. Godetevi 'sta Under Pressure in sottofondo, come non me la sono goduta io ascoltandola quasi a loop durante la stesura. E la stesura è durata 4 mesi.




© Marvel

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Capitolo 39
*** Smoke and mirrors ***



38


Smoke and mirrors




"Labyrinths are rapidly moving
With a pulse that I cannot predict
I wanna breathe, I wanna see the sun
Come out with me
I'm lost, I'm lost, I'm lost"

[In The Reign Of Flies – About Wayne]




1° Agosto, Villa Stark

Il caldo soffocante abbattutosi sulla costa californiana era mitigato solo dalla brezza marina che a volte concedeva la grazia di attraversare le stanze di Villa Stark.
Persino Pepper aveva infine ceduto all'afa. Quel giorno, non avendo riunioni alle Industries, aveva abbandonato i suoi completi formali ripiegando su un vestito estivo e leggero a fitti fiorellini su fondo scuro, senza per questo perdere un solo briciolo di professionalità mentre lavorava in salone, coi capelli ramati raccolti sulla nuca in un ordinato chignon.
Tony aveva optato per un approccio molto più disinibito, come poté constatare la donna quando lo vide sbucare dall'ascensore con addosso unicamente un paio di boxer e una canotta, a piedi nudi e con un ventilatore portatile sparato sul volto grondante. Lei non si mostrò minimamente turbata dalla sua mancanza di pudore: l'aveva visto in tenute decisamente peggiori e in atteggiamenti molto più sconvenienti, e in un certo senso la sua spigliatezza in quel senso era un fattore rassicurante. Notò comunque che aveva celato la giunzione tra protesi e gamba con una garza.
«Si risparmi i commenti, signorina Potts, è un'emergenza,» la anticipò, con un gesto spossato della mano che impugnava il bastone da passeggio.
«Si è tagliato i capelli?» osservò invece lei, notando che la sua massa di folte ciocche castane era notevolmente diminuita rispetto a qualche giorno prima, senza però alterare il solito ciuffo ribelle sulla fronte.
«Misure drastiche contro il surriscaldamento,» rispose lui un po' sconnesso, tuffando poi la testa nel minibar alla disperata ricerca di qualcosa di fresco. «E comunque era ora: ancora un paio di settimane e mi sarei potuto infiltrare a Woodstock nel '69,» aggiunse, in un blando tentativo d'ironia smorzato dall'insofferenza per quel caldo atroce che non si curava di mascherare.
Era stata una settimana torrida, con picchi di oltre quaranta gradi che avevano fiaccato Pepper e soprattutto Tony, che quell'estate stava dimostrando un'anomala avversione per il caldo, quando normalmente era ben felice di arrostirsi al sole. Probabilmente avere del metallo attaccato al corpo non aiutava la sua resistenza al calore. Aveva risolto il problema chiudendosi a tempo indeterminato nel laboratorio, godendosi l'aria condizionata che lei aborriva e finendo per dormire quasi sempre sul divanetto là sotto, sostenendo che facesse comunque più fresco che in camera sua. Pepper aveva notato che si sforzava comunque di riemergere a intervalli regolari almeno quando lei era lì, forse per non darle l'impressione di essere ricaduto nei ritmi sonno-veglia deleteri di sei mesi prima.
Lei di contro si imponeva di passare alla villa tre, al massimo quattro volte a settimana, e solo per sbrigare il lavoro d'ufficio che poteva richiedere l'attenzione diretta di Tony. L'uomo si era mostrato dispiaciuto per la sua scelta, ma dopo averle offerto un paio di volte di trasferirsi di nuovo da lui "per comodità", incontrando un suo netto rifiuto, aveva desistito senza più farne parola. Si era dimostrato insolitamente accomodante in quel mese, mantenendo le dovute distanze da lei ma cercando la sua compagnia quando ne aveva l'occasione, dando a volte spazio alla sua classica ironia impertinente. Spesso, mentre lavorava in salotto, Tony appariva dal nulla e sprofondava nella sua poltrona a pochi metri da lei con gli auricolari nelle orecchie. Poi apriva svariati ologrammi e prendeva a far ordine tra le decine di cartelle virtuali dei suoi progetti, che da qualche tempo avevano ricominciato a includere schemi e bozzetti per Iron Man. Se ne stava lì in silenzio per una decina di minuti, assorto nelle sue elucubrazioni mentre spiluccava quantità deleterie di snack ipercalorici. Poi si alzava, le rivolgeva un sorrisetto un po' esitante e se ne tornava in laboratorio con aria soddisfatta.
Pepper aveva apprezzato quella sua sorprendente discretezza, capendo che in realtà era lei quella ad aver bisogno dei "propri spazi", almeno per il momento. Tony sembrava deciso a rispettare quella sua necessità: in ogni suo gesto coglieva una sorta di premura nei suoi confronti, e spesso nel guardarla lasciava trapelare un'espressione meravigliata, come se non riuscisse ancora a capacitarsi del tutto della sua presenza lì. Lei stessa faceva fatica a realizzare di essere tornata dopo una così lunga assenza. A volte si chiedeva se non avrebbe fatto meglio ad andarsene di nuovo, poi si ricordava del momento in cui, solo pochi attimi prima di vedere il suo mondo e Tony infrangersi dinanzi ai suoi occhi, aveva deciso di restare. La sua prima scelta era sempre stata quella, doveva solo riuscire a conviverci. Così era rimasta, e Tony in un certo senso stava cercando di fare lo stesso, sforzandosi di tener fede ai suoi buoni propositi.
La situazione che si era venuta a creare non era certo ottimale, e lasciava spazio a molti momenti d'imbarazzo dettati da troppi sospesi, ma la considerava un miglioramento rispetto a quella logorante e tesa in cui si erano trovati a navigare in precedenza. Soprattutto, e quella era un vera boccata d'ossigeno, Tony non sembrava più costantemente sull'orlo di un collasso nervoso ed evitava di trascinarvi anche lei. La sua riacquistata mobilità aveva fatto miracoli sul suo umore. Saperlo così sereno era una piccola conquista anche per lei, nonostante non gli avesse ancora mai dimostrato in modo esplicito la gioia che provava ogni volta che lo vedeva camminare, con inalterata scioltezza e un cipiglio autoironico verso la sua buffa andatura col bastone. Aveva ancora le sue fasi di abbattimento in cui non spiccicava più di una decina di parole nel corso della giornata, irritato da qualche inconveniente tecnico o dalle sue stesse protesi, ma erano più rare e meno intense, forse mitigate anche dal fatto di non essere sempre solo alla villa. E forse, al contrario, anche per poter godere più spesso di un'autonoma solitudine che gli era stata impossibile in precedenza.
«Sto veramente cominciando a invidiare i settant'anni di letargo tra i ghiacci del nonnetto!» la sua voce esasperata si levò dai meandri del frigorifero, portandole un guizzo divertito sul volto.
Quando si ritrovava a vivere quei momenti di assoluta normalità, con le battutine di Tony in sottofondo, i plichi di documenti accatastati sul mobiletto accanto al divano su cui aveva lavorato per quasi dieci anni, lo sfondo perenne del Pacifico alle spalle e il senso di familiarità immutato che le trasmetteva la villa, si sentiva davvero a casa e riusciva a mettere da parte tutte le angosce e i timori che la assillavano. Osservò Tony, che le dava le spalle poggiato mollemente a uno dei sedili del piano-bar mentre sorseggiava con sollievo quella che sembrava clorofilla ghiacciata, e si trovò a sorridere appena. Il sorriso s'incrinò quando l'uomo si voltò verso di lei, rivelando la fredda luminescenza azzurrina in mezzo al suo petto. 
Poi c'erano quei singoli fotogrammi che infrangevano la sua serenità e la catapultavano di nuovo di fronte a lui esanime, riverso per terra e senza quel dannato reattore che...
Riabbassò di colpo lo sguardo, interrompendo il flusso dei suoi pensieri. Colse fuggevolmente la perplessità di Tony, che però non si arrischiò a indagare.
«Giuro che ricostruisco l'armatura solo per emigrare in Antartide,» disse invece, con una mano a stringersi i capelli per scollarli dalla fronte sudata.
«Il governo ne sarà contento,» replicò Pepper senza alcuna inflessione particolare, gli occhi fissi su un contratto che non stava realmente leggendo.
Tony emise un verso di scherno, spalmandosi infine sul bancone di marmo con un lamento sconsolato, il bicchiere gelato premuto sulla nuca e il ventilatore puntato contro in cerca di refrigerio. Nel captare il suo respiro affannato Pepper alzò lo sguardo, lievemente accigliata.
«Signor Stark, non fa così caldo,» osservò, con tutto il tatto che le riuscì.
«Parli per sé. Se non temessi di turbarla, andrei in giro nudo,» bofonchiò lui.
«Eviti, la prego,» sospirò lei. «È sicuro di sentirsi bene?» chiese poi, con un'impercettibile titubanza.
«In generale, sto a pezzi e mi si stanno squagliando le protesi. Nello specifico, ho mal di testa. Sarà l'insonnia,» replicò lui monocorde.
Pepper decise di non indagare su quell'ultima affermazione. Aveva intuito che avesse difficoltà a dormire nonostante lei stessa non avesse più pernottato alla villa: l'aveva sorpreso svariate volte ad assopirsi nei momenti e nei luoghi più impensati, per poi destarsi di scatto da sogni chiaramente inquieti.
Si trovò comunque ad apprezzare la sua insolita seppur stentata sincerità. Sembrava aver preso molto a cuore il discorso sulla fiducia. Pepper era consapevole che anche il semplice atto di non mentire a prescindere sul suo stato di salute era un enorme passo avanti, visti i suoi standard. Ciò non serviva però a dissipare tutti gli altri dubbi e interrogativi che emergevano ogni volta che lo guardava e che, immaginava, coincidevano almeno in parte con quelli che assillavano lui. Per quelli ci sarebbe voluto ancora molto del tempo che avevano entrambi tacitamente deciso di concedersi, ma voleva credere che avessero imboccato la strada giusta, dovunque li avrebbe portati.
Tony si riscosse, strappandosi con chiara riluttanza dal bancone fresco; tracannò il resto del bicchiere, rischiando probabilmente una congestione, e zoppicò poi verso l'ascensore rivolgendole un sorriso un po' fiacco:
«Tra un paio d'ore arriva K. Gli dica di scendere nella "cella frigorifera": non ho alcuna intenzione di schiodarmi da là sotto finché non cala il sole,» annunciò, con un ultimo gesto eloquente al salone arroventato dalle vetrate.


***


Non appena le porte si chiusero, Tony si accasciò contro la parete di fondo dell'ascensore con il ventilatore puntato in faccia, annaspando nell'aria claustrofobica e pesante. La situazione gli riportò alla mente ricordi poco piacevoli e si assicurò con un vuoto allo stomaco che il reattore fosse ancora ben saldo al suo posto.
«JARVIS, non hai qualche suggerimento per questo schifo?» sbottò non appena messo piede in laboratorio, liberandosi finalmente della canotta fradicia e gettandola con ribrezzo sul divano, sentendo la pelle madida di sudore.
«A parte degli impacchi freddi o un bagno in mare, no, signore. E le sconsiglio di abbassare ulteriormente l'aria condizionata, se non vuole rischiare un colpo di freddo.»
Lui sospirò, guardando con un senso di nausea la saldatrice sul banco di lavoro e inorridendo alla sola idea di avvicinarsi a qualcosa di caldo. Per fortuna la temperatura glaciale del laboratorio iniziava a mitigare l'impressione che il suo cervello stesse bollendo a fuoco lento nella scatola cranica. Recuperò la borsa del ghiaccio e se la spalmò sul volto per accelerare il processo di raffreddamento e lenire l'emicrania.
Sprofondò nella sua sedia, imprecando a mezza voce contro quell'ennesima seccatura. A quanto pareva, l'intossicazione da palladio aveva sballato il suo termostato naturale, convincendo il suo corpo di trovarsi nel Sahara col sole a picco. Almeno, questa era la spiegazione che si era dato negli ultimi giorni, quando il semplice fastidio per quell'ondata di caldo improvvisa si era tramutato in un'insofferenza quasi patologica, che gli faceva rimpiangere seriamente la sua scarpinata nel deserto afghano.
Premette alla cieca l'indice sull'ago del rilevatore di tossicità poggiato sul tavolo e scostò appena la borsa dall'occhio per sbirciare il risultato: 19%. Si cacciò il dito in bocca per fermare il rivolo di sangue e lasciò vagare svogliato lo sguardo per il laboratorio, prima di rassegnarsi a guardare la fonte dei suoi problemi: il reattore spiccava in mezzo al suo petto attraversato da vene scure, ormai impossibili da ignorare. Erano l'unico motivo per cui aveva evitato accuratamente la spiaggia e la piscina, temendo di essere sorpreso a torso nudo da Pepper. Dubitava che la scusa di un "tatuaggio all'avanguardia" avrebbe retto quanto quella già traballante delle protesi "non ancora a tenuta stagna" con cui aveva giustificato la sua riluttanza a nuotare nonostante il caldo.
Sospirò ed ebbe l'improvvisa tentazione di rimettersi la maglietta, così da celare quella ragnatela venefica, ma così avrebbe rischiato un colpo di calore.
Lanciò di malagrazia la borsa del ghiaccio sul bancone, concentrandosi sul nuovo progetto quasi ultimato e sbattendo con forza la porta in faccia a quelle preoccupazioni moleste. Scacciò ogni schermata superflua dal banco di lavoro, poi selezionò da una playlist un brano a caso che sperò fosse abbastanza chiassoso, alzando il volume al massimo quando venne piacevolmente assordato da Innuendo. Infine impostò JARVIS in modalità silenziosa per evitare commenti non richiesti: aveva bisogno di qualcosa che gli anestetizzasse la testa, e non era dell'umore giusto per sentirsi ricordare che non c'erano alternative al palladio.


***


Pepper rilesse dubbiosa l'intestazione del contratto e ricominciò a scriverla da capo per la quinta volta. L'incerto ticchettio delle sue dita sulla tastiera si arrestò nuovamente e si ritrovò a fissare le poche parole che aveva appena digitato con un piglio insoddisfatto. Chiuse con un gesto secco il portatile, lasciando infine spaziare gli occhi affaticati dallo schermo sul salone vuoto.
Si sentiva tremendamente deconcentrata, e non era per i bassi smorzati di una qualche canzone rock che provenivano dal piano di sotto. A quello era ormai abituata; anzi, era rassicurante tornare a sentire la musica molesta di Tony dopo il silenzio tombale che aveva regnato alla villa nei mesi precedenti alla sua partenza. Non era neanche colpa del caldo, che a dispetto delle sceneggiate del suo capo era abbastanza sopportabile. Fissò la risma di scartoffie accanto a lei senza realmente vederle, mordicchiandosi sovrappensiero le labbra e sapendo in cuor suo che per quel giorno non avrebbe più concluso nulla finché fosse rimasta alla villa. Avrebbe dovuto radunare le sue cose e spostarsi nel suo ufficio alle Industries: magari là avrebbe ritrovato la concentrazione, anche se a fatica. Rimase invece sul divano, in una posizione leggermente più scomposta rispetto ai suoi standard di solito impeccabili. Si sentiva intorpidita per via dell'afa e tuttavia inquieta, soprattutto quando il suo sguardo si posava sulla cascata in cima alla rampa di scale che conduceva al laboratorio.
Le sue labbra si incresparono involontariamente e si costrinse ad alzarsi per evitare di soffermarsi su ricordi ancora freschi e pronti a riemergere. Salì sulla piattaforma rialzata un tempo occupata dal pianoforte, accostandosi al bancone al quale poco prima si era seduto Tony, con l'intenzione di bere a sua volta qualcosa di fresco – doveva ammettere che anche lei iniziava ad accusare il caldo, e forse avrebbe dovuto smorzare il suo astio per l'aria condizionata. L'enorme bicchiere di aranciata aspra e gelida l'aiutò a scacciare la calura, ma non le sue riflessioni invadenti.
Come le era successo regolarmente nel corso di quelle ultime settimane, nella sua testa continuava a ripetersi in modo quasi ossessivo la discussione avuta con Tony sull'Helicarrier. Lasciò che quel film si dipanasse per la centesima volta davanti ai suoi occhi e nelle sue orecchie, sapendo ormai che era inutile tentare di ignorarlo o spegnerlo: sarebbe solo tornato più tardi, più vivido e invadente, come a ricordarle che ignorare i problemi era sbagliato. Le sue mani si contrassero appena attorno al bicchiere freddo e appannato dalla condensa.
Era sempre stata convinta di conoscere Tony meglio di chiunque altro, inclusi i numerosi atteggiamenti indecifrabili a un occhio meno allenato del suo, ma si era necessariamente dovuta ricredere. Quel suo lato che aveva avuto modo di scoprire nei mesi precedenti la destabilizzava più di quanto volesse e potesse ammettere. Era come se fosse infine riuscita a scorgere la ragnatela di crepe che solcava la sua facciata apparentemente impenetrabile, rafforzata in passato anche dalla corazza artificiale che si era costruito. Quando poi in un sol colpo gli erano venute a mancare tutte le difese che aveva eretto nel corso degli anni, era stato chiaro come lui non fosse stato pronto ad abbandonarle, così come lei a vederle crollare. Era cosciente del fatto che Tony si fosse sempre fidato a tal punto di lei da abbassare di tanto in tanto quelle protezioni, forse persino in modo inconsapevole; ma era anche certa che non avrebbe mai voluto che lei vedesse così apertamente quella fragilità. Era altrettanto sicura che quel senso di profonda umiliazione che si trascinava dietro dal giorno dell'incidente fosse solo una delle tante cause che gli avevano avvelenato la mente inducendolo a compiere un gesto così sconsiderato come il suicidio.
Avvertì un fremito d'inquietudine al solo ricordo e strinse con più forza il bicchiere ora vuoto.
Eppure era comunque riuscito a rialzarsi, e stavolta non aveva avuto bisogno di lei. L'aveva cercata di sua spontanea iniziativa in modo quasi improvvisato, non perché non avesse altra scelta. Tutto ciò che le aveva detto non sembrava far parte di un discorso preparato, anzi: forse per una volta era stato davvero Tony a parlare, non la sua maschera. Ciò la confortava, soprattutto nel sapere che non la riteneva responsabile per l'incidente, anche se lo spettro del senso di colpa continuava a pungolarla con disturbante insistenza e a farle notare che, nonostante Tony fosse profondamente convinto di ciò che diceva, non poteva esserne del tutto certo finché non avesse ricordato i fatti di quel giorno ormai lontano.
La sua sincerità era l'unico motivo che l'aveva spinta a non rifiutare la sua richiesta di chiarimenti e a non chiudere definitivamente una porta che forse non avrebbe mai neanche dovuto aprire; era anche l'unica certezza a cui continuava ad aggrapparsi ogni volta che veniva assalita da dubbi e immagini che minacciavano di farla desistere dalle sue decisioni.
Ripensare a ciò che le aveva detto nel corso della loro surreale chiacchierata e a come si erano rapportati era un altro modo per vincere quei dubbi. O per dare il via libera ad altri, meno tetri ma altrettanto confusi, che la riportavano inevitabilmente a quella notte di molti mesi prima, a quel suo sguardo sofferente, a quel "sei bellissima" inaspettato, del tutto fuori luogo, ma indubbiamente sentito che le aveva rivolto. Soffermandosi sul modo in cui Tony l'aveva guardata mentre parlavano sull'Helicarrier, quelle poche volte in cui era riuscito a farlo senza vacillare, le era parso di percepire l'eco di quelle parole, assieme a quella di molte altre che erano rimaste inespresse, ma che erano trapelate inevitabilmente dal suo sguardo. Non sembrava più alla disperata ricerca di un appiglio a cui ancorarsi mentre annaspava per non andare alla deriva; non era neanche quello sguardo cupo che sembrava inghiottire ogni colore dai suoi occhi. In quel momento aveva visto in lui solo una nuova determinazione, come se adesso sapesse perfettamente cosa stesse cercando e dove trovarlo, anche se si avvertiva quanto fosse dispiaciuto per tutto ciò che aveva fatto a lei e a se stesso.
Ma Tony era di nuovo , in quell'iride vivace di un caldo color nocciola che, pur priva della sua gemella, era tornata ad ammorbidire le ombre aguzze che solcavano il suo volto provato. Solo nel ritrovare quella tonalità così familiare Pepper si era resa conto di quanto le fosse mancata e di quanto avesse bisogno di continuare a vederla e di vederlo stare bene. E anche se lui continuava a sfuggire il suo sguardo, era finalmente riuscita a scorgere una discreta ma sincera richiesta da parte sua, invece del deciso rifiuto che le aveva riservato nei mesi precedenti. Era riuscito ad aprirsi un poco, nel suo modo indiretto e in un certo senso impacciato, pieno di occhiate significative e sottile ironia che lasciava intendere tutto ciò che non riusciva o non voleva dire esplicitamente.
I suoi occhi si posarono sulle scale che conducevano al laboratorio.
A volte avrebbe solo voluto scenderle, abbracciarlo e fargli capire che non era l'unico a voler riallacciare quei legami spezzati, costruendone forse di nuovi, ma si trovava puntualmente paralizzata in cima alla rampa, col cuore che prendeva a batterle più profondamente e con sforzo, quasi volesse implodere non appena avesse osato scendere il primo gradino. Lì sotto si annidava ancora una buona parte di tutte le sue paure, e Tony ne incarnava suo malgrado il resto. Lui aveva captato quel suo blocco, che forse aveva dovuto superare prima di lei: quando voleva dirle qualcosa era lui a salire, e le aveva detto con la sua solita nonchalance di chiamarlo quando aveva bisogno delle sue firme, spacciandolo per un gesto da gentiluomo per risparmiarle le scale. Non aveva aggiunto altro, ma Pepper aveva notato come avesse puntato lo sguardo appena sotto i suoi occhi mentre parlava e di come si fosse trattenuto a più riprese dal posare una mano sul reattore. Quel suo tic nervoso era sicuramente disturbante, ma era anche una chiara esternazione di quanto lui stesso fosse tormentato dal pensiero di essersi quasi ucciso, anche se per fortuna non aveva avuto altri attacchi d'ansia. Non avevano più parlato esplicitamente di quell'argomento, ma sembrava che quel silenzio assenso fosse la cosa migliore per entrambi, per ora.
Lei dubitava che sarebbe mai riuscita a perdonargli del tutto quel gesto egoista e insensato, né a comprenderlo appieno, ma sapeva che il suo rancore per lui derivava soprattutto dall'immensa paura che aveva provato al pensiero di perderlo. Si rendeva conto degli sforzi che Tony stava facendo per rimettere in sesto la propria vita e per renderla di nuovo stabile. Il fatto che avesse esternato di volerla di nuovo accanto a sé a costo di ammettere i propri errori e mostrarsi vulnerabile le aveva dato un'idea di quanto lui ritenesse fondamentale includerla in quella stabilità. E di quanto lei avesse ancora paura di farne parte. Ma, si rammentò ancora, era tornata per restare.
«Signorina Potts, il signor Andrews è arrivato,» annunciò JARVIS, facendola trasalire appena.
Abbandonò subito lo sgabello sentendosi più leggera, sia per quella interruzione più che gradita, sia per non essersi sottratta ai suoi pensieri ed averli fronteggiati senza cedere di un passo nelle sue convinzioni. S'inoltrò nell'atrio per accogliere Kyle con passo deciso e la sua solita, elegante compostezza, stemperata da un lieve sorriso nel momento in cui vide l'avvocato fare il suo ingresso alla villa. Il volto del ragazzo si aprì in un'espressione di pura sorpresa nel riconoscerla.
«Virginia!» esclamò, sospingendosi con brio verso di lei.
Pepper si chinò per stringerlo in un breve abbraccio, che fu energicamente ricambiato. Kyle era rimasto gioviale come lo ricordava, col volto costantemente rallegrato da un accenno di sorriso un po' furbetto e gli occhi verdi e vivaci incorniciati dalla montatura scura degli occhiali.
«Non pensavo di trovarti qui,» osservò lui, con la consueta schiettezza.
Pepper si accigliò appena, ma non si lasciò turbare più di tanto:
«To–...» esitò per poi correggersi, «Il signor Stark non ti ha detto nulla?» chiese candidamente, pensando poi tra sé che la cosa non era poi così strana.
«Non una parola.» Kyle alzò appena le spalle, ignorando con tatto il suo tentennamento. «Insolito, da parte sua. È così riservato...» commentò, alleggerendo il discorso.
«Il signor Stark sa essere molto riservato... a modo suo e per le questioni sbagliate,» ribatté Pepper con un lieve sospiro, facendogli nel frattempo strada in salone. «Ti offro qualcosa?» aggiunse, prima di scivolare in argomenti spiacevoli.
«No, grazie Virginia. Vado direttamente dal disastro ambulante per capire cosa vuole.»
«Ti ha convocato lui?»
Pepper rimase di sasso, allarmata da quell'insolita volontà da parte di Tony di tuffarsi in discussioni legali.
«Mi sto preparando mentalmente da stamattina,» si limitò a rispondere lui, condividendo il suo fatalismo e scuotendo appena la testa. «Ti avverto in caso di un codice rosso, ma non credo sia il caso di preoccuparsi,» aggiunse, rivolgendole un sorriso incoraggiante.
«Lo spero,» quella considerazione le sfuggì.
Incrociò poi le braccia con fare nervoso, contraendo involontariamente le dita in una stretta più rigida del normale. Sapeva che la sua improvvisa tensione non era sfuggita allo sguardo acuto di Kyle, che infatti ruppe di nuovo il silenzio:
«Tu come stai?» chiese, in tono cordiale ma sinceramente interessato, oltre che colmo di molti sottintesi e domande secondarie che non erano difficili da intuire.
Lei esitò, prendendo in considerazione l'idea di mentire, ma si rimproverò subito per quel pensiero, e si chiese perché ultimamente il suo primo istinto fosse sempre quello. Il fatto di non riuscire a darsi una chiara risposta la rese solo più inquieta. Si affrettò a chiamare l'ascensore per mascherare la propria confusione.
«È piacevole essere di nuovo qui,» cedette infine senza incrociare il suo sguardo, quasi precipitosamente.
Captò di sottecchi il sorriso che si aprì sul volto del ragazzo, come se quell'affermazione gli avesse appena rallegrato in modo definitivo la giornata.
«Ma è... difficile. Più di quanto lo fosse prima, in realtà,» confessò poi a mezza voce, e si sentì un po' in colpa nel pronunciare quelle parole, sapendo che avrebbero demolito il suo entusiasmo.
L'ascensore arrivò con un trillo, segnando la fine della discussione. Prima di salire, Kyle le rivolse ancora un'occhiata, senza aver perso un briciolo del suo buonumore:
«Te lo dico da esperto del settore: le cose difficili alla fine ripagano sempre più di quelle facili,» asserì convinto, per poi alzare le spalle con ovvietà ed entrare nell'ascensore. «Ma questo lo sai già, altrimenti non saresti qui. No?» aggiunse, facendole l'occhiolino e lasciandola di stucco.
Lei non poté arginare il rossore che le imporporò le guance, e portò una mano alle labbra per celare il sorriso imbarazzato che avrebbe confermato quelle parole.


***


Tony stava studiando con aria decisamente insoddisfatta il progetto per nuovi propulsori della Mark IV che fluttuava davanti a lui, battendo la punta del piede a ritmo con Born To Be Wild, quando la spia dell'ascensore in arrivo si accese su un monitor, distogliendolo dai suoi calcoli. Si gettò uno sguardo alle spalle e adocchiò Kyle che faceva il suo ingresso nel laboratorio, quindi afferrò la schermata olografica e la cestinò in toto senza troppi rimpianti, abbassando poi la musica a un tenue sottofondo.
«Ehi, K!» lo salutò, alzandosi con pesantezza dalla sedia e sventolando l'orlo della canotta viola dei Lakers per farsi aria.
Si era rivestito quel tanto che bastava per celare il reticolo bluastro sul suo petto e i punti di giunzione delle protesi, ma anche la leggera e atipica tenuta da basket metteva a dura prova la sua resistenza al calore. Kyle ricambiò con un rigido cenno della mano e un sorrisetto stentato, evidentemente sotto shock per la temperatura glaciale della stanza. Tony decise di poter alzare il termostato di un paio di gradi per evitargli l'ipotermia, e si accostò nel frattempo al banco di lavoro iniziando a liberarlo dalla miriade di attrezzi, prototipi e appunti che lo occupavano.
«Forse devo installare un turbo a quel tuo trabiccolo. Non è da te farsi aspettare,» lo prese in giro, prima che potesse porre domande scomode sul microclima artico che regnava nel laboratorio.
«Mi stavo improvvisando consulente di coppia,» ribatté con prontezza lui.
Tony lo fissò perplesso per un istante, poi capì l'allusione e sbuffò seccamente. Scansò da parte un cumulo di scarti metallici con il bastone in un gesto irritato, facendone cadere alcuni per terra.
«Tu e il Doc dovete piantarla di complottare alle nostre... alle mie spalle,» si corresse in fretta.
«Poi ci ringrazierai,» cinguettò Kyle.
«K, oggi ero partito con le migliori intenzioni, ma ti giuro...» sollevò eloquentemente un paio di pinze dall'aria letale, facendo il gesto di lanciargliele contro.
«Dài, non agitarti: ti fa male al cuore,» lo interruppe lui con vivacità, avvicinandosi a lui del tutto incurante della sua minaccia.
Tony abbassò l'arma improvvisata, preso in contropiede da quell'estrema leggerezza. Scosse appena la testa, cedendo a un sorrisetto; si convinse infine ad accettare l'ironia dell'amico invece di prenderla dal verso sbagliato.
«Non rubare il lavoro al Doc, lo sai che è permaloso,» commentò a mezza voce, dandosi una leggera pacca sul reattore a rimarcare il fatto che il suo cuore stava benissimo.
Si appoggiò mollemente al tavolo e incrociò le braccia, facendo per cambiare discorso, ma Kyle lo anticipò:
«Non credo che Ian abbia molto da fare, ultimamente. Ti trovo in forma.»
Stavolta Tony sfoggiò un sogghigno appagato. Ora che ci pensava, quando si erano incontrati per il processo era ancora debilitato dalla sua gita in spiaggia e impossibilitato a camminare. Per lui doveva essere una sorpresa vederlo muoversi così facilmente, anche se in realtà si sentiva ancora molto impacciato. Era memore delle parole che Kyle gli aveva rivolto durante la riabilitazione, e sapeva che anche ora era sicuramente felice per lui. Sentì una bolla d'orgoglio gonfiarsi nel proprio petto: era passato molto tempo dall'ultima volta in cui aveva suscitato l'ammirazione di qualcuno. Voleva solo bearsi di quel senso di pienezza che lo pervadeva nel realizzare di essere di nuovo in grado di riuscirci.
«Diciamo che sono in una fase per lo più positiva,» disse, roteando il bastone da passeggio con una mossa teatrale. «C'è qualche problemuccio qua e là, ma nulla di irrisolvibile,» aggiunse, con una noncuranza un po' forzata.
«Che intendi?»
«Beh, le protesi sono in stallo: al momento non posso migliorarle più di così.» Alzò le spalle, a significare che non se ne faceva un cruccio, per poi aprirsi in un sorrisetto enigmatico. «Per questo mi sono dedicato a te.» 
Lo indicò a sorpresa con il bastone e vide i suoi occhi sgranarsi appena, meravigliati. Ridacchiò nel vedere la sua reazione e si staccò dal banco per sedersi sulla sua sedia e scivolare accanto a lui, aprendo a colpo sicuro un paio di schermate a mezz'aria.
«Che c'è? Pensavi che ti avessi chiamato per discutere di noiosi tafferugli legali?» lo prese in giro, vedendolo ancora senza parole mentre seguiva rapito ogni suo gesto.
«Mi aspettavo che non fosse per quello,» rispose dopo un po', mascherando la sua palese euforia e riuscendo a malapena a non agitarsi sulla sua sedia.
«Ma non ti aspettavi che fosse per questo,» lo rimbeccò lui, gongolando compiaciuto; Kyle non trovò di che ribattere e abbassò lo sguardo, puntandolo sulle proprie mani.
Tony allargò una schermata cripticamente denominata "Progetto Ph.01 X-K", su cui campeggiavano tre cartelle del tutto anonime e oscurate; giunse le dita davanti a sé, prendendosi un momento per costruire un po' di sana suspense.
«Dunque, ti ricordi il nostro "piano A", giusto?» esordì Tony, aprendo con un tocco la prima cartella e ingrandendo un'immagine.
«Il reattore spinale,» annuì Kyle, con prontezza, sfregandosi il naso.
«Allora c'è qualcuno che mi ascolta!» Tony alzò con finto stupore le sopracciglia, per poi tornare a concentrarsi sul progetto sospeso davanti a loro. «Comunque, sarei un grande fan del piano A...» incrociò le braccia, assumendo un'espressione critica.
«Ma...?» lo spronò Kyle.
Tony scrollò le spalle, indeciso su come formulare la sua spiegazione senza scoprirsi troppo. Il suo sorriso si affievolì appena.
«Ma comporta dei rischi non indifferenti.» 
Tamburellò sul reattore con fare assorto, senza neanche cercare di impedirsi quel gesto rassicurante.
«Pensavo che il rischio più grosso fosse un flop
«Il palladio è tossico,» disse d'un fiato Tony, impegnandosi al massimo per mantenere lo sguardo puntato sull'ologramma. «Il reattore verrà impiantato nel tuo midollo spinale e non so che conseguenze potrebbe avere a lungo termine,» spiegò il più concisamente possibile e cercando di non fornire alcun appiglio per eventuali sospetti.
Kyle rimase in silenzio per qualche secondo, assorbendo l'informazione.
«Hai riscontrato effetti collaterali?» chiese poi, circospetto.
«No,» ribatté seccamente lui, messo in allarme dalla sua perspicacia.
Diede una schicchera distratta al modellino virtuale, quasi a scacciare anche quei pensieri molesti.
«Se bevo la mia clorofilla ogni giorno da bravo bambino, camperò cent'anni. Ma io non ho micro-reattori arc nella mia spina dorsale.» 
Si girò verso di lui sfoggiando sicurezza, senza sapere se la sua espressione fosse davvero impenetrabile.
«Hai un reattore nel petto,» osservò l'altro con ovvietà.
«È diverso,» tagliò corto lui schioccando la lingua con improvvisa irritazione. «K, sto cercando di dirti che il piano A non è un'opzione sicura a meno che non riesca a trovare un'alternativa al palladio. E voglio che tu ne sia cosciente,» rimarcò, continuando a fissarlo con insolita serietà e notevole impazienza di chiudere la questione.
Kyle si limitò a un piccolo cenno d'assenso, chiaramente perplesso dal suo scatto inatteso, ma evitò con sensibilità di insistere ancora su quel punto.
«So che ci sono dei rischi. Sono diposto a correrne qualcuno,» disse soltanto, in tono definitivo.
Tony fu tentato dal fargli notare che non aveva la più pallida idea di che razza di rischio fosse un'intossicazione da metallo pesante, ma serrò le labbra per imporsi il silenzio e tornò a maneggiare l'ologramma.
«Il piano B non è auspicabile, anche se ha più possibilità di successo,» riprese aprendo la seconda cartella, deciso a non soffermarsi ulteriormente su quell'argomento spinoso.
Trascinò il modello delle due protesi inferiori tra loro, sostituendolo a quello del reattore spinale.
«Con queste non avrei problemi,» commentò Kyle, anche se sembrava comprensibilmente poco entusiasta dall'idea di doversi amputare le gambe per impiantare delle protesi.
Tony tossicchiò, improvvisamente a disagio:
«Ti ho mai parlato delle interferenze che vengono a crearsi tra più reattori arc?»
L'altro sospirò, scoccandogli un'occhiata abbattuta.
«Illuminami,» lo incitò con un'alzata di spalle.
«Oh, non c'è molto da dire, in realtà. I flussi elettromagnetici entrano in conflitto, gli impulsi nervosi vanno in tilt e muoversi diventa... complicato, senza qualche aiutino,» sollevò il bastone da passeggio a riprova di ciò che diceva, «Magari hai fortuna e le interferenze saranno minime, come nel mio caso. In caso contrario, avresti buttato via due gambe ipoteticamente funzionanti per un nulla di fatto.»
«In realtà le mie gambe non sono...» iniziò a correggerlo Kyle, confuso.
«E qui arriva il bello,» annunciò Tony, di nuovo sorridente e aprendo l'ultima cartella con una mossa teatrale.
Kyle assottigliò gli occhi, scrutando con evidente perplessità il nuovo ologramma che roteava davanti a lui, probabilmente senza riuscire a identificare di cosa si trattasse.
«È un work-in-progress,» puntualizzò subito Tony, ingrandendo il modello di quello che sembrava una sorta di telaio di stecche metalliche.
«Sono... sostegni?» tentò Kyle, inclinando qua e là la testa per osservare il congegno da diverse angolazioni.
«Tutori,» lo corresse lui, accigliandosi nel vedere l'espressione poco convinta del ragazzo. «Risponderebbero direttamente ai tuoi impulsi cerebrali, quindi non ci sarebbe neanche bisogno di impiantarti qualcosa che riattivi i nervi delle tue gambe; tanto per cambiare sono alimentati da energia arc e...»
«Ho già provato a usare apparecchi simili,» lo fermò Kyle, corrucciato «ma...»
«... ma erano solo squallidi prototipi o ferrivecchi obsoleti e decisamente ingombranti, non certo delle meraviglie all'avanguardia firmate Stark,» lo interruppe a sua volta lui, con un sorrisetto immodesto.
Kyle tacque, ma la sua dubbiosità era palpabile. Tony sospirò seccato, perdendo a sua volta il suo entusiasmo.
«Ehi, non sarò stato un modello di comportamento corretto negli ultimi mesi, ma non sono ancora diventato un incompetente nel mio campo.»
L'avvocato scrollò le spalle e fece per ribattere, ancora accigliato, ma Tony lo zittì con un gesto perentorio della mano meccanica, aprendo poi un'altra schermata e trascinando una proiezione della nuova Mark accanto ai tutori. Lo scetticismo del mondo intero verso le sue invenzioni iniziava a snervarlo. A quel punto avrebbe anche potuto fare un falò delle sue lauree al MIT e di tutte le onorificenze, premi e attestati ad honorem che aveva collezionato in ogni ambito scientifico da quando suo padre gli aveva messo un cacciavite e un saldatore in mano. Prese un grosso respiro per riprendere la calma, poi additò l'armatura:
«Visto che hai bisogno di garanzie: la tecnologia di questo gioiellino è la stessa che intendo usare per quelli,» indicò i tutori, non riuscendo a evitare di suonare indispettito. «La Mark III era ad oggi il più avanzato esempio di robotica mai realizzato, e stiamo parlando di un modello ormai obsoleto. Questa è la Mark IV, e continuerà ad essere la più sofisticata meraviglia tecnologica esistente,» sottolineò con fierezza.
«Stark, non stavo mettendo in dubbio...» cominciò Kyle, parando le mani avanti nel rendersi conto di essersi posto in modo un po' troppo prevenuto.
«Farò finta che non lo stessi facendo,» ribatté Tony, scoccandogli un'occhiata eloquente. «Ora, se prima di bocciare a priori la proposta vuoi dare ascolto all'esperto...» rivolse un gesto verso se stesso calcando quelle parole con ironia, ma con un chiaro sottotono irritato.
Kyle gli fece infine un cenno con la testa e lo invitò a continuare, abbozzando un mezzo sorriso di scuse, e Tony si assicurò che non volesse interromperlo ancora.
«Per te i tutori sarebbero la scelta più ovvia. Tu al contrario di me hai tutti gli arti che ti servono; avrei dovuto pensarci prima, ma ero un po' impegnato a... a fare stronzate,» si portò una mano alla nuca con fare impacciato, «e il mio giudizio era troppo offuscato dai miei problemi per pensare fuori dal mio schema.» Scrollò le spalle. «Il tuo è semplicemente uno schema diverso; è bastato inquadrarlo per arrivare a un paio di idee brillanti. Questo progetto è fatto su misura per te,» concluse incrociando le braccia.
«Per fortuna sei rinsavito,» commentò Kyle, adesso fissando con più interesse e meno pregiudizi il progetto proiettato dinanzi a loro.
Tony rispose con un vago mugugnio d'assenso, per poi riportare il discorso su un terreno più solido:
«Insomma, con un po' di tempo e impegno potremmo riuscire a rimetterti in piedi senza alcuna spiacevole operazione. E con stile! Pensavo a un'estetica in stile Tron, magari non rosa fluo, se non ti dispiace, e... »
«Sembra troppo bello per essere vero,» ridacchiò Kyle, interrompendo le sue digressioni su design futuristici e stringendo incosciamente la stoffa dei pantaloni sulle sue gambe esili. «Ma tutto questo costerebbe milioni di dollari ed è un progetto a parte che ti prenderebbe molto tempo, non posso chiederti di...» cominciò Kyle, aggrottando le sopracciglia con fare preoccupato.
«Avvocato Andrews, deve migliorare le sue arringhe; così mi mette in pensiero per la prossima udienza,» declamò pomposamente Tony, mettendolo a tacere.
L'avvocato era diventato paonazzo, come sempre quando si agitava.
«K, eravamo d'accordo dall'inizio e non sono tipo da rimangiarmi le promesse... di solito,» aggiunse, spostando lo sguardo di lato con fare giocoso.
«Vedrò di impegnarmi al massimo per tirarti fuori dai guai, allora,» assicurò l'altro, stavolta sorridendo raggiante.
«C'è un solo problema.»
Tony si schiarì appena la gola e alzò l'indice meccanico, prendendo a guardare ostentatamente l'altro capo della stanza.
«Appunto.» 
Kyle alzò gli occhi al cielo, col sorriso che già sfumava.
«La tecnologia di cui ti parlo non esiste... per ora
Kyle lo fissò basito e Tony parò le mani avanti a mo' di scudo.
«Te l'ho detto che è un work-in-progress,» si giustificò. «Ci sto lavorando per la nuova armatura. Finora rispondeva ai miei movimenti quando la indossavo, ora voglio che reagisca anche ai miei impulsi nervosi a distanza e sto lavorando su un dispositivo prensile che...» iniziò a spiegare, entusiasmandosi involontariamente nel parlare, ma notando l'espressione implorante di Kyle si obbligò a risparmiargli ulteriori digressioni tecniche. «Insomma, per ora il tuo è un progetto collaterale a Iron Man e ho una tabella di marcia piuttosto serrata da rispettare... ma non appena ci sarà qualche progresso tangibile te lo dirò.»
Kyle si fece meditabondo e chinò il mento sul petto, scrutando di sottecchi il modello dei tutori, quasi fosse timoroso di riporvi troppe speranze.
«E pensi davvero che sia possibile?» chiese esitante.
«Per me tutto è possibile,» si vantò Tony con un sogghigno tronfio. «Aspetta e vedrai.»


***


23 Agosto, 11:30, Villa Stark

Il modellino 3D della Mark IV ruotava lentamente su se stesso sotto lo sguardo attento di Tony, impegnato a capire cosa non lo convincesse di quell'ennesimo prototipo.
"La placca frontale è orribile," concluse infine, zoomando sul componente in questione per poi rimuoverlo dall'armatura.
Tornò al computer, riprendendo a lavorare sulla progettazione della corazza; tra un collaudo fallito e l'altro si era concesso qualche breve pausa per rinnovare il design di Iron Man, un ottimo modo per svagare il suo cervello sovraccarico. Lo sviluppo della nuova Mark lo stava facendo impazzire. Principalmente perché non riusciva ad accettare l'idea di cedere l'armatura a terzi e stava rimandando costantemente la progettazione del sistema per comandarla a distanza; secondariamente perché smaniava dalla voglia di indossarla di nuovo e si era trovato più volte a un passo dal riassemblare la Mark II per farsi un voletto; infine perché l'essere legato a doppio filo alla tecnologia arc iniziava a diventare un problema insormontabile, snervante e sempre più preoccupante. Non importava quale approccio tentasse di intraprendere: si ritrovava puntualmente a sbattere la testa contro i reattori, i loro limiti e i loro difetti. Si era reso conto già da tempo di essere incappato in un vicolo cieco: non poteva usare l'armatura sfruttando il reattore cardiaco per via del consumo di palladio, ma non poteva neanche dotarla di un reattore indipendente a causa delle interferenze elettromagnetiche. La sua scelta era ancora quella tra una rapida intossicazione e un infarto fulminante, se voleva tornare ad essere Iron Man. Non era molto dissimile da un altro suicidio.
Si staccò con stizza dallo schermo, turbato da quel pensiero e incapace di lasciarsi distrarre ulteriormente da dettagli futili come la cromatura della corazza. Sorseggiò un po' di clorofilla e si forzò a svuotare l'ennesima borraccia con una smorfia schifata, per poi scoccare uno sguardo poco convinto al banco di lavoro, dove stava armeggiando con un dispositivo di ricezione per la nuova armatura teleguidata. Il suo sguardo divenne astioso e non si avvicinò. Sapeva di poter completare il lavoro con una giornata di impegno costante, ma non riusciva ad obbligarsi a iniziare e continuava ad accampare scuse con Fury riguardo a problemi e difficoltà tecniche inesistenti. Non voleva consegnargli un giocattolino che chiunque sarebbe stato in grado di guidare: voleva farlo lui col suo stesso corpo, anche se a distanza.
Ma non sapeva come. Finora i suoi tentativi di controllo remoto erano caduti nel vuoto come i pezzi della sua armatura durante i test. Si era anche arrischiato a coinvolgere il reattore cardiaco in un paio di collaudi, ma il livello di palladio era aumentato così vertiginosamente da spaventarlo, prima di stabilizzarsi a un meno preoccupante 21% dopo una settimana di clorofilla triplicata ed estenuante esercizio fisico. Forse era semplicemente troppo presto per quel tipo di tecnologia. Magari avrebbe dovuto rendersene conto prima di fare promesse a K...
Si abbandonò contro lo schienale, facendo ruotare lentamente la sedia su se stessa mentre fissava il soffitto del laboratorio in cerca di calma, concentrazione, pazienza, lampi di genio e qualunque altra cosa potesse farlo uscire da quello stato di impasse soffocante. Si posò una mano sulla fronte, cercando di alleviare il cerchio alla testa e allo stesso tempo verificare di non avere di nuovo la febbre per l'idea che continuava a rimbalzargli in testa da giorni come una pallina da ping pong fuori controllo. Chiuse l'occhio, concedendo un minuto a quel pensiero assurdo per sloggiare dalla sua mente, ma quello rimase piantato dov'era, continuando a rimbalzare sul posto in un ritmo martellante. Scostò la mano dalla fronte, dandosi infine per vinto.
"Ma certo, aggiungiamo anche il mio cervello alla lista di cose che non funzionano," sbuffò tra sé, al limite dell'esasperazione.
Si alzò di malavoglia, zoppicò fino all'ascensore e salì al pianterreno, guardandosi quindi attorno con fare circospetto: per una volta fu contento che Pepper non fosse nei paraggi e sperò che per quel giorno rimanesse alle Industries. Attraversò l'atrio, accostandosi poi al piccolo pensile in cui erano appese le chiavi delle sue auto. Nell'aprirlo notò con disappunto il velo di polvere che vi si era depositato nel corso di quei mesi. Si riscosse e prese a colpo sicuro la chiave della Ford Flathead rivelandone dietro un'altra, che afferrò impedendosi di esitare ancora. Ripose la chiave dell'auto e si rigirò l'altra nella mano sana, osservandone la fattura spartana e un po' antiquata, in netto contrasto con quella villa sontuosa e all'avanguardia.
Richiuse il mobiletto e si diresse con passo claudicante ma deciso verso il piccolo disimpegno seminascosto che occupava il fondo del salone, su cui si apriva un'unica porta. A differenza delle altre non era mai stata intaccata dalle numerose ristrutturazioni della villa: era in legno bianco un po' tarlato, con una maniglia d'ottone ormai scurita dal tempo e screziata di verderame. Infilò con qualche difficoltà la chiave nella toppa, incontrando resistenza da parte della serratura indurita dagli anni. Riuscì infine a far scattare le mandate con due schiocchi rugginosi; la porta si schiuse appena da sola, ruotando sui cardini allentati.
La spinse con cautela e mise infine piede nell'ex-studio di suo padre, inspirando l'odore di chiuso, carta e mobili vecchi che permeava l'aria ferma. Cercò a tentoni l'interruttore, e una tremolante lampadina proiettò una luce giallognola nello stanzino, talmente pieno da disorientarlo per qualche istante. Il piccolo spazio era riempito da una mezza dozzina di portadocumenti ricolmi di cartelle e raccoglitori straripanti di progetti; una libreria occupava la parete di fondo, stipata di libri su ogni argomento scientifico immaginabile; davanti ad essa, tra un baule e un plastico per la Expo del '74 poggiato al muro, era incastrata la massiccia scrivania di rovere ingombra di schizzi e bloc-notes ammassati alla rinfusa, assieme a qualche cianfrusaglia elettronica ormai obsoleta.
Tony sospirò nell'aria stantia e accostò la porta alle sue spalle: se davvero c'erano altre informazioni sulla tecnologia arc, le avrebbe trovate lì.


***


23 Agosto, 16:00, Villa Stark

L'ennesimo fascicolo in triplice copia riguardante il Progetto Rebirth volò attraverso la stanza, atterrando a faccia in giù sulla pila già accumulata in un angolo; accanto si ergeva una piramide di fogli appallottolati prossima al collasso.
In sottofondo gracchiava il vecchio giradischi che aveva ripescato tra quelle anticaglie, e nello stanzino si diffondevano le note morbide e un po' smielate di una raccolta di Ben E. King trovata tra i vinili di sua madre, un vano tentativo di placare i suoi nervi logorati da quelle impreviste pulizie di primavera. Neanche Stand By Me stava riuscendo nell'intento.
Tony, a gambe incrociate per terra, accartocciò l'ennesimo progetto incompleto e lo lanciò con precisione sugli altri. Si concesse un sospiro stremato che terminò in un forte starnuto, probabilmente il trentesimo da quando si era immerso in quelle scartoffie impolverate. Tirò su col naso, con l'occhio che lacrimava. Fissò con fare sconsolato la montagna di carta straccia davanti a lui e i pochi, miseri fogli che aveva recuperato e che parevano avere qualcosa a che fare con i reattori arc. Iniziava seriamente a pentirsi di non aver dato una parvenza d'ordine alla mole di scartoffie accumulate da suo padre nel corso degli anni. Del resto, nel '91 era stato un po' troppo impegnato a far finta che tutto ciò non esistesse per pensarci. 
Afferrò l'ultimo dossier un po' ammuffito, sfogliandolo con occhio ormai allenato a cogliere qualsiasi formula o schema riguardanti fusione a freddo, palladio o campi elettromagnetici; pochi secondi dopo il dossier in questione decollò dalle sue mani andando a far compagnia al resto della carta destinata al macero. O più probabilmente allo SHIELD: era certo che avrebbero fatto i salti di gioia alla scoperta di avere altri documenti da digitalizzare.
Lanciò un verso d'esasperazione e si sollevò a fatica da terra, facendo leva su uno scaffale e scrollandosi il fondo dei pantaloni impolverato. Aprì l'ultimo cassetto dell'ultimo schedario, in cui si annidava il successivo e ultimo carico di documentazione da esaminare. Se da una parte era lieto di aver concluso parte della sua ricerca, dall'altro era consapevole di non aver trovato assolutamente nulla d'illuminante. Più si riduceva il materiale a disposizione, più si assottigliavano le possibilità che in esso si celasse la risposta che cercava. Non era neanche del tutto certo di cosa stesse cercando, in effetti, ma doveva esserci qualcosa che gli era sfuggito. Suo padre aveva inventato il reattore da solo, in un'epoca in cui un aiuto come JARVIS e le tecnologie di cui disponeva lui non erano neanche lontanamente immaginabili: per quanto lo infastidisse ammetterlo, doveva saperne per forza più di lui, no?
Si sedette di nuovo per terra, barcollando sotto la bracciata di incartamenti che stringeva al petto e dandosi da fare con ansia crescente per farne la cernita. A metà della pila si entusiasmò nel captare la forma conosciuta di un reattore arc e sfilò il foglio dal suo fascicolo con esultanza, per poi adombrarsi nel notare che erano semplicemente degli schemi riassuntivi del vecchio reattore originario ormai distrutto. Stava per accartocciarlo in preda alla frustrazione, ma si costrinse poi a riporlo sulla sottile risma accanto a lui, in un ostinato attaccamento alla speranza che avrebbe comunque potuto cavarne qualcosa di buono. Stava iniziando a sperare in qualche messaggio cifrato nascosto nei progetti, ma finora l'unico "codice" che aveva rilevato era la grafia incomprensibile di suo padre, che aveva suo malgrado ereditato.
Terminò di scandagliare senza successo e con molti starnuti anche l'ultimo plico, per poi rimanere con lo sguardo fisso nel vuoto a chiedersi perché avesse appena gettato al vento quattro ore della sua giornata. Non era riuscito a trovare nessuno dei preziosi quaderni di appunti di suo padre, di cui aveva una chiara immagine che non riusciva a collocare all'interno di quel marasma di libri, cianfrusaglie e ricordi. Ci sarebbero voluti giorni per disseppellirli e non aveva neanche la certezza che fossero davvero lì. Forse li aveva nascosti chissà dove, paranoico com'era. Non poteva biasimarlo. Scoccò un'occhiata sbieca al baule di sua madre: sperava che non fossero , perché non aveva la minima intenzione di aprirlo, ne andasse pure della sua vita. Seguì poi indolentemente la successione di copertine colorate che ravvivava la libreria di legno scuro, riconoscendo a colpo d'occhio i titoli che aveva letto nel corso della sua adolescenza: manuali, trattati e saggi scientifici che conosceva quasi a memoria, inutili in quel momento. Forse però poteva valere la pena esaminare i fogli spiegazzati che sporgevano qua e là tra le pagine.
Scorse uno scaffale in alto, occupato da una mezza dozzina di volumi dalla copertina simile, e sorrise appena nel riconoscere la "versione commentata Stark" di alcuni libri di Jules Verne, in cui lui e suo padre si erano impegnati a mettere in luce e correggere tutte le assurdità scientifiche e ingegneristiche in essi contenuti. Suo padre enunciava le teorie e formule corrette, appuntandole tra le righe, e lui ascoltava rapito, disegnando modelli alternativi del Nautilus a bordo pagina. I libri erano di sua madre: suo padre gli aveva fatto giurare di non dirle nulla quando avevano iniziato a scarabocchiarli da cima a fondo senza ritegno, in concorde complicità. Era uno dei rarissimi ricordi piacevoli che serbava di lui, se non l'unico. Affondò il mento nel palmo della mano, incupendosi. Probabilmente nei suoi primi anni di vita la novità del suo arrivo era stata ancora abbastanza interessante da spingere suo padre a non ignorarlo del tutto. Ricordava ancora il momento in cui, a poco meno di quattro anni, era entrato speranzoso in quello stesso studio con Dalla Terra alla Luna in mano, solo per sentirsi rispondere seccamente che "ormai era grande per quelle sciocchezze". Un modo come un altro per dire che non aveva più tempo per lui.
Si guardò ancora attorno: dovunque posasse lo sguardo si rievocavano mille immagini conosciute, per lo più sgradevoli. Stava iniziando a sentirsi oppresso. Non era quello il momento per fare un nostalgico tuffo nel passato ed elaborare tutto ciò che si era rifiutato di affrontare nel corso di quei lunghi anni. Si costrinse a rialzarsi aggrappandosi a uno schedario, recuperò il bastone e si cacciò nella tasca posteriore i pochi documenti reperiti, imponendosi un ultimo sopralluogo prima che l'aria là dentro diventasse troppo soffocante. Sollevò il braccio del giradischi che ormai grattava a vuoto e ripose con cura il vecchio vinile, per poi mettersi all'opera.
I foglietti che reperì nella libreria non erano altro che vecchi appunti del MIT e ritagli di articoli scientifici. Sulla scrivania e nei suoi cassetti non trovò nulla di rilevante, a parte degli spartiti di sua madre ingialliti dal tempo e una solitaria foto di famiglia formato portafoglio. E a parte a una fialetta appoggiata quasi distrattamente sul fondo di un cassetto che, a occhio, conteneva qualcosa come cinquantamila dollari in vibranio grezzo, concentrati nei pochi grammi di una scheggia bluastra delle dimensioni di un'unghia. Probabilmente era un souvenir non del tutto autorizzato del Progetto Rebirth.
Il resto era tutta carta straccia. Inserì la foto tra le pagine degli spartiti e li ripose dove li aveva trovati non prendendo neanche in considerazione l'idea di portare qualcosa fuori di lì, ma chiedendosi allo stesso tempo dove fosse finito l'unico album di famiglia che avesse mai visto circolare per casa. Soppesò la fialetta impolverata scrutandone brevemente in controluce il contenuto, poi mise a posto anche quella: in un altro momento si sarebbe probabilmente fiondato in laboratorio trattenendo a stento l'euforia, ma sapeva già che il vibranio non era applicabile alla tecnologia arc. Poi, con quella misera quantità sarebbe riuscito solo a condurre qualche test e simulazione improduttivi; stava già perdendo troppo tempo e sentiva l'urgenza di concludere qualcosa di effettivamente utile, prima che il problema del palladio diventasse ingestibile. Richiuse con fermezza il cassetto, sigillandone il contenuto almeno allo sguardo.
Prima di costringersi ad uscire si avvicinò con un passo sbilenco al plastico della Expo. Scostò il telo che lo copriva con un unico gesto del bastone da passeggio, rivelando l'ordinata disposizione di edifici, strade e parchi al di sotto. Rimase a fissarlo per lunghi secondi, riconoscendo l'estrema cura infusa in ogni linea e dettaglio e la minuziosità con cui persino ogni singolo albero era stato collocato. Inclinò appena la testa di lato con lieve rammarico: suo padre si era dedicato alla Città del Futuro con tutto se stesso, venendone risucchiato soprattutto negli ultimi anni. Da ragazzo aveva pensato a una sua fissa senile e utopistica che sostituisse quella per lo scudo in vibranio e il suo attempato proprietario ormai irrintracciabili. All'epoca non era riuscito a concepire cosa ci fosse di così importante in un "contentino per gli ambientalisti", come lo chiamava spesso Stane. Adesso capiva che suo padre era stato alla disperata ricerca di un'opera che potesse rivelarsi all'altezza di quell'unica "cosa giusta" che sentiva di aver fatto. O forse era lui a volerla vedere così, col senno di poi e col peso di qualche errore di troppo sulle spalle. Si scoprì accigliato: non si era reso conto della tensione in cui si era a poco a poco contratto il suo volto.
C'era qualcosa che potesse essere all'altezza di Iron Man? Quel pensiero lo lasciò a fissare smarrito quel progetto mai realizzato.
Il suo sguardo fu catturato dall'Unisfera al centro del plastico, dalla quale si diramava a raggiera tutto il resto del complesso con ordinata rigorosità. Arrivò a soffermarsi sulla targhetta metallica infissa in un angolo: Stark Expo, 1974.
Aveva dei ricordi confusi ma molto vividi dell'anno della Expo: le passeggiate con sua madre tra le bancarelle della fiera, le ore e ore passate a gironzolare nel parco addobbato a festa, le migliaia di invenzioni che lo avevano affascinato e che aveva puntualmente tentato di emulare in proprio, tutte le volte in cui si era intrufolato in aree riservate... certo, se fosse stato lui ad organizzare il tutto, l'evento sarebbe stato molto più scenografico. Si sarebbe impegnato un po' di più per le cerimonie d'apertura e chiusura, per esempio. Più fuochi d'artificio, tanto per cominciare, e più pin-up e champagne. Iron Man sarebbe stato sicuramente la mascotte della fiera; magari avrebbe piazzato ovunque sponsor per l'energia pulita; forse ci sarebbe stato un padiglione dedicato esclusivamente alla biomedica.
Coprì con la punta del bastone la data incisa sulla targhetta, meditabondo.
"Stark Expo, 2010," scandì mentalmente dopo qualche istante.
Il suo volto fu attraversato da un sorriso sghembo.
"Perché no?"


***


Quando accostò la porta dello studiolo dietro di sé, la sua mente era ancora in bilico tra la frustrazione per aver imboccato l'ennesimo vicolo cieco e il quieto senso d'aspettativa al pensiero di una futura Stark Expo. Al momento, la frustrazione stava avendo la meglio assieme al mal di testa latente che iniziava a sovrastare gli antidolorifici, causato molto probabilmente dal palladio. Però aveva appena trovato un nuovo modo utile per tenersi occupato, e in cuor suo non vedeva l'ora di lanciarsi in un nuovo progetto con dei solidi sbocchi che compensasse quello frustrante di Iron Man e che lo distogliesse dal reticolo violaceo che continuava ad allargarsi sul suo petto. 
Era talmente assorto che non si rese conto di Pepper finché non se la trovò a un passo di distanza, con occhi accesi di stupore nel vederlo uscire da quella porta.
«Signor Stark!» la sua voce tradì una squillante nota di sollievo.
«Ehi, Pep,» la salutò sovrappensiero, per un istante dimentico della loro situazione ancora precaria, dei problemi irrisolti e delle loro "esistenze complicate".
«Finalmente l'ho trovata,» sospirò, e Tony colse un'ombra d'imbarazzo sul suo volto; si affrettò a ritornare presente a se stesso:
«Signorina Potts, sono costretto a farle notare che oggi è meno impeccabile del solito...» accennò alle ciocche di capelli sfuggite alla sua solita coda alta, al fatto che fosse a piedi nudi e all'acceso rossore del suo volto che quasi oscurava le sue lentiggini, come se avesse corso.
«L'ho cercata ovunque, non ha idea di quanto...»
«... ma questo look spontaneo le dona,» continuò imperterrito lui, terminando la frase con un sorriso ammiccante, che ovviamente cadde nel vuoto di fronte ad anni di consumato allenamento alle sue galanterie da dongiovanni.
Mise a fuoco solo allora il voluminoso plico di documenti che la donna portava sottobraccio, con tutta l'aria di essere destinato a lui.
«Non ho pensato a cercarla lì,» ammise Pepper, lanciando una rapida occhiata alla porta appena socchiusa dietro di lui.
«Sono disposto a tutto, pur di evitare il lavoro d'ufficio,» scrollò le spalle lui, badando bene a tenersi fuori dalla portata delle scartoffie. «Si è preoccupata?» aggiunse a bruciapelo, e fu chiaro che quella domanda la mise in difficoltà.
«No, è solo che... non sapevo dove fosse,» rispose debolmente.
«Si è preoccupata,» concluse lui, sospirando a metà tra il deluso e il colpevole.
«Un po',» ammise lei, nel chiaro sforzo di mantenere ferma la voce.
«S
i vede che non mi sono ancora impegnato abbastanza,» commentò lui con un'alzata di spalle un po' sconsolata. «Ammetto che in altre circostanze ci sarebbe sicuramente stato un qualche intento masochista nel voler rientrare là dentro, ma le assicuro in questo caso era una pura necessità tecnica, del tutto innocua,» spiegò in tono leggero.
Pepper annuì appena, molto poco convinta e palesemente turbata dal fatto che fosse entrato nello studio di suo padre di sua sponte uscendone persino di buonumore.
«Ora che ci penso, lei non ha mai visto lo stanzino inutile,» realizzò Tony un po' a sproposito, schiudendo appena la porta alle sue spalle col bastone per rivelare il caos che regnava oltre la soglia. «Può sbirciare, non ci sono mostri nell'armadio, polvere a parte,» la prese in giro nel vedere la sua esitazione, facendole cenno di affacciarsi.
Lei eseguì quasi con timore, non riuscendo a trattenere uno sguardo meravigliato nel trovarsi davanti quella babele. Nel farlo, si portò al suo fianco, e Tony si scoprì a trattenere appena il respiro quando captò il profumo dei suoi capelli appena lavati – un sentore di giglio. Scostò cautamente lo sguardo dalla stanza alla donna, non riuscendo a impedirsi di osservarla di sottecchi. Seguì i tratti delicati del suo volto, il profilo aggraziato del naso, la curva delle labbra appena schiuse, la linea elegante del collo... ritornò bruscamente in alto e stavolta venne calamitato dall'iride ceruleo che intravedeva oltre le ciglia chiare e arcuate. Da quanto non si trovavano così vicini?
«Prima era messo meglio,» disse in fretta, distogliendosi dai suoi pensieri fuori controllo.

Il fatto che indossasse quel suo tailleur scuro a pois che le lasciava scoperte le spalle, rivelando le leggere efelidi che le punteggiavano, non lo stava affatto aiutando.

«E quello è opera mia,» accennò rigidamente alle pile di fogliacci accatastate per terra. «Dovrò spedirne una parte allo SHIELD,» aggiunse con la bocca secca.
Non riusciva a staccare gli occhi dal suo volto e si frenò appena in tempo quando si accorse di essersi inclinato appena verso di lei.
"Datti una calmata," si rimbrottò duramente, allo stesso tempo confuso dall'improvvisa indisciplinatezza del proprio corpo.
Pepper voltò la testa verso di lui, del tutto ignara del modo fin troppo intenso in cui l'aveva osservata e del brusco movimento con cui si era ricomposto. Nell'incrociare il suo sguardo fu molto vicino a ricadere nell'espressione inebetita di poco prima. Si affrettò a fissare lo studio fingendosi rilassato, invece di indugiare ancora sulle lentiggini del suo décolleté.
«Da quanto non ci entrava?» gli chiese lei, con cauta curiosità.
Lui si appoggiò allo stipite, riflettendo e approfittandone per mettere qualche centimetro di distanza in più tra loro.
«Come minimo dieci anni,» stabilì infine. «Lo sa che non sono un tipo nostalgico,» aggiunse poi, con una smorfia ironica ma un po' tirata.
Il denso silenzio da parte di Pepper gli fece capire che forse stavano entrando in un terreno un po' troppo delicato e fece per sviare il discorso, ma lei lo anticipò:
«Non c'è nulla di male ad essere un po' nostalgici. Anche se si è Tony Stark,» specificò, con un piccolo sorriso che lo colse di sorpresa facendogli mancare un battito.
Sfuggì di nuovo il suo sguardo e lo puntò sulla piccola stanza polverosa e stipata di ricordi. Si trovò ad accostare la porta e chiuderla a chiave senza neanche rendersi conto di essersi mosso.
«Un po' di nostalgia va bene, ma a piccole dosi,» chiarì, adesso un po' in soggezione di fronte a quegli occhi tersi che come sempre sembravano leggergli dentro.
Sperò che non riuscissero a intuire proprio tutto quello che gli passava per la testa, o avrebbe dovuto fornirle delle spiegazioni molto imbarazzanti. Si rigirò la chiave in mano, prendendo a passare il pollice sulla dentallatura seguendone il profilo.
«Mi farebbe un favore?» esalò dopo qualche secondo, prima di perdere il coraggio per parlare.
Pepper arcuò le sopracciglia, lasciando spazio all'espressione circospetta e assolutamente irremovibile che assumeva nel fronteggiare le sue richieste eccentriche.
«Signor Stark, dieci anni con lei mi hanno insegnato a non rispondere mai di sì a questa domanda prima di sapere di cosa si tratti.»
«È sempre così sospettosa,» si lamentò lui, inclinando appena la testa e fissandola con fare offeso.
«Ne ho buon motivo.»
«L'ultima volta che le ho chiesto esplicitamente un favore è stato per spogliarmi, non mi dica che le è dispiaciuto così tanto,» insinuò lui, per poi notare la sua reazione decisamente poco divertita e fare subito dietrofront. «Ha il diritto di rimanere in silenzio di fronte alla mia palese mancanza di tatto,» aggiunse rapido, alzando le mani in segno di resa e con un'espressione quasi implorante stampata in volto.
Pepper rimase in attesa senza commentare, con una pazienza che ritenne invidiabile ma probabilmente non inesauribile, così evitò di testarla più del necessario. Si schiarì un poco la gola, segnando la fine del suo umorismo fuori luogo, forse dettata dall'assenza di sangue nel suo cervello.
«La chiave va là dentro,» additò il mobiletto dall'altra parte del pianterreno e piazzò l'oggetto in questione a un palmo dai suoi occhi azzurri e sorpresi, «luogo che ritengo fin troppo lontano per qualcuno in condizioni precarie come le mie; perciò, magari non subito, ma quando ha tempo, possibilità e voglia, sarebbe così gentile da...»
Pepper gli sfilò con gentilezza la chiave dalle dita, sfiorandole appena e tradendo una lieve titubanza. Tony frenò il flusso incoerente di parole che aveva portato un assurdo, tenue calore sulle sue guance.
«Le farò questo favore,» gli accordò semplicemente lei, stringendo poi la chiave in mano con un gesto che gli sembrò quasi premuroso.
Tony si rilassò in un sorriso sincero, contento di averle affidato quel pezzo di sé che non aveva mai avuto modo di condividere, sebbene in modo un po' impacciato. Dubitava che lei sarebbe mai entrata nello studio per conto suo, ma era il gesto che contava ed era convinto che lei fosse abbastanza perspicace da interpretarlo nel giusto modo.
«Grazie,» disse soltanto, in modo un po' goffo e sottintendendone molti altri.
«Prego,» rispose lei con un'espressione improvvisamente scaltra, e gli mollò a sorpresa il plico di documenti che aveva tenuto in mano fino a quel momento.
Tony lo afferrò d'istinto, rendendosi conto con una frazione di ritardo del raggiro.
«Questo è tradimento!» riuscì a protestare mentre lei già si allontanava, decisamente soddisfatta della sua mossa.
«Buon lavoro, signor Stark,» si limitò ad augurargli, e Tony colse il sorriso nella sua voce.
«Anche a lei, signorina Potts,» sorrise di rimando.


***


26 Novembre, Villa Stark

Un giorno o l'altro avrebbe finito per sgozzarsi, vista la combinazione tra la mano mancina malferma e la protesi incontrollabile che decideva di dare il meglio di sé proprio mentre si radeva.
All'ennesima scalfittura che si rimediò sul mento si decise a sciacquarsi il volto dalla schiuma da barba e a rimandare l'incombenza al giorno dopo. Ripose stizzito il rasoio nell'armadietto... con un po' troppa foga, visto che finì per far cadere a terra metà del suo contenuto. Imprecò, fissando sconsolato il disastro di boccette e accessori da bagno disseminati sulle piastrelle e maledisse la protesi che si ostinava ancora a muoversi come voleva lei. Meditò di lasciare tutto così com'era, ma poi pensò che avrebbe dovuto fornire delle spiegazioni a Pepper e accantonò l'idea.
Odiava inginocchiarsi o chinarsi: erano movimenti che gli facevano ancora vedere le stelle, ma si rassegnò a stringere i denti e ad accucciarsi con una smorfia sofferente per rimediare a quell'incidente. Almeno non si era rotto nulla. Stava giusto per raccattare l'ultimo oggetto quando si bloccò a metà del gesto nel riconoscerlo. Rovesciò distrattamente nel lavandino tutto ciò che aveva appena raccolto e afferrò il rilevatore di tossicità, facendo poi leva sul bordo di ceramica per rimettersi in piedi.
Fissò con malcelata apprensione quella scatoletta metallica, cosciente che dalla sua incursione nello studio di suo padre non aveva più controllato il livello di palladio. In realtà si era volontariamente dimenticato di farlo, forse illudendosi che, se avesse messo da parte per un po' il diabolico congegno, questo gli avrebbe finalmente annunciato buone notizie, quasi fosse un essere senziente e suscettibile. Aveva addirittura riprogrammato JARVIS affinché smettesse di ricordargli di controllare regolarmente lo stato dell'intossicazione.
Soppesò lo strumento nella mano meccanica, tentato dal disintegrarlo con una semplice stretta.
Erano stati mesi sereni, addirittura riposanti: Pepper sembrava essere tornata quella di molti anni prima, in quella fase iniziale in cui non si conoscevano ancora così bene da poter passare intere ore a battibeccare, ma comunque abbastanza per poter scherzare e chiacchierare con una disinvoltura che andava oltre il puro rapporto lavorativo. L'ultimo processo si era risolto vittoriosamente sia sul fronte Iron Man che su quello delle protesi e lasciava scoperta solo l'annosa questione di Stane, ma l'influenza sotterranea dello SHIELD gli aveva ritagliato un lungo periodo di pausa da quelle beghe legali fino al nuovo anno. La Mark IV era ormai in fase di assemblaggio: forse era venuto a capo di quei dispositivi di controllo remoto e il progetto per Kyle procedeva di conseguenza meglio di quanto avesse sperato. Persino i Vendicatori e Rhodey lo contattavano regolarmente per avere novità su lui e Iron Man, incluso Thor, che aveva ammorbidito un po' i toni nei suoi confronti. E lui fantasticava spesso, volentieri e per ora in segreto su una futura Stark Expo, riempendo taccuini su taccuini di appunti e progetti e programmi forse irrealizzabili, ma che lo mettevano di buon umore.
L'unica nota stonata era che le protesi avevano infine imposto i loro limiti definitivi a causa delle interferenze tra i reattori, ma non era qualcosa di cui potesse realmente lamentarsi: era autonomo e camminava, seppur con un bastone da arzillo vecchietto. Magari non avrebbe mai corso una maratona, ma poteva ancora sperare di rientrare nell'armatura, prima o poi. A vedere il lato positivo, in virtù di quel fatto si era deciso a sottoporsi alla perizia tecnica per le protesi, ovvero mezz'ora di estenuanti diatribe con quell'incompetente di Hammer sotto la supervisione di Kyle e Knight. Un incubo coi fiocchi, ma adesso era in impaziente attesa del responso e, sperava, della licenza che l'avrebbe finalmente reso libero di lasciare sulle sue gambe quelle quattro mura che iniziavano ad andargli più che strette.
In fin dei conti, andava tutto bene.
Poi c'erano quei lievi, subdoli sintomi in preoccupante aumento, al punto che ormai si stupiva quando si rendeva conto di non avere mal di testa, nausea, o riusciva a dormire una notte intera senza che i moncherini o l'ansia lo svegliassero. Il rilevatore di tossicità sembrava fissarlo e giudicarlo attraverso il display spento, come a ricordargli che tutto ciò che aveva occupato la sua mente e i suoi giorni fino ad allora non erano state altro che distrazioni per coprire il problema più grave e pressante, che aveva ancora una volta scelto di ignorare per far finta che andasse tutto bene.
Premette il pollice sull'ago con un'angoscia torbida, venata da una punta di speranza che i suoi timori venissero smentiti.
Il 27% lampeggiò minaccioso, riportandolo bruscamente coi piedi per terra. Scrollò la mano intorpidita con aria assente, osservando da dietro un velo plumbeo la goccia di sangue che si allargava come un fiore vermiglio sul suo polpastrello, in un tacito monito di quel che stava accadendo. Ripose in tasca il rilevatore di tossicità.
Non aveva più tempo per le distrazioni.




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Note Dell'Autrice:

Sssalve!
Rieccoci sintonizzati su questi schermi! Queste note saranno lunghe anche per i miei standard, vista la quantità forse eccessiva di eventi nel capitolo. Lettori avvisati, mezzi salvati :P

-Innanzitutto: i sintomi che ho affibbiato a quel poveraccio di Tony sono davvero riscontrabili nelle intossicazioni da metallo pesante, incluse le vampe di calore improvvise. Sì, mi hanno praticamente servito su un piatto d'argento una scusa per fare un po' di fan-service :'D
-Parlando di fan-service: qui passiamo da Tony capellone stile Iron Man post-Afghanistan a un aspetto più simile a quello che ha in Iron Man 3. È un dettaglio forse irrilevante, ma visto che dal punto di vista psicologico è adesso più vicino a "quel Tony" ho pensato di farlo emergere anche nell'aspetto.
-Passando a Kyle <3 I tutori che cito sono ripresi da quelli di Rhodey in Civil War. Quando abbiamo iniziato la storia non avevamo idea degli sviluppi del MCU, ma visto che le vicissitudini di Rhodey cadono a pennello, perché non sfruttarle?
-Tutta la faccenda dell'armatura prensile/teleguidata rimanda alle migliorie che Tony apporta in Iron Man 3 e nei film successivi; qui è tutto anticipato di un paio d'anni, quindi le difficoltà che incontra nel progettarla sono accentuate rispetto a quelle di IM3. Per capirci, l'obiettivo è sviluppare un'armatura come quella che si vede in Homecoming quasi 10 anni dopo, ovvero controllata da lui ma a distanza.
-Le problematiche relative alle interferenze elettromagnetiche, già introdotte nei capitoli precedenti, sono un tentativo di spiegare perché in Iron Man 2 Tony non fornisca l'armatura di un reattore indipendente, invece di continuare a usare il proprio anche quando l'intossicazione è alle stelle. Spiegazione labile, ma credo sia meglio di rendere Tony ottuso per il 90% del film (sì, Favreau, sto guardando te).

E niente, alla fine arriva mamma la Expo <3 So che avete sperato nell'illuminazione divina mentre guardava il plastico (almeno, l'intento era quello), ma non sarà tutto così "facile" come in IM2 (quando mai lo è?)
Concludo col dire: godetevi lo pseudo-fluff, finché potete :P

Un ringraziamento enorme a _Atlas_, 50shadesofLOTS_Always, Emyclarinet e Sherlock_Watson che hanno recensito gli scorsi capitoli :D <3 E anche a tutti coloro che leggono e basta, seguono o hanno aggiunto la storia tra le preferite/ricordate :)

Ah, il capitolo successivo è stato il primissimo che ho scritto quando ho ripreso 
Phoenix e probabilmente quello che più mi è piaciuto scrivere e sviluppare assieme a Show&Tell, quindi ammetto che sto scalpitando da mesi per arrivarci :D
Un bacione e spero a presto,

-Light-

P.S. Smoke and mirrors è un modo di dire inglese che vuol dire all'incirca "mascherare la realtà", o comunque offuscarla per dirottare l'attenzione su altre cose, spesso irrilevanti o frivole. Capito, Tony?
P.P.S. Momento-stronzata: la menzione ai Lakers deriva dallo spot di Homecoming per la finale dell'NBA (qui), in cui Tony invita, tra gli altri, il presidente della squadra "Magic" Johnson a vederla a casa sua. Ho dedotto che potesse essere un tifoso dei Lakers e nessuno mi convincerà mai del contrario :P




© Marvel

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Capitolo 40
*** Kintsugi ***



39

 

 

Kintsugi




"Wash the sorrow from off my skin
And show me how to be whole again
'Cause I'm only a crack in this castle of glass

Hardly anything there for you to see"

[Castle Of Glass – Linkin Park]



12 Dicembre, Villa Stark

Dicembre portò con sé pensieri più cupi del solito per Tony. Non aveva mai amato particolarmente il periodo natalizio, che si limitava ad affrontare tappandosi il naso con il rassegnato atteggiamento di chi mal sopporta Jingle Bells Rock e non ha molta compagnia per pranzi e cene comandati. Quelle settimane tendevano anche a richiamare con insistenza ricordi di telefonate nel cuore della notte e di ore passate a intirizzirsi in pigiama sul ciglio di una strada sconosciuta, fissando i resti di una berlina schiantata contro un albero e illuminata dalle sirene blu delle volanti.
No, non amava particolarmente il Natale. Aveva sempre preferito passarlo fuori porta, magari su qualche atollo sperduto molto lontano da freddo e neve. 
Quell'anno non era però un'opzione contemplabile. Il lato positivo era che non avrebbe neanche dovuto tener testa a tutti gli eventi mondani che richiedevano solitamente la sua presenza. Diede una pacca alla gamba meccanica, provando un incoerente senso di gratitudine per il divieto di usare pubblicamente le protesi e per le sue condizioni di salute precarie e non adatte a un gran galà festivo. Poi sospirò, fissando la placca corazzata della futura Mark IV posata sul banco di lavoro e ancora in fase di assemblaggio. Era da un mese che lavorava alla ricostruzione dell'armatura ed era da un mese che la sua voglia di spenderci tempo scemava lentamente fino a rasentare lo zero. Dopotutto non aveva la certezza assoluta di poterla usare, vista l'ottimale combo tra interferenze dei reattori e intossicazione da palladio in via di peggioramento. Ormai non riusciva a tenerla a bada neanche coi litri di clorofilla che ingollava ogni giorno.
Scacciò quel pensiero opprimente, una mosca fastidiosa che si ostinava a ronzargli incessantemente intorno. Stava cercando di aggirare i problemi come al solito, ma non era arrivato a delle soluzioni soddisfacenti e l'ansia iniziava a diventare una compagna sempre più invadente che minava la sua produttività. Inoltre controllare l'armatura a distanza, o peggio, delegare a qualcun altro il compito e l'onere di indossarla non rientrava nei suoi progetti favoriti, ma ormai era troppo tardi per rimangiarsi la proposta fatta allo SHIELD in un eccesso di ottimismo. Non poteva ancora permettersi di rinunciare alla loro protezione, non con un processo ancora in corso. E doveva perlomeno dare qualche contentino a Fury, che si aspettava risultati entro l'inizio del nuovo anno sul fronte Iron Man.
Posò una mano sul reattore cardiaco, consapevole che attorno a quella luce azzurra e brillante si dipanava un reticolo di venature plumbee sempre più stringenti. Ripensò al suo discorso ai Vendicatori: certo, era pur sempre Iron Man... ma per quanto ancora?
Gonfiò le guance ed espirò forte, poi afferrò il bastone e si risolse ad abbandonare il lavoro per quel giorno, visto che si stava rivelando infruttuoso e fonte di pensieri sgraditi. Salì con estrema lentezza le scale, costringendosi a quel gesto che ancora lo stremava. Negli ultimi tempi aveva trascurato la fisioterapia: voleva risolvere del tutto il problema delle interferenze prima di riprenderla seriamente. Il che era una mezza verità alla quale avrebbe voluto credere, ma il problema concreto era il costante senso di affaticamento derivato dall'intossicazione, che lo lasciava sfiancato dopo pochi minuti di esercizio fisico, coi moncherini in preda a crampi e il cuore in fibrillazione.
"Se Nat lo scopre, mi uccide prima lei," si trovò a pensare, con una punta di colpevolezza nei confronti della donna che si era prodigata per rimetterlo in piedi.
Arrivò in cima alla rampa sfiancato e dolorante, ma non si fermò e si diresse in salone, dove sperava stesse lavorando Pepper. Lo trovò vuoto e si lasciò sfuggire una smorfia delusa: doveva essersi trattenuta alle Industries. Adesso ringraziava la sua involontaria lungimiranza nell'averla ufficiosamente nominata amministratore delegato, ma ciò la teneva lontana più di quanto volesse. Forse avrebbe dovuto formalizzare la cosa, prima che le proprie condizioni di salute diventassero evidenti, ma temeva di insospettirla con mosse troppo plateali. Gli venne quasi da ridere di sé. Da quando si preoccupava di essere plateale, soprattutto con lei?
Non poteva lamentarsi per la piega che aveva preso il loro rapporto, ma il fatto che dalla fine dell'estate fosse ancor più raramente a Villa Stark lo rattristava, anche se in quei mesi si era fatta meno schiva e più propensa al dialogo. Spesso era stata lei stessa a mostrarsi disponibile nei suoi confronti, permettendo a entrambi di vivere delle parentesi di serenità in cui sembrava che nulla avesse mai turbato il loro equilibrio, non fosse stato per le occhiate inquiete che a volte la sorprendeva a rivolgergli.
Si accostò al bancone degli alcolici solo per prendere una caraffa di clorofilla, visto che aveva fatto voto d'astinenza da ogni tipo di liquore in seguito a eventi non poi troppo remoti e decisamente disastrosi. Scoccò un'occhiata sbieca alla parete ancora mancante: aveva stabilito che l'open-space completo non gli dispiaceva così tanto da prendersi la briga di ricostruirla. Completò con la mano buona l'operazione di versarsi un bicchiere dell'orrido liquido verdastro: ormai aveva rinunciato a usare la protesi per compiere azioni delicate o che coinvolgessero oggetti fragili.
"Maledette interferenze..."
«Brinda a qualcosa?»
Quasi si strozzò a metà di un sorso, ma riuscì a deglutire senza sbrodolarsi come un bimbo di tre anni. Si voltò un po' bruscamente verso Pepper, appena comparsa in salotto in un impeccabile vestito da ufficio color tortora. Lo fissava con un sorriso sottile, divertita dalla sua reazione, e con il tablet e un plico di documenti stretti al petto. Sembrava di ottimo umore.
«Con questa?» lui sollevò scettico la caraffa facendone sciabordare il contenuto torbido. «Sarebbe un insulto al buon gusto,» commentò, poggiandola con una teatrale smorfia di orrore.
Ringraziò il fatto che Pepper non avesse mai indagato troppo a fondo sulla faccenda della clorofilla: si era limitata a credergli quando le aveva detto che gli serviva come precauzione per "stabilizzare il reattore" e che in realtà il sapore non gli dispiaceva – nonostante avrebbe bevuto più volentieri della candeggina. Mentire gli riusciva ancora straordinariamente facile, nonostante tutte le sue promesse, ma che alternative aveva?
Pepper nel frattempo si era accomodata alla sua solita postazione di lavoro sul divano, sedendosi in modo da non rivolgergli le spalle.
«D'altra parte, a cosa dovrei brindare?» aggiunse lui un po' sovrappensiero, scuotendo la testa.
«Alla sua riammissione ufficiale nei Vendicatori?» lo imbeccò lei, con vivacità.
A quelle parole lui sbuffò, a metà tra un verso di scherno e una risata.
«Come consulente. Di nuovo.»
«È un inizio. E visti i precedenti...»
«Lo so, lo so. Mi ricordo che è colpa mia; non ho bisogno del promemoria,» bofonchiò lui di rimando, prendendo un altro sorso di clorofilla.
Si poggiò di schiena al bancone con aria meditabonda, toccandosi inconsciamente il reattore come ad accertarsi che fosse ancora lì. Captò l'occhiata significativa di Pepper e scostò la mano nel modo più discreto possibile, ma sapeva che si era accorta come sempre di quel riflesso condizionato. Lei non commentò e iniziò a trafficare con le scartoffie – le sue scartoffie – con il solito zelo. Si ritrovò ad osservare con sguardo quasi estasiato il modo in cui la donna aveva appena accavallato le gambe affusolate, dimenticandosi di bere e rimanendo stolidamente col bicchiere a mezz'aria. Gli sembrò che Pepper stesse per alzare la testa dal suo lavoro e si affrettò a rituffare il volto dietro al vetro, per poi costringersi a mantenere l'attenzione sulle venature del marmo sotto ai suoi piedi mentre rimetteva in carreggiata i suoi pensieri volubili.
«Sicuramente da qui al nuovo anno ci sarà qualche altra occasione per brindare,» buttò lì dopo un minuto buono di silenzio, non volendo abbandonare così presto la conversazione. «Si chiamano "feste" per un motivo, no?» abbozzò un sorriso forzato.
«Ha già dei piani per Natale?»
Il tono di quella domanda gli fece capire che lei aveva già i suoi, anche se non riusciva ad immaginare con chi. La nozione che lei aveva una famiglia con cui festeggiare riemerse in ritardo.
«Non saprei. Alla fine è un giorno come tanti. Preferisco Capodanno,» rimuginò, rendendosi conto del suo tono fiacco ma non facendo nulla per ravvivarlo.
Pepper distolse lo sguardo, a disagio, e Tony lo notò. Anche lei sapeva quanto non amasse quel periodo.
«
Sono sicura che troverà qualcosa da fare,» disse, un po' debolmente, forse con una punta di colpevolezza.
Lui fece una mezza smorfia poco convinta.
«Potrei passare a trovare i miei,» si sentì dire, come da molto lontano.
A quelle parole Pepper sollevò di nuovo la testa, allarmata.
«Tony?»
«Non ci vado da molti anni,» scrollò le spalle lui, a minimizzare la cosa. «E non ho impegni particolari per il 16 dicembre.» 
Pronunciare quella data gli fece più male di quanto avesse pensato, nonostante tutto il tempo trascorso da quel giorno.
"E chissà se potrò ancora andarci l'anno prossimo..."
«Tony...»
«È solo che ultimamente ci penso spesso. Mi chiedo cosa direbbe mio padre, a vedermi con tre dei suoi reattori in corpo,» continuò a dire in tono piatto, fissandosi involontariamente la mano meccanica. «E mia madre...» esitò e la sua voce si affievolì.
«Tony.»
Stavolta il tono più incalzante di Pepper lo riscosse, strappandolo dalle sue riflessioni cupe. Incrociò fugacemente il suo sguardo preoccupato e si sfiorò a disagio la benda sull'occhio, consapevole di essersi esposto e di aver lasciato trapelare qualche filo della matassa di pensieri che lo teneva sveglio la notte. Lei era l'unica con cui potesse lasciarsi sfuggire simili momenti di vulnerabilità, ma quello non era il frangente più adatto, non ora che era forse riuscito a riconquistare la sua fiducia.
"Fiducia immeritata," gli ricordò prontamente la sua coscienza.
«Sto bene,» affermò, nonostante lei non gliel'avesse chiesto, e ciò suonò molto come una confessione del contrario.
«Come sempre?» stavolta c'era una punta provocatoria nel tono di Pepper.
Forse un tempo l'avrebbe lasciato a crogiolarsi indisturbato nei suoi pensieri, o magari sarebbe stata più delicata, ma adesso sembrava consapevole di quanto chiudersi potesse essere dannoso per lui, e aveva assunto un atteggiamento più diretto e intransigente nell'affrontare le sue continue reticenze. Lui si portò una mano alla nuca, innervosito.
«Meglio del solito,» si limitò a rispondere infine. «Nulla di preoccupante, sono solo... pensieri.»
Percepì lo sguardo indagatore della donna ancora su di lui e seppe di non essere in grado di ingannarla fino in fondo.
«Iron Man, i Vendicatori, le protesi, le interferenze...» elencò monocorde.
"Il 28% di intossicazione..."
«... le solite cose. L'atmosfera del momento non aiuta, ma sono sopravvissuto a diciotto Natali, prima di questo.» 
Scrollò le spalle, lui stesso poco convinto e non troppo stupito dal fatto di non essersi neanche dovuto soffermare a contare gli anni precisi. 
«E ho le mie distrazioni,» concluse, accennando alle protesi e pensando tra sé anche all'armatura e a quanto avrebbe voluto indossarla anche solo per qualche minuto.
Pepper continuò a fissarlo assottigliando le labbra, come se fosse contrariata e volesse aggiungere qualcosa, ma sembrò frenarsi. Optò infine per il silenzio, e se da un lato Tony fu grato di lasciar cadere l'argomento, dall'altro non gli sarebbe dispiaciuto continuare a parlarne con lei. Si ricordò solo allora della chiave dello studio che aveva ritrovato appesa al suo posto. Forse era ancora troppo presto per aprirsi davvero. Dopotutto ci erano voluti dieci anni per arrivare fin là – un ancora privo di una vera e propria connotazione – e le sue sconsideratezze li avevano quasi riportati al punto di partenza. Che senso aveva aprirsi, quando si era a un passo dalla fine?
Si schiarì la gola, richiamando nuovamente la sua attenzione.
«Tra circa un mese sarà un anno. Per quello sarebbe opportuno brindare?»
Lo sguardo di Pepper si fece confuso, tentando di raccapezzarsi nei suoi discorsi sconclusionati.
«Per il suo incidente?» realizzò infine, e sollevò le sopracciglia come ad accertarsi di aver capito bene.
«Per il fatto di essere ancora vivo e di riuscire a romperle le scatole come prima e meglio di prima.» 
Tony sfoggiò un ghigno tronfio che gli incorniciò il volto di piccole rughe del sorriso, un chiaro segnale a riportare il discorso su temi più leggeri.
«Meglio di prima? Ha degli standard molto alti da superare,» ribatté Pepper, stando al gioco, ma Tony colse una vena di serietà nel suo tono scherzoso.
Forse quel "prima" aveva un significato più ristretto di quanto intendesse lui e non si riferiva solo alle bravate goliardiche di cui lei era stata spesso testimone. Si versò distrattamente un altro po' di clorofilla per prendere tempo.
«Per esempio?» si arrischiò a chiedere infine, sapendo di entrare in un terreno potenzialmente pericoloso: stava a Pepper decidere se dargli corda continuando lo scherzo o riportarlo bruscamente coi piedi per terra.
«Baltimora,» e a quella semplice parola le labbra di Pepper si incurvarono un poco verso l'alto, nonostante stesse provando in tutti i modi di impedire al sorriso di far breccia sul suo volto forzatamente severo.
Tony rimase fermo per un istante col bicchiere a mezz'aria per poi lasciarsi scappare un risolino, stupito e in cuor suo sollevato.
«Se lo ricorda ancora?»
Lo sguardo eloquente e prossimo all'omicida di Pepper gli disse che, sì, ricordava ogni dettaglio delle sue prodezze alla prima festa di fine anno aziendale alla quale avevano partecipato insieme, ormai quasi dieci anni prima.
«Giusto, sono indimenticabile,» si corresse subito dopo, nascondendo il suo sogghigno dietro al secondo bicchiere di clorofilla.
«Per i motivi sbagliati,» puntualizzò lei, e Tony non poté fare a meno di soffermarsi sul suo volto sorridente e su quanto sembrasse rilassato ora che era acceso da una luce spensierata.
Gli sembrava di rivivere un momento strappato a un giorno qualsiasi di qualche anno prima, prima dell'incidente, dei Vendicatori, dell'Afghanistan, prima ancora di Iron Man. Era cambiato tutto da allora, ma sentiva che l'essenziale era sempre lì, a fare da raccordo tra loro due. Voleva credere che fosse così.
«Sono contento che lei sia qui,» si lasciò sfuggire, e, nonostante non avesse avuto intenzione di dirlo ad alta voce, non si pentì di averlo fatto.
Vide gli occhi chiari di Pepper sgranarsi appena in un moto di sorpresa. La donna chinò brevemente la testa sui suoi documenti, così che la frangetta ricadesse a celare il suo sguardo.
«Sono qui perché lei ha finalmente deciso di non impedirmelo,» disse infine, e una punta di rimprovero lo raggiunse, smorzata dal tono caldo di quelle parole che non sapeva bene se interpretare positivamente o meno.
Stavolta fu lui a chinare il capo, fissando il suo bicchiere semivuoto senza parlare. Di nuovo la sua mano corse al reattore in cerca di sicurezza e si odiò per non riuscire a impedirselo. Sapeva che quel gesto turbava anche lei.
«È ancora arrabbiata?» si decise a chiedere quasi tra sé, dando voce a quella domanda infantile che gli premeva dentro da mesi.
«A volte sì,» replicò subito lei, di getto.
La vide mordersi il labbro inferiore, come pentendosi di ciò che aveva appena detto, ma lui la anticipò prima che potesse aggiungere altro:
«Sarei deluso se non lo fosse.» 
Sollevò un angolo della bocca in un mezzo sorriso amaro e colse il suo sguardo incupito. Si odiò per aver cancellato l'espressione serena di poco prima dal suo volto.
Fissò di nuovo il bicchiere, scrutando il fondo appena ricoperto da uno strato di clorofilla e percepì la ragnatela di palladio chiudersi sul suo petto, a ricordargli che non poteva fingere per sempre. Aveva davvero il diritto di nasconderle di nuovo tutto? Sarebbe stato così facile non farlo.
"Pepper, sto morendo."
«Deve ammettere che mi sto impegnando, però,» disse invece, reprimendo quelle parole pesanti come piombo mentre beveva l'ultimo goccio di clorofilla.
«C'è margine di miglioramento, ma ammetto che ha fatto molti progressi,» puntualizzò lei, di nuovo spigliata.
Tony poté giurare di scorgere un pizzico d'orgoglio nello sguardo limpido che gli rivolse, ma forse voleva solo illudersi per compiacersi.
«
Imparo in fretta,» si vantò sornione, ignorando la fitta molesta accanto al reattore che pareva voler commentare quelle parole.
Poggiò il bicchiere al suo posto e si staccò dal minibar con l'aiuto del bastone per accostarsi al divano. Si sedette poi accanto a lei, come sempre un po' goffamente, non così vicino da toccarla, ma non così lontano da non percepire il suo calore. Pepper non si ritrasse, ma tenne lo sguardo fisso sul tablet, chiaramente impreparata a quella situazione. Tony si posizionò col capo reclinato in avanti come a fissarsi le punte dei piedi
, mentre in realtà la osservava di sfuggita da sotto le ciglia scure.
«Sono bravo a riparare cose,» affermò all'improvviso, voltandosi infine a guardarla con un'ombra giocosa sulle labbra. «Ma qua mi serve il suo aiuto, signorina Potts,» concluse, e si rallegrò nel vedere di aver di nuovo incrinato la sua maschera seria lasciando trapelare quel sorriso luminoso che amava.
Si rese conto solo in quel momento di quanto volesse davvero quell'aiuto e di quanto sarebbe stato inutile chiederglielo.
«Sto facendo del mio meglio, signor Stark.»
«Anch'io,» mormorò lui, ma abbassò lo sguardo, incapace di sostenere il suo.


***


Le feste trascorsero con una rapidità disarmante, tanto che Tony si stupì nel constatare che Natale fosse passato senza che se ne fosse neanche reso conto.
Alla fine non era andato a trovare i suoi genitori. Sarebbe bastato chiamare Happy e farsi portare fino al cimitero a Santa Monica, ma aveva preferito rimanere chiuso in laboratorio per tutta la giornata del 16 dicembre, accanendosi su un propulsore di volo della Mark IV che probabilmente non avrebbe mai avuto occasione di testare dal vivo.
Pepper era partita dalla Vigilia fino al 28 in visita obbligata ai suoi, ma la sua assenza gli era pesata meno di quanto avesse temuto, impegnato com'era nei suoi vari progetti. Aveva accolto il suo ritorno con il primo regalo di Natale che le avesse fatto in quasi dieci anni, ovvero due inviti esclusivi al Nightingale Plaza per l'evento di Capodanno: un chiaro incentivo a trascorrerlo fuori con chi avesse voluto – reprimendo fitte di gelosia – piuttosto che farla sentire in dovere di rimanere con lui alla villa. La donna era passata dall'incredulità totale alla pura gioia, per poi cadere in un deciso imbarazzo per essere invece a mani vuote, ma lui aveva liquidato la questione con la sua consueta, spigliata fermezza e non aveva ammesso repliche, pensando tra sé che anche solo il fatto che lei fosse ancora lì poteva considerarsi un regalo.
La giornata di Capodanno era passato in volata e aveva preso una piega decisamente imprevista quando Rhodey aveva fatto irruzione alla villa appena pochi minuti prima di mezzanotte per brindare con lui, trovandolo con suo grande stupore in laboratorio a trafficare coi suoi congegni, come se fosse un giorno qualunque. Era stato un gesto così inaspettato che per poco non avevano perso il countdown alla frenetica ricerca di una bottiglia di spumante. L'avevano poi stappato in terrazza, sull'oceano, godendosi i fuochi d'artificio sulla costiera californiana in compagnia di una videochiamata inattesa da parte di Banner e Romanov, che per motivi non meglio chiariti si erano ritrovati ad aspettare insieme il nuovo anno a Times Square. Ciò aveva suscitato l'ilarità irrefrenabile di Tony e una raffica di battutine maliziose, interrotte solo dalla provvidenziale chiamata d'auguri di Kyle, impegnato invece a festeggiare con Ian e famiglia.
Pepper li aveva raggiunti a sorpresa poco dopo, in combutta con Rhodey e Happy, e Tony aveva rischiato di iniziare quel 2010 con un piacevole infarto quando l'aveva vista fasciata nel vestito cobalto che le aveva "regalato" per compleanno un paio d'anni prima; a malapena era riuscita a salutarla e augurarle buon anno senza balbettare, sentendosi insolitamente a disagio nella sua tenuta da casa molto poco elegante. Per fortuna Rhodey e Happy erano stati abbastanza alticci da ravvivare la situazione per tutti fino al mattino, o avrebbe passato il tempo a fissarla rapito senza riuscire a spiccicare parola. Si era invece trovato a parlare in modo spensierato come non faceva da mesi, ridacchiando un po' troppo e più disinibito del solito, complice quel goccio d'alcol che si era concesso e che gli aveva subito dato alla testa dopo la lunga astinenza. Forse aveva detto un paio di cose stupide – forse anche più di un paio –, ma Rhodey e Happy ridevano, e Pepper rideva, e lui si sentiva bene e si era trovato a desiderare che quella notte non finisse mai.
Non ricordava il momento preciso in cui il sonno aveva avuto la meglio su di lui, ma si era svegliato che il sole era già alto, rannicchiato sul divano con un plaid addosso e un thermos di caffè caldo sul tavolino che gli aveva fatto iniziare il nuovo anno con un sorriso. Nel corso di quel primo gennaio si era spesso ritrovato a pensare che forse quello era stato era stato uno dei migliori Capodanni che ricordasse – anche meglio di Berna nel '99.
Poi, il tempo aveva preso a rallentare fino a strisciare e trascinarsi per terra a fatica, come intorpidito dal freddo e dalla quiete innaturale del nuovo anno. L'unica costante che aveva scandito quei brevi e uggiosi giorni invernali era l'indice di tossicità che si innalzava lento ma inesorabile, decimo dopo decimo, rendendolo sempre più fiacco. Non sapeva perché continuasse a concentrarsi su Iron Man quando tutta la sua attenzione si sarebbe dovuta rivolgere al problema del palladio, ma ogni volta che si sedeva alla scrivania con l'intenzione di farlo si ritrovava puntualmente a scarabocchiare schizzi di armature su armature. Si convinceva che fossero utili per migliorare la sua grafia con la sinistra e per calibrare la protesi, mentre in realtà voleva solo perdercisi e fingere di poter davvero tornare a indossarla, come se quel metallo potesse proteggerlo da ciò che lo stava corrodendo dall'interno. Sognava costantemente di volare e spesso si svegliava con l'impressione di cadere, colto da forti vertigini alle quali non voleva trovare una spiegazione medica.
La mattina del 4 gennaio 2010, alla vigilia del suo incidente, si ritrovò a fissare con sguardo vacuo i pixel verdognoli del 29% che mutavano nel rosso acceso e definitivo del 30%.
Ripose il rilevatore di tossicità e si poggiò al lavandino con entrambe le braccia, facendo leva sui bordi nel sentirsi improvvisamente debole. Si guardò allo specchio, riconoscendo sul suo volto i ben noti segni della stanchezza, accentuati dall'intossicazione: il suo occhio arrossato e spento, le occhiaie violacee, le rughe più numerose e profonde e le guance così smunte da ricordargli se stesso appena tornato dall'Afghanistan. Fino all'anno prima avrebbe probabilmente intravisto nei propri lineamenti anche i segni di una rabbia incontenibile. Magari si sarebbe trovato a infrangere di nuovo quel maledetto specchio odiando il proprio riflesso, avrebbe finito per farsi male e sarebbe precipitato di nuovo nel flusso di autodistruzione che l'aveva portato a strapparsi il reattore dal petto.
Adesso provava solo un senso di sorda accettazione, un constatare pacato di ciò che stava avvenendo, ma il desiderio di accelerare quel processo era svanito. Gli sembrava di osservarsi dall'esterno e avrebbe quasi potuto convincersi che il tutto stesse accadendo a qualcun altro, non fosse stato per i segnali inequivocabili che il suo corpo continuava a inviargli. Avrebbe solo voluto sentirsi meglio e liberarsi della nausea continua, dei crampi sempre più frequenti, dei mal di testa atroci che lo tormentavano per giorni interi annebbiandogli la mente, di quel senso di fiacchezza costante contro il quale combatteva ogni mattina, quando si forzava ad alzarsi per non passare la giornata a letto lasciandosi vincere dalla propria debolezza.
Fissò la luce azzurrina che gli scaturiva dal petto, tracciando esitante la circonferenza metallica del reattore con il pollice. Insinuò poi la mano sotto la maglietta e strinse la presa sul congegno; lo ruotò appena fino a sentire un click e lo sfilò delicatamente dal supporto, sentendo all'istante un profondo vuoto al centro del petto, così forte che avrebbe potuto risucchiarlo. Si affrettò a sostituire con mani tremanti il nucleo di palladio esaurito e a inserire nuovamente la propria fonte di vita al suo posto, con uno scatto rassicurante che gli riempì i polmoni d'aria pura. Riprese a respirare.
Quell'operazione lo nauseava. La prima volta che era stato costretto a compierla subito dopo il tentato suicidio si era trovato avvinghiato al gabinetto per arginare i conati, al vivido ricordo del senso di soffocamento che l'aveva assalito nel trovarsi sul ciglio della morte. Si era sentito di nuovo come se stesse annegando coi polmoni pieni d'acqua salata e anche adesso percepiva un tenue retrogusto salmastro sulla lingua.
Deglutì, sentendosi invece la gola completamente secca e un velo di sudore freddo che gli imperlava la fronte. Come sempre, ripensare a quei momenti accelerava il suo battito e gli causava una stretta alla bocca dello stomaco, come una mano pronta a rivoltarlo; ringraziò la sua inappetenza per non aver ancora toccato cibo.
Era assurdo come a spaventarlo fosse più il ricordo del proprio suicidio fallito piuttosto che la consapevolezza di stare morendo a poco a poco. Scosse la testa confuso dai suoi stessi ragionamenti, e distolse lo sguardo dallo specchio faticando a concentrarsi. Gli sembrava di avere del piombo nel cervello, e forse non era un'impressione così lontana dalla realtà. Era stanco, lo percepiva in ogni osso e fibra spossata del proprio corpo e in ogni neurone e sinapsi che si attivavano frenetici alla ricerca di una via d'uscita, ma non poteva cedere di nuovo. Un senso di impellenza lo rianimò e minacciò poi di sopraffarlo quando la mole di ciò a cui andava incontro gli si delineò davanti. 
Stava morendo, aveva vissuto una vita incompleta e doveva ancora decidere quali porte chiudere dietro di sé, quali lasciare aperte e quali avrebbe invece dovuto aprire prima che fosse troppo tardi.
Riportò lo sguardo al suo riflesso e lo trovò determinato, nonostante tutto lo smarrimento e la paura che portavano disordine tra i i suoi pensieri. Doveva sfruttare al meglio quel tempo – chissà quanto, poi – che ancora gli rimaneva, pensare a cosa voleva lasciare dietro di sé. 
Il retaggio, così lo chiamava suo padre. Doveva pensare a quale sarebbe stato il suo retaggio, a cosa poteva fare per non considerare sprecata la sua vita, diventata adesso così breve.
Ma prima doveva pensare a quelle porte che incombevano dietro di lui, già pronte a serrarsi o spalancarsi in attesa di una sua decisione.


***


10 Gennaio, 18:40, Villa Stark

Era stata una giornata lenta e oziosa.
Tony aveva lavorato svogliatamente in salotto per tutto il pomeriggio, dopo aver spostato un tavolino di fronte alla vetrata così da poter spaziare con lo sguardo sul mare grigio e invernale. Passava più tempo a fissare le onde che i fogli di carta e le schermate attorno a lui. Pepper lavorava sul divano alle sue spalle, seduta nel suo angolo preferito con le ginocchia ripiegate come appoggio per il tablet e il plaid gettato sulle spalle, nonostante il caminetto scoppiettasse vivacemente. Di tanto in tanto, uno dei due si voltava a guardare l'altro, trovandolo assorto nelle sue faccende a capo chino.
Pepper si era stupita di fronte a quella situazione anomala, ma anche inspiegabilmente intima. Tony non era solito lavorare al di fuori del suo laboratorio: aveva sempre detto che altrove non riusciva a concentrarsi al meglio e che quando pensava aveva bisogno di stare solo, al riparo da qualunque distrazione che non fosse la sua musica assordante. Ultimamente era di nuovo taciturno, ma a quello aveva iniziato a fare l'abitudine, anche se a volte si trovava a rimpiangere la sua parlantina sfacciata e spiritosa che adesso tornava a fare capolino solo quando era più rilassato – o un po' brillo, come quel Capodanno. 
Pepper si scoprì a sorridere appena: aveva preso a custodire gelosamente il ricordo di quel breve sprazzo di spontanea allegria e serenità che aveva riacceso per una serata il volto dell'uomo, altrimenti sempre ombroso e segnato da linee rigide che si nascondevano anche nei suoi sorrisi. Non riusciva a decifrare l'aura di tensione che Tony aveva preso a irradiare nel corso dell'ultimo mese, ed era poco convinta dalle sue spiegazioni vaghe ed evasive, comunque più rassicuranti della facciata di spavalda indifferenza che sembrava aver definitivamente abbandonato. Lei stessa era restia a far breccia in quel guscio fragile che riusciva appena a intravedere: avrebbe voluto che fosse lui ad abbatterlo ed era convinta che ci stesse lavorando come aveva promesso, sebbene coi suoi tempi.
Pepper voltò il capo a fissare la sua schiena, avvolta da una felpa bordò a collo alto che aveva sempre affermato di odiare e che stonava decisamente coi suoi ormai abituali pantaloncini da basket, che indossava a dispetto del freddo per agevolare i movimenti della protesi. Dalla sua postura, con la guancia appoggiata alla mano meccanica e la testa appena reclinata di lato, sembrava di nuovo immerso nei suoi pensieri, come se si stesse sforzando di trasporli sulla vetrata assieme alle schermate olografiche così da potervi fare ordine. Sul vetro scorgeva appena il suo riflesso traslucido, che sembrava sospeso sulla coltre di nubi da cui filtrava il riverbero livido del tramonto.
Tony incrociò il suo sguardo nel riflesso e si riscosse, rivolgendole un lieve sorriso che lei ricambiò titubante, imbarazzata per essersi fatta sorprendere ad osservarlo. L'uomo si voltò con studiata lentezza verso di lei, sedendosi di traverso sulla sedia in una posa disinvolta, esibendo un sorrisetto sornione ed esageratamente languido.
«A quanto pare catturo la sua attenzione anche senza volerlo, signorina Potts,» la stuzzicò con voce vellutata e bassa, facendole subito assumere l'espressione indifferente ma segretamente divertita che aveva sempre riservato alle sue innumerevoli avances.
Poteva anche essere rimasto sfigurato, ma non aveva perso neanche un briciolo del suo innato fascino.
«È il suo ego a crederlo, come sempre,» gli fece notare senza scomporsi.
«Il mio ego raramente ha torto,» ribatté lui, nel tentativo di conquistare l'ultima parola, cosa che Pepper non aveva alcuna intenzione di concedergli.
«Il suo ego ha sempre avuto urgente bisogno di essere ridimensionato.»
«Potrei farci un pensierino, dopotutto non c'è nulla che debba compensare,» sogghignò appena e Pepper alzò teatralmente gli occhi al cielo, decidendosi a tornare ad occuparsi dei suoi fascicoli, ma continuò a guardarlo di sottecchi.
Mentra parlavano Tony l'aveva fissata con una strana intensità, e si rese conto che anche adesso il suo sguardo sembrava più assorto e vivo del solito, come se volesse riempirlo appieno di tutto ciò che vedeva. Sentì una stretta allo stomaco che non riuscì a spiegarsi se non dopo qualche istante, e fu come se qualcuno le avesse rovesciato addosso un secchio d'acqua ghiacciata.
Era quello sguardo.
Il ricordo di un quadro rotto, di parole stanche e incomprensibili e di una notte insonne si ripresentò con prepotenza davanti ai suoi occhi e nelle sue orecchie.
"Sei bellissima."
E poi, a un soffio, tutto ciò che era accaduto dopo. Fu costretta a respirare a fondo per riprendere la calma, e si rese conto in ritardo che Tony le aveva parlato nel frattempo. Sollevò un po' bruscamente la testa, tornando a fissarlo, ma stavolta nella sua iride nocciola scorse solo la consueta tinta giocosa.
«Come, scusi?» quasi balbettò, sentendosi immensamente sollevata dalla scomparsa di quell'espressione troppo intensa dal suo volto.
Lui liberò un risolino leggero nel vedere la sua aria assente.
«Ma come, le faccio addirittura quest'effetto?» la canzonò, facendo sì che le sue guance virassero su una sfumatura di rosso più accesa. «Ho detto: mi lascia davvero vincere così?» si decise a ripetere alla fine, con una nota di finto rimprovero nella voce morbida.
Pepper forzò un sorriso sul suo volto, capendo che si riferiva al battibecco troncato su quello che lui considerava probabilmente il più bello.
«Sono fuori allenamento,» confessò sbrigativa, e si pentì di quelle parole nel vedere il modo in cui lui si ritrasse appena, convinto di aver mosso un passo falso.
«Touché,» ammise semplicemente, e un'ombra di quello sguardo balenò per un istante sul suo volto, prima di tornare alla sua solita disinvoltura.
Rimase immobile per un po', abbandonato mollemente sulla sedia come intento a raccogliere i propri pensieri; portò la mano sulla benda, a coprire del tutto lo sfregio sul viso con fare assente. Pepper strinse nervosa le labbra, sentendosi in colpa per aver guastato uno dei rari momenti in cui il vero Tony sembrava trovare il coraggio di riemergere.
«Piuttosto, stavo pensando...» esordì lui repentinamente, afferrando il bastone e alzandosi per avvicinarsi.
Si chinò in avanti poggiando gli avambracci sullo schienale del divano, e sbirciò i documenti che Pepper stava visionando. Nel farlo portò la testa all'altezza della sua, mentre si sporgeva per leggere e scorrere i vari fogli sparsi qua e là. Lei quasi sobbalzò a quell'improvvisa vicinanza, che portava con sé il suo odore misto a una traccia di mentolo e dopobarba; non si ritrasse, ma prese a respirare appena.
«Ah, ecco,» Tony puntò infine l'indice meccanico sull'intestazione di un contratto e sfilò con impaccio il foglio dal dossier, «Il parco eolico: credo sia una buona idea e un ottimo investimento, ho già dato direttive di stanziare i fondi. Devo solo firmare questo, giusto?» si voltò verso di lei interrogativo, e solo allora sembrò rendersi conto della propria posizione, perché si sollevò appena sui gomiti per recuperare distanza tra loro.
Pepper lo fissò con l'aria di chi ha appena visto materializzarsi una tigre parlante in salotto, o qualcosa di egualmente assurdo e inimmaginabile.
«Lei ha controllato personalmente l'agenda delle Stark Industries?» riuscì a formulare dopo qualche secondo di attonito silenzio.
Tony corrugò appena le sopracciglia, perplesso da quella reazione.
«Sì, e allora?»
«Niente. È solo... insolito.»
«Ero curioso.» 
«Curioso?»
A quel punto alla sua espressione un po' accigliata si unì un mezzo sorriso forzato:
«Da quando non posso interessarmi della mia azienda?» disse a metà tra il piccato e il divertito eludendo rapidamente il suo sguardo, cosa che non sfuggì a Pepper.
«Tony, deve dirmi qualcosa?» si decise a chiedere con cautela.
C'erano solo due motivi che potevano spingere Tony Stark anche solo ad avvicinarsi alla burocrazia e al lavoro aziendale: o era impazzito del tutto, o voleva ingraziarsela per avanzare proposte o richieste assolutamente fuori luogo e inappropriate.
«In realtà sì, ma non c'entra con questo. Cioè, non direttamente,» rispose lui dopo una lieve esitazione, giungendo le mani davanti a sé.
Portò le dita davanti alle labbra in una posa riflessiva e si schiarì un poco la gola.
«Il fatto è...» cominciò ancora.
Si bloccò come cercando le parole giuste, cosa assolutamente inusuale per lui, che sembrava sempre sapere cosa dire e come dirlo. 
«Stavo pensando di riorganizzare la Stark Expo,» disse infine, quasi precipitosamente.
A Pepper quasi cadde la mandibola per lo stupore, ma prima che potesse formulare qualsiasi obiezione o commento in proposito fu bloccata dalla voce decisa di Tony:
«È solo un'idea. Ci sto ancora riflettendo, anche se in teoria ho già pianificato il tutto a grandi linee. I fondi ci sono, ma ho pensato che nel frattempo fosse saggio accettare tutto il supporto che riusciamo a trovare. E ci serve uno sponsor per l'energia pulita,» accennò rapido al contratto.
Pepper riuscì a ricomporsi a fatica, in uno sfoggio di autocontrollo notevole:
«È un'idea... immensa. Non dico che sia una cattiva idea, ma, insomma, richiederà un'enormità di preparativi e...»
«Per questo sto chiedendo il suo aiuto,» la interruppe Tony con vivacità quasi eccessiva, sorridendo furbetto. «Il progetto è a buon punto, ma non ho tem–... cioè, mi serve ancora un po' di tempo per perfezionare il tutto. Volevo solo che lo sapesse,» concluse con leggerezza. «Anche se mi farebbe piacere riuscire a completare i preparativi entro sei mesi. Preferibilmente prima,» aggiunse, evitando di nuovo il suo sguardo.
Pepper lo scrutò intensamente, alla ricerca di qualsiasi traccia di sarcasmo o scherzosità, ma non ne trovò. Sentiva che le stava sfuggendo qualcosa, ma non riusciva a focalizzare cosa e ciò la intimoriva e preoccupava. Non capire Tony voleva dire non poter prevedere le sue azioni, e ciò poteva rivelarsi estremamente rischioso. Decise di non sbilanciarsi finché non avesse intuito dove voleva andare a parare con quella mossa inattesa.
«Va bene, quando vorrà ne discuteremo meglio,» concordò imponendo fermezza alla sua voce, e le sembrò che Tony si illuminasse a quelle parole, come se si fosse aspettato di incontrare molta più resistenza da parte sua.
«Perfetto, allora domani le faccio vedere i progetti, e mi dirà se sono fattibili dal punto di vista organizzativo,» stabilì allegro.
Non diede cenno di volersi allontanare, e Pepper ebbe l'impressione che fosse sul punto di aggiungere qualcos'altro. Scoccò un'occhiata nervosa e improvvisamente consapevole all'orologio da polso, rendendosi conto di quanto fosse tardi e convicendosi di stare abusando dell'ospitalità di Tony, anche se a lui probabilmente non importava, anzi.
«Va bene, però adesso sarà meglio che vada,» annunciò con tono di scuse, radunando i documenti e le cartelle sparsi un po' ovunque sui cuscini.
Lui trasalì a quelle parole, come se l'avessero colto sovrappensiero, e la guardò stupito mentre finiva di riordinare.
«Di già?» riuscì a chiedere, in modo un po' infantile.
Pepper gli rivolse un'occhiata paziente:
«Sono quasi le sette, ed è stata una giornata pesante,» spiegò concisa, alzandosi e imbracciando la borsa, già diretta all'uscita.
Voleva allontanarsi da quello sguardo di nuovo torbido, da quelle parole estranee che ne lasciavano intuire altre indecifrabili, dalla consapevolezza che le stesse sfuggendo qualcosa e che quel qualcosa fosse fondamentale. E non voleva soffermarsi a riflettere su ciò che era accaduto l'ultima volta che le era sfuggito qualcosa riguardante Tony. In quel momento desiderava solo uscire dalla villa nell'aria fredda e pulita, sperando che la aiutasse a dissipare il velo d'insensata inquietudine che le era scivolato addosso.
«Domattina discuteremo meglio del contratto e della Expo,» aggiunse a mo' di saluto, con un sorriso cordiale.
Tony annuì, ancora chino sul divano. Abbassò appena il capo con aria meditabonda, per poi rialzarlo di scatto come se avesse finalmente preso una decisione:
«Posso chiederle di rimanere a cena?»


***


Pepper si bloccò tra l'atrio e il salotto, la mano a mezz'aria nel gesto di recuperare la sua giacca, evidentemente presa in contropiede dal suo invito. Tony non distolse lo sguardo, ma si sentì il cuore in gola e si chiese cosa diavolo gli fosse passato per la testa.
"Bravo, Tony. Alla faccia dell'approccio discreto."
«Signor Stark...» cominciò prevedibilmente lei, titubante e in vago tono di rimprovero, al che Tony corse ai ripari sfoggiando un'espressione disinvolta che non sentiva sua.
Si staccò dal divano, passandosi il bastone da una mano all'altra come un prestigiatore intento a preparare il suo prossimo trucco – o, in quel caso, a porre rimedio a un trucco appena fallito.
«Non si preoccupi, non sarà nulla di esagerato: pensavo a una pizza a portar via e...»
«Non credo sia una buona idea.»
Tony ammutolì per qualche istante, spiazzato dall'improvvisa severità nel tono della donna.
«Andiamo, Pepper, le sto solo chiedendo di rimanere a cena, la mia proposta non cela nient'altro... anche perché al momento non sarei fisicamente in grado di fare altro,» aggiunse in tono eccessivamente scherzoso, per nascondere la delusione alla risposta fredda della donna.
«Signor Stark,» calcò quelle parole con particolare intensità, «la ringrazio per l'offerta, ma sento di doverla rifiutare.»
«Perché?» proruppe lui frustrato, lasciando cadere la sua maschera gioviale.
Pepper sembrò spaesata a quella semplice domanda e perse per un attimo la sua compostezza, lasciando trasparire tutta l'indecisione che nascondeva. Durò un istante, ma non gli sfuggì, ormai allenato da anni a riconoscere ogni sfumatura emotiva della sua composta assistente.
«Penso che sia ancora troppo presto.»
«Troppo presto per cosa? Per mangiare una pizza insieme e discutere di parchi eolici ed Expo?» e allargò appena le braccia per dare enfasi a quella domanda assurda, sentendosi però torcere le viscere al pensiero che lei fosse così turbata da quell'invito.
Non era abituato a vedersi rifiutare da una donna, ma in quel caso non si trattava neanche di quel tipo di invito. Voleva semplicemente parlarle. Solo parlarle.
"Pepper, sto morendo."
Quelle parole quasi gli scapparono di bocca.
Non aveva spazio per pensare ad altro. Il suo stomaco si attorcigliò ancora a contraddirlo, a fargli notare che avrebbe voluto con tutto se stesso che ci fosse spazio per altro, oltre a quello. Forse c'era stato, realizzò, ma ormai era tardi per pensarci.
«È troppo...» 
Pepper lo riscosse, ma s'interruppe di colpo e si strinse la radice del naso tra le dita come a voler ritrovare la calma, per poi fare un gesto secco con la mano, a scacciare la sua reticenza. 
«È troppo presto per me. Non riesco ancora a fare finta che non sia successo niente. Sto cercando di perdonarla in ogni modo... e in parte ci sto riuscendo e so che anche lei ce la sta mettendo tutta per migliorare. Sono contenta di essere di nuovo qui con lei. Ma ogni volta che vedo quello...» additò la fioca luce del reattore al centro del suo petto e inspirò bruscamente, interrompedosi. «Lo sa a cosa penso. E non posso farci niente.»
Tony lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi e si poggiò di peso al bastone, sentendosi come se una stoccata l'avesse colpito proprio in pieno petto quando la donna l'aveva indicato.
«Bene. Questo mi risparmia di introdurle l'argomento della serata,» si trovò a dire piattamente, senza riuscire a frenarsi.
Vide la confusione affiorare sul volto di Pepper e seppe che non sarebbe riuscito a resistere ancora a lungo prima di cedere al flusso di parole che sentiva premere dentro di sé. Ma voleva vivere ancora una parentesi di normalità prima che ciò avvenisse, prima di permettere al mondo di sbriciolarsi sotto ai suoi piedi appena riconquistati.
«Quale argomento?» la voce di Pepper tremò appena, realizzando l'improvvisa gravità di Tony e il ritorno di quello sguardo profondo e cupo che detestava.
«Volevo parlarle. Seriamente. Non sono bravo in queste cose, quindi pensavo che una situazione... informale mi avrebbe facilitato.»
«Se c'è qualcosa che deve dirmi perché non lo fa e basta?»
Tony colse l'urgenza del suo tono, inaspettata. L'urgenza di chi è disposto a mettere tutto il resto in secondo piano di fronte a un problema più grande, ignorando qualsiasi futile questione in sospeso. Seppe in quel momento che, sotto tutta la sua delusione e il suo distacco, Pepper non aveva mai, neanche per un istante, smesso di preoccuparsi per lui, e forse anche di volergli bene, nonostante il modo orribile in cui si era comportato con lei. Quella consapevolezza affondò con un peso spiacevole nel suo petto assieme a tutte le altre cose, reali e non, che lo opprimevano.
«È complicato. Probabilmente sarà difficile parlarne. È il genere di argomento che si affronta meglio a stomaco pieno,» cercò di sdrammatizzare, ma lo sguardo di Pepper raggelò il sorriso che aveva tentato di formare.
«Quanto devo preoccuparmi?»
"Pepper, sto morendo."
Trasse un lungo sospiro, capendo che tutti i suoi buoni propositi di passare una serata serena e piacevole per prepararsi a dirle ciò che doveva erano appena saltati.
«Ho detto che voglio riparare ciò che ho rotto. Forse però dovrò prima romperlo un po' di più, e non sono sicuro che dopo potrò ancora raccogliere e rimettere insieme i cocci e...»
«Tony, la prego, non è così che...»
«Non mi importa, se non è così che dovrei fare!» proruppe lui a voce alta, sentendo improvvisamente il sangue che prendeva a rombargli nelle orecchie.
Pepper trasalì appena.
«Sto cercando di migliorare a modo mio; se lei non me lo permette e vuole che lo faccia a modo suo, non ce la farò mai!» 
Si sarebbe strappato la lingua per la propria veemenza, ma si trovò a continuare ancora, tagliente e alterato:
«Tutto ciò che le stavo chiedendo era un momento, un solo momento di tregua per parlare!»
Pepper gli rivolse uno sguardo incredulo e colpevole, e fu come se fossero tornati a un giorno di quasi un anno prima, in una cucina ancora integra, per poco, con una brocca schiantata per terra e una domanda lasciata in sospeso che aleggiava tra loro. Stavolta però non diede voce agli altri pensieri crudeli che lottavano per emergere. Li ricacciò indietro e si limitò a fissarla smarrito e affannato, sentendosi semplicemente esausto e sul punto di soccombere al dolore al petto.
Fu colto da un improvviso giramento di testa e barcollò all'indietro, trovando l'appoggio del divano sul quale si lasciò cadere di peso. Portò la mano alla fronte trovandola bollente al tatto, e si chinò a nascondere il volto col gomito poggiato sul ginocchio, avvertendo il cuore in preda alle palpitazioni. Portò una mano al petto, accanto al reattore, stringendo la stoffa della felpa come a domare quel battito impazzito. Riconosceva quei sintomi, adesso erano solo più accentuati a causa della sua agitazione, e lottò per riprendere controllo del proprio corpo imbizzarrito.
Sentì montare una frustrazione mista a quella che identificò come paura, semplice e cruda, che iniziò subito a premere ferocemente contro la sua gola e il suo occhio chiedendo solo di strabordare. Gli si appannò la vista e si immobilizzò per evitare che le lacrime traboccassero. Aveva rovinato tutto, come sempre. Non era così che doveva andare. Non voleva rimanere di nuovo solo, non adesso.
Sentì un ticchettio di tacchi avvicinarsi, poi percepì la figura esile di Pepper che si sedeva accanto a lui in silenzio, in attesa. Non osò alzare la testa sconvolta dal sollievo di saperla ancora lì finché la sua visione non fu di nuovo ben asciutta e nitida. Schiacciò il palmo sulla fronte, come a spremerne fuori i pensieri venefici che la occludevano. Avrebbe dovuto dire qualcosa, scusarsi, ma non riusceva nemmeno a schiudere le labbra tirate.
«Mi dispiace.» 
Pepper anticipò le parole che avrebbe dovuto pronunciare lui e sentì il nodo alla gola sciogliersi appena. 
«Ho esagerato,» concluse in un bisbiglio costernato. 
Lui riuscì a sollevare lo sguardo verso i suoi occhi chiari e se ne sentì trapassare.
«No, hai ragione,» dichiarò, lasciando cadere le formalità. «Così non risolvo nulla.» 
Deglutì a vuoto: non avrebbe comunque risolto nulla mandando avanti quella farsa patetica. Prese a tormentare la zip della felpa, chiusa fin sotto il mento per celare l'intrico plumbeo che da qualche giorno aveva iniziato a risalire il collo.
«Vuoi ancora dirmi cosa succede?» gli chiese lei dopo molti, lunghi secondi.
Dal suo tono gentile e venato di apprensione capì che avrebbe anche potuto ritrarsi e lei l'avrebbe accettato, come aveva provato ad accettare tutto ciò che aveva commesso nel corso quell'anno. Avrebbe cercato di capirlo, avrebbe aspettato e aspettato ancora, mossa da una pazienza e una perseveranza per lui inconcepibili verso qualcuno che si rivelava puntualmente una delusione. Trovò l'idea insopportabile e si trovò ad annuire appena in risposta, con la testa pesante, oppressa dal peso delle sue stesse bugie. Percepiva la tensione di Pepper al suo fianco e si sentì in colpa per quello che le stava facendo penare. Sarebbe stato così semplice ignorare tutto e fingere fino all'inevitabile. Ma aveva promesso a se stesso e agli altri di essere migliore di così.
Il silenzio si protrasse e sapeva che, prima o poi, avrebbe dovuto romperlo lui. Sapeva già come. Che senso aveva girarci intorno? Che senso aveva addolcire la pillola? Quelle parole gli ronzavano in testa come api insistenti da settimane, fastidiose e sempre più pungenti e bizzose, col rischio di sfuggirgli in ogni istante.
Trasse un respiro profondo e con esso le liberò, vibranti e spigolose:
«Pepper, sto morendo.»
Fu poco più di un sussurro, ma sembrò echeggiare nel salone come un rombo temporalesco. Chiuse brevemente l'occhio per poi costringersi a riaprirlo e rivolgersi verso di lei. La trovò impietrita, con lo sguardo vacuo e sgomento che sembrava passargli attraverso.
«Cosa?» riuscì infine ad articolare con voce sottile, nel chiaro tentativo di raccapezzarsi, con la flebile speranza di aver capito male.
«Non volevo dirtelo così.» 
Fu l'unica risposta che lasciò le sue labbra, colorata da una punta di risentimento che avrebbe voluto estirpare. La vide sbiancare fino a diventare cerea, come se qualcuno avesse risucchiato ogni pigmento dal suo volto, ora chiazzato solo dal tenue arancio delle sue efelidi.
«Come...» non sembrò in grado di aggiungere altro, così Tony raccolse le sue forze per ricomporsi e rimanere lucido:
«Il palladio mi sta intossicando,» disse, stavolta con voce chiara, benché bassa.
Esitò, per poi aprire la zip della felpa e scostare appena il colletto della maglia sottostante, rivelandole una porzione del reticolo bluastro che gli attraversava il torace, il tutto senza osare guardarla in faccia. Colse i suoi occhi che si sgranavano a quella vista. Sperò che bastasse. Non avrebbe avuto senso aggiungere parole vuote ad altre parole vuote.
Lasciò il colletto e tirò nuovamente su la zip con un gesto secco; la stoffa tornò a celare il groviglio venefico. Si chinò in avanti incrociando le braccia sul petto, con le mani a stringersi le spalle in un'ulteriore protezione. Sbirciò in direzione di Pepper e la vide scuotere appena la testa ad occhi sbarrati, sotto shock e sempre più pallida.
Non aveva pensato a cosa avrebbe fatto dopo. Aveva pianificato il prima e il come, che erano ovviamente andati a rotoli. Aveva pensato per giorni a come liberarsi del macigno che gli premeva nel petto. Non si era assolutamente preparato a fronteggiare la sua reazione e aveva evitato in tutti i modi di immaginarla, spinto dal solo, egoistico pensiero di volersi liberare di quel peso al più presto prima che lo schiacciasse.
«Da quanto?» le parole di Pepper ruppero il silenzio, inaspettatamente fredde.
«Da quando mi hanno impiantato il...»
«Da quanto lo sai?» scandì lei in tono vibrante.
Si voltò a guardarla e vide l'azzurro dei suoi occhi farsi duro come ghiaccio. Gli mancò l'aria nei polmoni.
«È stato il motivo per cui ho tentato di...» 
Strinse i denti nel sentire la sua voce che si incrinava, rifiutandosi di formare quelle parole, ma sapeva che non ce n'era bisogno: la mano che era corsa al reattore l'aveva tradito.
Il volto di Pepper si fece livido.
«Non il solo motivo,» si corresse lui, rendendosi conto di suonare patetico. «Uno dei tanti, ma... ma questo è inevitabile. Dopo che ho tentato di... dopo l'intossicazione è migliorata, e credevo di poter trovare una soluzione. Non ci sono riuscito.» concluse in un mormorio appena udibile.
Pepper giunse le mani davanti al volto e la sentì respirare profondamente, non seppe se per placare la rabbia o qualche altra emozione che non le aveva mai visto provare. Non osò avvicinarsi, né toccarla, né parlarle, anche se non avrebbe voluto far altro che stringerla a sé, pur sapendo che l'avrebbe sicuramente respinto. Rimase immobile e rigido, più simile a una statua di sale e sentendosi come se il suo corpo fosse sul punto di spezzarsi di netto. Voleva solo chiudersi di nuovo nel suo guscio, isolarsi da tutto e tutti, anche se tutto se stesso gli gridava di non voler morire da solo.
«Tutte quelle chiacchiere su sincerità e fiducia... e non me l'hai detto
Tony si sentì accartocciare il cuore nel sentire la delusione di cui erano intrise le sue parole.
«La situazione sembrava sotto controllo,» ribatté debolmente.
«Sotto controllo?» il tono di Pepper s'innalzò di un'ottava, divenendo stridula in quella che sembrava una morsa di panico e Tony poté finalmente vedere i suoi occhi tremolanti.
La donna si alzò di scatto, come se non potesse sopportare di stare accanto a lui per un secondo di più.
«Hai cercato di ucciderti per questo e hai il coraggio di dire che era tutto sotto controllo?» riprese il comando della propria voce, ma lo sforzo per mantenerla bassa e ferma era tale da farla tornare rossa in volto. «Quanto puoi essere egoista?»
A quelle parole il volto di Tony si inasprì, solcato di risentimento.
«Egoista?» respirò a fondo dal naso per calmarsi, sentendo il cuore che tornava a pompare in un ritmo irregolare e doloroso. «L'ho fatto solo per non causare altri problemi,» sibilò.
«Cosa, esattamente? Tentare di ucciderti o non dirmi che stai morendo?»
Pepper piantò gli occhi nel suo e lui vacillò, spiazzato da quella domanda, ritrovandosi nella ben nota situazione di non sapere dove puntare il suo sguardo, finché qualcosa non scattò in lui e la sua unica iride nocciola si fissò con decisione in una di quelle cerulee di Pepper.
«Non ho intenzione di giustificare il mio tentato suicidio; non posso né ho mai voluto farlo.» Sentiva la sua voce fremere nel realizzare quanto la persona che avrebbe dovuto capirlo più di tutte lo avesse frainteso e ciò lo colpì più duramente di qualsiasi condanna a morte. «Pensavo che almeno questo l'avessi capito,» concluse voltando la testa senza celare il suo sdegno, e la vide trasalire appena.
Si umettò le labbra, senza sapere perché si sentisse così insensatamente arrabbiato, né perché quella rabbia si stesse convertendo in un dolore acuto che sembrava permeare il suo intero corpo.
«Non ti ho detto nulla del palladio perché non volevo darti altre preoccupazioni. Te ne ho già date abbastanza e pensavo che almeno stavolta sarei riuscito a cavarmela da solo, ma...» la sua voce si spense e lasciò in sospeso il resto di una frase inutile senza che potesse impedirselo.
Si sentiva improvvisamente spossato. Non gli importava più della reazione di Pepper, né del palladio, né di Iron Man. Avrebbe solo voluto dormire, risvegliarsi e avere una soluzione in mano. Quasi gli venne da ridere a quel desiderio così infantile.
Pepper continuava a tacere, rigidamente in piedi, come se non si sentisse realmente lì. Non osò guardarla. Era giusto che lo accusasse, ed era anche giusto che non sapesse come reagire a quell'ennesima mancanza da parte sua.
«Sono stanco,» mormorò infine. «Da mesi faccio progressi che non mi porteranno da nessuna parte.» 
Sollevò mollemente il braccio meccanico, soffermandosi a contemplarne la placcatura rifinita. Ammirò la cura che aveva instillato in ogni dettaglio della mano, la precisione maniacale con cui aveva riprodotto le linee del palmo, le sottili scanalature che aveva tracciato per adattarla un giorno all'armatura. Riconobbe la stessa dedizione che suo padre aveva riversato in quel plastico della Expo, nella speranza che diventasse qualcosa di buono per tutti e non solo per se stesso. Qualcosa in cui credere, una ragione di vita, un qualcosa all'altezza di quell'unica cosa giusta mai realizzata.
Pensò alle ore trascorse in laboratorio, ai collaudi, alle notti insonni e alle crisi di rabbia e frustrazione, ai suoi errori, a tutto ciò che aveva rifiutato e accettato di se stesso in quell'anno, alle cadute, alle mani tese che aveva accolto, alla gioia di potersi ergere nuovamente sulle sue gambe, alla stima che aveva riconquistato con ogni goccia di sudore versata per migliorarsi.
«Se non trovo un'alternativa al palladio la mia aspettativa di vita è di sei mesi, forse un anno.» Sentì la sua voce spezzarsi di colpo e non la frenò, si lasciò precipitare insieme ad essa. «Che me ne faccio di queste, adesso?» 
Strinse convulsamente le protesi e si trovò a singhiozzare, senza capire come fosse accaduto.
Si ripiegò su se stesso, nascondendosi con una mano il volto rigato di lacrime e implorando che il suo guscio ormai incrinato tornasse ad avvolgerlo, a proteggerlo, a contenere quell'ennesima debolezza. Sentì invece le mani di Pepper che si adagiavano sulle sue spalle, per poi indurlo a rialzare il viso per stringerlo a sé, con fermezza. Lui non oppose resistenza e si abbandonò inerte a quell'abbraccio, tiepido e saldo attorno al proprio corpo freddo e tremante. Premette il volto sulla sua spalla, col respiro spezzato, sentendo il guscio che avvizziva e scivolava via senza che potesse fare nulla per impedirlo. Tentò ancora di soffocare un singhiozzo contro la stoffa della sua giacca, ma si ritrovò a cedere ancor di più, sussultando appena nella stretta della donna. A quel punto si arrese, e si trovò solo a desiderare di avere due occhi per piangere.
Si liberò del tappo che sentiva dentro di sé, quello che aveva soffocato il dolore finora, e permise a tutto ciò che aveva sublimato e trattenuto in quell'anno di riversarsi finalmente fuori. Si trovò frastornato dalla mole di sensazioni vertiginose che lo investì, tanto che non seppe più per cosa, esattamente, stesse piangendo. Gli sembrò solo che quel costante senso di oppressione al petto si allentasse un poco, tra un singulto e l'altro.
Quel senso di liberazione completa era esattamente quello che aveva bramato nel momento in cui si era tolto il reattore, solo per ritrovarsi con sconcerto ancora più costretto dalle sue stesse catene nel rendersi conto del proprio errore. Aveva dovuto ricominciare da capo, e ci era riuscito: infine aveva vinto, anche se per poco e in modo effimero. Questa invece era una battaglia che non poteva vincere, ma solo portare a termine cadendo sul campo sotto il peso dei suoi difetti. Aveva creduto di aver accettato quel destino beffardo, e adesso si trovava a rifiutarlo con ogni lacrima di angoscia, rabbia e disperazione che gli solcava le guance.
Sentiva le mani di Pepper che lo cingevano ferme, accarezzandogli la schiena, e il profumo della sua pelle, e i suoi capelli ramati che gli solleticavano il volto, e il suo calore morbido e rassicurante contro di lui. Inspirò a fondo, stordito da tutti quegli impulsi e aggrappandosi a ognuno di essi con repentina lucidità, come quando si era ancorato alla sua voce a un passo dal baratro.
Non era pronto a morire.
Quel pensiero cancellò ogni altro, naturale, semplice e prepotente quanto irrealizzabile, e solo allora la strinse a sé, quasi a impedirle di dissolversi. Lei accostò la guancia alla sua, continuando a sostenergli la testa e ad asciugargli di tanto in tanto una lacrima con il pollice. La sentì poggiarsi a sua volta contro di lui, in silenzio, le labbra premute contro la sua tempia. Tremava appena nel suo abbraccio e forse stava piangendo anche lei, ma non volle saperlo con certezza. I suoi singhiozzi si attenuarono appena, scivolando infine in un pianto sommesso ed esausto al quale non era ancora in grado di sottrarsi. 
Tenne il volto nascosto contro di lei e aspettò con crescente sollievo che quella marea benefica finisse, lasciandosi cullare dalle sue mani.


***


10 Gennaio, Villa Stark, 20:15

Tony trasse un altro sospiro tremolante, avvertendo ancora un leggero sussulto nel petto. Percepì Pepper sospirare di rimando e passargli distrattamente una mano tra i capelli. Socchiuse l'occhio a quel contatto, sentendo la tensione residua scivolare via dai suoi muscoli. Si adagiò meglio contro lo schienale del divano, senza sciogliere l'abbraccio che li univa. Anche quando il pianto era scemato, lasciandolo inerme e prosciugato, era stato incapace di separarsi da lei. Sentiva che se l'avesse fatto si sarebbe spezzato definitivamente.
Lei sembrava esserne cosciente e assecondò il suo movimento, continuando ad accarezzargli i capelli in modo forse inconsapevole. Non capiva se cercasse quella vicinanza per pietà o perché ne traeva anche lei un qualche tipo di conforto, ma non era il momento di cercare un risposta. Le sfiorò a sua volta il braccio in una carezza istintiva, con lo sguardo fisso sul salotto in penombra, interrotta fiocamente dal riverbero delle braci morenti nel caminetto. La sentì stringersi di più a lui e incassare il volto nella sua spalla per sfuggire il suo sguardo, col respiro che gli scaldava la pelle.
Tony si rilassò appena a quel gesto e si passò una mano sulla guancia ruvida di sale, per poi tornare a posarla sulla schiena della donna; anche quel movimento gli sembrò estenuante.
«Come ti senti?» la voce di Pepper gli sfiorò il collo.
Lui si schiarì un poco la gola, sentendola arida e gonfia.
«Meglio.»
La sua voce suonò cavernosa, come se provenisse da sottoterra. 
«Tu?» chiese subito dopo, realizzando con un po' di ritardo quanto fossero vuote, eppure necessarie quelle domande.
«Meglio,» confermò lei, flebilmente.
Nessuno dei due aveva la certezza che fosse la verità, ma era ciò che entrambi avevano bisogno di sentire. Rimasero in silenzio, intimoriti da quella situazione anomala, ma senza alcuna intenzione di turbarla, preferendo annidarsi in quel momento di quiete.
«E adesso?» 
La domanda sfuggì le labbra di Tony di sua volontà, sospesa e irreale.
Pepper si scostò un poco da lui, così da guardarlo in volto.
«Adesso, raccogliamo i cocci,» rispose con semplicità.




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Note: *inserire musica di Super Quark* Kintsugi (letteralmente "riparare con l'oro"): pratica giapponese che consiste nella riparazione di oggetti in ceramica usando oro fuso per saldarne assieme i frammenti. La pratica nasce dall'idea che dall'imperfezione possa nascere una nuova forma di perfezione.

Note Dell'Autrice:

Ed eccoci finalmente qui, al capitolo da cui è partito tutto. Questo è stato il primo che ho scritto quando ho ripreso la storia, a gennaio, ed è rimasto pressoché immutato nel corso di questi mesi, salvo aggiunte e correzioni minori, per cui vi sono particolarmente affezionata, considerando che da qui si sono dipanati tutti gli eventi precedenti e successivi.
In realtà credo di non aver poi molto da dire al riguardo, essendo di per sé piuttosto esplicativo... quindi godetevi semplicemente il primo, vero e genuino crollo emotivo di Tony. Per quello di Pepper, si vedrà ;)

Ringrazio tantissimo
_Atlas_ per aver commentato lo scorso capitolo (sono molto curiosa di sapere la tua opinione su 'sto benedetto crollo, visto che lo aspetti da 3 anni e 40 capitoli :'D) e tutti coloro che hanno commentato e/o letto i precedenti e/o aggiunto la storia tra le seguite, preferite o ricordate <3

Il prossimo capitolo arriverà probabilmente tra un mesetto buono, visto che è l'ultimo che ho pronto e gli altri sono ancora in fase di rodaggio. Pubblicare questo ora non è esattamente una mossa brillante, in effetti, ma mi serve un po' di "pepe" per mettermi a tavolino e terminarli senza procrastinare in eterno. A proposito, -7 :P
Sayonara e alla prossima,

-Light-


P.S. Il riferimento a Baltimora è un mio headcanon che fa la sua comparsa nella one-shot Baltimora, 2001 (ovvero, quando Tony Stark perse gli occhiali da sole)
 




© Marvel

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Capitolo 41
*** Dancing in the dark ***



40

 

Dancing in the dark




"Oh, the darkness got a hold on me
How long, baby, have I been away?
Oh, it feels like ages, though you say it's only days
There ain't language for the things I've seen
And the truth is stranger than my own worst dreams
The truth is stranger than all my dreams"

[Meet Me In The Woods – Lord Huron]





10 Gennaio, Villa Stark, 22:30

Il petto di Tony si alzava e abbassava lentamente, a ritmo coi suoi respiri profondi e tranquilli. Di tanto in tanto fremeva nel sonno e il suo volto si contraeva appena, per poi rilassarsi di nuovo in un'espressione pacifica.
Pepper aveva passato l'ultima ora cercando di addormentarsi a sua volta, ma era come se una forza invisibile impedisse alle sue palpebre di chiudersi, costringendola a fissare il buio quasi assoluto del salone, rotto solo dal lieve riverbero dell'oceano alle loro spalle. 
"Raccogliere i cocci" si era rivelato più stancante del previsto, e Tony aveva finito per cedere al sonno sulla sua spalla, per poi ridestarsi di colpo in agitato imbarazzo. Si era poi lasciato guidare docilmente, accettando quel contatto e continuando a dormire con la testa posata sulle sue gambe, troppo esausto per articolare qualunque parola di protesta.
Pepper si chiese per l'ennesima volta cosa stessero facendo e si rispose per l'ennesima volta che non le importava. Strinse appena la stoffa della sua felpa all'altezza del petto, percependo una pulsazione ovattata contro il palmo. L'unica cosa che le importasse era sentire il suo cuore che continuava a battere. Sfiorò con la punta delle dita le sottili diramazioni plumbee che si arrampicavano sul suo collo, percependo il blocco di marmo nel suo petto farsi più pesante, e chiedendosi se fosse la stessa sensazione che accompagnava Tony dall'Afghanistan. Non riuscì a spostare la mano sul reattore e tornò a premerla sul suo petto, all'altezza del cuore.
A quel punto Tony si mosse di nuovo, e stavolta restò in apnea per qualche secondo per poi riprendere a respirare regolarmente con un leggero sibilo; Pepper lo imitò in modo inconscio trattenendo a sua volta il fiato, per poi rimproverarsi della propria apprensione. Non c'era nulla di cui preoccuparsi nell'immediato, si ripeté stancamente come aveva fatto poco prima Tony con lei. Tra qualche mese avrebbe avuto senso lasciarsi prendere dall'angoscia e smettere di pensare in modo razionale, ma per ora doveva solo aggrapparsi a quel battito ancora forte ed energico che riusciva a rassicurarla un poco, anche se temeva di sentirlo accelerare in modo incontrollato o affievolirsi fino a tacere.
Reclinò la testa sullo schienale, ma ancora non riusciva ad abbandonarsi al sonno con serenità. Frammenti acuminati della loro discussione continuavano a punzecchiarla, ognuno simile alla scheggia di uno specchio che rifletteva tutto ciò che avrebbe voluto dire e che invece aveva taciuto.
Lasciò la mano sul cuore di Tony e chiuse gli occhi, ma rimase sveglia nel buio.


***


10 Gennaio, Villa Stark, due ore prima

«Raccogliere i cocci?» ripeté stolidamente Tony, con voce così roca e profonda da essere irriconoscibile.
Sciolse l'abbraccio per poterla guardare in volto, ma rimasero vicini, ancora appoggiati l'uno all'altra.
«Era quello che volevi fare, no?» replicò Pepper, con una sicurezza che non rispecchiava assolutamente il tumulto che stava avendo luogo nella sua testa e nel suo corpo.
Ma era un tumulto ancora lontano e soffuso: lo percepiva come un tenue sferragliare di pensieri sgradevoli in sottofondo, che ancora non riusciva ad isolare e mettere a fuoco uno per uno, se non i più importanti:
"Tony ha pianto. Tony mi ha mentito. Tony sta morendo."
Tre concetti di per sé semplici, eppure inafferrabili. Si fondevano e avvitavano tra loro formando un'unica spirale confusa in cui si sentiva risucchiare, rendendola incapace di puntare la bussola delle sue emozioni in una direzione precisa. Cercò lo sguardo di Tony, trovandolo altrettanto spaesato, e si chiese se non fosse un bene per entrambi sentirsi così apatica e incapace di reagire.
Scorse una lacrima tardiva sfuggire alle sue ciglia e attraversare lentamente la sua guancia, andando a impigliarsi nel pizzetto. La rassegnazione con cui non provò neanche a trattenerla, asciugarla o nasconderla le causò una lieve stretta al petto, nel realizzare di stare finalmente guardando Tony privo di qualsiasi difesa o barriera. Non stava tentando di mettersi al riparo, né di fingere che andasse tutto bene: era completamente esposto a lei, in un campo aperto dove sapeva di poter essere ferito. Era l'atto di fiducia più cieca che avesse mai visto da parte sua, e lo stava donando a lei.
Lui si distanziò un poco e lo vide deglutire con evidente sforzo, sfregandosi poi la gola provata dai singhiozzi.
«Sei sicura?» esalò infine.
«Ci stai ripensando?»
Tony abbassò lo sguardo, puntandolo sulla protesi della gamba che teneva ripiegata sotto di sé. Iniziò a seguire metodicamente le linee del metallo, come se questo potesse aiutarlo a trovare una risposta.
«Pensavo fossi arrabbiata,» affermò invece, arrestando l'indice sullo snodo del ginocchio e prendendo a stuzzicare un bullone con l'unghia in modo assente.
«Sono... preoccupata,» lo corresse lei, nonostante quello fosse decisamente un eufemismo.
Sconvolta e sull'orlo del pianto, con un enorme vuoto che si allargava nel suo petto e la sensazione di precipitare da ore... quello avrebbe reso meglio l'idea, ma non poteva lasciarsi andare proprio in quel momento. Avrebbe avuto tempo per piangere e disperarsi e urlare fino a perdere anche lei la voce, ma dopo. Doveva prima capire cosa stesse succedendo, e non era sicura di poterci riuscire.
«Come sempre,» osservò lui dopo una breve pausa, alzando un poco le sopracciglia con fare colpevole.
«E sono anche arrabbiata, per molte più cose di quante immagini.»
«Credo di poter fare uno sforzo di fantasia,» replicò lui con quieta amarezza.
«Adesso non importa più,» mormorò lei di rimando, quasi tra sé.
Tacque a lungo, soverchiata dai suoi stessi pensieri e dalle immagini che continuavano a proporle. Cosa importava, adesso?
«Non sei costretta a rimanere.»
Tony spezzò di nuovo quel silenzio, parlando in modo stranamente pacato per la situazione in cui si trovava. Non sapeva dire se, come lei, non avesse ancora registrato la reale portata di ciò che stava accadendo o se, al contrario, ne fosse ormai perfettamente consapevole e sapesse che agitarsi ancora non avrebbe cambiato le cose. Lo fissò con aria stralunata, faticando a comprendere ciò che le stava dicendo oltre il rombo che murava le sue orecchie, ma ancora abbastanza presente a se stessa per rispondere con prontezza senza lasciar trapelare il suo stato d'animo. Temeva che quest'ultimo fosse comunque fin troppo evidente dai suoi occhi liquidi e dalla sua voce traballante.
«Non mi sento affatto costretta,» disse, sforzandosi di non vacillare. «Perché credi che voglia rimanere?» chiese poi, a bruciapelo.
«Probabilmente perché ti faccio pena.»
Tony riprese a concentrarsi sulla protesi, stavolta accigliato e con una ruga contrariata a solcargli la fronte.
«Non mi fai pena,» ribatté lei, sforzandosi di ignorare la stoccata che le avevano inflitto quelle parole.
«Ritenta,» sbuffò lui, serrando improvvisamente i pugni come si stesse preparando a fronteggiare un nemico.
«Non ti ho mai compatito, perché dovrei farlo adesso?»
«La formula "ex-supereroe mutilato e orbo con problemi di deambulazione e sei mesi di vita" mi sembra un ottimo incentivo,» replicò con stizza, palesando il disgusto che gli suscitava ciascuna di quelle definizioni.
«Compatire ed empatizzare sono due concetti diversi.»
«... per dire la stessa cosa.»
«Tony, adesso ti stai impuntando.»
«Non mi sto...» s'interruppe di colpo.
Tornò finalmente a guardarla, distogliendosi dai ghirigori che aveva preso a tracciare sull'arto metallico e dalle sue riflessioni altrettanto convolute.
«Ok, mi sto impuntando,» cedette a malincuore. «Cerco... cerco solo di capire. Fa parte del processo di riparazione... credo,» borbottò con uno scatto irrequieto del capo.
Era evidente come quella situazione "priva di barriere" lo mettesse a disagio, ma apprezzò il fatto che si stesse sforzando di non costruirne altre.
«Quindi, perché vuoi rimanere?» riprese, affondandosi una mano tra i capelli e puntando il gomito contro lo schienale del divano a sostenere la testa appesantita, in un gesto che tradì la sua enorme stanchezza.
Sembrava quasi che dovesse cadere addormentato da un momento all'altro, ma la luce acuta del suo sguardo lasciava intuire l'intensa attenzione per ogni parola che pronunciavano.
Pepper prese a torcersi le mani, odiandosi per quel gesto che non riusciva a controllare. Qualunque risposta a quella domanda sarebbe stata inadeguata o incompleta.
Una parte di lei insisteva nel ricordarle che quello stesso uomo aveva cercato di togliersi la vita meno di un anno prima, incurante di chi aveva intorno, ma la mise a tacere con sorprendente facilità, quando non era mai riuscita a ignorarla del tutto nel corso di quei mesi. Aveva sempre avuto il ragionevole sospetto che l'atteggiamento rilassato e ottimista in cui l'aveva ritrovato fosse solo un'altra facciata abilmente costruita, e che in realtà fosse ancora sul punto di cadere: la paura di poter entrare un giorno alla villa e trovarlo di nuovo esanime e in fin di vita era tangibile e insistente, così come quella di non essere in grado di salvarlo, stavolta. Adesso però era emerso quel pezzo mancante che faceva crollare il suo castello di supposizioni scettiche, facendola in verità vergognare della sua sfiducia: se Tony aveva saputo sin dall'inizio dell'intossicazione e della sua gravità – sentì una secca puntura al cuore al solo sfiorare quel pensiero – avrebbe potuto lasciarsi andare in qualsiasi momento. Eppure l'aveva visto lavorare con equilibrio e costanza e tentare di riprendere la vita di prima accettandone i cambiamenti, piuttosto che farsi logorare dai suoi progetti e negare quello che gli era accaduto come lo aveva visto fare in precedenza.
Nell'ultimo mese le era sembrato più cupo e oppresso da mille pensieri che aveva erroneamente ricondotto all'astio generale che provava per il periodo natalizio, ma non l'aveva mai visto scivolare nell'apatia o essere di cattivo umore per più di mezza giornata. Soprattutto, le aveva fatto capire spesso, più a gesti che a parole, quanto fosse realmente contento della sua presenza lì e quanto fosse determinato a rimettere a posto le cose con lei, oltre che col resto del mondo. In quei mesi erano riusciti a riavvicinarsi un passo alla volta. Si rendeva conto che i suoi erano stati piccoli e titubanti, mentre quelli di Tony le sembravano giganteschi nella loro delicatezza, che fossero sotto forma delle sue battute scanzonate, dei suoi sguardi più che significativi, di un regalo di Natale inatteso, del suo evitarle di scendere in laboratorio o di una chiave che aveva deciso di affidarle. Persino poco prima, anche se con immenso ritardo, riluttanza e col peso di troppe bugie, aveva provato a farsi avanti lui di sua volontà, senza aspettare di essere smascherato.
Pepper incontrò la sua unica iride e non trovò lo sguardo di un uomo che vuole morire, ma un'eco lontana di quello che gli aveva visto al ritorno dall'Afghanistan. Forse più colmo di mestizia e stanchezza, provato dal pianto, ma egualmente vivo. Era lo sguardo di qualcuno che non vuole tirarsi indietro, che sa quello che deve fare e sa, in cuor suo, che è giusto. Lo stesso di quella volta, due anni prima, quando lei aveva acconsentito a rimanergli accanto per ciò in cui credeva perché, in fondo, voleva crederci anche lei.
«Perché penso ancora che ne valga la pena,» rispose, con voce bassa ma ferma.
"E anch'io ho solo te," questo riuscì solo a pensarlo, come quella volta sull'Helicarrier; temeva che dirlo avrebbe spezzato quel fragile filo che le stava ancora permettendo di non crollare.
Tony si limitò a fissarla assorto, senza proferir parola. Il suo volto esausto non lasciò emergere alcuna reazione se non un lieve fremito delle sue labbra, come se fosse stato sul punto di dire qualcosa per poi ripensarci.
«Vuol dire che adesso mi sono impegnato abbastanza?» chiese, con un piccolo sorriso a tradire quanto in realtà gli avessero fatto piacere quelle parole. «È ironico,» commentò mestamente, prima che lei potesse rispondere.
«È ingiusto,» ribatté d'istinto lei, e stavolta la sua voce tremò in modo innegabile.
«Potremmo passare tutta la notte a discutere di quanto sia giusto o meno, e non cambierebbe comunque nulla,» osservò lui quasi distratto, portandosi una mano al reattore senza neanche preoccuparsi di nasconderlo.
Pepper non poté fare altro che tacere, sentendo ogni fibra di sé tendersi e contrarsi dolorosamente nel riconoscere la verità di quell'affermazione.
«Davvero non c'è una soluzione?» si trovò a chiedere flebilmente, sentendosi una bambina in cerca di rassicurazioni, e di nuovo il suo sguardo si appannò.
«Non riesco a trovarla.» Scosse piano la testa, come se non riuscisse ancora ad accettare pienamente la sconfitta del suo ingegno. «Ho provato tutto, ormai. Ho persino cercato nello studio di mio padre, ma è stato un altro buco nell'acqua. Non so più che fare,» ammise con sincerità, guardandola smarrito.
«Non puoi arrenderti così,» proruppe lei, con improvvisa veemenza.
Tony inclinò appena il capo, scrutandola con lieve sorpresa. Lei non si ritrasse al suo sguardo: non le importava di suonare implorante, ma vederlo così rassegnato la lacerava e voleva convincersi che spronarlo potesse fare la differenza.
«Non ho il diritto di arrendermi,» asserì sibillino. «Ma non posso neanche sprecare il resto dei miei giorni a cercare una soluzione inesistente,» continuò, con cauta lentezza. «Preferirei impiegarli in qualcosa di più utile,» finì, con un'alzata di spalle.
«La Expo?» indovinò subito Pepper, fissandolo in cerca di conferma.
"Ecco perché voleva allestirla entro sei mesi..." realizzò poi, sentendosi raggelare.
«Anche,» annuì lui, incerto. «Ho vari progetti in cantiere... e sto ancora abbastanza bene. Ho all'incirca tre mesi prima che la mia... condizione inizi a diventare ingestibile. Vorrei sfruttarli al meglio. Non vuol dire che smetterò di lavorare al problema del palladio, ma...» si bloccò con improvvisa reticenza, un attimo prima che la sua voce si sfaldasse, e si passò una mano tra i capelli scomposti.
Inspirò a fondo, recuperando il controllo senza smettere di guardarla negli occhi.
«Ho bisogno di fare qualcosa di concreto.» Tagliò l'aria col palmo a sottolineare quel concetto e a scandire anche le sue successive parole. «La Expo, Iron Man, le protesi, i lavori per K e lo SHIELD... qualunque cosa. Altrimenti impazzisco,» concluse in un mormorio, afferrando poi con forza il polso della protesi fino a sbiancarsi le nocche.
La sua pupilla si era dilatata, enorme e smarrita nel buio, e Pepper colse distintamente la paura che vi si annidava. Posò una mano sulla sua, avvertendone il tremito contratto, e la insinuò poi tra il suo palmo e il metallo per allentare quella morsa. Sperò che quel semplice gesto riportasse un po' di serenità sul suo volto teso, cancellando i segni di quell'angoscia sommersa che aveva lasciato trapelare fugacemente. Lui oppose resistenza, per poi sciogliere la propria stretta serrata e accettare quella più gentile della sua mano.
«Chi altro lo sa?» si decise a chiedergli Pepper, con un pizzico di timore.
«Solo tu, è ovvio,» fugò ogni suo dubbio Tony. «Il Doc sa dell'intossicazione, ma non mi visita da mesi e crede che sia sotto controllo. A quest'ora avrà fatto due più due, ma... non ne abbiamo mai parlato in modo esplicito. Forse K ha intuito più del dovuto, ma non credo ne immagini la gravità,» aggiunse, adesso con aria preoccupata. «Non lo sa nessun altro,» ribadì.
A quel punto rialzò di scatto la testa, estremamente accigliato e con una viva nota di apprensione nello sguardo.
«E deve rimanere così,» asserì con veemenza, aumentando di riflesso la stretta sulla sua mano.
Pepper sospirò appena: se l'era aspettato, ma poteva immaginare che le sue motivazioni andassero oltre il semplice orgoglio, e per una volta concordava con le sue manie di segretezza, almeno per il momento. Tony mal interpretò la sua reazione e prese ad agitarsi, sfuggendo di scatto la sua mano e riportandola alla protesi, in cerca di un altro appiglio sicuro. Iniziò a parlare in modo concitato:
«Sono serio. È importante. Se lo SHIELD lo scopre sarò di nuovo tagliato fuori dal Progetto Vendicatori e io ho lavorato troppo per...»
«Tony, calmati, io non...»
«... a loro importa solo di Iron Man, se lo scoprono vorranno solo sbarazzarsi di me e...» continuò lui imperterrito, ora quasi senza fiato.
«...pensi veramente che andrei a dirlo allo SHIELD o a chiunque altro, se tu non vuoi?» lo interruppe infine, alzando un poco la voce.
Lo trapassò con lo sguardo, sentendosi un po' ferita da quella sua sfiducia, a dispetto delle circostanze che avrebbero dovuto farla soprassedere su un dettaglio del genere.
Lui rimase interdetto per qualche secondo, boccheggiando in cerca d'aria e di una replica adeguata, per poi ammutolire. Si mosse in cerca di una posizione più comoda sul divano, in modo così rigido che poteva vedere i muscoli del suo collo in tensione, quasi fossero sul punto di spezzarsi assieme alla mascella serrata. Era impallidito, tanto che la cicatrice sul volto pareva risaltare più del solito; un velo di sudore era apparso sulla sua pelle cerea, nonostante la temperatura tutt'altro che calda. Finì per risistemarsi nella posizione di partenza, fremendo appena.
«Non posso rendere inutile tutto ciò che ho fatto finora,» confessò in fretta, quasi mangiandosi le parole, e dal suo tono fu evidente che non parlasse solo dello SHIELD. «Non posso vanificare tutto e... e sprecare la mia vita e buttare al vento il mio retaggio e... e adesso ho così poco tempo da... non posso,» farfugliò smarrito, guardandosi intorno come se fosse in trappola.
«Non succederà. Cerca di fidarti almeno di me, ti prego,» lo tranquillizzò lei, rendendosi conto solo ora che Tony pareva non sentirla più e continuava a gettare occhiate spaurite attorno a sé, nel buio del salotto, come in cerca di una via di fuga o di una minaccia incombente acquattata nell'ombra.
Ciò che aveva appena detto l'aveva scosso più di quanto volesse mostrare: improvvisamente parve che il divano gli andasse troppo stretto e che volesse scattare in piedi da un momento all'altro. Si aprì la zip della felpa, allargandosi il colletto come se si sentisse soffocare, e prese a respirare rapidamente e in modo discontinuo, con la palpebra serrata. Come quella volta sull'Helicarrier. Pepper si sentì mancare quasi quanto lui e gli posò con timore una mano sul braccio, sentendo il bicipite contratto in modo quasi doloroso. Il suo pugno era chiuso in una morsa che non riuscì ad allentare in nessun modo.
«Tony?» cercò di riscuoterlo, sentendo la paura che prendeva a pulsarle nello stomaco, risalendole come una scossa lungo gli arti.
«Sto bene, è solo...» riuscì a balbettare lui con voce più acuta del normale, tra un respiro sempre più affannato e l'altro.
Serrò di scatto entrambe le mani attorno al reattore, raggomitolandosi su se stesso e sfuggendo alla sua presa.
«Tony! Tony, guardami.» 
Cercò di intercettare il suo sguardo e gli sfiorò appena una guancia. A quel contatto lui si ritrasse di colpo come se si fosse scottato; tentò di alzarsi precipitosamente in piedi, ma crollò di nuovo sul divano tenendosi la gamba meccanica con un singulto sofferente. Pepper incrociò per un istante il suo occhio e vi lesse puro terrore e smarrimento, tanto che rimase paralizzata lei stessa sul posto, mentre Tony si chiudeva di nuovo a riccio, adesso rantolando.
Cosa doveva fare? Non sapeva dire per quale motivo si stesse sentendo male – era un attacco di panico? Un infarto? Il palladio? – e saperlo non l'avrebbe comunque aiutata a fare qualcosa. Per un attimo si sentì trascinare a nove mesi prima, nel laboratorio, e lo rivide davanti a sé riverso a terra, pallido come adesso e immobile...
Si costrinse a riscuotersi quasi con rabbia. Si impose di rimanere ancorata al presente: era e ora che Tony aveva bisogno di lei, e se l'aveva salvato una volta poteva farlo una seconda, si ripeté, mettendo a tacere le acute voci di panico che continuavano ad emergere come aghi nella sua testa. Si accostò di nuovo a lui, stavolta con più lentezza, nonostante si sentisse fremere per l'angoscia. Adesso le voltava le spalle, col capo stretto tra le braccia, la fronte sulle ginocchia e le mani intrecciate sulla nuca a stringersi i capelli e coprirsi le orecchie, accartocciato su se stesso nel tentativo di vincere l'iperventilazione. Non era del tutto certa che fosse cosciente di ciò che accadeva attorno a lui.
«Tony?» lo chiamò ancora, non osando toccarlo di nuovo.
«Oddio... sto cadendo,» gemette lui appena comprensibile, e il suo respiro spezzato si arrestò con un singulto, come se qualcosa lo stesse soffocando.
«Non stai cadendo, sei qui. Va tutto bene,» sussurrò nel tono più rassicurante che le riuscì, ma allarmata dalla sua apnea. «Respira.»
«Non ci riesco!» rantolò lui, senza sollevare il volto. «Sto cadendo...» ripeté flebilmente, con voce rotta e nauseata, e si contrasse ancor di più come per frenare quella caduta immaginaria, espirando quasi in un colpo di tosse per la carenza d'aria.
«... Pepper?» la chiamò strozzato, in un uggiolio impotente.
«Sono qui,» rispose subito lei.
Solo a quel punto si arrischiò a posargli una mano sulla schiena, trovandola scossa da violenti brividi e sussulti mentre tentava ancora, inutilmente, di prendere fiato. Lo sentì sobbalzare a quel contatto, ma stavolta non si ritrasse. Esitò per un breve istante, senza la minima idea di cosa fare, poi si lasciò guidare dall'istinto, sperando solo di non peggiorare le cose: si appoggiò appena alla sua schiena, percependo chiaramente i tremiti che la squassavano e il suo cuore che batteva come un tamburo fuori tempo contro le coste. Prese come un buon segno il fatto che non si fosse sottratto.
«Tony, sono qui. Respira con me,» lo rassicurò, e inspirò profondamente, cingendogli il torace e cercando di trasmettergli quel movimento.
Lui non rispose, ma lo sentì cercare di inspirare con lei; fu troncato a metà e ripiombò nell'affanno, ma si sforzò di recuperare e dopo un paio di tentativi riuscì a prendere il primo respiro completo. Stentò il secondo, faticando a seguire il suo ritmo, così lei rallentò appena permettendogli di adeguarsi e ritrovare il controllo, parlandogli di tanto in tanto all'orecchio con voce pacata per calmarlo.
«Va tutto bene. Sono qui. Respira,» continuò a sussurrargli, in una nenia che sembrava riuscire a far breccia nella cortina di cieco panico che l'aveva avvolto.
Perseverò, anche se iniziava a sentirsi la testa leggera per il troppo ossigeno, percependo che Tony respirava e si rilassava a poco a poco, pur rimanendo rannicchiato come a proteggersi da un pericolo imminente. Solo dopo molti minuti lo vide infine schiudere la debole difesa delle sue braccia e sollevare la testa, col respiro flebile ma più regolare. Rimase poggiata alla sua schiena anche quando si raddrizzò senza osare muoversi per paura di turbare quell'equilibrio appena ritrovato.
Fu lui a rompere quel contatto per primo, voltandosi verso di lei solo per cercarla di nuovo e poggiare la fronte sulla sua spalla, celando il proprio sguardo. Lo accolse tremando di sollievo e lo strinse a sé con più impeto di quanto intendesse. Lui rimase inerte, completamente abbandonato contro di lei se non per la mano meccanica che era andata di nuovo a stringere il reattore. L'altra si era posata sul suo fianco stringendo appena la stoffa del tailleur, in una ricerca di contatto quasi inconsapevole.
«Mi dispiace,» lo sentì bisbigliare, con voce svuotata di qualunque energia.
«Non lo dire neanche per scherzo,» lo rimbrottò lei con fermezza. «Come stai adesso?» continuò subito, prima che potesse replicare.
Tony tacque per molti secondi, come se stesse riflettendo su quella domanda. Solo quando il silenzio si fece eccessivamente lungo Pepper capì che si era assopito senza neanche rendersene conto. Gli scostò i capelli dalla fronte bollente, e una parte della sua tensione si dissipò nel sentire il suo respiro di nuovo regolare che le intiepidiva la spalla.
Si chiese se adesso si fosse infine guadagnata il diritto di piangere, ma si ritrovò con gli occhi completamente asciutti.


***


11 Gennaio, Villa Stark, 01:00

Si svegliò cadendo.
Aprì con cautela l'occhio, incontrando la penombra del salone e realizzando di essere sdraiato supino sul divano e non per terra come aveva temuto. Cercò di scacciare le vertigini e i milioni di puntini che danzavano nella sua visuale come moscerini impazziti. La testa non gli aveva mai fatto così male come in quel momento, neanche dopo la peggiore delle sbronze, e desiderò solo di potersi riaddormentare, cosa che i mille chiodi conficcati nel suo cervello e la nausea avrebbero sicuramente reso molto difficile.
Realizzò dopo qualche istante di essere solo: aveva un cuscino sotto la testa e un plaid rimboccato addosso, ma di Pepper non c'era traccia. Maledisse il suo sonno insolitamente profondo per non essersene reso conto. Probabilmente era tornata a casa. O forse dormiva nella stanza degli ospiti. Volle credere a quell'ultima ipotesi, che trovò conferma quando scorse i suoi tacchi abbandonati per terra. D'altra parte, dubitava che l'avrebbe mai lasciato da solo dopo quanto era successo. Che cose fosse successo, di preciso, faticava a spiegarselo lui stesso.
Si portò una mano al petto, tracciando sovrappensiero la sagoma del reattore. Sentiva ancora un tangibile nodo d'ansia alla bocca dello stomaco, pronto a stringersi e trasformarsi in qualcosa di peggiore. Non avrebbe saputo dire cosa l'avesse fatto precipitare in quel baratro di panico irrazionale e incontrollabile. Forse il terrore di essere di nuovo messo da parte dopo tutti i suoi sforzi, forse la semplice, umana paura di morire che era infine scattata dentro di lui con potenza ancestrale, forse la debolezza causata dalle prime, vere lacrime in quasi vent'anni.
Si era sentito come se si stesse dondolando su una sedia, immerso nei propri pensieri cupi, ma tutto sommato rilassato. Poi si era spinto audacemente un po' troppo indietro, quel tanto che bastava per turbare il suo precario equilibrio, con un vuoto allo stomaco e la sensazione di caduta imminente e inevitabile. Era rimasto bloccato in quell'istante di paura, prolungato all'infinito. E non c'era una sedia da rimettere a posto per porvi fine, non c'era neanche un pavimento su cui schiantarsi. Solo il vuoto, buio e profondo, un rombo nelle orecchie e un'incudine bollente nel petto; poi una forza brutale l'aveva cacciato fuori dal suo stesso corpo, sottraendogli il comando e costringendolo a guardare dall'esterno mentre cadeva per minuti interi, senza fiato, come se un'arma l'avesse arpionato alle viscere trascinandolo senza preavviso verso il basso. Si portò una mano all'addome, quasi aspettandosi di trovarvi conficcato qualcosa, ma avvertì solo uno spiacevole formicolio che andava a fomentare la sua nausea.
Non riusciva a immaginare cosa sarebbe potuto accadere se non ci fosse stata Pepper con lui. E non aveva intenzione di provare a farlo. Era con lui e non se ne sarebbe andata, almeno per ora.
Si tirò su a sedere, mettendo a tacere le proteste del suo corpo indolenzito e recalcitrante. Si tastò cautamente i punti di sutura delle protesi, trovandoli innaturalmente caldi e dolenti come non lo erano da mesi. Aveva urgente bisogno dei suoi antidolorifici, magari anche di un bagno caldo, poi avrebbe dormito per un mese. Recuperò a tentoni il bastone caduto per terra e si issò in piedi con un mugolio, sentendosi più malfermo del solito sulle gambe, ma abbastanza in forze per raggiungere il bagno.
Ne uscì mezz'ora dopo, più rilassato, meno dolorante e con un senso di torpore indotto dall'acqua calda e dagli analgesici. Si frizionò i capelli ancora tiepidi e umidi, sentendosi rimesso al mondo. Si era liberato della felpa a collo alto che aveva ormai esaurito la sua funzione, optando per una semplice t-shirt nera che lasciava intravedere qualche vena intossicata attorno alle clavicole. Persino il fatto di poter indossare ciò che voleva senza preoccupazioni lo faceva sentire un po' meno teso.
Stava per avviarsi in camera sua, già mezzo addormentato, quando si bloccò con un sospiro: doveva prima bere la sua inutile clorofilla. Al solo pensiero sentì i primi scampoli di sonno ritrarsi di scatto, e quella che riuscì ad associare solo a una secca, inattesa puntura sulla nuca che mandò una scossa lungo la sua spina dorsale risvegliando i suoi sensi intorpiditi. Fece dietrofront, barcollando verso la cucina, e solo allora notò che la luce era accesa. Temporeggiò in corridoio, chiedendosi se fosse il caso di entrare, infine si spronò a non esitare: Pepper l'aveva sicuramente sentito avvicinarsi grazie all'inconfondibile rumore della sua protesi combinato al ticchettio del bastone sul pavimento, quindi tanto valeva non fare la figura del vigliacco. E poi non poteva permettersi di rinunciare neanche a una goccia di clorofilla.
Varcò la soglia con decisione, accompagnato dal secco clonk del piede metallico, e subito desiderò d'aver fatto più piano: Pepper era seduta al tavolino, profondamente addormentata con la testa sulle braccia incrociate; accanto a lei giaceva un tazza di tè mezza vuota e ormai fredda. Si avvicinò di un passo, in punta di piedi per quanto possibile e cercando di poggiare delicatamente la protesi per non svegliarla, diretto al piano cucina alle sue spalle dove aveva individuato una borraccia di clorofilla. Arrivato accanto a lei non poté fare a meno di guardarla, suo malgrado incuriosito.
Di rado gli era capitato di vederla dormire o anche solo riposarsi. L'immagine costante che aveva di lei era quella di una donna energica, sempre impeccabile e composta e apparentemente instancabile. Sorrise appena quando notò che come pigiama improvvisato gli aveva sottratto una vecchia maglietta dei Clash che le stava tre volte più grande e un paio di pantaloncini che le arrivavano comunque sotto il ginocchio. I capelli ramati erano sciolti e sparsi sulle spalle, con ancora una leggera piega ondulata per via della solita coda alta.
Era strano coglierla al di fuori del suo ruolo professionale e la cosa suscitava in lui un insolito sollievo. Era una sensazione che non riusciva del tutto a collocare; sapeva solo che vederla per un momento non preoccupata per lui o impegnata in qualcosa che lo riguardava lo faceva sentire meglio.
In quel sollievo s'insinuò anche una bruciante colpevolezza nel notare i suoi occhi gonfi e le guance rigate di sale, ancora leggermente umide. Represse la tentazione di avvicinarsi a lei per timore di svegliarla, e anche di ciò che avrebbe potuto fare lui stesso, oltre che della reazione di lei. Si guardò istintivamente la mano metallica, fissando poi il suo braccio poco sopra il gomito, come aspettandosi di trovarvi ancora impressa un'orma rossa e rovente. Non riusciva ancora a capacitarsi di come avesse potuto stringerlo a sé con così tanta naturalezza. Distolse lo sguardo con un rinnovato senso di vertigine e nausea che stavolta non aveva nulla a che fare col palladio.
Raggiunse infine la sua mèta e si attaccò di malavoglia alla borraccia, accogliendo con disgusto quel sapore che detestava, ma si forzò a ingollare senza pause l'intero litro di clorofilla.
"Come se servisse a qualcosa..." pensò tetramente mentre posava la borraccia sul bancone, reprimendo un moto di stizza per non far rumore.
Pepper continuava a dormire beatamente e ne udiva il respiro rallentato e profondo: doveva essere esausta, la capiva fin troppo bene. Sarebbe dovuto uscire, spegnere la luce e lasciarla riposare, ma esitò e rimase poggiato al bancone della cucina, fissando intentamente la sua schiena snella incurvata sul tavolo. Il collo era piegato di lato in un'angolazione rigida e aveva una guancia poggiata per metà sulle mani e per metà sul piano di vetro leggermente appannato. Si era addormentato in quella posizione abbastanza spesso per sapere che si sarebbe svegliata con un torcicollo devastante e tremendi crampi alle spalle; lui almeno ci aveva ormai fatto l'abitudine. Si sfregò il pizzetto colto dall'indecisione, che durò ben poco, visto che i suoi piedi zoppicanti lo avevano già portato al fianco della donna di loro volontà.
Si chinò appena su di lei, ancora molto
restio a toccarla, a maggior ragione se lei ne era inconsapevole.
«Pepper?» la chiamò a bassa voce. «Pepper?» tentò di nuovo, più forte ma senza risultati evidenti.
Sospirò: dimenticava che, quelle poche volte che dormiva, era come se cadesse in letargo.
«Pep?» stavolta si accostò al suo orecchio e ottenne un mugolio di risposta quando si forzò infine a posarle la mano sana sulla spalla, riscuotendola gentilmente dal suo torpore.
Lei sollevò appena la testa, schiudendo a fatica le palpebre e mettendo a fuoco il suo volto con lieve sorpresa.
«Signorina Potts, sono io quello che si addormenta in posti improbabili: le sue sono solo squallide imitazioni,» la prese in giro con dolcezza, rivolgendole un tenue sorriso.
«Tony?» articolò lei, raddrizzandosi del tutto con sguardo più vigile. «Va tutto bene?» chiese poi, allarmata, sebbene ancora intontita dal sonno.
«Sto bene. Davvero,» si affrettò a rassicurarla, evitando i sottintesi di quella domanda. «Lei, piuttosto, stava rischiando di svegliarsi con la schiena e il collo a pezzi, ma l'ho salvata in tempo, da bravo super-eroe,» proseguì, mantenendo la conversazione su un tono leggero.
Si era scostato un poco, ma rimase accanto a lei, con la mano ancora posata sulla sua spalla in un contatto appena accennato che era incerto se rompere o meno. Rimase attento a captare il minimo segno di fastidio o disagio da parte sua.
«Grazie,» mormorò Pepper, inclinando con una smorfia il collo indolenzito e stropicciandosi gli occhi arrossati senza curarsi di nasconderli. «Non mi ero neanche accorta di essermi addormentata,» aggiunse, a giustificarsi.
«Sì, di solito il sonno funziona così,» la canzonò lui, strappandole a sua volta un lieve sorriso. «Mi creda, sono un esperto del settore.» 
Nel parlare si accigliò appena notando che gli occhi di Pepper si erano fatti liquidi, probabilmente in modo inconsapevole e slegato da ciò che le stava dicendo. Fece finta di niente e rilassò di nuovo il volto.
«Non dovrebbe dormire anche lei?» gli fece notare Pepper, in un richiamo bonario.
«La mia insonnia è giustificata e inevitabile,» rispose lui, scivolando senza volerlo in un tono più cupo.
Pepper esitò, e lui ebbe l'impressione che la sua aria composta potesse sfaldarsi al primo soffio di vento.
«Anche la mia,» ribatté infine, fissando le vene più scure che sbucavano dal suo colletto.
«Ha anche lei del palladio nel sangue?» gli sfuggì, in modo troppo ambiguo per far capire se fosse una battuta o un rimprovero, e non sapendo lui stesso come volesse intendere quelle parole.
Pepper cercò il suo sguardo con occhi improvvisamente addolorati e lui sospirò, staccando la mano dalla sua spalla per portarsela alla nuca in un gesto stanco.
«Questa era pessima,» ammise, contrito.
«Vorrei riuscire a scherzarci su anch'io,» alzò le spalle lei, senza risentirsi, ma distolse lo sguardo.
Tony indugiò sul posto, poi si sedette sul bordo del tavolo di fronte a lei per alleviare la pressione sul moncherino.
«Andrà tutto bene,» si trovò a mormorarle, forse rivolto più a se stesso che a lei.
Soppresse l'impulso di accarezzarle il volto e tenne le mani raccolte in grembo, strette l'una all'altra a frenarsi da gesti che non era neanche certo di volere o poter compiere. Pepper alzò lo sguardo a incontrare il suo, ovviamente non persuasa da quelle parole banali e artefatte. Tony si chiese da quando le sue iridi fossero diventate di un azzurro più profondo e se avessero sempre avuto tutte quelle sfaccettature. Forse era per via dei suoi occhi ancora lucidi.
«Non ci crede neanche lei,» replicò stancamente, cercando però di riflesso la sua mano.
Tony la avvolse d'istinto tra le sue, per poi realizzare ciò che aveva fatto e rimanere paralizzato, lottando contro l'impulso di sottrarre quella artificiale. Rimase sorpreso quando lei non si ritrasse al contatto col metallo e, anzi, gli strinse il pollice meccanico con una naturalezza che lo lasciò confuso.
«Per ora no, ma ci sto lavorando,» affermò schietto, con una debole alzata di spalle. «C'è sempre una via d'uscita. Devo solo trovarla o inventarla, no?» aggiunse poi, con più convinzione di quanta ne provasse.
A quello Pepper non rispose, ma avvertì la stretta della sua mano farsi più salda tra le sue e sperò di essere riuscito a rassicurarla almeno un po'. Rimasero in silenzio per qualche minuto senza avvertirne il peso, accogliendolo come un balsamo dopo così tante ore colme di apprensione e negatività, rinfrancati l'uno dalla presenza dell'altro.
Dopo un po', Tony si accorse che Pepper iniziava a faticare nel tenere gli occhi aperti, così si scostò dal tavolino e le strizzò appena la mano per riscuoterla.
«
Signorina Potts, va a letto da sola o devo portarcela io?» la stuzzicò con un sorrisino malizioso ripescato chissà dove.
«Credo di potermela cavare da sola,» ribatté pronta lei, accogliendo quel tono spensierato come una boccata d'ossigeno.
«Peccato,» commentò lui, mettendo su il suo impeccabile broncio unito alla collaudata espressione da cane bastonato.
Pepper scosse la testa in un finto gesto di esasperazione e si alzò dal tavolo, coi movimenti rallentati e cauti che tradivano la sua stanchezza, ma gli rivolse un piccolo sorriso mentre s'impegnava meno del solito a ignorare le sue moine. Tony la sorresse d'istinto nel vederla un po' instabile e quasi gli venne da ridere per la situazione surreale in cui lui, quello con evidenti problemi motori, aiutava lei. Pepper uscì dalla cucina, coi piedi nudi che si posavano silenziosi sul marmo e i lembi di quei vestiti troppo larghi per lei che ondeggiavano appena attorno alla sua figura esile e aggraziata. La fissò quasi ipnotizzato. Avrebbe potuto avere addosso uno straccio di ultima mano e saperlo calzare con la stessa eleganza di un vestito di Chanel. Si trovò a seguire i suoi passi senza rendersene conto, spinto da un impulso che non era sicuro di dover assecondare. Lei non obiettò, se non quando furono ai piedi delle scale.
«Mi sta facendo da scorta?» osservò, in una domanda scherzosa che però ne tradiva una più seria, unita a un tenue rimprovero.
«
Devo tenerla d'occhio, in caso decida di sgattaiolare in ufficio per lavorare,» alzò le spalle lui, salendo al suo fianco i gradini e tentando di sfoggiare disinvoltura mentre si impegnava a non terminare la serata ruzzolando giù e perdendo la poca dignità superstite.
Pepper gli scoccò un'occhiata divertita da sopra una spalla, rallentando appena per permettergli di arrivarle accanto.
«Da che pulpito...»
«
... il migliore,» terminò lui, con un mezzo ghigno.
Arrivò infine in cima alla rampa affaticato e con una fitta intercostale, ma integro. La accompagnò fino alla porta della sua camera, iniziando a farsi un po' più cupo ad ogni passo, e si fermò a una distanza superiore al necessario, esitando.
«Allora io andrei a...»
Pepper s'interruppe, notando lo sguardo grave che le stava rivolgendo e il modo nervoso in cui spostava il peso da un piede all'altro, ticchettando a terra col bastone. Si limitò a fissarlo interrogativa, con un lieve imbarazzo che si palesò nel rossore affiorato al suo volto.
«Senti, lasciamo per un attimo da parte le formalità, anche se in effetti sono molto comode...» iniziò incerto lui.
Deglutì a vuoto, trovandosi sotto il tiro dei suoi occhi chiari, fattisi di nuovo penetranti e inquisitori.
«Forse è il caso di parlare di nuovo delle nostre "esistenze complicate".» 
Scrutò la sua reazione, che fu un misto di sorpresa e riluttanza: tamburellò brevemente sullo stipite con le dita sottili, meditando sul da farsi.
«Pensavo volessi dormire.»
«Non sai quanto, ma stasera ho già dato il meglio di me. Ho pensato di chiudere in bellezza,» sospirò lui con debole ironia, rivolgendole un sorriso altrettanto fiacco. «Seriamente, è una faccenda che mi peserebbe molto lasciare... in sospeso,» aggiunse a mo' di spiegazione, per poi abbassare di colpo lo sguardo, schiacciato dal reale significato di ciò che aveva detto.
Si costrinse a prendere un respiro profondo, sperando di non cadere di nuovo nell'affanno, ma avvertì solo la costante costrizione al petto farsi un po' più marcata, come se anche la sua ansia fosse troppo stanca per provare davvero ad assalirlo.
«Forse è meglio se ci sediamo,» lo invitò lei, con un'occhiata alle sue gambe sempre più instabili, e in un solo movimento schiuse la porta varcando la soglia per prima.
Tony esitò una frazione di secondo per poi entrare a sua volta, avvertendo le palpitazioni del tutto illogiche del suo cuore mentre cercava di ignorare il fatto di essere in camera di Pepper, con Pepper e che stavano per sedersi insieme sullo stesso letto mentre parlavano di... loro? Maledisse i propri pensieri incontrollati. Non avevano altro su cui orientarsi? Per esempio il palladio che lo stava uccidendo? A quel punto si lasciò sfuggire un involontario sospiro esausto, concludendo che le agitate elucubrazioni riguardo al loro rapporto ambiguo erano comunque più piacevoli di quello.
Pepper accese l'abat-jour mentre lui si lasciava cadere con ben poca leggerezza sulla sponda del letto, soffocando un lamento: fare le scale non era stata un'idea così saggia, nelle sue condizioni già provate. Non appena la donna si sedette accanto a lui captò un deciso tuffo al cuore e seppe che non aveva speranza di intavolare alcuna discussione logica, con lei così vicino.
«Ti dispiace se mi sdraio?» chiese quindi, scostandosi un poco. «Non sono proprio in forma, stasera,» si giustificò a disagio, dandosi una pacca sulla gamba meccanica e sperando che la vera causa della sua tensione non fosse così evidente.
Lei alzò le spalle a significare che non era un problema e Tony si distese con sollievo, affondando la testa nel cuscino. Realizzò di aver commesso un errore quando riconobbe il profumo di Pepper rimasto impresso sulla federa. Non poté fare a meno di inspirarlo a fondo, dandosi mentalmente dell'idiota mentre indulgeva in quel gesto del tutto inappropriato. Lei si sistemò seduta sull'altro posto, poggiata contro la testiera e abbastanza vicina da poterla sfiorare allungando una mano, se mai avesse voluto. La osservò di sottecchi mentre si raccoglieva i capelli in uno chignon morbido, e si costrinse a distogliere lo sguardo da quei riflessi ramati, prima che diventasse troppo vacuo.
«Quindi...» esordì Pepper, schiarendosi un poco la voce e spostando dietro l'orecchio una ciocca ribelle sfuggita all'elastico.
«Sì...» ribatté Tony, altrettanto a corto di inventiva su come affrontare l'ennesimo discorso complicato e per di più distratto da quel gesto e dall'orma del suo profumo.
Si passò una mano sul volto e dissimulò un colpetto di tosse, esitando.
«Forse conviene partire dalle basi,» ragionò infine Pepper, traendolo d'impaccio.
«Qualunque cosa significhi, per me va bene,» concordò lui con vigore, accogliendo sollevato il fatto che fosse lei a parlare per prima.
«Ci conosciamo da quasi dieci anni,» esordì lei a mezza voce, come se avesse timore di ciò che stava dicendo.
«Mi sopporti da dieci anni.»
«Soprattutto.»
«Fa parte del mestiere, no?»
«Di solito ti sopporto volentieri.» Si bloccò, diventando poi paonazza. «Di solito.»
«Ormai l'ha detto, signorina Potts. Verrà messo agli atti e usato contro di lei,» sogghignò Tony, sentendosi lusingato da quell'ammissione, sebbene un po' colpevole per quello che le aveva fatto "sopportare" ultimamente.
Lei gli rivolse un'occhiata storta, ma sembrava apprezzare il fatto che stesse cercando di stemperare un po' l'imbarazzo con le sue solite battutine sfacciate.
«In dieci anni hai mai pensato di fare questo... tipo di discorso?»
«Che intendi?»
Ma aveva già capito benissimo dove volesse andare a parare e, se da un lato la cosa lo feriva, dall'altro capiva come quello fosse un dubbio ragionevole dal suo punto di vista.
«Se non fossi in... in questa situazione, ne parleresti?» confermò i suoi sospetti lei, ancora a sguardo basso e torturando l'orlo del lenzuolo.
Tony sbuffò appena, pentendosi con tutto se stesso di essersi andato a cacciare in quella situazione senza uscita. E, per di più, con l'auto-imposta promessa di essere sincero.
«Diciamo che fino a qualche tempo fa non ne avrei mai parlato in questi termini. Ma non è un capriccio dell'ultimo minuto,» chiarì con fermezza. «Ci sei... ci sei sempre stata. Già in Afghanistan ho avuto modo di riflettere su quali fossero le mie priorità, e ho capito... hai capito,»
tergiversò, deglutendo con la gola secca.
«L'ho capito anch'io mentre non c'eri,» lo sorprese Pepper, in un tono dolce che raramente le aveva sentito usare e che accelerò i suoi battiti. «Il punto è...»
«Il punto è che sto morendo,» completò lui con durezza, provando l'improvviso e inspiegabile bisogno di dirottare il discorso su un piano più crudo e realistico. «E questa è una variabile che di solito non si considera in nessuna... in nessun rapporto di qualsiasi tipo,» si corresse in fretta esitando a classificare il loro in termini netti, anche quello lavorativo era andato a farsi benedire da tempo.
Pepper giunse i palmi davanti al volto e poggiò i gomiti sulle gambe incrociate, come nel tentativo di assorbire quello che le aveva detto.
«Che casino,» riuscì a dire soltanto, in tono così stanco da non sembrare quasi più lei.
«Non mi sono mai piaciute le cose semplici,» la rimbeccò lui, e Pepper sobbalzò a quelle parole.
Tony sprimacciò con un brusco gesto il cuscino, rifugiandosi poi nel suo odore rassicurante: iniziava a sentirsi frustrato e in gabbia, mentre avrebbe solo voluto abbracciarla e stringerla a sé, fregandosene di tutto il resto e di ciò che sarebbe arrivato dopo. Ma sarebbe stato solo l'ennesimo gesto egoista e impulsivo che avrebbe poi rimpianto. Non poteva imporle tutto ciò. Non si meritava qualcuno di così rotto, che aveva rischiato di rompere anche lei e che poi l'avrebbe lasciata sola.
«Senti, vorrei solo capire cosa vuoi fare tu,» sbottò infine, rendendosi conto con rassegnazione di come la sua voce fosse di nuovo instabile. «Ho bisogno di avere almeno una certezza nella mia vita, oltre a...» la frase sfumò a metà, nel rendersi conto di quanto sarebbe suonata crudele. «Quello,» concluse con un nodo in gola, pentendosi per essersi lasciato andare.
«Possiamo non decidere queste cose a tavolino?» proruppe lei, innervosendosi a sua volta ed evidentemente turbata dalle sue parole.
«Stiamo solo analizzando i fatti.»
«Appunto. Qui non stiamo parlando dei tuoi progetti o di un teorema.»
«In realtà ci sarebbe l'equazione di Dirac che...»
«Ti prego, non cominciare. Stiamo cercando di fare il punto della situazione.»
«Beh, siamo al punto in cui mi rubi i vestiti e...»
«È un'emergenza, sai benissimo che...»
«... credo rappresenti un traguardo importante, no? Insomma...»
«Tony, non provare a sviare il discorso.»
«Beccato.» 
Lui alzò appena le mani, chiedendosi come facesse a parlare in modo così leggero con quel peso sul petto che avrebbe dovuto schiacciarlo, e trovando risposta nel sorriso appena intuibile che si era disegnato sul volto di Pepper. Scosse la testa, in un rimprovero a se stesso per quelle reazioni che sfuggivano totalmente al suo controllo. Tornò serio e si sforzò davvero di non divagare ancora:
«Senti, se anche vorrai andartene...»
«Ti ho già detto che la mia risposta è no
Lui tacque, di nuovo incredulo di fronte alla sua volontà di rimanere.
«Trovare altri lavori dev'essere veramente difficile al giorno d'oggi, signorina Potts,» commentò infine, evitando il contatto visivo con lei.
«E lei, signor Stark, è veramente inopportuno.»
«Concordo, ma potrei comportarmi molto peggio, vista la situazione,» concluse, guardandola con un accenno della sua solita espressione da discolo impertinente che inclinò verso l'alto le labbra della donna.
La vide accigliarsi subito dopo, scuotendo appena il capo.
«Tony, so cosa vorrei fare... ma non è così semplice.»
«Prova a spiegarmelo. Anche non a parole, tanto abbiamo ancora tutta la notte,» insinuò, tirando di nuovo un sorrisetto e sperando di suscitarne un altro sul suo volto per allontanare di nuovo quella cappa opprimente che incombeva sui suoi pensieri.
Lei invece gli scoccò un'occhiata di blando rimprovero, per poi farsi seria. Così seria che il sorriso sul volto di Tony si oscurò all'istante, riconoscendo la durezza inequivocabile nei suoi occhi limpidi.
«Mi hai mentito,» dichiarò infine lei. «E questo è qualcosa che non posso ignorare, al contrario di tutto il resto. Posso perdonare le cucine distrutte, le sbronze, le risse, le scappatelle disastrose, la tua arroganza e le tue risposte ingrate, perché capisco che almeno avevi dei motivi per comportarti così, per quanto discutibili,» disse tutto d'un fiato, lasciandolo per un momento frastornato di fronte all'enormità e al numero di errori che aveva commesso.
Tenne lo sguardo fisso sul braccio che le aveva ferito, chiedendosi se non avesse menzionato quell'episodio per una semplice dimenticanza o consapevolmente e non riuscì a darsi risposta. Colse però l'occhiata fugace che rivolse al reattore. Forse avrebbe voluto aggiungere anche quello alla lista di errori perdonabili. O forse era lui a voler essere troppo ottimista.
«Mentirmi non ha giustificazioni,» concluse lei, con durezza.
«So di aver sbagliato,» replicò quasi automaticamente lui: era così stanco di ripeterlo.
«Non volevi dirmi di Iron Man, non mi hai detto di quanto stessi davvero soffrendo dopo l'incidente, non mi hai detto dell'intossicazione fino ad ora...» 
Pepper si coprì la bocca con una mano, fissandolo corrucciata e con lo sguardo più addolorato che le avesse mai visto, e non ebbe bisogno di sentire il resto per rispondere, più bruscamente di quanto intendesse:
«Non ho più nulla da nasconderti.»
«Come faccio ad esserne sicura?»
«Cosa potrebbe esserci di più grave di questo?»
Si ritrovò ad alzare la voce e si allentò il colletto in un gesto quasi irato, scoprendo le vene intossicate, uniche vere colpevoli di tutta quella situazione. Vide Pepper sobbalzare e ritrarsi a quella vista. Si pentì della sua reazione avventata e lasciò che la maglietta tornasse a coprire quel reticolo venefico, mantenendo però la mano posata sul reattore.
«Sono al capolinea, non avrebbe senso mentire ancora, soprattutto a te,» riprese, di nuovo pacato e in quel tono meccanico che non gli apparteneva.
«E io voglio crederti. Ma non posso ignorare il fatto che tu abbia mentito a tutti per un anno intero, su più questioni, costantemente.»
«Non sempre,» replicò lui sottovoce, ma gli mancò il coraggio di continuare.
«Non sto dicendo di non aver commesso errori io stessa,» continuò lei, senza sentirlo. «Ho sbagliato anch'io. Avrei dovuto ascoltarti davvero, capire che non potevi stare bene e dirti che mi sentivo... che mi sento in colpa per quello che ti è successo, ma...»
«Ci pensi ancora?» la interruppe lui, incupendosi.
Lei si limitò a fissarlo senza parlare: il suo sguardo di nuovo afflitto rispose per lei e Tony avvertì una dolorosa stretta allo stomaco. Rimase a sua volta in silenzio, non sapendo come dissipare dai suoi occhi quell'angoscia e quel rimorso ingiustificati, e finì per sfiorarle quasi inconsciamente il ginocchio, rompendo le barriere che si era imposto in un tenue gesto di conforto a cui lei non si sottrasse.
«Quando abbiamo litigato, in laboratorio...» esordì di colpo, inciampando però nelle sue stesse parole.
Pepper smise di torturare l'orlo del lenzuolo e lo guardò di sottecchi. Tony si arrischiò a continuare, esitante, rompendo il contatto con la sua pelle:
«È stato mesi e mesi fa, magari neanche ti...»
«Mi ricordo,» lo contraddisse lei, stringendo di nuovo la stoffa tra le dita.
«Ok, lasciamo da parte il "pre-doccia di caffè" e passiamo al dopo,» disse in fretta, sentendo di nuovo divampare la vergogna per il modo in ci l'aveva trattata in quell'occasione. «Dopo sono stato sincero.»
«E poi hai ripreso a comportarti esattamente come prima.»
«Non intendevo quello. Insomma, hai ragione, ma non mi riferivo solo a ciò che ho detto,» si interruppe, premendo le labbra e concludendo che quella era davvero una pessima idea, ma si costrinse a continuare: «Ero sincero anche quando... anche in quello che stavo per...» incespicò ancora, portandosi una mano al volto in un moto di frustrazione.
Rinunciò a quella pantomima e sprofondò di nuovo nel silenzio, mandando al diavolo i chiarimenti. Che pensasse ciò che voleva: ormai non aveva comunque importanza, con un piede già nella fossa.
«Cosa avresti voluto fare?» insistette lei con sua sorpresa, dando perfettamente a intendere come conoscesse già la risposta a quella domanda, ma volesse sentirla con le sue orecchie.
«Secondo te cosa avrei voluto fare?» la rimbeccò puntando lo sguardo altrove, all'altro capo della stanza.
"Secondo te cosa vorrei fare adesso?" pensò invece, affondando la testa nel cuscino e chiudendo l'occhio per impedirsi di vederla, annegando però in quel profumo che gli stava dando alla testa suggerendogli azioni sconsiderate.
Sapeva che se in quel momento avesse incrociato i suoi occhi o guardato le sue labbra o sfiorato la sua pelle avrebbe ceduto. Per l'ennesima volta, si rammentò di dover essere migliore di così.
Lei non era una Everhart qualunque, non era una delle sue modelle o belle donne in cui si era concesso di perdersi per anni senza rimpianti, non era un desiderio passeggero che gli scaldava il basso ventre lasciandogli freddi il cervello e gli occhi schermati da lenti scure, non era una singola notte passata a cercare qualcosa in cui forse non aveva mai creduto e che neanche si era mai aspettato di trovare. Qualcosa che aveva trovato lontano dalle sue feste sfrenate e dal suo mondo dorato di piaceri ed eccessi: era emerso in una grotta buia quando la sua vita era attaccata a una batteria, riecheggiava nel richiamo lontano che lo aveva spinto ad aggrapparsi alla vita anche quando questa avrebbe voluto sbarazzarsi di lui, o lui di essa.
Non poteva cedere di nuovo solo perché si sentiva debole e spaventato.
«Probabilmente quello che vorresti fare anche ora,» constatò infine lei con un'acutezza che lo fece quasi boccheggiare.
Tony si voltò infine a incrociare i suoi occhi, più penetranti che mai, e stavolta non riuscì a sottrarvisi. Poteva mentire. Poteva ancora dirle che stavano ingigantendo una questione banale, che non era del tutto lucido e stava farneticando, che era umano e naturale che si sentisse attratto da lei, o che era semplicemente terrorizzato dalla paura di morire da solo. C'era un fondo di verità in ognuna di quelle risposte.
Quella che gli sfuggì era l'unica che non avesse bisogno di alcun filtro, e lasciò le sue labbra intonsa nella sua semplicità:
«Non è un segreto che io ti voglia nella mia vita.» Deglutì a vuoto, senza osare muovere un muscolo. «Ma non con del palladio che mi avvelena, un corpo da buttare, attacchi di panico e sei mesi davanti. Non ho spazio per pensare a... ad altro, anche se vorrei. Anche se vorrei,» ripeté a fatica, chiudendo infine la palpebra per nasconderle quanto gli stesse pesando fare quell'ultima confessione.
Udì un suo respiro più profondo. Non un sospiro, né uno sbuffo: un semplice moto istintivo, quasi a scacciare la pesantezza di quelle parole.
«Su questo siamo d'accordo,» commentò infine, sibillina e forse sovrappensiero.
Tony avvertì un'improvvisa morsa di gelo nelle viscere e riaprì di scatto l'occhio.
«Non fraintendermi...» 
Pepper continuò a parlare senza alzare la testa, concentrata sugli arabeschi del lenzuolo.
«Ho capito benissimo. È comprensibile che tu non voglia qualcuno di così problematico o rotto nella tua vita, soprattutto dopo quello che ti ho fatto passare,» lo disse in modo deciso ma senza rancore, col medesimo senso di distaccata accettazione che aveva provato quando aveva realizzato di star morendo.
«Sei un idiota.»
A quelle parole Tony rialzò lo sguardo, allarmato dal tremito che le aveva scosse. Pepper lo fissava con occhi lucidi, forse più ferita di quanto l'avesse mai vista.
«Pensi che sarei ancora qui, se pensassi una cosa del genere? O che sarei rimasta accanto a te per tutto questo tempo, se ti considerassi solo un qualcosa di "rotto"?» gli chiese tagliente, alzando a poco a poco la voce. «Non è più quello il problema più importante,» continuò alterata, indicando infine il reattore al centro del suo petto, che lui coprì d'istinto con fare protettivo.
«Non è ciò che hai detto qualche ora fa,» ribatté disorientato, in cerca di un appiglio e senza sapere come sottrarsi a quella furia inspiegabile.
«Fino a qualche ora fa non sapevo che stessi morendo!» proruppe lei, a voce più alta.
«Non so dirti che cosa vorrei fare adesso, perché non so neanche che cosa stia succedendo e non voglio capirlo,» concluse, concedendosi infine un sospiro tremolante.
A quel punto le sue lacrime traboccarono, ma in silenzio, con una compostezza così innaturale che gli ci volle più di qualche secondo per registrarle.
«E questo perché mi hai mentito, come sempre,» ripeté, con voce rotta.
Tony a quel punto si sollevò con sforzo sui gomiti, lacerato tra l'istinto di abbracciarla e quello di scappare di lì prima di infliggerle altre ferite. Ma prima che potesse prendere una decisione, Pepper tirò appena su col naso, si asciugò con forza le lacrime e tornò a guardarlo, con una sorta di fierezza negli occhi ancora umidi che lo persuase a rimanere al suo posto.
«Neanch'io ho spazio per pensare ad altro. Anche se vorrei.»
Tony riuscì solo ad annuire appena in risposta, ancora paralizzato, con lo sguardo vacuo e la lingua intorpidita. Ricadde sdraiato, sentendosi privo di forze e spezzato da quell'ultima, schietta affermazione.
Si portò una mano al volto, iniziando a capire cosa intendesse Pepper nel dire che non sapeva cosa stesse succedendo.
Quando le aveva chiesto di parlare non aveva avuto una chiara idea di come sarebbe finita la discussione, né di cosa volesse ottenere lui stesso. In realtà, una parte di lui aveva sempre saputo che la conclusione sarebbe stata quella, e non trovava la forza di ribellarvisi. Non ancora, almeno, non quando si sentiva così debole e a un passo dal baratro.
«Ok,» riuscì a dire con voce stentata «Allora siamo davvero d'accordo, anche se per motivi diversi,» mormorò frastornato.
«Tony, non sto parlando in modo definitivo. Ti sto solo chiedendo di darmi... di darci tempo,
» capitolò infine Pepper, fissandolo intensamente a rafforzare la sua richiesta.
Quell'affermazione inaspettata portò con sé una ventata di sollievo e un velo di serenità che sciolse il nodo di tensione in cui si erano avviluppate le sue membra.
Sfruttò quella calma momentanea per parlare, finché ne era in grado. Non poteva permettersi di rimandare nulla, e i dubbi e le esitazioni erano un lusso che non poteva più concedersi:
«Ho un paio di milioni di cose a cui pensare, il doppio da risolvere e la metà del tempo che mi servirebbe per farlo,» esordì in tono stanco, ma determinato. «A questo punto sarebbe stupido correre.» Alzò un sopracciglio con aria ovvia. «Ho fatto un errore dietro l'altro, ma almeno ho imparato che le cose riescono meglio quando si fanno un passo alla volta.»
Tornò a guardarla, incatenando i loro occhi per essere sicuro che nessuna sfumatura di ciò che voleva dirle passasse inosservata.
«E appunto per questo neanch'io credo che sia il momento giusto per...» esitò brevemente, per poi rinunciare a trovare una metafora calzante e fissarla interrogativo, sentendosi allo stesso tempo pervadere da un calore improvviso. «Per qualunque cosa volessimo provare a far... funzionare.»
Pepper annuì in risposta, indecifrabile, e sperò che avesse capito ciò che intendeva: sarebbe stato fin troppo facile tuffarsi a capofitto in qualcosa di piacevole fingendo che tutto il resto non esistesse. Avrebbe potuto baciarla lì, in quel momento, avrebbero potuto passare tutta la notte a cercarsi e trovarsi, finalmente, dimenticandosi del resto – del palladio, delle bugie, del futuro incerto – e continuare a dimenticarsene per i giorni e le notti successivi.
E dopo? Cosa sarebbe successo quando avrebbe iniziato a stare davvero male, quando avrebbe inevitabilmente cominciato a mentirle di nuovo e ad allontanarla da sé per schermarla dalla propria sofferenza? Si sarebbero solo ritrovati con qualcosa di affrettato e incompleto, fragile e troppo doloroso da sostenere. Sarebbero stati legati con un nodo malfatto, impossibile da sciogliere se non recidendolo di netto, condannandola così a convivere col groviglio doloroso che si sarebbe lasciato dietro. Non era abbastanza coraggioso per affrontare una situazione simile, né abbastanza vigliacco per trascinarvi lei.
Soprattutto, in fondo, sentiva di non meritarsi quel tipo di felicità dopo aver sbagliato così clamorosamente, più e più volte, ferendola a più riprese.
Prima ancora di guarire nel fisico doveva combattere tutto ciò che lo teneva sveglio la notte e venire a patti con l'ombra dei suoi errori che continuava a perseguitarlo. Poi avrebbe dovuto aprirsi davvero, con tutti i suoi difetti e debolezze, e aspettare che anche lei fosse pronta a fare lo stesso. Si rendeva conto di non essere l'unico ad avere qualcosa da riparare, e mentre lei poteva intuire con discreta chiarezza dove fossero le sue fratture, lui riusciva a malapena a intravedere quelle che segnavano lei. Si era aspettato di chiudere
una di quelle porte che continuavano a occhieggiare dietro di lui, ma alla fine l'aveva socchiusa per entrambi. Forse un giorno avrebbero potuto decidere di varcarla senza esitazioni, se avessero ancora avuto tempo per farlo.
«È strano sentirti parlare di calma, ragionevolezza e prudenza.» 
Pepper inclinò appena le labbra in un qualcosa che poteva essere un sorriso, così come una smorfia amara, e si sfregò le guance ancora bagnate.
«Chissà, magari in dieci anni sei riuscita a contagiarmi con un po' del tuo buonsenso,» commentò, con un mezzo sbuffo soffocato dal cuscino.
«Anch'io ho solo te,» proruppe lei a sproposito, e Tony ebbe l'impressione che avesse voluto dirlo già da molto tempo.
Ebbe anche l'intuizione di non replicare, prima di scoraggiarla dal dire altro.
«E voglio solo starti accanto,» affermò infatti subito dopo, con il tono di chi si è tolto un enorme peso dal cuore tornando finalmente a respirare.
«Allora ti chiedo di starmi accanto nel modo che ritieni più giusto. Non ho bisogno d'altro. So che anche questo è strano, detto da me,» aggiunse, con un sorriso furbetto che suscitò una lieve esasperazione sul volto ora un po' più disteso di Pepper.
Tony a quel punto s'incupì un poco, cercando la forza di pronunciare le parole che lo avevano oppresso sin da quando riusciva a ricordare:
«E non merito di più.» 
Finì per dirlo molto più piano di quanto avesse voluto. Era stato poco più di un respiro, ma era certo che Pepper avesse sentito benissimo. Fissò le proprie mani asimmetriche e imperfette, una segnata da scalfitture nel metallo, l'altra da ustioni e cicatrici. Percepiva lo sguardo della donna che lo osservava in modo insistente, senza parlare. Dopo qualche secondo di quieto silenzio, sentì le sue dita che si insinuavano tra le ciocche disordinate dei suoi capelli, scostandoli dalla sua fronte in una breve carezza che gli strappò un sospiro involontario.
«Questo non sei tu a deciderlo,» gli disse. «E neanche io,» concluse con un filo di voce, ritraendo la mano.
Con un istante d'esitazione finì per posarla sulla sua guancia sana, in un tocco così leggero che avrebbe potuto essere impalpabile, se lui non fosse stato intento a percepire e accogliere ogni suo gesto. Osservandola, invece dei mille pensieri intelligenti che avrebbe potuto avere, provò solo l'improvvisa urgenza di riportarle dietro l'orecchio quella ciocca fulva e ribelle che continuava a scivolarle davanti al volto.
«Dovremmo cercare insieme la soluzione,» affermò lei con improvvisa fermezza, mentre lo derubava inconsapevolmente del gesto che avrebbe voluto compiere lui e si sistemava sovrappensiero i capelli.
Tony ci mise qualche istante a realizzare cosa avesse detto e rimase un poco spiazzato, mentre risaliva al giorno in cui lui stesso le aveva rivolto quella richiesta. Nel parlare rivolse di nuovo in basso lo sguardo.
«Alle nostre esistenze complicate?»
«A tutto quanto.»
Tony si decise a girare la testa per guardarla, seduta a gambe incrociate con lo chignon sfatto, gli occhi ancora arrossati, le guance rigate e quella maglietta troppo grande per lei che la faceva sembrare ancor più esile di quanto non fosse. Nelle sue spalle appena incurvate, nelle dita della mano libera attorcigliate strettamente attorno al lenzuolo, nei piccoli segni di tensione sul suo volto fine, riusciva a leggere la sua paura. Paura di perderlo, di poter sbagliare, di affrontare una realtà dalla quale lui avrebbe voluto e dovuto proteggerla. E allo stesso tempo percepiva distintamente la sua risolutezza: emergeva dalla piega decisa delle labbra, dalla mano posata sul suo viso, come a voler ancorare se stessa e lui nello stesso punto, dai suoi occhi rossi, sì, ma limpidi e determinati, che sostenevano il suo senza vacillare.
Sentì le proprie labbra incurvarsi spontaneamente verso l'alto, in un sorriso che scaturì da quel punto imprecisato tra il reattore e il cuore che aveva ormai imparato a riconoscere. In quell'istante capì che gli bastava quello: vederla accanto a sé e sentirla così vicina da potersi dimenticare per un attimo di se stesso.
Era sempre Pepper, e quello non sarebbe mai cambiato.
«È un'ottima idea. Non per niente in principio era mia,» puntualizzò, sollevandosi in modo un po' goffo per portarsi seduto accanto a lei e fissarla con tenue impertinenza.
«Sei sempre il solito,» lo riprese prontamente lei nonostante la voce un po' rotta, scostandogli appena il volto con una spinta giocosa.
«Questa sì che è una buona notizia,» la canzonò lui.
Pepper continuò a fissarlo, ruotando leggermente il capo, e lui si rese conto solo in quel momento di quanto i loro volti fossero vicini e di come la mano di Pepper fosse ancora posata sulla sua guancia. Sentì un nodo d'apprensione tornare a strozzargli lo stomaco e rimase immobile, non osando quasi respirare, mentre la loro discussione gli scorreva insistentemente in testa intimandogli di...
"... non fare stronzate," si ripeté, in modo incredibilmente poco convincente.
Guardò Pepper negli occhi, ancora troppo vicini.
Prima di poter realizzare cosa stesse facendo, si sporse appena verso di lei e le sfiorò la guancia in un bacio leggero, senza trovare il coraggio di indugiare troppo a lungo sulla sua pelle tiepida, sulla quale percepì il sentore del sale. Rimase a un soffio da lei, accarezzando con lo sguardo le sue guance punteggiate di efelidi e chiedendosi se iniziare a contarle una ad una potesse essere un modo efficace per distogliersi dalle sue labbra ora appena schiuse in un moto di sorpresa.
«Forse dovremmo...»
«... dormire,» concluse con decisione lei, sostenendo il suo sguardo con fare eloquente senza però spostarsi di un centimetro, guardando di rimando la sua bocca.
Tony si riscosse nell'udire quelle parole già sentite e si ritrasse, rimanendo vicino a lei ma a una distanza più ragionevole, con sollievo e rammarico allo stesso tempo. La mano di Pepper era scivolata sul suo braccio, come se niente fosse accaduto.
«Ho ancora qualche ora di autonomia,» ribatté lui, tentando di riportare la situazione in campo neutrale.
Il suo tono più basso di mezza ottava tradì quanto gli eventi di quella giornata interminabile l'avessero provato, così come lo sbadiglio trattenuto a stento che seguì, e che strappò un'espressione da "te-l'avevo-detto" a Pepper. Si sentiva avvolgere sempre più da una piacevole, rilassata cappa di stanchezza che non aveva nulla a che vedere col senso di crescente esaurimento delle ultime settimane. Forse, almeno per quella notte, sarebbe riuscito a dormire sonni tranquilli.
Scivolò oltre il bordo del letto, recuperò il bastone e si alzò con cautela, controvoglia e sentendo la gamba meccanica che protestava vivacemente per lo sforzo.
«In realtà mi piacerebbe rimanere qui, ma credo che sarebbe inopportuno,» confessò, senza pensarci e pentendosene all'istante.
Si scambiarono un'occhiata e fu chiaro a entrambi che in realtà nessuno dei due lo avrebbe ritenuto così inopportuno.
«Sarebbe strano,» commentò solamente Pepper, con lo sguardo puntato sul materasso.
Tony si limitò ad annuire, ammettendo che non era il caso di confondere ulteriormente le cose, soprattutto dopo ciò che si erano detti e ciò che aveva appena deciso contro ogni presunto buonsenso, così si avviò zoppicando verso la porta.
«Cominciamo da domani? A cercare soluzioni, intendo,» le propose poi con spossato entusiasmo, bloccandosi sulla soglia e appoggiandosi allo stipite.
«È la prima volta che la vedo ansioso di lavorare. Potrei davvero iniziare a preoccuparmi, signor Stark,» lo prese in giro lei, a sua volta assonnata.
«L'ho detto che sta iniziando ad avere una cattiva influenza su di me, signorina Potts,» rispose a tono lui, rivolgendole uno sguardo di finto rimprovero.
Prima di uscire, temporeggiò ancora qualche istante per contemplare il suo volto affaticato, ora ravvivato da un sorriso pieno e deciso che le faceva brillare gli occhi.
Sorrise anche lui: era sempre la sua Pepper.
Forse non si meritava di più, ma non aveva davvero bisogno d'altro.




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Note Dell'Autrice:

Salve, prodi lettori giunti fin qua, e bentornati alla sagra dell'angst! <3
Scherzi a parte, mi rendo conto che questo capitolo è più pesante del solito, per usare un eufemismo. So che vi aspettavate altri sviluppi, ma nonostante la situazione tra quelle due zucchine sia finalmente "chiarita" dovrete aspettare ancora. Ammetto che in questo capitolo è stato particolarmente delicato e mi sono trovata ad affrontare temi per me molto sensibili. Perciò non mi sono sentita di "affrettare" le cose (per quanto sia paradossale un'espressione simile dopo 40+ capitoli...) Non mi dilungo ancora su questo punto: credo che i ragionamenti di Tony sulla "questione dell'attesa" esprimano già tutto, condivisibili o meno che siano :)

Per il resto: tirate un sospiro di sollievo, perché la carrellata d'angst più intenso è finita è appena cominciata! No, dai, non scappate...
Seriamente, i prossimi capitoli si manterranno su un sano miscuglio di fluff-angst con la battuta pronta di Tony a stemperare la situazione, quindi dovrebbero risultare molto più leggeri di questo. E avrete un sacco di PoV Pepper in cui riuscirò a mandare OOC pure lei :D (sto realmente meditando se inserire l'avvertimento OOC proprio in seguito a questo capitolo, fatemi sapere se la ritenete un'idea sensata).

Ringrazio _Atlas_ Emyclarinet per aver recensito lo scorso capitolo e tutti coloro che leggono, seguono e aggiungono alle ricordate/preferite/seguite <3 Un grazie speciale a T612 che si è recuperata tutta la storia in tempo record, commentandone i capitoli salienti <3
Il prossimo capitolo in teoria è pronto. In pratica non mi soddisfa per niente, quindi preannuncio un aggiornamento attorno al 15-20 del mese prossimo per aver modo di lasciarlo "a riposo" per poi sistemarlo.
Bye bye, motherfuckers [Fury, esci dal mio PC]

-Light-

P.S. Nota tecnica: il metodo che usa Pepper per tranquillizzare Tony è funzionale alla storia, ma a onor del vero non è affatto consigliato durante un attacco di panico come primo approccio. La reazione al contatto fisico in questi casi è estremamente soggettiva e, mentre con alcune persone funziona (per la scena mi sono blandamente rifatta a delle esperienze con u* mi* amic* che reagiva bene agli abbracci), con altre scatena la reazione opposta e rischia anche di peggiorare l'attacco. Tutto ciò per evitare fraintendimenti o di urtare la sensibilità di chi, magari, soffre di questo disturbo e non si riconosce nella scena descritta.
P.P.S. Si è creato di sua sponte un altro capitolo, quindi il countdown si resetta a -8 ;)

 


 

© Marvel

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Capitolo 42
*** Showbiz ***



41

 

Showbiz




"When the world is ours
But the world is not your kind of thing
Full of shooting stars
Brighter as they're vanishing"

[You're The Best Thing About Me – U2]




11 Gennaio, Villa Stark

Capì che c'era qualcosa di strano nel momento stesso in cui si svegliò. Non era necessariamente un'impressione spiacevole, ma non riuscì a metterla del tutto a fuoco, avvolto com'era dagli ultimi strascichi di sonno e sogni fumosi ma graditi che tentavano inutilmente di riprendere vita nella sua testa. Si girò sul ventre, stiracchiandosi piacevolmente mentre lasciava che i suoi sensi intorpiditi si riattivassero a poco a poco. Tornò ad affondare la faccia nel cuscino e schiuse appena l'occhio incontrando la penombra della sua stanza, nella quale filtrava un tenue chiarore dalla porta accostata.
Ci mise ancora qualche secondo per dare un nome a quella sensazione: solo allora realizzò con stupore che si sentiva riposato. Erano almeno sei mesi che non dormiva così bene. Si sentiva anche meglio del previsto, considerando gli scossoni del giorno prima. Percepiva solo un po' di costrizione al petto e il solito formicolio ai moncherini, ma erano entrambi sopportabili e si sentiva in grado di escluderli dalla propria mente per godersi quel ritrovato senso di rilassatezza.
Dovette vincere la sua rediviva pigrizia prima di alzarsi, e anche così passò una mezz'ora buona a bearsi nel dormiveglia e nel gradevole tepore delle coperte, riuscendo anche a riallacciarsi a qualche immagine della notte appena trascorsa. Constatò con blanda lucidità che la maggior parte di quei frammenti onirici coinvolgeva Pepper, in un modo che era meglio rimanesse ben sigillato nella sua testa. Non si sottrasse a quelle fantasie ideate dal suo inconscio, e si ritrovò anzi a volervi indulgere come mai si era permesso di fare in precedenza. Si costrinse a riscuotersi del tutto solo quando il proprio corpo iniziò a reagire con un po' troppa veemenza a quelle immagini allettanti ma inconcludenti e si alzò barcollando, ancora un po' intontito. Passò dal bagno per darsi una rinfrescata e uscì poi in salone, continuando a stiracchiarsi con quieto buonumore.
Fu subito investito dal chiarore improvviso, che lo lasciò abbacinato per qualche istante: il cielo grigio e invernale riverberava di luce, illuminando il salone vuoto. Doveva essere mattino inoltrato. Si guardò intorno in cerca di Pepper, ma non vedendola concluse che stesse ancora dormendo, o a sbrigare qualche incombenza alle Industries, o magari a casa propria per darsi una sistemata. Non si diede pensiero per la sua assenza: dopo l'estenuante chiacchierata della notte appena trascorsa era più che certo che sarebbe tornata. Si sentiva così leggero che non avrebbe permesso ad alcuna ulteriore preoccupazione irrazionale di rovinare quel breve momento di quiete. Sapeva che era una tranquillità temporanea, ma perché turbarla prima del tempo? Certo, non poteva definirla una situazione spensierata ed era senz'ombra di dubbio la più complicata e delicata in cui si fosse mai invischiato, ma aveva la consapevolezza di aver dipanato una parte della matassa di preoccupazioni che si portava appresso dall'incidente – forse anche da prima.
Poteva anche dire di vedere finalmente i fatti con chiarezza, come tante piccole componenti di un progetto più grande che andavano assemblate con estrema cura e pazienza. Palladio, Expo, Iron Man, Pepper, imbarazzi inevitabili e sensi di colpa reciproci ardui da dissipare: si trattava solo di far funzionare il tutto nel modo migliore. Forse non era abituato a lavorare con "diavolerie" di quel tipo, ma era pur sempre un genio: ne sarebbe venuto a capo, in un modo o nell'altro. E poi, aveva ancora al suo fianco la persona più qualificata che avesse mai incontrato in vita sua – anche se al momento gli sovveniva almeno un altro centinaio di aggettivi molto meno neutrali per descriverla.
Fu così con passo un po' zoppicante ma vivace che si avviò a fare colazione, approfittando della tregua concessagli dalla nausea.
La porta d'ingresso scattò proprio mentre era intento a sbucciare una mela senza mettere a repentaglio le dita superstiti. Voltò la testa verso l'atrio, sentendo subito un sorriso che gli tirava le labbra. Pepper entrò rapida, destreggiando un carico di documenti notevole; non si accorse subito di lui mentre gli voltava brevemente le spalle per chiudere la porta e liberarsi del cappotto. Tony osservò che, nonostante sembrasse piuttosto di fretta, il suo volto e la sua postura erano rilassati. Teneva i capelli raccolti nel solito chignon ordinato e indossava quel tailleur color castagno con cui l'aveva accolto al suo ritorno dall'Afghanistan, dettaglio che gli rievocò quella sensazione di calore che l'aveva avvolto appena sceso dall'aereo.
«Buongiorno,» la salutò allegro, e nonostante avesse usato un tono di voce pacato la vide comunque sobbalzare appena per la sorpresa.
Si bloccò nell'atrio, stringendo al petto le sue cartelle.
«Oh, buongiorno,» ricambiò con garbo e un cenno del capo. «Finalmente si è svegliato,» aggiunse, dopo una breve esitazione mascherata da un fugace sorriso.
Tony captò una sorta di imbarazzo in quelle parole, come se non sapesse scegliere il modo in cui porsi nei suoi confronti dopo tutto quello che era successo. Era chiaro come lo stesse invitando a mantenersi su un terreno sicuro e conosciuto a entrambi. Si adeguò quindi al suo registro con naturalezza, rivolgendole un'occhiata d'intesa.
«Finalmente? È lei ad essere mattiniera,» la prese in giro bonario.
«Sono quasi le quattro del pomeriggio,» gli rivelò lei in tono decisamente divertito.
«Cosa?!»
Il coltello gli sfuggì e la lama stridette spiacevolmente contro la mano meccanica, facendo socchiudere gli occhi a entrambi.
«Davvero?»
«Già,» confermò lei, rivolgedo uno sguardo vagamente preoccupato ai suoi armeggi.
Superò poi la predella del piano bar a cui era seduto per posare i documenti sul mobiletto accanto al divano. Tony continuò a fissarla un po' inebetito, facendosi due conti e concludendo di aver dormito la bellezza di dodici o tredici ore filate. Quasi più della sua media settimanale complessiva, in effetti.
«Oh,» riuscì a formulare infine, in un opinabile sfoggio di eloquenza.
Posò il coltello sul bancone e si rassegnò a mangiare la mela con la buccia a scanso di ulteriori danni alla sua mano ancora funzionante. E per prendersi del tempo, così da elaborare qualcosa di più intelligente da dire oltre a versi inconsulti.
«Volevo svegliarla, poi ho pensato che sarebbe stato meglio lasciarla dormire,» chiarì lei dopo qualche secondo, e un'ombra trapelò sul suo volto a tradire pensieri più cupi, subito dissipata.
Tony realizzò in quel momento perché aveva trovato la porta della sua stanza socchiusa e non serrata come al solito. Si sentì curiosamente rassicurato dal fatto che si fosse premurata di controllarlo, anche se era comunque dispiaciuto per averla fatta preoccupare ancora.
«Ha pensato bene, ne avevo bisogno,» bofonchiò tra un morso e l'altro. «Adesso potrò fare concorrenza a Capitan Ghiacciolo per il "sonno più lungo del secolo",» commentò leggero, con un'alzata di spalle.
Finì di mangiare con calma, sorseggiando poi il suo caffè mentre Pepper approntava con gesti precisi la sua solita postazione di lavoro sul divano e si allontanava per recuperare altri incartamenti dall'ufficio. Tony iniziò a chiedersi il perché di tutto quel daffare, e non appena la vide ricomparire in salone si alzò per andarle incontro, senza nascondere la propria curiosità. Meditò per un istante se farle un complimento per come era vestita, ma decise infine di astenersi, temendo di risultare fuori luogo. Non poté però evitare che il suo sguardo si illuminasse nel guardarla e al ricordo dell'ultima volta che l'aveva vista in quel completo. A un paio di passi da lei cacciò una mano nella tasca della felpa e si puntellò sul bastone con improvviso nervosismo, decidendosi poi a mettersi semiseduto sullo schienale del divano. Cercò di non pensare a cosa fosse successo proprio lì la sera prima, ancora titubante nel definire il suo sfogo come qualcosa di piacevole o meno. Lei rimase diritta al suo posto, senza scostarsi; non sembrava tesa, solo indecisa.
«Uh, lei come ha dormito?» esordì lui tanto per dire, cercando di ritardare il momento in cui avrebbero dovuto probabilmente parlare, di nuovo.
«Poco, ma bene,» lo rassicurò lei, altrettanto impacciata.
«Non doveva alzarsi così presto, non c'era nulla di così urgente di cui occuparsi alle Industries,» continuò poi, accigliandosi un poco.
«In realtà qualcosa di urgente c'era...» Pepper si chinò rapida per afferrare una cartellina dalla pila che aveva appena portato. «Mi sono presa la libertà di stilare questo,» spiegò, porgendogliela con un gesto fluido.
Lui la prese con una lieve esitazione. Guardò brevemente lei da sotto le ciglia e prese nota del lieve nervosismo che emanava, stemperato però da una sorta di tenue aspettativa, come fosse impaziente di vedere la sua reazione. Aprì con malcelato interesse il fascicolo e gli bastò leggerne le prime righe per capire il motivo di quel comportamento. Sentì la propria bocca schiudersi involontariamente e riportò lo sguardo stupefatto su di lei, senza riuscire a emettere alcun suono. Tornò poi a scorrere rapidamente il documento, lungo una decina di pagine. Arrivato all'ultima si rese conto che la parlantina sagace che era sempre stato il suo marchio distintivo era ancora fuori servizio e l'aveva lasciato molto banalmente senza parole. Si riscosse solo quando una nota di preoccupazione si palesò sul volto di Pepper, come se temesse di averlo in qualche modo turbato.
«Lei ha... ha fatto tutto questo in una mattina?» riuscì ad articolare vincendo lo stupore, con lo sguardo fisso sul primo foglio mentre ne rileggeva più volte l'intestazione quasi a imprimersela a fuoco nella mente.
«Una lunga mattina,» puntualizzò lei, ora con un sorriso che lottava per nascere agli angoli delle labbra.
Lui scosse appena la testa, ancora incredulo e incapace di focalizzarsi su un'unica emozione tra quelle che si stavano rimescolando piacevolmente dentro di sé.
«È così facile? Spediamo questo ed è fatta?» la incalzò, sentendo infine le sue labbra che si inclinavano sempre più verso l'alto, e il principio di una risata che prendeva a solleticargli la gola, rendendo più sonora la sua voce.
«C'è un altro migliaio di autorizzazioni da redigere e far approvare, ma... sì, da questo parte tutto,» puntò un dito affusolato sul plico, senza nascondere la sua soddisfazione per l'effetto che aveva ottenuto, «Lo consideri un regalo di Natale un po' in ritardo.»
«Non so cosa dire,» confessò a mezza voce lui, senza nascondere la sua ammirazione.
«Farò finta che l'abbia detto, come sempre,» replicò lei, senza traccia di risentimento nella voce.
Tony a quel punto si riscosse e si agitò sul suo sedile improvvisato, scoccandole un'occhiata fugace.
«Oh. Giusto. Grazie,» proferì infine, dandosi dell'idiota e provando la forte tentazione di darle un altro bacio sulla guancia per rimediare alla gaffe.
Tentazione che fu pronto a soffocare e che si tramutò in un semplice sguardo colmo di calore. Si intimò di riportare la sua attenzione su ciò che stringeva tra le mani e non alla sera prima, rischiando di tornare a sentire la pelle liscia della sua guancia sulle proprie labbra, né ai sogni che ancora aleggiavano tra i propri pensieri in modo decisamente sconveniente e che non favorivano il suo autocontrollo già abbastanza labile.
Si impegnò a leggere di nuovo con scrupolosità la richiesta di autorizzazione per la Stark Expo 2010, per assicurarsi che non fosse anche quella un frutto della sua immaginazione. Non ricordava di aver mai letto alcun documento con tanto interesse e non riusciva a togliersi quel sorriso enorme dalla faccia. Stava praticamente scalpitando sul posto, sentendo l'impellente bisogno di muoversi, camminare, dimenarsi per scaricare quella trepidazione positiva che gli vibrava nel petto; se avesse potuto, si sarebbe messo a fare i salti di gioia.
«Si è informata sulla Expo del '74?» chiese d'un tratto, accennando al luogo prescelto, ovvero il parco di Flushing Meadows a New York.
«Diciamo che ho avuto accesso a informazioni di prima mano,» replicò lei facendo spallucce, e fece sporgere dalla tasca la chiave dello studio di suo padre.
Di nuovo, Tony rimase di sasso, a chiedersi per la milionesima volta cosa avesse fatto per meritarsi quella donna nella sua vita.
«È solo una bozza; possiamo sempre modificare la sede, se...» cominciò lei, impensierita dal suo silenzio.
«Va benissimo così,» la rassicurò lui, con fermezza. «New York è perfetta: non avrebbe avuto senso organizzarla altrove,» aggiunse, con una punta di malinconia.
I contorni di immagini sfocate stavano emergendo dai meandri della sua memoria: l'Unisfera scintillante di luminarie, gli alti zampilli delle fontane colorati da proiettori, la folla in fervente attività che passeggiava tra i viali alberati, i padiglioni di vetro che punteggiavano il parco, ognuno con le proprie meraviglie tecnologiche da mostrare ai suoi occhi di bambino, sua madre che lo accompagnava per mano attraverso il parco illuminato a festa...
Sapeva che Pepper aveva notato la sua espressione distante, ma la cosa non gli diede fastidio: non trovava più motivo per nasconderle quel che provava, non dopo la sera appena trascorsa. Anzi, si arrischiò a scivolarle accanto, pur senza ricercare attivamente un contatto diretto. Voleva solo sentirla più vicina in quel momento sereno, cercare di trasmetterle tutto ciò che quel semplice foglio che stringeva tra le mani aveva suscitato in lui: quei ricordi lontani e spensierati, il desiderio di mettersi all'opera e realizzare ciò che per ora aveva forma solo nella sua testa, la consapevolezza di poter ancora fare qualcosa di buono e la gioia di poterlo fare assieme a lei. E anche, racchiusa in quell'involucro di sensazioni come una minuscola ma preziosa perla nel suo guscio, la speranza di poter riparare tutto quanto, incluso se stesso.
Pepper si accostò a sua volta a lui, ma riprese a parlare in modo leggermente più concitato e gesticolando appena, nel tentativo di riportare la loro attenzione sull'argomento attuale e non sul fatto che i loro corpi adesso si sfiorassero o che entrambi riuscissero a percepire il calore dell'altro.
«Ho visionato il suo progetto per la Expo con l'aiuto di JARVIS,» esordì con vivacità, riuscendo in parte nell'intento. «Se iniziamo a lavorare da adesso, col supporto delle Industries e delle società controllate dovremmo riuscire a completare i preparativi entro fine aprile,» disse, con certezza dettata da anni di esperienza lavorativa.
Tony si lasciò sfuggire un moto di sorpresa a quella notizia decisamente positiva.
«Pensa che il consiglio farà storie?» chiese poi, restio ad accettare tutto quell'ottimismo e con una linea di preoccupazione a solcargli la fronte.
«Ci può scommettere, ma abbiamo la maggioranza del pacchetto azionario, quindi non potrà far altro che sottostare alle nostre decisioni,» annunciò compiaciuta, scacciando però solo in parte quelle ombre dal suo volto.
«Lo faremo e basta, consiglio o meno,» asserì perentorio, stringendo saldamente i fogli. «Non ho intenzione di farmi ostacolare da loro dopo che hanno cercato di tagliarmi fuori e aver scondinzolato per Stane per chissà quanto tempo.»
Si costrinse a rilassare le mani, o avrebbe finito per piegare la cartellina.
«Sarebbe meglio agire diplomaticamente,» lo ammansì lei. «Con il loro consenso sarebbe tutto più facile. E rapido,» aggiunse in fretta, senza guardarlo.
«Ignorarlo sarebbe ancora più rapido. Potrei finanziare tutto di tasca mia senza star dietro a quegli sciacalli e...»
«... e finire sul lastrico,» completò lei, con un cipiglio di pura apprensione che andava accentuandosi.
«Per quanto mi riguarda, posso anche mandare le Industries in bancarotta. Che me ne faccio dell'azienda se...» si bloccò e tartagliò per un istante, «Se... M-ma così lascerei lei nei guai e vanificherei tutto il progetto del retaggio, quindi sarà meglio fare le cose per bene,» si corresse precipitosamente, piantando di nuovo l'occhio sul documento e non osando verificare la reazione di Pepper.
Non voleva parlare di quello, né spingere lo sguardo troppo in là nel futuro quando non era certo di quanto lontano potesse guardare. Ma i suoi pensieri ripiombavano sempre lì, in quel vortice continuo che li attirava inesorabilmente.
«Mi occupo io del consiglio,» disse Pepper, senza commentare. «Lasci fare a me: ho affrontato di peggio,» concluse, riservandogli un'occhiata eloquente stemperata dalla sua espressione bonaria.
Lui sollevò appena un angolo della bocca, ma tenne lo sguardo fisso sulla carta tra le sue dita, mentre rifletteva su quelle parole, di nuovo catturato nel gorgo dei suoi pensieri.
«Dovrei formalizzare in modo definitivo la sua posizione di amministratore delegato. Così non sarà costretta a rincorrermi qua e là per ogni firma,» commentò infine, sforzandosi di suonare indifferente alle implicazioni di quel proposito.
Pepper si mosse a disagio e si frenò visibilmente dal torcersi le mani, ma anche lei riuscì a mantenere un contegno impassibile e una voce ferma:
«Non è necessario farlo adesso. E credevo che dovessimo cercare una soluzione insieme,» gli ricordò con naturalezza, accostandosi quasi impercettibilmente a lui.
Bastò quello a trarlo in salvo, lontano dalla spirale che minacciava di risucchiarlo verso il fondo.
Espirò in silenzio, allentando la pressione al petto: non poteva cadere di nuovo.
«Ok, ci ho provato. Lo sa che sono un lavativo,» replicò, sforzandosi di suonare divertito. «Quindi? Da dove iniziamo?» aggiunse, sfoderando un sorriso furbetto e allusorio che le fece abbassare gli occhi chiari in un riflesso imbarazzato.
«Ho con me tutta la documentazione da visionare e le autorizzazioni preliminari da firmare, da allegare alla richiesta formale al Congresso – quella,» sciorinò poi senza scomporsi ulteriormente, accennando alla cartellina che Tony ancora teneva in mano.
Lui la chiuse e si inclinò poi all'indietro per adocchiare la pila instabile di documenti che troneggiava sul mobiletto, liberando un lieve fischio impressionato.
«Beh, allora sarà meglio metterci al lavoro,» decise con repentina allegria.
Si staccò dal divano e la precedette all'ampio tavolo di vetro mentre già iniziava ad aprire schermate a mezz'aria.
«Forza, non dovevamo collaborare?» la incitò poi con un gran sorriso, rischiando allo stesso tempo di farsi da solo lo sgambetto col bastone nella foga di sedersi.
La vide esitare per un singolo istante, prima di afferrare a colpo sicuro una manciata di documenti e seguirlo a ruota, contagiata dal suo entusiasmo.
«Penso che sia la prima volta in dieci anni che mi aiuta volontariamente con la burocrazia.»
«Mi piace questo modo di "cercare soluzioni",» replicò lui con un sorrisino impertinente quando gli arrivò accanto, per poi fissarla con più intensità.
Lei ricambiò in silenzio, con gli occhi che le brillavano di una luce serena; Tony si trovò ancora una volta a fissare le sue labbra e distolse lo sguardo.
«Insomma, credo sia un buon inizio per... come dire... oh, ha capito,» rinunciò infine, mentre il suo sorriso virava nell'imbarazzo.
«Ho capito,» confermò lei con dolcezza, sedendosi poi al suo fianco.


***


11 Gennaio, 21:30, Villa Stark

«È l'ultimo?» esalò Tony, visibilmente stremato e adocchiando l'ennesimo plico di documenti da visionare che Pepper stava inesorabilmente spingendo nella sua direzione.
«No,» lo deluse lei a sua volta spossata, mentre leggeva per la settima volta la stessa riga senza riuscire a evitare che le parole si fondessero tra loro.
Tony prese un grosso respiro e abbandonò teatralmente la testa all'indietro, per poi rimettersi al lavoro senza ulteriori lamentele.
Pepper si portò una mano alla fronte, a sorreggerla mentre si imponeva di concentrarsi almeno il tempo necessario per terminare quel foglio, prima di concedersi la prima pausa nell'arco di due ore e passa. Tony era altrettanto preso, cosa del tutto sbalorditiva, considerando la sua viscerale repulsione per il lavoro d'ufficio e la sua incapacità di stare seduto per venti minuti di fila al di fuori del suo laboratorio. Era evidente quanto fosse in fibrillazione per quella faccenda, e nonostante adesso iniziasse a ciondolare un po', accusando la stanchezza, aveva l'espressione più rilassata che gli avesse visto da un paio di mesi a quella parte. Non sapeva dire se il merito fosse da attribuire più alla prospettiva della Expo o alla loro chiacchierata della sera prima, ma era contenta di vederlo più sereno. Quel giorno si era sentita prima rassicurata nel vederlo dormire profondamente e a lungo come non faceva da tempo, e poi piacevolmente travolta dalla sua felicità così manifesta nel ricevere la notizia sulla Expo. Era valsa la pena alzarsi dopo appena tre ore di sonno anche solo per vederlo sorridere così spontaneamente. Quel fatto aveva rievocato una vivida traccia di quella gioia che l'aveva scossa nel vederlo scendere da un aereo dopo tre mesi di assenza. Era sempre più lieta di aver prestato ascolto alla sua insolita vena scaramantica quella mattina, quando aveva scelto proprio quel completo ormai legato unicamente a momenti positivi.
Anche ora si sentiva più leggera, nonostante un peso difficilmente ignorabile continuasse a tenerla inchiodata a terra, ricordandole che tutta quella tranquillità era solo un mare piatto che nascondeva correnti infide appena sotto la superficie. Si era imposta di non turbare quella calma, sentendosi allo stesso tempo pervadere da un senso d'inadeguatezza nel farlo: le ricordava l'atteggiamento ipocrita che avevano adottato subito dopo l'incidente, quando si erano ostinati a fingere che andasse tutto bene. Adesso però erano entrambi consapevoli di tutto ciò che stava accadendo.
Forse anche troppo, realizzò, quando si trovò di nuovo a fissare i lineamenti di Tony come se li vedesse per la prima volta. Non avrebbe mai dimenticato le lacrime che li avevano solcati la sera prima, né il modo in cui lei li aveva accarezzati mentre lo stringeva a sé, in un gesto che avrebbe dovuto compiere molto tempo prima e che lui, adesso ne era certa, aveva sempre inconsciamente aspettato. L'aveva capito nel momento in cui anche Tony l'aveva cercata istintivamente, aggrappandosi a lei e valicando quelle barriere fisiche che aveva costruito lui stesso. Poteva ancora percepire il suo petto scosso dai singhiozzi mentre la stringeva con forza a sé, o il suo respiro che le sfiorava il collo mentre si rifugiava esausto nel suo abbraccio, o la propria mano avvolta nella stretta salda ma gentile dei suoi palmi – uno ruvido e segnato dal lavoro, l'altro freddo, ma vivo e frutto di quel lavoro – o le sue labbra che le sfioravano la guancia, solleticandola appena col pizzetto. Dovette trattenersi per non portare le dita al volto a lambire quello stesso punto, come se ciò potesse rievocare la sensazione. Si trovò a pensare a tutto il resto che si frapponeva tra loro due quasi in un meccanismo di autodifesa, nonostante ciò le portò subito un velo liquido davanti agli occhi.
Riuscì a riscuotersi da quei pensieri al momento inutili e dolorosi, indirizzandoli verso ragionamenti più sensati che coinvolgessero più il cervello che il cuore, ma non riuscì a dirottarli più di tanto. Si era trovata a riflettere molto, sia quella notte che nel corso dell'intera giornata.
A conoscerlo bene, Tony non era mai stato un tipo davvero espansivo – se non in contesti sui quali non si era mai voluta soffermare più di quanto fosse lecito per un'assistente – e lo era più a parole che coi fatti, soprattutto per quanto la riguardava. Non ricordava una singola volta in dieci anni in cui si fosse azzardato ad assumere comportamenti sconvenienti con lei, al di là delle sue battutine licenziose che mantenevano comunque un certo livello di decoro. Non aveva mai fatto mistero di quanto la ritenesse attraente, ma l'aveva sempre trattata come fosse incorporea, se non per qualche sporadico gesto d'affetto spesso coperto da un velo d'ironia o giocosità. Aveva sempre interpretato quella distanza come semplice cavalleria, ma forse, visto ciò che le aveva rivelato ieri, era anche volta a nascondere quanto davvero tenesse a lei, soprattutto dopo l'Afghanistan.
Quella condotta si era però drasticamente acuita da quando era tornata, lo scorso giugno. Tony aveva pressoché azzerato qualunque contatto diretto, come seguendo una nuova regola non scritta e inviolabile. All'inizio non era riuscita a decifrare del tutto quella novità, che a pensarci bene non era tale: già dall'incidente e ancor più dopo le operazioni aveva notato un irrigidimento in quel suo modo di fare, come se non fosse più solo una questione di rispetto e professionalità nei suoi confronti. Avvertiva una sorta di timore nel venire in contatto con lei, ma anche una felicità palpabile quando era lei a colmare per prima le distanze – cosa che, doveva ammetterlo, non le era mai dispiaciuto fare.
Adesso riusciva a intravedere le radici di quel comportamento, un po' ripensando alle sue confessioni e agli eventi appena trascorsi, un po' affidandosi all'intuito che le permetteva ancora di leggerlo e capirlo più di quanto volesse lui stesso. Era andata a ricostruire un mosaico composto da tasselli dolorosi: dal rifiuto per un corpo che ormai non sentiva più come davvero suo, a performance sbattute sulla prima pagina di riviste di gossip per ridicolizzarlo; da quella sensazione di incompletezza latente che gli impediva di cercare e accettare ciò che avrebbe voluto con tutto se stesso, al senso di colpa per averle inavvertitamente fatto male ormai quasi un anno prima.
Quell'ultimo fatto era forse il più esplicativo per come si impegnava in modo quasi maniacale nel tenere le protesi il più lontano possibile da lei, rimanendo stupito o in tensione quando lei, dopo il primo momento di esitazione, non si era mai fatta alcun problema a trattarle come parti integranti e naturali di lui, nella speranza che scacciasse prima o poi quella sua idiosincrasia, seppur comprensibile.
Anche adesso, a poche ore dalle esternazioni che sembravano aver attenuato quella sua reticenza di fondo, si muoveva attorno a lei con un'accortezza e un impaccio evidenti, sebbene s'impegnasse molto meno a nascondere quanto realmente volesse starle vicino, e quanto ciò lo facesse stare bene. Le sembrava di vederlo costretto in un impacciato limbo autoimposto, nel quale rimaneva immobile nel timore di turbare equilibri già abbastanza fragili.
«Sono forse nei suoi pensieri?»
La voce di Tony la fece sobbalzare e si rese conto che lo aveva fissato in tralice fino a quel momento. Non sapeva da quanto lo stesse guardando, né da quanto se ne fosse accorto, ma a giudicare dalla sua posa studiata, col mento appoggiato alla mano e le sopracciglia alzate con fare sornione, stava trovando la cosa molto divertente. Pepper cercò di riprendere un contegno, per quanto le fosse possibile considerando lo scarso contributo dei suoi vasi sanguigni ipersensibili, che ovviamente avevano già indirizzato il loro intero contenuto alle guance, rendendole scarlatte. Ignorò anche i sottintesi di quella domanda che, alla faccia dell'impaccio e degli equilibri, era accompagnata da un sorrisetto obliquo e indiscutibilmente malizioso. A parole era sempre il solito, incorreggibile, spudorato Tony Stark. Ma lo adorava anche per quello. Ecco, questo non avrebbe dovuto pensarlo.
«Sono un po' stanca; mi ero incantata,» replicò con tranquillità fittizia, suscitando un guizzo furbo nell'iride di Tony.
«Non è una novità, con me le succede spesso,» commentò con immodestia, nel palese tentativo di trattenere una risatina compiaciuta.
Pepper lo fulminò con lo sguardo, ma non si prese la briga di negare il fatto; d'altra parte, i suoi zigomi adesso color porpora avrebbero reso ridicola ogni giustificazione. Invece, prese una risma di documenti dalla propria pila per piazzarla con dispetto su quella di Tony, che in tutta risposta le rivolse una smorfia esageratamente offesa prima di riportare l'attenzione ai propri compiti. Era evidentemente troppo impaziente di porre fine a quella sequela interminabile di pratiche per avviare un battibecco.
Pepper si ritenne soddisfatta e si allungò sul tavolo per prendere la sua ultima fetta di pizza dal cartone posto in mezzo a loro – Tony, alla fine, l'aveva avuta vinta sul cenare insieme – decidendo di essersi meritata quella pausa. Notò in quel momento che lui aveva a malapena toccato la sua metà. Lo osservò di sottecchi, adesso accasciato sul tavolo a braccia conserte e con la guancia spalmata sulla mano meccanica, mentre compilava fiaccamente il modulo che gli aveva appena rifilato – che dubitava riuscisse davvero a leggere da quella posizione.
«Non ha fame?» gli chiese, con leggera titubanza.
Tony sollevò appena la testa e scoccò una rapida occhiata al cartone; Pepper vide il suo volto tendersi.
«Non molta.»
Sforzò un sorrisetto poco convincente per poi tornare a compilare e firmare scartoffie con insolito zelo.
Pepper evitò di fargli presente che dal giorno prima a pranzo aveva mangiato appena una mela. Trangugiò senza gusto la pizza e riprese a lavorare, nonostante il suo sguardo fosse ora istintivamente calamitato dal colletto della felpa di Tony, sotto il quale faceva capolino qualche sottile venatura scura. Una, particolarmente pervicace, si era inerpicata fino a lambire il pomo d'Adamo, motivo per cui nell'ultima settimana l'aveva visto solo con indumenti a collo alto. Si chiese sconfortata come avesse potuto non trovarlo sospetto, ed evitò di darsi una risposta, consapevole che avrebbe solo riacceso la rabbia irrazionale nei confronti dell'uomo per la fiducia che aveva tradito così deliberatamente e così a lungo.
Si accorse di stringere la penna con forza eccessiva e che le sue ultime firme sembravano incise sulla carta con uno scalpello, così si affrettò a posarla con un gesto un po' troppo secco che richiamò l'attenzione di Tony.
Lanciò un'occhiata a lei, poi alla penna, infine tornò a scarabocchiare il suo nome sulle scartoffie, prima di fermarsi a sua volta. Poggiò il mento sulle mani, che andarono poi a coprire proprio il collo, intrecciando le dita sulla nuca con fare stanco.
«La clorofilla mi toglie l'appetito,» esordì senza preavviso, quasi distrattamente, con lo sguardo puntato sui fogli dinanzi a sé. «E il palladio mi fa venire la nausea. Non è una combinazione ottimale.» 
Tentò un mezzo sorriso, che si tramutò subito in una smorfia mesta.
Pepper non riuscì a voltarsi subito verso di lui, intenta ad assorbire la conferma di quello che in fondo aveva già intuito. Quando ci riuscì, le saltò subito agli occhi la sua magrezza, così evidente da farla quasi sprofondare. Era sempre stato di corporatura robusta, ma negli ultimi due anni aveva perso gradualmente peso; prima in Afghanistan, poi per la dieta più rigorosa che aveva dovuto osservare a causa del suo cuore malmesso e per l'attività di Iron Man. Aveva ovviamente notato come il processo si fosse accentuato dopo l'incidente, ma l'aveva ritenuto normale, considerate le circostanze. Poi grazie a Nataša aveva recuperato almeno un po' di tono muscolare, e lei aveva finito con l'abituarsi al suo aspetto un po' più asciutto. Adesso prese nota con inquietudine delle sue guance smunte, con gli zigomi appena sporgenti, e di quanto fossero diventate visibili le sue clavicole. Era quasi sicura che, senza felpa, avrebbe potuto contargli senza problemi le costole.
«Dovrebbe almeno provare a mangiare qualcosa,» lo spronò cautamente.
Lo vide scuotere appena la testa e sembrò improvvisamente a disagio.
«No, non...» si schiarì la gola. «Uh, diciamo che di solito il cibo non rimane nello stomaco abbastanza a lungo da essere digerito,» concluse svelto, parafrasando con insolita delicatezza.
Pepper tacque, fissando prima la sua pizza intatta, se non per una singola fetta sbocconcellata a metà, poi la borraccia di clorofilla accanto a lui, la seconda che aveva vuotato nell'arco della serata.
«Come si sente?» chiese infine, sforzandosi di porre quella domanda che aveva evitato per tutta la giornata, ma che ormai sentiva inevitabile.
Tony picchiettò con la punta della penna sul tavolo, e Pepper capì che qualunque risposta avrebbe ricevuto sarebbe stata sincera, sì, ma anche estremamente edulcorata.
«Potrei stare peggio,» disse infatti, evasivo. «Certo, potrei anche stare meglio,» ammise poi, sfuggendo il suo sguardo. «Ma tutto sommato è stata una buona giornata.».
«Tony...»
«Non vuoi veramente saperlo,» la anticipò lui, con voce più bassa e quasi implorante. «È sopportabile...» s'interruppe, ma non continuò, fingendo poi di non aver mai voluto aggiungere altro.
«... per ora?» completò al posto suo Pepper, e lui abbassò lo sguardo in una muta conferma che le strizzò l'aria dai polmoni.
Vide Tony inspirare profondamente, chiudere l'occhio e chinare il capo sul tavolo, ancora nella stessa posizione quasi difensiva. Quando però si risollevò, fu per sfoggiare un sorrisetto spavaldo.
«Lo immagini come un raffreddore costante e particolarmente rompiscatole. Ma tornerò a funzionare meglio di prima, Pep. L'ho già fatto una volta,» le ricordò, sollevando il braccio prostetico a riprova delle sue parole. «E adesso ho più di un valido motivo per voler trovare una "soluzione",» aggiunse, volutamente ambiguo.
«Ci sta lavorando?» gli resse il gioco lei, continuando a rimanere sul vago.
«Questo dovrebbe dirmelo lei,» insinuò, inclinando appena la testa e scrutandola con impertinenza.
Pepper si limitò a rivolgergli un piccolo sorriso esitante.
«Da domani mi dedicherò al reattore,» annunciò poi, mentre tamburellava di riflesso le dita sulla superficie azzurrina. «Mi serviva un po' di... stacco,» disse poi, accennando alle scartoffie dinanzi a sé e scoccandole al contempo un'occhiata fugace.
«Abbiamo ancora molta burocrazia da sbrigare,» gli assicurò lei, guardandolo a sua volta di sottecchi.
«Crede che sei mesi basteranno per tutto?» chiese lui a bruciapelo, e Pepper capì che si stava trattenendo dal chiederlo già da ore.
Tentennò: aveva studiato in mattinata i programmi e le scalette preparate da Tony, già piuttosto completi a dir la verità, per poi ricercare qualche informazione in più nei registri nello studiolo di Howard. Si era fatta un'idea piuttosto chiara della portata dell'evento e dei tempi organizzativi, e per quello aveva sperato di non affrontare subito la questione. La verità è che non c'era abbastanza tempo per fare tutto: la sua previsione di concludere i preparativi entro fine aprile era ottimistica e implicava molte rinunce. Ma aveva esitato a dare quell'ennesimo dispiacere a Tony, considerando quanto era su di giri per l'evento.
«Non credo che la Expo potrà essere esattamente come se l'è immaginata,» disse infine, con il massimo tatto di cui fu capace.
Tony prese a mordicchiarsi il labbro inferiore, meditabondo, ma non sembrò particolarmente turbato da quella rivelazione; almeno, non lo diede a vedere.
«Lo avevo messo in conto. Mi aspettavo di aver pensato troppo in grande,» ammise infine, tirando un mezzo sorriso tetro. «Sfoltirò il programma e ridimensionerò il tutto. Facciamo quel che possiamo. Mi basta riuscire a inaugurarla di persona, quanto al resto...» vacillò appena. «Beh, sembra che dovrò lasciarle in eredità altro lavoro da svolgere al posto mio,» concluse con noncurante ironia, ma la sua voce suonò forzata.
«Non è detto che debba finire così,» gli fece notare Pepper, turbata dalla tranquillità con cui ne stava parlando.
«Lavorerò a pieno ritmo sul reattore, ma c'è la possibilità che fallisca.» Notò la sua espressione affranta. «Pep, non mi diverto a fare l'uccellaccio del malaugurio, ma dovremmo rimanere realisti.»
«Lo so. È per questo che sono andata oggi stesso ad avviare le pratiche,» confessò lei, con un filo di voce.
Tony chinò il capo, prendendo atto delle sue parole con aria corrucciata.
«A quanto pare, finisco sempre per voler realizzare cose impossibili,» commentò, con sarcasmo quasi rassegnato.
«Tony, non è impossibile. Ma abbiamo poco tempo e c'è troppo da fare per due persone, quindi dobbiamo muoverci in fretta. Domani richiederò le firme del consiglio, coinvolgerò formalmente i nostri associati e invierò la richiesta preliminare al Congresso. Entro fine mese potremo metterci davvero all'opera,» espose Pepper, nel tentativo di risollevarlo. «Kyle potrebbe darci una mano per la parte legale, non dovrebbe distoglierlo troppo dal processo,» aggiunse, illuminandosi un poco.
«Domani lo chiamo,» rispose lapidario Tony, sempre accigliato e probabilmente dimentico come sempre dei suoi problemi legali.
«E?»
«E non gli dirò nulla del resto,» la anticipò con fermezza, puntandosi l'indice sul reattore. «Ho anche il suo progetto da finire e non voglio che si preoccupi. Anche se dovrei prima concentrarmi su Iron Man... ma non posso sottrarre tempo al reattore con...» si interruppe bruscamente, sprofondando nei suoi pensieri e lasciando che le ombre cupe della sera prima riaffiorassero sul suo volto.
Pepper lo osservò, prendendo nota del suo improvviso smarrimento e della tensione delle sue spalle. Di nuovo, riconobbe la paura che faceva capolino sul suo volto pallido; un ospite sgradito che, nonostante i tentativi di chiuderlo fuori, riusciva sempre a intrufolarsi nella casa sicura che erano riusciti ad approntare. La sua pupilla era dilatata, immensa, una finestra spalancata su quei timori che lo consumavano e rischiavano di traboccare. Il suo respiro accelerò appena e lo vide serrare la palpebra.
Si alzò per accostarsi a lui e gli avvolse la testa in un abbraccio delicato, stringendolo a sé. Lui trasalì impercettibilmente, ma non si sottrasse e premette la guancia contro di lei, accettando quel gesto inatteso.
«Forse ho davvero troppo poco tempo,» mormorò contro le sue braccia in un lieve sospiro, senza muoversi per ricambiare la stretta, di nuovo immobile nel suo limbo.
«Forse dobbiamo solo organizzarlo meglio,» replicò lei, passandogli una mano tra i capelli e poi sulla schiena in una carezza rassicurante. «Che ne dici di stilare un piano di lavoro?» propose poi, impedendo alla propria voce di cedere al tremolio che minacciava di incrinarla.
Lo percepì annuire contro di sé e inspirare a fondo più volte, rilassandosi a poco a poco. Quando sollevò il viso per guardarla, le rivolse un sorriso sottile e grato che ricacciò la paura in fondo al suo sguardo, ridotta di nuovo a un riflesso appena distinguibile.
«Va bene,
» concordò con sollievo. «Ha sempre delle ottime idee, signorina Potts.»


***


23 Gennaio, Villa Stark

«Non ha ancora approvato la planimetria della Expo?» esordì Pepper, non appena mise piede a Villa Stark quella mattina, con un diavolo per capello dopo aver discusso per tre ore filate con un membro del consiglio d'amministrazione particolarmente tenace, snervante e scettico riguardo all'evento.
Tony la ignorò platealmente, continuando a giocherellare a mezz'aria con un modellino virtuale della nuova armatura, perso nel suo mondo di circuiti e tecnologia e del tutto dimentico delle colonne di documenti che lo attorniavano minacciose, e dell'enorme piantina di Flushing Meadows spiegata sul tavolino.
«Signor Stark.»
«Suvvia, mi lasci tregua almeno nel week-end!» rispose infine lui con uno sbuffo, accantonando di malavoglia la proiezione.
«Siamo nel bel mezzo della settimana.»
«Il week-end a casa mia finisce il mercoledì. Ormai dovrebbe saperlo, signorina Potts,» le rivolse un sorrisetto esasperante, prima di voltarsi del tutto verso di lei, «Piuttosto, com'è andata col matusa?»
«È ancora vivo,» replicò lapidaria e con malcelato dispiacere, sfoderando poi il documento da lui firmato con fare trionfante.
Tony le rivolse un sorriso ammirato e un cenno d'OK con la mano meccanica, dai quali non si lasciò minimamente intenerire:
«Lei, piuttosto: a che punto è?»
«In uhm... dirittura d'arrivo,» sviò lui, aprendo un ampio progetto olografico a mezz'aria come a schermarsi da lei.
Pepper notò l'occhiata colpevole che rivolse alla cartina, che da quanto vedeva era ancora largamente incompleta. Sospirò, s'impose la calma e si rammentò di non poterlo pressare più di tanto, visto che stava gestendo simultaneamente qualcosa come sei progetti in una condizione fisica che lo avrebbe dovuto indurre a riposarsi ed evitare lo stress. Così si piazzò accanto a lui, registri alla mano, e cominciò a stilare con rapidità il programma e l'assetto dell'evento, pungolando di tanto in tanto per delle delucidazioni la mente dietro il tutto, al momento concentrata altrove e intenta a scribacchiare sul suo bloc-notes.
«E quest'area?» gli chiese a un certo punto, accennando al primo dei padiglioni vacanti.
«Avevo giusto pensato di darla alla AccuTech,» rispose lui, alzando appena lo sguardo e dando chiaramente a intendere di averci pensato in quel preciso istante.
«Non è troppo, per una semplice società sussidiaria?»
«Potrebbero presentare l'Esoscheletro Haz-Tek,» bofonchiò lui, poco interessato.
Pepper gli rivolse uno sguardo interrogativo, al che lui si affrettò ad elaborare:
«Una specie di Mark versione pacifista. Magari il governo smetterà di giocare al Grande Fratello con me, se metto sul mercato una brutta copia dell'armatura,» spiegò, sempre senza sforzarsi di articolare chiaramente le parole.
Era ancora assorbito da tutt'altro rispetto all'argomento corrente, stavolta una serie di complessi calcoli che stava svolgendo su carta con rapidità quasi frenetica, controllando di tanto in tanto gli schermi che gli fluttuavano attorno.
«Magari potrebbe davvero rabbonirli e accelerare l'iter per la messa in regola delle protesi,» commentò lei, con ottimismo un po' gonfiato.
«Ne dubito,» la smontò lui senza rammarico. «La settimana scorsa Stern ha detto che le pratiche sarebbero terminate "tra due mesi", quindi mi aspetto che la faccenda non vada in porto prima di quattro. Nel frattempo dovrò ancora starmene chiuso qui dentro,» concluse seccato. «E non sono nella posizione adatta per tirare ancora la corda,» borbottò poi a voce più bassa.
«Che intende?» si interessò subito Pepper, guardinga.
Tony esitò brevemente prima di rispondere, cosa che la mise ancor più sulle spine.
«Non ho una vera e propria autorizzazione per trafficare con la nuova Mark,» rispose poi, con fermezza. «Stanno chiudendo un occhio solo perché Fury deve aver tirato qualche filo in mio favore, visto che sono di nuovo un consulente dello SHIELD. Ma tra una settimana mi ritroverò comunque seduto per l'ennesima volta al banco degli imputati a garantire che non rappresento un pericolo per la sicurezza nazionale e che mi dispiace tanto che quel bastardo di Stane sia morto.»
Inspirò di scatto dal naso e scansò da parte un ologramma con un gesto brusco.
«Non ne posso più di queste stronzate. Mi rallentano e basta,» sbottò frustrato, portandosi una mano alla fronte senza scollare lo sguardo dal foglio.
Pepper trattenne un sospiro: quelle ultime due settimane erano state frenetiche, ed entrambi avevano a malapena avuto il tempo di respirare, tantomento concentrarsi su qualcosa che non fosse la Expo. Tony poteva almeno variare gli impegni immergendosi nei suoi progetti, ma considerando la loro natura dubitava che riuscisse a rilassarsi lavorando. Di quel passo, sarebbero sicuramente riusciti a inaugurarla entro la scadenza massima che si erano posti – il 29 maggio, data scelta da Tony stesso e riguardo alla quale Pepper si era prudentemente astenuta dal commentare – ma sarebbero stati troppo esauriti per godersi i frutti dei loro sforzi. Avevano bisogno di supporto. Kyle e Coulson erano all'oscuro della situazione di Tony e non coglievano l'urgenza di quel progetto, visto solo come l'ennesima stranezza dell'eccentrico miliardario.
«Tony, forse se informasse il direttore Fury della sua...» iniziò esitante Pepper, sapendo cosa avrebbe potuto scatenare quel suggerimento e preparandosi a fronteggiare una reazione inaspettata.
«Lo farò,» replicò lui, sorprendendola in senso opposto. «Ma dopo la Expo,» concluse laconico.
Pepper rimase in silenzio, attonita, ma non osando chiedere di più. Fu Tony a girarsi appena verso di lei, con sguardo venato di tristezza:
«Il motivo personale è che non voglio il suo aiuto dopo che mi ha trattato come un rottame da scartare. Quello razionale è che mi sto dando tempo. Non voglio allarmarlo con l'intossicazione e precludermi un posto nel suo circo prima di essere certo di aver battuto ogni strada. E al momento credo di aver fatto almeno qualche progresso.» 
Picchiettò sul reattore e le rivolse un tenue sorriso che le alleggerì il cuore. Non parlava quasi mai di quello che aveva evasivamente ribattezzato "progetto collaterale", ovvero l'ideazione del nuovo reattore arc, ma vederlo così tranquillo la rassicurò enormemente.
«Ora, se lei vuole tornare a questo...» Tony si schiarì la voce e accennò alla mappa di Flushing Meadows spiegata sul tavolino, in una discreta richiesta a cambiare argomento, «... io torno a questo,» finì, riprendendo ad occuparsi dei suoi calcoli e schemi.
Pepper fu ben lieta di assecondarlo e riprese a scrutare il registro che aveva in mano, compilandolo man mano che osservava la piantina.
«Qui che cosa dovrebbe esserci?» indicò un padiglione ridotto a uno scarabocchio nero per tutte le volte che Tony vi aveva scritto, cancellato e riscritto sopra.
L'uomo sembrava troppo immerso nel suo turbine di calcoli per darle pieno ascolto.
«Uh, devo decidere,» svicolò la domanda. «Come vede, non ho le idee molto chiare in proposito,» accennò al groviglio d'inchiostro impresso sull'edificio.
«Tony, avremmo dovuto presentare il programma completo già una settimana fa, non possiamo ritardare ancora la...»
«È una sorpresa,» proruppe lui, senza alzare lo sguardo dalle sue formule.
«Una... sorpresa?» ripeté lei, titubante e poco incline a mostrarsi entusiasta per l'ennesima cosa che l'avrebbe colta impreparata.
Tony dovette captare la sua apprensione, perché si distolse di nuovo dai suoi traffici.
«Una bella sorpresa.» puntualizzò «Non deve preoccuparsi, anzi, sono sicuro che le piacerà. Mi dia solo un po' di tempo per perfezionarla...» concluse con un guizzo di sorriso rassicurante, prima di tornare chino sui fogli.
Pepper si rilassò un poco, convinta dallo sguardo limpido di Tony, più che dalle sue parole. La sua apprensione fu sostituita da una sana, semplice curiosità che rese più vivace la successiva mezz'ora di lavoro, impiegata nel digitalizzare la disposizione della Expo con l'aiuto di JARVIS.
Tony continuò a rimaneggiare il suo progetto con frustrazione crescente, a giudicare dalle sopracciglia strettamente corrugate, dalla frequenza cui si passava una mano tra i capelli come a rimescolare le idee e dalla bocca inclinata in una piega sempre più insoddisfatta. Pepper non intervenne: erano giorni che lavorava nervosamente, come se non riuscisse a venire a capo di qualcosa. Aveva ripreso a passare tempo in laboratorio anche quando lei era lì, cosa che le aveva rammentato quanto la mettesse a disagio quella stanza, nella quale non era ancora mai entrata da quel giorno di quasi un anno prima.
Tony emise improvvisamente un sospiro sconfortato.
«E anche le permutazioni del litio sono da scartare,» annunciò con fare forzatamente pimpante, sbarrando al contempo ciò che stava scrivendo con un gesto secco della penna. 
Lasciò ricadere il blocco sul tavolo in un gesto brusco. Pepper si accigliò, indecisa su come commentare, ma prese nota del suo pallore improvviso mentre strappava la pagina dal blocco e la accartocciava.
«Ero sicuro che potessero...» cominciò a farfugliare distratto, gettando il foglio a terra con stizza.
Si interruppe e si sfregò con fare nervoso i corti capelli sulla tempia.
«Come non detto. Fa niente.» 
Tornò a guardarla con un mezzo sorriso un po' incrinato, ma Pepper vedeva con chiarezza lo sforzo che stava facendo per controllare il respiro, che adesso udiva distintamente costretto. Tony colse la sua espressione allarmata e si schiarì la voce, facendo per riprendere a parlare, ma si bloccò quando la donna si portò dietro di lui e gli poggiò le mani sulle spalle. Lui cercò subito la sua mano, che Pepper trovò ghiacciata quasi quanto quella meccanica e scossa da un lieve tremito. Cercò di controllarlo intrecciando le dita alle sue, in uno di quei gesti istintivi a cui si abbandonava quando il panico iniziava a farsi strada in lui.
«Pep?» esalò, in un respiro sforzato.
«Sono qui,» lo rassicurò come sempre, stringendogli più forte la mano e percependo con l'altra i battiti concitati del suo cuore. «Stai bene?» chiese poi, fallendo nel non far trapelare la sua apprensione.
«Più o meno,» deglutì lui, annuendo rapido. «Per ora è sotto controllo,» aggiunse più stridulo, aumentando la stretta nel tentativo di non lasciarsi sopraffare.
Pepper credeva di percepire chiaramente le ondate di panico che si stava sforzando di reprimere, con molto più successo delle ultime volte, quando si era invece trovato aggrappato a lei nel tentativo di respirare. Avevano entrambi sperato che quello di qualche settimana prima fosse un episodio isolato; si era invece ripetuto più volte, facendo vivere Tony in uno stato di tensione costante. Dopo un attacco particolarmente violento, Pepper gli aveva suggerito di contattare Ian per farsi prescrivere degli ansiolitici e lui si era mostrato sorprendentemente poco ostile all'idea, nonostante avesse detto di voler aspettare ancora prima di parlare col medico. Ian aveva comunque già preso a contattarlo con più insistenza nell'ultimo mese, spingendo per una visita di controllo che Tony continuava a procrastinare adducendo impegni inesistenti.
«Stavamo parlando di... dei padiglioni, giusto?» esalò all'improvviso l'uomo, accennando alla piantina con la mano artificiale.
«Tony? Ora non dobbiamo per forza...»
«Se tengo il cervello occupato migliora,» chiarì concitato, rivolgendole un fugace sguardo spaurito e quasi implorante mentre ancora lottava col panico alle porte.
Pepper titubò un singolo istante prima di assecondarlo e riattaccare a parlare della Expo, pur mantenendo il contatto con lui. Tony si riagganciò stentatamente al discorso, un po' ascoltandola, un po' calmando il respiro, un po' gesticolando a scatti con la protesi mentre parlava. Si sentì infine abbastanza sicuro per lasciare la sua mano e impegnarla di nuovo con la penna. Pepper mantenne le proprie posate delicatamente sulle sue spalle, percependo la vibrazione della sua voce che le attraversava. Le abbandonò solo quando le sentì rilassarsi del tutto, soffermandosi a sfiorargli i capelli sulla nuca prima di scostarsi da lui e riprendere a lavorare come se nulla fosse accaduto. Intercettò il suo sguardo, che come sempre valeva più di mille parole ed esprimeva pura, sincera gratitudine mista a sollievo. Dopo una decina di minuti, raccolse il foglio accartocciato, lo spiegò con cura e riprese a lavorare parallelamente ai suoi progetti, recuperando la sua parlantina ironica nel discutere della Expo.
«Le Hammer Industries? Dobbiamo seriamente invitare quel pagliaccio?» prese infatti a lamentarsi con la consueta vivacità, puntando il gomito prostetico sul tavolo e poggiando la guancia al pugno chiuso con fare scocciato.
«Sarebbe una mossa del tutto imparziale che...»
«Infatti Hammer è stato così imparziale al processo.»
«... potrebbe accattivarci le simpatie del governo,» terminò inflessibile lei, sfidandolo a controbattere.
«Ma certo, diamo uno stand anche a Knight, visto che ci siamo!» agitò la mano meccanica a mezz'aria in un moto d'esasperazione, abbandonando la penna e facendo per alzarsi in preda al nervoso.
Pepper lo inchiodò al suo posto con un unico, penetrante sguardo, anche se le stava segretamente venendo da sorridere nel veder riemergere l'indole ribelle e capricciosa di Tony, sebbene mettesse a dura prova i suoi nervi.
«Hammer è il nuovo beniamino del Dipartimento della Difesa,» gli ricordò serafica, rimediandosi solo un'occhiata sbieca da parte sua. «Stern è un Senatore del Congresso particolarmente legato a quel settore. E deve ancora approvare la sua licenza per le protesi...» concluse, lasciando che fosse lui a trarre le relative conclusioni.
Per il momento, sembrava più incline a far ruotare incessantemente su se stesso un modellino dell'armatura con pigre spinte della mano sana. Infine mandò un teatrale sospiro, roteò gli occhi più di quanto fosse necessario, incrociò strettamente le braccia e incassò la testa tra le spalle, immusonendosi.
«Hammer concesso,» masticò tra i denti.
Poi si rallegrò di colpo, sollevando in alto l'indice come se gli fosse appena sovvenuta l'idea del secolo, mettendola immediatamente sul chi vive.
«In cambio voglio che l'inaugurazione si tenga qui, nello State Pavilion,» se ne approfittò subito, piantando il dito sulla struttura più centrale.
Detto ciò, si fiondò con improvvisa energia nei suoi "progetti collaterali", senza aspettare replica e considerando evidentemente chiusa la questione. Pepper squadrò con occhio clinico la scelta di Tony, che nel frattempo si stava impegnando ad evitare qualsiasi contatto visivo tenendo la testa china sui suoi fogli e ologrammi.
«Non sarebbe meglio il Palazzo dei Congressi, in caso piovesse?» lo dirottò con nonchalance verso un secondo edificio, leggermente discosto dall'Unisfera.
«Lo State Pavilion ha un tetto.»
«Con un buco al centro, Tony.»
«Perfetto,» commentò tranquillamente lui, concentrato a scrivere con la sinistra.
Gli occhi di Pepper s'illuminarono di una luce sospettosa e saettarono nuovamente alla piantina di Flushing Meadows. Individuò il padiglione in esame e ticchettò brevemente un'unghia sulla carta, mentre il suo sospetto prendeva mano mano forma.
«Tony?»
«Pepper?»
«Non ha intenzione di fare quello che penso, vero?»
«Non saprei, ma probabilmente sì. Di solito ha un intuito formidabile.»
«Allora le consiglio vivamente di toglierselo dalla testa, perché è la cosa più stupida che potesse venirle in mente,» sentenziò, scoccandogli un'occhiata torva.
«Uh, ok. Terrò conto della sua opinione, quando lo farò lo stesso.»
L'uomo non alzò neanche la testa dal foglio, come se stessero discorrendo dell'argomento più banale del mondo.
«È completamente impazzito?»
«I sintomi dell'intossicazione includono sbalzi d'umore e depressione, ma non follia nel senso stretto del...»
«Tony, ti degni di guardarmi?» sbottò lei, alterata.
Lui sospirò ed eseguì rassegnato, lasciando con un gesto brusco la penna e abbandonando per l'ennesima volta ciò che stava scrivendo.
«Ti sto guardando,» le fece notare piattamente, invitandola a parlare.
«Hai intenzione di presentarti come Iron Man» affermò lei, senza sforzarsi di farla suonare come una domanda.
«La mia immagine pubblica è legata ad Iron Man, che sarà la mascotte della Expo. È inevitabile che compaia nelle sue vesti.»
«Indossare l'armatura nelle tue condizioni equivale...» si bloccò, frenandosi appena in tempo nel rendersi conto di ciò che stava per dire sovrappensiero.
«... a un suicidio?» completò lui, con assoluta calma e un'alzata di sopracciglia.
Pepper si morse le labbra, senza capire se fosse serio o ironico. In entrambi i casi non era certo rassicurante e si chiese quanto fosse effettivamente a suo agio in quel momento, considerando che aveva sfiorato un attacco di panico neanche mezz'ora prima. L'unico segno di tensione visibile era la mano sana serrata in un pugno. La rilassò di colpo con un profondo sospiro, come se il solo pensiero di affrontare quell'argomento lo sfinisse e stesse comunque cercando la forza per farlo.
«Pepper...» cominciò a bassa voce, in quello che sarebbe probabilmente stato un tentativo di persuaderla che quell'idea folle fosse del tutto sensata.
«No. Non provarci nemmeno,» lo troncò di netto, senza però riuscire a imporre la ferrea decisione che avrebbe voluto alla sua voce.
L'unica cosa a cui riusciva a pensare era l'immagine di Tony nell'armatura mentre questa gli risucchiava ogni energia, il reticolo sul suo petto che si allargava e tutto ciò che poteva andare storto – un guasto, un malore, un errore, Tony che precipitava, Tony che soffriva, Tony che moriva davanti a lei, di nuovo.
«Pepper,» riprese lui, come se non l'avesse mai interrotto, ma esitò, portandosi la mano al volto a coprire brevemente l'occhio, per poi continuare monocorde, senza guardarla: «Non ti chiedo di fidarti di me perché sarebbe ipocrita, ma cerca almeno di non considerarmi un idiota completo,» non si sforzò neanche di risultare convincente.
Sembrava semplicemente esausto, sfibrato dall'ennesima discussione senza uscita che si trovavano ad affrontare.
«Sei solo incosciente e sconsiderato, oltre che egoista, ma questa non è una novità,» le uscì detto, prima di potersi trattenere.
«In questo caso credo di potermi permettere di essere egoista,» replicò seccamente lui, e rialzò di scatto lo sguardo ora velato da una traccia di risentimento.
Pepper incassò in silenzio la replica. Non aveva davvero avuto intenzione di lasciarsi sfuggire quelle esatte parole, nonostante le ritenesse vere. Se per un momento si sentì in colpa, il ricordo di tutte le risposte caustiche e prive di tatto che aveva ricevuto dall'uomo davanti a lei bastò a mettere a tacere la sua coscienza. Non poteva farle quello, non dopo tutto ciò di cui avevano parlato; non quando la possibilità di perderlo era così vicina, reale e ancora inevitabile.
Ora Tony sembrava innervosito e prese a stringersi il polso meccanico con la mano sana, in quello che ormai Pepper riconosceva come un tentativo di mantenersi ancorato al qui e adesso e di non soccombere a tutto ciò che minacciava di sopraffarlo. Stavolta non si portò vicino a lui e si limitò a rimanere in piedi al suo fianco, con le braccia rigidamente incrociate a impedirsi qualsiasi gesto.
«Ho fatto i miei calcoli,» esordì Tony, con voce appena tremante, non seppe dire per frustrazione, paura o incertezza. «Per eccesso, l'intossicazione salirà circa al 65% dopo l'utilizzo dell'armatura. Per eccesso,» sottolineò, quando Pepper non riuscì a nascondere la sua contrarietà nell'udire una cifra così alta e minacciosa.
Si costrinse a non intervenire e lo lasciò continuare, nonostante si accigliasse sempre più e le sue labbra divenissero sempre più sottili ad ogni parola che pronunciava.
«Ho pianificato tutto e non volerò fin lì: userò il jet per farmi portare esattamente sopra la Expo e andrò in caduta libera fino all'ultimo secondo, senza dispendio di energia dai propulsori. Atterro, fuochi d'artificio, champagne per tutti, mi godo il mio momento di gloria e la tolgo. Fine. La userò per neanche cinque minuti totali, Pep.»
L'unica reazione che si concesse lei fu di serrare ulteriormente le braccia, mentre cercava di analizzare quell'idea da ogni angolazione possibile in cerca di una falla, di una svista di così eclatante e insormontabile da convincere Tony a rinunciare – nonostante la natura stessa di quella proposta fosse di per sé irrazionale. Ma il suo sguardo era determinato come sempre, ed era sicura che avesse perso più di qualche ora di sonno per architettare quella follia, sicuramente conscio dell'opposizione che avrebbe incontrato da parte sua. Almeno aveva avuto la decenza di non nasconderle nulla, e per quello non poté che sentirsi sollevata.
«Avrò anche un asso nella manica,» continuò Tony spronato dal suo silenzio, con l'ombra di un sorriso teso. «Ma devo parlare con Ian prima di esprimermi in merito. Riguarda quei "progressi" di cui parlavo,» spiegò conciso, sfregandosi il pizzetto.
«Non hai comunque il permesso di usare le protesi fuori casa,» gli fece notare, sperando contro ogni aspettativa che magari a quelle non avesse pensato. «E tecnicamente l'armatura è ancora un'arma.»
«Potrei aver convinto un certo Senatore a bendarsi gli occhi e girarsi dall'altra parte in cambio di qualche esclusiva sull'Haz-Tek. E visto che inviteremo anche le Hammer Industries su tua insistenza...» alzò i palmi con un sorriso sbieco, a significare che ormai ciò che era fatto era fatto.
Pepper scosse la testa, maledicandosi per la proposta, ma non indietreggiò d'un passo.
«Le protesi e l'armatura non sono compatibili. L'hai detto tu stesso,» le sovvenne, sforzandosi senza troppo successo di non suonare trionfante.
Tony fece una lieve smorfia insoddisfatta, ma non si scompose ulteriormente.
«Non sarò certo aggraziato come una farfalla, ma dai test non dovrebbero...»
«... hai fatto dei test?» boccheggiò lei, allibita.
Il suo cuore mancò un colpo al pensiero delle ore che aveva ripreso a trascorrere in laboratorio e di ciò che poteva aver fatto proprio sotto al suo naso, di nascosto, tacendole di nuovo il tutto.
«Pepper, puoi smettere di essere paranoica per dieci secondi?» sbottò a quel punto Tony. «Sarò pure malmesso fisicamente, ma ho ancora un quoziente intellettivo di duecento e passa: credi che non sappia calibrare un paio di test in modo da non uccidermi? E comunque, risalgono a mesi fa e mi servivano per tutt'altro,» spiegò con irritazione crescente, continuando ad artigliare il polso della protesi.
Lei rimase in silenzio, immersa in una nube di pensieri fosca e indefinita, se non per quell'unica certezza che continuava a strizzarle il petto sempre più ad ogni battito, e che espresse infine ad alta voce:
«Tony, è troppo rischioso.»
«Non più rischioso di starsene a casa ad aspettare che l'intossicazione faccia comunque il suo corso,» mormorò cupamente lui di rimando.
Pepper trasalì.
«Hai detto che stavi...»
«Sto facendo progressi,» la anticipò, con fermezza. «Vorrei solo...» mosse la mano a mezz'aria in un moto frustrato, come se volesse afferrare qualcosa fuori dalla sua portata, «... concedermi delle distrazioni,» concluse con voce più grave, cercando infine i suoi occhi.
Pepper vacillò, come sempre quando incontrava quell'iride calda e profonda in cui avrebbe potuto immergersi, ormai segnata da troppo dolore. Non sapeva se interpretare qualche sottinteso riferito a loro in quella frase, solcata da una nota di rimpianto per tutto ciò a cui aveva dovuto rinunciare in quell'ultimo anno. Una parte di lei in realtà capì ciò che intendeva dire, ma fu subito soffocata dalla paura, dalle immagini che le erano sfrecciate in testa poco prima, e si obbligò a rompere il contatto visivo con lui, sapendo che altrimenti non sarebbe stata in grado di mantenere la sua posizione.
«Così finirà per uccidersi,» asserì, scacciando ogni residuo di incertezza e riprendendo un tono formale, come se ciò potesse conferire più autorità alle sue parole. «E le ho già detto una volta che non voglio farne parte.» 
La sua voce rimase ferma, ma i suoi pensieri sfrecciarono al giorno dell'incidente e a quando l'aveva trovato in laboratorio, facendole tremare le ginocchia nella consapevolezza che ne aveva già fatto parte. A quel punto, contrariamente ad ogni sua aspettativa, Tony sorrise.
«Questo mi rassicura,» disse soltanto, in modo criptico.
Pepper non replicò subito, confusa e dubitando di essersi espressa chiaramente. Lo vide rilassarsi e poggiare i gomiti sul tavolo, continuando a sorridere sotto i baffi:
«Quando me l'ha detto la prima volta, voleva licenziarsi,» le rammentò tranquillo, richiamando un momento che sembrava avvenuto secoli prima. «E sono riuscito a convincerla sia a rimanere, sia a cambiare idea riguardo a Iron Man. Sono sicuro di poterci riuscire anche adesso,» concluse, con un occhiolino impertinente.
«Non sarà così semplice,» lo rimbeccò lei, lasciando però andare un sospiro di sollievo quando vide che Tony aveva appena rimaneggiato l'ologramma della Expo, spostando l'inaugurazione nel luogo che gli aveva proposto lei inizialmente.
«Ho tutto il tempo che mi serve per convincerla.»
«Non credo che la mia approvazione farebbe molta differenza,» osservò lei, senza nascondere il disappunto.
«Se non riuscirò ad averla, pazienza.»
«Ovvio, lo farà lo stesso,» dedusse lei, con un secco sospiro.
«Rinuncerò,» la contraddisse, facendosi serio. «Niente Iron Man senza il suo consenso. Promesso,» ribadì, cercando di nuovo i suoi occhi adesso basiti e sostenendoli senza esitazioni.
«Non è molto bravo a mantenere le promesse,» gli fece notare debolmente, ancor più dubbiosa.
«Mi impegnerò. Soprattutto a convincerla, ma anche a mantenere la promessa,» concluse con un fugace sogghigno.
Nessuna ombra calò sul suo sguardo limpido e Pepper, contro ogni buonsenso, volle credere a quelle parole.


***


2 Febbraio, 20:30, Villa Stark

«E lei è sicuro che questa roba...»
«Dilitio.»
«Qualunque cosa sia...»
«Doc, non mi faccia dubitare della sua preparazione in chimica.»
«Insomma, è sicuro che quell'intruglio funzionerà?»
Tony sospirò appena e roteò l'occhio con fare esausto anche se il medico non poteva vederlo, cercando al contempo di non farsi sfuggire il cellulare incastrato tra spalla e orecchio mentre scriveva al computer.
«Sono sicuro che contrasterà il palladio? Sì,» prese fiato prima di continuare. «Sono sicuro che non mi ridurrà in poltiglia? No. Per quello mi serve il suo parere di segaossa,» concluse, senza perdere un battito sulla tastiera.
Ci fu una breve pausa dall'altro capo, interrotta in sottofondo dal bip di qualche macchinario ospedaliero.
«Ho l'impressione che questo sia più il campo del Dottor Banner,» sparò infine Ian, senza nascondere il proprio nervosismo.
«Può darsi,» Tony quasi imprecò all'acutezza del medico, «ma come può immaginare, quella con la ciurma di Fury è una situazione delicata e qualsiasi mossa avventata potrebbe far affondare la nave. Nello specifico, la mia bagnarola. E so che lei saprà essere molto discreto,» lo blandì.
«Se me l'avesse detto prima...»
«L'avrebbe semplicemente saputo prima e saremmo nella stessa situazione,» tagliò corto lui con ovvietà, troncando sul nascere un'altra sfuriata di un'ora. «Quindi, può passare alla villa in settimana?»
«Sarò alla sua porta domattina,» replicò seccamente Ian.
«Mh, allora dovrò darmi da fare. Non mi sgridi per le occhiaie quando mi vedrà,» concluse a mo' di saluto, già pronto a riagganciare, ma la voce del medico risuonò ancora una volta:
«Non la sgriderò certo per quello,» il suo tono prese una piega decisamente minacciosa. «Nel frattempo, non...»
«Non faccio stronzate. Ricevuto,» concluse lui, chiudendo la chiamata con un sospiro stremato e un sorrisetto decisamente disubbidiente a solcargli le labbra.
Tornò alle sue schermate sparse senza apparente ordine logico attorno a lui, lanciò un'occhiata all'ora e concluse che poteva concedersi mezz'ora di progetti "ricreativi" prima di tornare a concentrarsi sul dilitio. Si sarebbe forse meritato una pausa, dopo otto ore di lavoro ininterrotte, ma sapeva che, anche non essendo fisicamente in laboratorio, la sua mente avrebbe continuato ad arrovellarsi su schemi, calcoli e formule. Tanto valeva sfruttare quell'energia latente.
Riprese a ticchettare sulla tastiera olografica dinanzi a lui, con un breve sospiro di stanchezza.
Era passato molto tempo dall'ultima volta che aveva lavorato davvero sotto pressione. Non quella innocua di un contratto sul punto di scadere o di una conferenza imminente che non aveva preparato, e neanche quella più incalzante di un processo alle porte con una protesi ancora da completare. Piuttosto, il tipo di malsana urgenza che può suscitare la canna di un mitra premuta sulla nuca o il lento avanzare di viticci plumbei e tossici sul proprio petto. Almeno, in quel secondo caso poteva lavorare con tutti i comfort a disposizione e non arrangiandosi in una grotta buia, umida e gelida. Quel fatto avrebbe dovuto consolarlo: il laboratorio era familiare, era casa, era il suo mondo che lo accoglieva anche quando tutti gli altri lo respingevano o lui li allontanava da sé.
E adesso non gli apparteneva più, perché tutto ciò che stava facendo era progettare e costruire cose che avrebbero continuato a vivere quando lui non ci sarebbe più stato. Un retaggio freddo, autosufficiente. Lavorava a pieno ritmo, circondato dal suo solito caos e dalla sua musica spaccatimpani, ma gli mancava quella scintilla di vitalità che lo spingeva a traversare la stanza da una parte all'altra sulla sedia girevole derapando come un bambino, che lo faceva battibeccare per minuti interi con Dum-E e U sorridendo sotto i baffi e che lo portava a ficcare la testa nel motore di una delle sue auto quando aveva bisogno di schiarirsi le idee, incurante di indossare un completo firmato o la tuta da lavoro. Adesso lavorava per lo più in silenzio, con una calma dettata dalle sue eterne difficoltà a controllare la protesi, e non riusciva a scacciare la sensazione che qualcuno o qualcosa sbirciasse regolarmente da sopra la sua spalla, come giudicando il suo operato in attesa di un errore che l'avrebbe rallentato.
Si sentiva derubato dell'unica costante positiva della sua intera vita, che fosse il suo sfogo quando da ragazzino litigava con suo padre, il suo personale parco giochi quando era dell'umore giusto, o il suo rifugio nei molti, troppi momenti di debolezza. Quel luogo l'aveva visto partire e tornare, cadere e rialzarsi, morire e rinascere. Sapeva che, qualunque cosa lo avrebbe salvato anche stavolta, sarebbe accaduta lì. Lo sentiva nelle ossa, nelle mani che, pur rallentate, armeggiavano a colpo sicuro tra i macchinari, nel battito del suo cuore che riverberava appena contro il cilindro metallico nel suo petto a ricordargli che non aveva alcuna intenzione di fermarsi.
Ma aveva così poco tempo... e aveva paura. Aveva pensato di non dover mai più convivere con quel costante crampo allo stomaco che pareva ramificarsi in tutto il suo corpo come una pianta infestante, congiunta a quella venefica sul suo petto, Gli occludeva la mente, restringeva a tunnel la sua visuale, sabotava i suoi sforzi fisici e mentali. Almeno nella grotta aveva avuto la consolazione di poter decidere come morire. Adesso poteva solo scegliere come impiegare il tempo che gli restava, sperando con tutto se stesso che non andasse sprecato.
Non sarebbe mai stato abbastanza, questo lo sapeva. La schiena di suo padre era sempre molti passi avanti a lui e gli occhi di Yinsen lo guardavano dall'alto velati di delusione. Avrebbe potuto fare molto di più, con la sua vita.
Inspirò profondamente, avvertendo la lieve occlusione al petto che cominciava a rubargli il respiro nel farsi più insistente e serrata. Doveva smetterla di immergersi in riflessioni così contorte che finivano sempre per concludersi con la consapevolezza della sua imminente dipartita, soprattutto quando era da solo. 
Piuttosto, doveva pensare ai progressi, a ciò che aveva concluso di positivo, anche se ogni volta sembrava un misero granello di polvere messo a confronto con una montagna di errori e problemi pronta a franare e sotterrarlo. Doveva pensare alla Mark IV quasi pronta, alle potenzialità del dilitio, ai tutori per Kyle, alle chiamate dello SHIELD per le consulenze, alle protesi che funzionavano, alla Expo, a Pepper, al fatto che avrebbe forse indossato di nuovo l'armatura e a quanto fosse così vicino a capire come curare il suo cuore. E doveva pensare a tutti i progetti che doveva portare a termine.
Il
progetto.
Un lieve sorriso stemperò le linee di tensione sul suo volto: non vedeva l'ora di rivelare quella sorpresa a Pepper.
Quel semplice pensiero bastò a risollevarlo e a farlo virare verso l'umore allegro e frizzante che aveva sempre accompagnato i suoi traffici in laboratorio. Si trovò a canticchiare distrattamente a bocca chiusa sulle note di Runnin' with the Devil, mentre si ripeteva mentalmente tutto ciò di positivo che si sforzava di trovare, nonostante quella maledizione che si allargava sul suo petto. Non sarebbe stata quella a fermarlo: ovunque guardasse trovava motivi per non arrendersi e non aveva intenzione di deludere di nuovo tutti, soprattutto quando aveva così tanto da perdere.
Aveva toccato più volte il fondo ed era sprofondato nel fango, ma adesso poteva dire di essere davvero nel suo punto più basso: nonostante tutti gli sforzi fatti per riguadagnare l'uscita era caduto di nuovo, schiantandosi nello stesso punto dal quale aveva cercato di scappare per tutta la sua vita.
Ma da qualche settimana si era reso conto di aver ingiustamente rinnegato quel fondo.
Non si era mai accorto che là sotto, assieme agli scarti, agli errori e ai frammenti imperfetti di sé, c'erano anche dei diamanti sepolti nel fango.




_________________________________________________________________________________________
 
Note Dell'Autrice:

Buonasera/Buongiorno! (dipende dai punti di vista, immagino...)

Ecco a voi un bel... niente. Ovvero, un capitolo di transizione.
Scusate, è che dovevo mettere qualche punto fermo riguardo all'organizzazione dell'Expo e a tutto il contorno psicologico/fisiologico e burocratico in questo particolare frangente della storia. Però un po' di fluff ce l'ho messo, su <3

Precisazioni varie ed eventuali: 1) la AccuTech è una società realmente esistente nell'universo Marvel e l'Haz-Tek è una sorta di esoscheletro ispirato all'armatura di Iron Man inteso per uso civile; 2) Il discorso sulle fisime di Tony riguardo al proprio corpo è fondamentale per tutto ciò che seguirà; 3) La frase finale è vagamente ispirata a Via del Campo di De André ("dai diamanti non nasce niente/dal letame nascono i fior"), con le dovute rielaborazioni.
Qualunque fatto lasciato "in sospeso" verrà chiarito nel prossimo capitolo :)

Ringrazio tantissimo Emyclarinet, T612 e _Atlas_ (che si becca pure una medaglia per aver inserito la duecentesima recensione <3) per aver commentato lo scorso capitolo. E un grazie anche a 50shadesofLOTS_Always, che continua a seguire da dietro le quinte, per aver citato Phoenix nella sua long Rescue Heart <3 

Mi rendo conto che il capitolo è meno "carico" rispetto agli ultimi standard, ma il prossimo dovrebbe uscire a breve e compenserà :)
A presto,

-Light-

P.S. Una precisazione che volevo fare da tempo: quando scrivo "(la) mano" o "(la) gamba" senza ulteriori specificazioni mi riferisco sempre agli arti sani di Tony; in caso contrario è sempre esplicitato che si tratta delle protesi. Idem per quando cammina: se lo fa senza bastone è sempre specificato. Ho ritenuto opportuno rendere chiaro questo fatto, in quanto avrà rilevanza crescente col passare dei capitoli.

EDIT: piccolo extra grafico qui sotto, fatto a tempo perso senza troppe pretese, perché ho bisogno di vedere un Tony felice <3 (e sì, ho sbagliato lato delle protesi perché ero distratta mentre disegnavo *sigh*)






 

© Marvel

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Capitolo 43
*** Legacy ***



42

 

 
Legacy




"What am I leaving when I'm done here?
So if you're asking me I want you to know
When my time comes
Forget the wrong that I've done
Help me leave behind some reasons to be missed"

[Leave Out All The Rest – Linkin Park]




"For you, I've waited all these years
For you I'd wait 'til kingdom come
Until my day, my day is done
And say you'll come and set me free
Just say you'll wait, you'll wait for me"

['Til Kingdom Come – Coldplay]




4 Febbraio, Villa Stark

All'ennesima scottatura che lo fece sobbalzare, Tony iniziò seriamente a mettere in dubbio la validità delle leggi della robotica di Asimov, in particolare della prima. Scoccò un occhiata diffidente a Dum-E, che quel giorno era più maldestro del solito e particolarmente propenso a volerlo privare del braccio sano con la fiamma ossidrica, e lo allontanò dal banco di lavoro con un comando deciso. Si rassegnò a completare la saldatura della Mark IV senza aiuti esterni, dopo aver esaminato con fastidio le nuove ustioni sul braccio già martoriato.
Così impiegò quasi mezz'ora in più, tra tremiti imprevisti della mancina e le solite ribellioni e tentennamenti della protesi, ma a lavoro finito si tolse con accaldata liberazione la maschera protettiva. Studiò con occhio clinico quel primo abbozzo dell'esoscheletro dell'armatura, già perfettamente funzionante, ma ancora anonima e incolore, e si concesse comunque un cenno d'assenso soddisfatto; all'estetica avrebbe pensato in seguito. Aveva tutto il tempo per forgiare la placcatura esterna e per deciderne forma e cromatura, ma prima doveva portare avanti la sua miriade di progetti paralleli più urgenti.
Degnò di uno sguardo vagamente astioso il prototipo telecomandato che si era infine deciso ad assemblare, poco più di uno scarno androide bianco sporco dall'espressione ottusa, ora sorretto mollemente da bracci meccanici. Era abbastanza sicuro che il suo inconscio avesse giocato un ruolo fondamentale nel renderlo esteticamente orripilante, considerando che sarebbe finito nelle mani dello SHIELD. Aveva rinunciato all'armatura prensile dopo aver concluso che per renderla funzionale si sarebbe dovuto impiantare una cinquantina di neurotrasmettitori, e non aveva davvero voglia di aggiungere altro metallo e circuiti nel proprio corpo. Che Fury si tenesse pure quel giocattolo mal riuscito e i progetti per farne il suo squadrone personale: o non sarebbe vissuto abbastanza a lungo per vedere l'Iron Legion in azione, oppure, a voler essere ottimisti, non avrebbero mai avuto bisogno di sostituire Iron Man con essa. 
Ad ogni modo, sarebbero stati tutti felici e contenti, considerò con amaro sarcasmo, mentre sorseggiava la sua solita borraccia di clorofilla senza neanche più la forza di storcere il naso per il suo sapore. Era lieto che almeno per quella giornata la sua emicrania costante fosse meno aggressiva del solito, limitandosi a un dolore sordo e latente alla nuca, comunque abbastanza marcato da disturbare la sua concentrazione. Almeno non si sentiva perennemente sul punto di vomitare. Doveva riconoscere che era un miglioramento. Si lasciò cadere con pesantezza sulla sua sedia girevole, ignorando anche le fitte sempre più acute e persistenti al moncherino inferiore.
Ian gli aveva dato una strigliata coi controfiocchi per non avergli detto subito del peggioramento dell'intossicazione, ma era riuscito a rassicurarlo in parte su alcuni sintomi: le fitte erano normali, e non avevano nulla a che vedere con le protesi, che funzionavano ancora perfettamente; era la concentrazione di palladio anomala a causargli quei crampi. Ciò non le rendeva più sopportabili, e ormai evitava il più possibile di camminare o stare in piedi.
Strinse i denti e cercò di ignorare quegli impedimenti mentre si immergeva nelle sue schermate. Ne aprì una a mezz'aria, controllando il piano di lavoro che aveva stilato con Pepper e al quale aveva poi aggiunto qualche "extra" di cui lei non doveva necessariamente essere a conoscenza. Non subito, almeno. Scorse la lista, spuntando un altro step per la realizzazione della Mark IV, per poi trasferirsi alla consolle informatica e intraprendere il compito successivo.
Schioccò compiaciuto le dita della mano meccanica per richiamare JARVIS, godendosi il suono chiaro e secco che provocarono: si era deciso ad aggiungere un palmo e dei polpastrelli antiscivolo e si stava beando da giorni del semplice appagamento di poter di nuovo schioccare le dita, battere le mani o usare un touch-screen senza difficoltà.
«Signore, ho effettuato i calcoli per l'utilizzo dell'armatura alla Stark EXPO,» si rianimò subito il suo maggiordomo virtuale.
«Non deludermi, ho urgente bisogno di buone notizie,» invocò, mentre si ripuliva le mani dall'olio per motori con uno straccio, prestando particolare attenzione a non lasciare residui tra le giunture di quella meccanica.
«Posso offrirle un 72,4% di compatibilità tra i reattori e l'armatura, signore,» annunciò l'intelligenza artificiale, quasi giovialmente.
Tony inclinò di lato la testa, ponderando quella cifra con attenzione.
«Mh,» lanciò lo straccio sul banco di lavoro e incrociò le braccia con aria meditabonda, «C'è margine di miglioramento?» s'informò, senza sperarci troppo.
«Aumentare ancora la potenza del reattore centrale supererebbe la soglia di rischio da lei stesso stabilita, anche se la totalità di questo suo progetto supera già largamente ogni norma di sicurezza esistente,» replicò con prontezza lui, e Tony poté giurare di cogliere una traccia di rimprovero nella sua voce elettronica, un tratto probabilmente acquisito da Pepper.
«Pensavo di averti programmato per non fare commenti superflui.»
«Sono stato programmato per tutelare la sua incolumità, specialmente quando lei non è intenzionato a farlo,» rispose piattamente il maggiordomo virtuale.
«La tua devozione mi commuove,» cinguettò lui scuotendo appena la testa.
Almeno lui aveva ancora ben chiare le leggi della robotica, ed era in un certo senso rincuorante che persino un ammasso di codici binari si prodigasse per distogliere il suo ideatore da progetti avventati.
«Mi accontenterò del 72,4%. Per un volo di a malapena un minuto dovrebbe essere sufficiente,» stabilì, lieto di poter mettere da parte anche quel progetto almeno per il momento.
JARVIS si era opposto con ogni fibra ottica e circuito in suo possesso all'idea di aumentare la potenza del reattore centrale per prevalere sulle interferenze coi micro-reattori delle protesi, ma alla fine aveva dovuto dargliela vinta. A conti e simulazioni fatte, utilizzare un'armatura alimentata da un reattore separato era risultato essere molto più pericoloso, e avrebbe rischiato di causare un effetto-defibrillatore decisamente spiacevole, con due reattori così potenti e così vicini al suo cuore già abbastanza sensibile. Certo, rinunciare del tutto all'inaugurazione in armatura sarebbe stata sicuramente l'opzione più salutare, ma il pensiero di poter volare per quel singolo minuto dopo più di un anno di immobilità aveva ben presto messo a tacere il suo noioso buonsenso.
Ora doveva solo convincere Pepper dell'assoluta sicurezza del suo piano. Aveva l'impressione che sarebbe stato più semplice convincerla che la Terra fosse piatta, ma sperava che quelle due settimane in cui si era imposto di lasciar cadere l'argomento le avessero dato modo di rivedere le sue posizioni. Ne dubitava, visto il totale fallimento del suo primo approccio noncurante, ma forse era il momento di un secondo round persuasivo. Era tuttavia consapevole che, di fronte a un suo ulteriore rifiuto, non sarebbe mai stato in grado di agire alle sue spalle. Quando il pensiero l'aveva attraversato, aveva provato solo un profondo ribrezzo per se stesso, molto simile a quello che l'aveva colpito subito dopo aver cercato di uccidersi.
Il reticolo di palladio sul suo petto parve contorcersi a quel pensiero fuggevole e si trovò a tastare distrattamente la raccapricciante vena color piombo che aveva preso ad abbarbicarsi al suo collo. Bevve un altro paio di sorsi di clorofilla quasi a scongiurare il suo avanzare, e sperò con tutto se stesso che Ian gli fornisse presto buone nuove riguardo al dilitio. Senza quello, poteva scordarsi di inaugurare l'EXPO come Iron Man, che Pepper fosse favorevole o meno. Un minuto di volo non valeva quanto tre mesi in più di vita.
Si riscosse da quelle elucubrazioni e diede un'altra occhiata ai compiti del giorno, trovandosi subito a sorridere, sebbene con un pizzico di nervosismo: ora mancava solo una cosa all'appello. Digitò un paio di stringhe di comandi sulla tastiera olografica e tenne da parte una schermata in modo da averla a portata di mano più tardi.
Infine afferrò il bastone, si alzò con un po' di difficoltà e si diresse con passo rallentato ma deciso verso l'ascensore, preparandosi mentalmente all'imminente discussione con Pepper.


***


Pepper era giusto in procinto di richiamare Tony all'ordine dopo che questi si era defilato da più di quattro ore, lasciandola ad annegare tra le scartoffie, quando lo vide riemergere provvidenzialmente dal laboratorio, entrando in salone con un'aria più che compiaciuta. La cosa era una gradevole novità, visto il suo umore altalenante degli ultimi giorni, in cui era stato afflitto da una nausea costante che aveva tentato inutilmente di nasconderle. Ora sembrava avere un colorito più roseo e sano. Notò comunque il fatto che avesse usato l'ascensore invece delle scale e non poté fare a meno di appuntarlo ai margini della lunga lista di dettagli di cui aveva cominciato ad accorgersi negli ultimi tempi.
Le venne però da sorridere nel vedere che indossava quasi impettito la nuova polo blu della EXPO che aveva eletto a sua nuova divisa da lavoro, ormai bruciacchiata e macchiata in più punti, ma col logo arancione ancora ben visibile sul davanti.
Prima che potesse aprir bocca, lui sfoderò un sogghigno tronfio e si fermò un po' trafelato dinanzi a lei, anticipandola:
«Signorina Potts, qualunque cosa voglia dirmi o obbligarmi a fare, può attendere,» annunciò con malcelata soddisfazione.
Pepper si concesse una smorfia dubbiosa, ma sorrise appena.
«Ha atteso per ben quattro ore, signor Stark, e i moduli per autorizzare lo spettacolo pirotecnico che lei ha richiesto non si firmeranno certo da soli,» gli fece notare pacatamente, puntandogli contro la penna con fare intimidatorio.
«Ha un minuto?» la ignorò del tutto lui, senza abbandonare la sua vivacità.
La raggiunse al tavolo e si poggiò allo schienale della sedia libera con entrambe le mani, inclinandosi verso di lei come un bambino impaziente di spifferare un segreto a qualcuno. Pepper era molto tentata dal gettare al vento la sua compostezza anche solo per il fatto di vederlo di quell'umore così positivo... ma che gusto c'era a dargliela vinta così facilmente? Così soppresse un sorrisetto un po' dispettoso e incrociò le braccia con fare severo.
«Cinquantanove... cinquantotto... cinquantaset–»
Tony ridacchiò di cuore e oscillò appena sul posto, interrompendo il countdown sul nascere:
«Ok, ok, sarò conciso,» la rassicurò, scostandosi quindi dalla sedia e facendo perno sul bastone da passeggio nella sua ormai consueta posa studiata.
Si dipinse in faccia un'espressione misteriosa col chiaro intento di tenerla sulle spine, riuscendosi benissimo. Pepper lo lasciò fare, beandosi semplicemente della spensieratezza che Tony sembrava irradiare in quel momento.
«Si ricorda quella "sorpresa" di cui le avevo parlato?» sparò infine, evidentemente incapace lui stesso di prolungare ancora la suspense.
«Quella per la EXPO?» s'illuminò subito lei.
«Mh-hm.» confermò solo lui, gongolando, e Pepper era sicura che, se avesse potuto, avrebbe preso a saltellare impaziente sul posto.
«Quindi? Ha novità?» lo incalzò incuriosita, sapendo che Tony non aspettava altro che un input da parte sua.
«È quasi finita,» annunciò infatti, alzando trionfante il mento.
«Quasi?»
«Mancano ancora un paio di dettagli...»
Pepper ridusse gli occhi a due fessure di fronte al suo sorriso sornione.
«E ha bisogno del mio aiuto?» indagò, ora guardinga.
«No, ma ho bisogno di lei
Pepper alzò appena le sopracciglia e Tony boccheggiò per un istante, rendendosi conto di quanto quella frase fosse fraintendibile, quindi continuò precipitosamente:
«Intendo, uh, come dire, fisicamente e... no!» s'interruppe di nuovo, portandosi esasperato la mano alla fronte e schermandosi quindi l'occhio.
Pepper dovette concentrare tutte le sue forze nel non sbottargli a ridere in faccia. E a domare il puntuale rossore che le era salito al volto.
«Reset?» tentò Tony, sbirciando oltre le proprie dita e trovando il suo sguardo.
«Farò finta che non abbia mai parlato,» gli concesse lei, non riuscendo del tutto a trattenere la sua ilarità e godendosi l'espressione impacciata di Tony.
Questi la guardò storto per un istante, mascherando però a sua volta un sorriso complice. Fece un grosso sospiro prima di ricominciare, stavolta in modo più controllato e più schematico:
«Dunque. La sorpresa. Devo perfezionare qualche dettaglio e potrei farlo per conto mio in un paio di minuti, ma vorrei che lei fosse presente quando la finirò... la prenda come una cosa simbolica. Non le ruberò troppo tempo,» aggiunse, sfoggiando un sorrisino esitante come se non fosse del tutto certo di ottenere una risposta affermativa.
«Allora sarà meglio sbrigarsi,» lo incitò invece lei, mettendo a tecere i suoi dubbi e inclinando appena il capo senza più riuscire più a mascherare la sua curiosità.
«Bene!» esultò lui. «Andiamo?» disse subito dopo, cominciando ad avviarsi.
«Certo,» rispose troppo in fretta lei, sentendo il cuore che mancava almeno tre battiti nel realizzare che Tony era diretto verso le scale del laboratorio.
L'uomo si bloccò sul primo gradino e le scoccò un'occhiata fugace da sopra la spalla, chiaramente conscio di quali corde avesse toccato la sua richiesta. Pepper si alzò con un lieve giramento di testa; si costrinse a seguirlo senza esternare alcun segno di cedimento, nonostante il suo stomaco si fosse aggrovigliato dolorosamente e le sue gambe si fossero tramutate in tubi acciaio rigido e gelido nel giro di quei pochi secondi. Era sicura di avere anche un principio di febbre e si chiese se quel coacervo di sensazioni spiacevoli assomigliasse a quel che provava Tony durante i suoi attacchi d'ansia. Perché era abbastanza convinta di essere sul punto di averne uno.
Rimase comunque perfettamente stabile sui suoi tacchi, con la schiena diritta e lo sguardo proiettato dinanzi a sé. Solo le labbra tirate in una linea sottile tradivano il suo disagio. Nel breve lasso di tempo che impiegò per raggiungere Tony, questi parve rilassarsi rincuorato dalla sua apparente compostezza.
Pepper quasi credette di poterla davvero mantenere e di riuscire ad estraniarsi da se stessa e da ciò che stava per affrontare quel tanto che bastava per continuare a dargli quell'impressione, ma, non appena raggiunse l'estremità del primo gradino, il suo intero corpo si paralizzò e lei inchiodò sul posto, tesa come una corda di violino. Fu assalita da una forte vertigine, come se qualcosa dentro di lei stesse tentando di risucchiarla per poi spingerla oltre il bordo, e si tirò indietro d'istinto, vacillando appena. La sua schiena incontrò la mano salda di Tony, che vi si adagiò appena il tempo necessario per farle recuperare l'equilibrio, per poi ritrarsi di scatto.
«Pepper?» la chiamò allarmato, ma lei non riusciva a distogliere gli occhi dal marmo levigato delle scale che si avvitavano sotto di lei, uno specchio del vortice che la avviluppava.
Si portò una mano al volto accaldato, schermandosi dal suo sguardo e sentendosi di nuovo sul punto di cadere. Se lo avesse guardato adesso, l'avrebbe rivisto come quel giorno, pallido, rantolante e in punto di morte, senza il reattore e sordo ai suoi richiami. Intravide Tony frapporsi tra lei e le scale, senza però avvicinarsi. Desiderò solo di poter scomparire, perché non era assolutamente quello il modo in cui avrebbe voluto comportarsi, soprattutto non in un momento in cui Tony le era sembrato così spensierato. Ma il suo corpo aveva deciso di agire di propria volontà e le stava impedendo ogni movimento, persino il semplice, istintivo atto di indietreggiare di fronte a qualcosa che, nel profondo, ancora la terrorizzava.
«Pep, non fa niente; possiamo anche rimanere in salone, non volevo che...» iniziò Tony, agitandosi e inclinandosi appena verso di lei per sospingerla lontano da lì, ma Pepper scostò di scatto la mano dal volto e lui si ritrasse altrettanto bruscamente.
«No, sto bene,» mentì spudorata, traendo un respiro profondo che non le fornì comunque abbastanza aria. «Va tutto bene, ho avuto un... un momento, è stupido, lo so, ma...»
«Non è "stupido",» la bloccò lui in tono fermo, facendosi improvvisamente serio e rivolgendole uno sguardo al contempo triste e colpevole.
Si appoggiò al corrimano con la mano meccanica e puntò il bastone dall'altro lato, quasi a fare da barriera tra lei e il laboratorio, storcendo appena la bocca quando mosse un poco le gambe per distribuirvi meglio il peso. Rimase in silenzio e Pepper ne approfittò per cercare di riprendere il controllo. Fu grata che lui le stesse bloccando la vista delle scale; aveva l'impressione che solo guardarle le avrebbe scatenato un altro attacco di vertigini.
«Anch'io ho avuto paura di scenderci,» esalò infine Tony, senza fissarla direttamente e lasciando piuttosto vagare lo sguardo alle sue spalle. «È... normale. E non deve forzarsi,» aggiunse, con chiaro impaccio.
Pepper aveva l'impressione di non riuscire a comprendere appieno le parole che le arrivavano. Le suonavano distanti e confuse, come oltre un muro d'acqua. Preferì concentrarsi sul tono morbido in cui le stava parlando, più basso e modulato del solito; la sua voce era solida, piena, ma con un tremito di fondo che sembrava vibrare in unisono con la propria paura.
«Mi dispiace,» le uscì detto per riempire quel silenzio, senza ben sapere per cosa si stesse scusando.
Forse per aver richiamato alla loro memoria ricordi dolorosi, forse per aver spazzato via la positività di Tony, forse per non essere riuscita a impedirsi quella debolezza in un momento in cui entrambi avevano bisogno di essere forti l'uno per l'altro. Lui tirò impercettibilmente la bocca, in quella che poteva essere una smorfia, così come un sorriso mesto.
«Non hai nulla di cui scusarti,» affermò, irremovibile, per poi sospirare appena. «È ironico: anch'io ti ho chiesto scusa proprio qui,» mormorò tra sé, e il suo sguardo guizzò verso il quadro appeso al muro, quello che aveva rotto molto tempo prima.
Era ancora danneggiato, ma nessuno dei due aveva ritenuto necessario sostituirlo. Quelle imperfezioni ne erano ormai parti integranti, sia il fragile vetro con un sottile reticolo di crepe a sfaccettarne un angolo, sia la cornice che lo teneva ancora insieme, pur scheggiata e leggermente sbilenca.
«Mi ricordo,» confermò semplicemente lei, tornando a quella notte di quasi un anno prima.
Ricordava anche il resto: ciò che le aveva detto, il modo disperato in cui l'aveva guardata, quel che era successo poco dopo. Il fatto di avergli detto che era troppo tardi per le scuse. Avrebbe voluto ritrattare, spiegargli che, pur non potendo dimenticare quello che era accaduto anche in seguito, non aveva più senso rinfacciarglielo o serbare rancore. Lui però parlò per primo, e quelle parole rimasero ancora una volta bloccate tra cuore e bocca, destinate a rimanere inespresse.
«Sapevo che chiederti di scendere in laboratorio sarebbe stato indelicato, e probabilmente mi stai odiando per questo almeno quanto mi odio io per...» lasciò la frase in sospeso e il suo sguardo addolorato parlò per lui. «Ma ho pensato che... che era passato del tempo e fosse il momento giusto per parlarne, e che facesse parte del... del trovare soluzioni insieme,» concluse a raffica, quasi balbettando.
«È una parte fondamentale della soluzione,» annuì in automatico lei, parlando in fretta, d'istinto e sviando il suo sguardo, per poi sospirare. «Vorrei solo scendere là sotto e non dover mai più pensare a quello,» accennò al reattore nel suo petto e la mano di Tony scattò a coprirlo, colpevole.
«Mi dispiace. Anche se adesso è davvero troppo tardi,» considerò, quasi in un sussurro. «Non è questo il ricordo che vorrei lasciarti di me,» aggiunse, ora portando la mano a coprirsi la benda sul volto, come sempre quando era a disagio.
«Non è troppo tardi,» ribatté lei con veemenza, senza poter evitare che i suoi occhi si posassero sulle vene plumbee che sporgevano dal suo colletto. «E ci sono mille altri momenti che potrei ricordare, oltre a questo, e altri nove anni da ricordare, oltre a questo,» continuò con impeto. «Non è solo questo a definirti, e non potrà mai esserlo, non dopo tutto quello che hai fatto prima e dopo,» concluse, indicando di nuovo il reattore.
Tony la fissò confuso, come se non riuscisse a credere a ciò che stava sentendo, poi si aprì in un fievole, esitante sorrisetto.
«Sarei curioso di sapere quali sono questi “mille momenti”. Anche se dubito arriveresti alla decina,» la prese in giro, con la consueta spigliatezza. «Per ora mi accontenterei di aggiungere questo alla mia lista,» concluse furbetto, ma con una nota di serietà ben palpabile.
Aveva ragione, Pepper lo sapeva, e sapeva anche di dover in qualche modo provare di non aver parlato con leggerezza. Ma si sentì d'un tratto debole al solo pensiero di dover dimostrare qualcosa in cui voleva credere con tutta se stessa, ma che non riusciva ancora a imporsi di accettare. Si sentì come se ogni suo osso avesse perso vigore e il suo corpo potesse collassare su se stesso da un momento all'altro. Tony era stato fin troppo indulgente col suo rifiuto di affrontare quella paura irrazionale, che si era solo consolidata col tempo. E nonostante ciò rimase ferma, congelata al suo posto, una mano a schermarle la bocca. Scosse appena testa.
«Non sono sicura di riuscirci,» confessò piano.
Tony si accostò appena a lei, sempre cautamente, con quell'impaccio timoroso che strideva col suo atteggiamento sempre vivace ed estroverso.
«Pep, ce l'ho fatta io,» mormorò, cercando il suo sguardo. «E tu non hai mai avuto bisogno di un'armatura per essere forte,» aggiunse con fermezza.
«Neanche tu,» replicò lei, di getto.
Lui si limitò a fare uno lieve sbuffo scettico, ma il suo volto rimase disteso, attraversato da un lieve sorriso obliquo.
«Forse. Gliel'ho detto che ho fatto qualche progresso, no?» lanciò un'occhiata alle scale. «E non è da lei rimanere indietro,» aggiunse piano, tornando a guardarla con sicurezza.
Pepper si fissò nella sua iride nocciola, quasi liquida e animata da un fondo di ammirazione e premura, tanto intensa da abbracciarla con lo sguardo. Era convinto di ciò che diceva, e sembrava altrettanto deciso a trovare quelle soluzioni e dopo aver affrontato e scontato i propri errori. Voleva solo che lei facesse lo stesso.
Pepper respirò a fondo, e stavolta l'ossigeno sembrò schiarire i pensieri nebulosi che aleggiavano nella sua testa. La tentazione di fuggire era ancora decisamente più forte della sua volontà di affrontare la propria paura, ma si sentiva più salda sulle gambe. Rivolse lo sguardo alle scale, verso gli abissi del laboratorio, e annuì impercettibilmente. Tony colse il suo gesto e si arrischiò a indietreggiare e scendere il primo gradino a tentoni, in precario equilibrio sulle gambe instabili. Pepper strinse in modo inconsapevole i pugni e sentì una vampata bollente alle guance quando l'ansia si agitò di nuovo, prendendo il controllo delle sue ginocchia ora cedevoli. Si costrinse a domarla.
Non c'era Tony, là sotto, non c'era il suo reattore sul tavolo, non c'era la sua vita appesa a un filo. Tony era lì accanto a lei, incrollabile nonostante la paura che provava lei fosse stata anche la sua paura, sorridente a dispetto delle vene scure che risalivano il suo collo, pronto a starle vicino e a sostenerla mettendo da parte tutto ciò che lo frenava costantemente. Lo osservò, saldo sulle sue gambe riconquistate e fermo in paziente attesa di farle strada, e di nuovo trovò un punto fermo nel suo sguardo. Si meritava molto più di quanto credesse, e molto più di quanto avesse ricevuto finora. Sperava che un giorno sarebbe stato in grado di accettarlo, ed era decisa ad accompagnarlo lei stessa in quel percorso. Per ora, poteva fare un'unica cosa, così trasse un altro respiro profondo e si portò sul bordo del primo gradino.
«Di che hai paura? C'è Iron Man con te,» la spronò Tony, con la giusta combinazione di leggerezza, serietà e scherzo, la stessa con cui aveva sempre saputo convincere chiunque a fidarsi di lui e fare ciò che voleva.
Solo che stavolta non era per raggiungere qualche fine personale o per semplice diletto. Lei si fidò e scese il primo gradino con le gambe molli. Lui accolse quel movimento con uno sguardo colmo di calore, lo stesso che le aveva donato a quella serata di beneficenza due anni prima, e che non aveva voluto riconoscere nei molti sguardi simili che aveva intravisto in seguito.
«Questo è un piccolo passo per una don–...» cominciò lui nel tentativo di distrarla e indietreggiando ancora, ma s'interruppe subito nel mancare l'appoggio col bastone sul gradino successivo, rischiando di ruzzolare giù.
Afferrò il corrimano appena in tempo, ostentando poi una falsissima disinvoltura; a Pepper ricordò molto un gatto che, in seguito a qualche buffo capitombolo, prenda a lisciarsi altezzosamente il pelo quasi fosse stata una mossa studiata e del tutto calcolata.
«Aspettiamo di arrivare in fondo, prima di parlare,» lo rimbrottò lei con quieto divertimento misto ad apprensione, evitando con gli occhi la porta del laboratorio che si avvicinava sempre più.
Tony sbuffò, ma si rassegnò a voltarle la schiena per scendere in sicurezza, rimanendo immediatamente davanti a lei come a lasciarle libera una via di fuga facendole allo stesso tempo da scudo. Arrivarono infine sul pianerottolo dinanzi alla porta di vetro del laboratorio. Lì Pepper si bloccò di nuovo sull'ultimo gradino. Sospirò, frustrata, e indirizzò con decisione lo sguardo all'interno dell'ampia stanza, distinguendo la parete delle armature ora visibile e il riverbero di qualche schermo e ologramma acceso. I suoi occhi sfrecciarono su Tony prima di potersi soffermare sulla sedia o sul tavolo impressi ancora vividamente nella sua memoria.
Lui la fissava, di nuovo con un tenue sorrisetto sulle labbra, senza metterle fretta; lei trovò finalmente il coraggio di affiancarlo, abbandonando la sicurezza del gradino. Poi non pensò a ciò che stava facendo: seguì semplicemente il moto che la guidò a sporgersi leggermente e posargli un bacio sulla guancia. Lo sentì trattenere bruscamente il respiro, per poi premere appena contro le sue labbra, abbandonandosi al quel breve contatto. Non incontrò subito i suoi occhi quando si staccò; invece, li puntò sulle proprie mani, intente a rincorrersi nervose sull'orlo della maglietta. Pepper si scostò, percependo la sua tensione e lasciando così che ognuno tornasse padrone del proprio spazio, adesso forse un po' più piccolo e dai confini più labili.
Tony prese fiato, come se l'avesse davvero trattenuto fino a quel momento, per poi riprendere a parlare mascherando il suo imbarazzo sotto il consueto velo d'ironia:
«Uh... un grande passo per entrambi?» concluse maldestramente la citazione di poco prima, in palese difficoltà e con una lieve titubanza, affiancandovi però un sorriso spontaneo.
«Grazie,» replicò lei a voce bassa, cercando di instillare in quella semplice parola tutto ciò che aveva sempre taciuto; Tony si limitò a un sorrisetto sfuggente, evitando ancora i suoi occhi.
Pepper recuperò rapidamente distanza tra loro, per poi accostarsi alla porta e digitare a colpo sicuro il codice d'accesso.


***


«C'è più casino del solito, oggi Dum-E non è molto collaborativo,» esordì Tony, di nuovo padrone di sé mentre faceva un gesto seccato verso il robot; questo replicò con un ronzio affranto.
Pepper avanzò a piccoli passi titubanti nell'enorme stanza, invasa da ologrammi vaganti e illuminata a giorno dai neon, al contrario dell'ultima volta in cui era stata lì, quando l'unica luce nella penombra era stata la lampada sul banco di lavoro. Non riuscì a identificare quest'ultimo tra i vari sparsi qua e là, a cui Tony aveva cambiato disposizione durante i suoi vari traffici con protesi e armature. La sedia in consunta pelle nera era invece piazzata davanti alla consolle centrale. Per un momento, fu convinta di intravedere la sagoma di Tony esanime su di essa, ma fu solo un lampo: la valanga di ricordi che si era aspettata la travolgesse una volta là dentro fu troncata sul nascere. Percepiva solo un disagio di fondo che dubitava di riuscire a sopprimere del tutto, oltre alla peculiare sensazione di essere spiacevolmente sospesa a qualche centimetro da terra, quasi stesse galleggiando senza alcun appiglio sicuro.
«Bentornata, signorina Potts,» JARVIS la accolse quasi con calore, distogliendola dalle sue riflessioni.
«Grazie, JARVIS,» replicò lei, grata per l'intervento.
Tony, pur tenendola d'occhio, si era intanto portato avanti a lei con la sua andatura zoppicante e si era seduto sensibilmente sul bordo di un banco di lavoro, piuttosto che sulla sedia a pochi metri da lui. Si lasciò sfuggire un lamento nel togliere il peso dalla gamba meccanica, catturando l'attenzione di Pepper.
«Sono fuori allenamento,» produsse a mo' di spiegazione, sfuggendo il suo sguardo inquieto.
Portò poi la mano al punto di giunzione tra il moncherino e la protesi e trattenne una smorfia nel constatare quanto fosse dolente.
«Tutto bene?» s'informò lei, momentaneamente dimentica di dove si trovasse e concentrandosi sulla sua espressione provata.
Lui fece un cenno noncurante con la mano.
«Sto tutto il giorno seduto, non fa bene neanche a chi ha due gambe funzionanti,» minimizzò, per poi sospirare appena. «Nat si infurierebbe,» considerò con un mezzo sorrisetto, come se trovasse divertente il pensiero di un'assassina russa infuriata.
Considerando liquidata la questione, avvicinò a sé un paio di schermate olografiche con rinnovato brio, per poi accigliarsi. Pepper fece per avvicinarsi, ma la mano di Tony scattò pronta ad intimarle l'alt.
«No, ferma lì! Così si rovina la sorpresa,» affermò, scacciando le schermate. «Mi dia solo un minuto per sistemare quei dettagli e per ricontrollare tutto,» spiegò, già assorto nei suoi calcoli.
Fece leva sul bastone per alzarsi e si diresse con un movimento automatico verso la sedia, dove si lasciò cadere di peso. Pepper sobbalzò appena e Tony si voltò di scatto verso di lei, realizzando solo allora l'indelicatezza del suo gesto. Per un attimo, rimasero congelati nelle rispettive posizioni; Pepper aspettò che la valanga trattenuta poco prima si abbattesse su di lei, seppellendola e soffocandola, ma tutto ciò che percepì fu quel senso di straniamento che si accentuava leggermente.
«Va... va bene?» esalò esitante Tony con un gesto vago verso se stesso, scrutandola preoccupato e apparentemente pronto a scattare di nuovo in piedi.
«Va bene,» confermò lei senza esitazioni.
Il laboratorio le sembrava per ora uno spazio neutrale. Non era ancora accogliente come un tempo, ma si sentiva tranquillizzata dal fatto che i suoi timori per quel luogo, che aveva immaginato denso di ombre e dolore, si stessero rivelando per lo più infondati. Quei ricordi esistevano solo nella sua testa, per quanto sia lei che Tony ne portassero ancora i segni. Non poteva permettere che li ferissero ancora, aggiungendo cicatrici a cicatrici. Ma per quanto questi pensieri si ripetessero nella sua testa, una parte di lei continuava a voler evitare il brillio azzurrino del reattore nel petto di Tony, spingendola ad allontanarsi dalla sedia su cui sedeva, e quel senso di distaccato stordimento non accennava a diminuire. Smise di combattere ciascuna di quelle sensazioni: sarebbero passate, prima o poi. Per ora, sentiva di aver fatto abbastanza.
«Non ci metterò molto, non si preoccupi,» riattaccò Tony, ora con cauta disinvoltura. «Lei intanto può fare un tour guidato per vedere quello che si è persa ultimamente. JARVIS?» chiamò, prima di tuffarsi nei suoi ologrammi azzurrini.
Pepper accettò di buon grado l'offerta, sia per distrarsi dai suoi pensieri non propriamente sereni, sia per tenersi impegnata mentre Tony era a sua volta occupato a completare chissà cosa tenendola ulteriormente sulle spine.
JARVIS le mostrò i progressi che Tony aveva fatto negli ultimi mesi, dai progetti dei tutori per Kyle, a quelli per i droni che aveva intenzione di fornire allo SHIELD e ai Vendicatori. Si accigliò appena nel vederne il prototipo, e ancor di più quando le fu presentata la Mark IV, per ora in fase di assemblaggio. Le sue labbra si tirarono, ma l'armatura non sembrava ancora operativa e giaceva inerte su un bancone, grigia, anonima e non molto dissimile dal drone poco distante. Su un tavolo più piccolo, che però JARVIS non le illustrò, scorse svariati modelli di reattori arc disassemblati o in fase di costruzione, circondati da fogli ingialliti e pile di scarti metallici. Distolse lo sguardo con un vuoto allo stomaco, dirigendosi d'istinto dalla parte opposta, ovvero verso una delle scrivanie straripanti di scartoffie e apparentemente arenate in mezzo al nulla a poca distanza dalle macchine d'epoca di Howard.
«Ci sono quasi!» le annunciò in quel momento Tony, notando le sue peregrinazioni per il laboratorio. «Sto renderizzando un modello e aggiustando un altro centinaio di cose che mi erano sfuggite, ma ci sono!» continuò concitato e senza voltarsi, accompagnato dal ticchettio incessante della tastiera.
Pepper si ritrovò a sorridere appena nel sentirlo di nuovo così entusiasta e concentrato, e prese a sfogliare distratta qualche fascicolo rimasto abbandonato sulla scrivania, per lo più progetti approvati e già consegnati allo SHIELD come l'Helicarrier, ma anche qualche nuova bozza in via di completamento. Fu infine attratta da una voluminosa risma di fogli un po' sgualciti e spillati insieme, sul primo dei quali campeggiava uno schizzo estremamente dettagliato della Mark I. Girò pagina, trovando subito le Mark successive e qualche bozzetto di prova per la Mark IV in assemblaggio. Il fascicolo non finiva però lì: c'era almeno un'altra cinquantina di bozzetti di armature dal design completamente diverso, alcune numerate, altre attorniate di punti interrogativi, altre ancora cancellate con segni decisi di penna o matita.
«Questi cosa sono?» chiese interessata, avvicinandosi un poco a Tony da un'angolazione tale da non vedere gli schermi su cui stava lavorando.
«Cosa?» bofonchiò lui, alzando appena la testa e inclinandosi lateralmente per scorgere quello che gli stava mostrando.
S'illuminò appena nel riconoscerlo.
«Ah, quelli? Sono esercizi, per calibrare la protesi. Mi sono fatto prendere un po' la mano,» sogghignò con fare innocente, scrollando giocosamente le dita meccaniche prima di tornare a dedicarsi al suo progetto corrente.
«Solo armature?» osservò Pepper, vagamente ironica ma suo malgrado interessata.
«Non sono esattamente un artista. Ho pensato che se proprio dovevo disegnare qualcosa, tanto valeva fare qualcosa di semplice e che potesse tornare utile,» replicò lui con un'ovvia alzata di spalle.
«Se questo lo chiama semplice...» mormorò lei, fissando l'intrico di linee che formava il rivestimento e i componenti di ogni Mark.
Lui le indirizzò un sorrisetto che nascondeva un certo orgoglio, come sempre quando si trattava delle sue creazioni. Pepper sbirciò appena nella sua direzione, distinguendo su una delle schermate quello che sembrava un lungo documento straripante di dati tecnici, grafici e formule. S'impose di non guardare nient'altro e tornò ad esaminare i progetti che aveva in mano. La maggior parte degli schizzi erano repliche più o meno fedeli della sua Mark IV, altre invece se ne distaccavano molto, acquisendo uno stile tutto loro. Il senso estetico di Tony era molto opinabile, ma alcune non le dispiacevano.
Notò che qua e là su quei fogli c'erano anche altri scarabocchi e ghirigori, probabilmente disegnati in momenti di noia: il logo della Stark Industries e degli Avengers, macchine da corsa un po'ovunque e delle caricature pessime ma decisamente riconoscibili, soprattutto di Rogers e Fury. A margine di un foglio era abbozzato un piccolo Hulk in inchiostro verde con Mjolnir in una mano e lo scudo di Rogers nell'altra. Le faceva un'insolita tenerezza vedere quel lato bambinesco dell'estro di Tony, e non poté fare a meno di lasciarsi sfuggire un sorriso.
La sua espressione si intristì un poco nel vedere uno degli ultimi fogli. Un sobrio progetto di un'armatura riempiva la pagina, così come tutte le precedenti, con i soliti appunti e note indecifrabili tutt'intorno. In un angolo faceva però capolino un piccolo Iron Man stilizzato nell'atto di volare e sparare un raggio dalla mano. S'intuiva un po' troppa cura per i dettagli per essere stato fatto sovrappensiero. Aveva la sensazione che non avesse semplicemente disegnato un'altra armatura, ma se stesso, nell'atto di fare ciò che avrebbe voluto.
Lo guardò di sottecchi, trovandolo profondamente immerso nei suoi calcoli, con una ruga di concentrazione a solcargli la fronte. Il suo sguardo, benché acceso, era serio e quasi solenne, incorniciato da occhiaie profonde; il riverbero degli schermi accentuava le estremità della ferita che gli attraversava il viso sporgendo dalla benda. Ticchettava rapidamente sulla tastiera con la mano sana, seguendo intento ogni parola e numero che appariva sullo schermo. Di tanto in tanto scorreva delle colonne di dati virtuali attorno a lui con la destra, senza smettere di scrivere.
Pepper lo osservò ancora per qualche istante, per poi spostare lo sguardo alla parete delle armature: i resti danneggiati e deformati della Mark I, il posto vuoto della II e l'ammasso di metallo fuso e contorto della III. Non si soffermò troppo a lungo su questo, temendo che la valanga scampata poco prima potesse ripresentarsi sotto altre spoglie altrettanto dolorose, e spaziò sul drone anonimo e inerte e sulla Mark IV incompleta. Finì per tornare a fissare quel disegnino di un'armatura scintillante rosso-oro librata in volo e slanciata con impeto vero il margine del foglio come contro una barriera da infrangere. Vi passò sopra le dita, seguendone i contorni decisi. Era quello, tutto ciò che era rimasto di Iron Man?
Sollevò gli occhi verso Tony e non le riuscì così difficile immaginarlo di nuovo con l'armatura. Non ne aveva bisogno per essere forte o eroico, di questo era stata sempre profondamente convinta, ma non poteva negare che facesse parte di lui e di ciò che aveva scelto di essere. Ripensò alla loro discussione di qualche settimana prima, quando le aveva detto di volersi presentare alla EXPO come Iron Man, e diede finalmente forma alla realizzazione che aveva tentato di farsi strada in lei allora: per Tony quella non era una semplice “distrazione”.
Sentì il proprio petto tremare quando inspirò a fondo, quasi a voler ostacolare le sue intenzioni:
«Tony?»
«Mh?»
Pepper sentì gli occhi che le si appannavano di loro spontanea volontà nel realizzare quello che stava per dire, ma si costrinse a continuare:
«Ha ancora intenzione di presentarsi alla EXPO con l'armatura?»
Tony quasi capitolò a terra per la fretta con cui si voltò e la fissò attonito per qualche istante, spostando l'occhio tra lei, il fascicolo e l'armatura in un frenetico circolo vizioso.
«L'idea è in stand-by,» affermò rapido, muovendo nervosamente su e giù la gamba quasi fosse d'un tratto sui carboni ardenti. «E quelli non hanno nulla a che vedere con... li avrò fatti più di tre mesi fa a tempo perso, le giuro che non ho intenzione di...» tentò di giustificarsi, mangiandosi le parole.
«Lo so, mi fido di ciò che mi ha detto,» lo fermò subito lei.
Poté vedere l'espressione di Tony virare dall'apprensivo al basito nel giro di mezzo secondo, per poi fossilizzarsi in un cipiglio guardingo, quasi stesse osservando un fenomeno sconosciuto e dagli esiti imprevedibili. Poi riattaccò a parlare a macchinetta:
«Ok, sta cercando di irretirmi per chiedermi qualcosa; nello specifico, di non fare qualcosa che ho già promesso di non fare... oppure è possibile, direi molto probabile, che mi stia depistando per poi rimproverarmi di voler fare di nascosto quel qualcosa; in tal caso si tratterebbe di una tattica assolutamente scorretta e infida da parte...»
«Tony,» lo bloccò lei, trattenendo un sospiro e un sorriso paziente allo stesso tempo.
Lui si zittì all'istante, approntando una facciata neutrale che recava però qualche riconoscibile traccia di quella da cane bastonato che aveva passato anni ad affinare appositamente per lei. Pepper tentennò, combattuta. Pensò a quella fiducia che gli aveva negato anche quando non aveva ancora avuto alcun vero motivo per farlo. Pensò a quella discussione di una vita prima, con cocci di vetro e parole avventate a separarli, quando Tony aveva gridato con disperazione ciò che avrebbe voluto riavere: l'armatura e la sua vita. Pensò a quei vaghi “sei mesi, forse un anno”, a quella vita in parte riconquistata che gli stava sfuggendo via e a tutto ciò che si sarebbe meritato di riavere e ricevere, finché poteva.
«Le sto dicendo che, se vuole, sono d'accordo,» disse d'un fiato.
Lui rimase stolidamente a bocca aperta, in modo quasi comico.
«È seria?» si accertò, forse sospettando di essere vittima di un'allucinazione.
«Sì. Voglio fidarmi,» rispose lei, rialzando lo sguardo da quei fogli e vedendo il suo farsi un po' lucido.
Ci mise una buona decina di secondi per recuperare la voce. Pepper aveva ormai capito con un certo compiacimento di essere forse l'unica persona in grado scatenare in lui quell'insolito mutismo.
«È una delle cose più belle che possa fare per me,» mormorò infine, incredulo. «E anche lei ha degli standard molto alti da superare,» aggiunse, con grata sincerità.
Pepper ricambiò con altrettanto calore, per poi cedere appena alla vena d'apprensione che si stava ingigantendo in lei:
«Mi deve solo garantire che sta davvero vagliando tutti i rischi in modo razionale. E che non sia una specie di... non so, canto del cigno o ultima follia volontaria, perché...»
«Non potrei mai farlo. Non di nuovo,» ribatté duramente lui. «Se non per me stesso, almeno per lei,» aggiunse con più dolcezza.
Pepper annuì soltanto, sentendosi di nuovo spiazzata e rincuorata da quegli spiragli che Tony continuava ad aprirle per sbirciare dentro di lui. L'uomo tacque ancora per qualche secondo, prima di rianimarsi e appoggiarsi coi gomiti sulle ginocchia, con un sorrisetto scaltro a inclinargli le labbra.
«Stavo pensando di rinnovare il design della Mark,» esordì con vivacità, indicando i fogli che lei ancora teneva in mano. «Non posso presentarmi alla Expo in una lattina di coca-cola,» accennò alla Mark IV ancora in costruzione. «Sa, vorrei un ritorno col botto,» s'interruppe, rendendosi conto della pessima scelta di parole. «Metaforico.»
Pepper sorvolò sulla metafora malriuscita e spostò perplessa lo sguardo dai progetti a Tony, scuotendo la testa.
«Vorrebbe una mano a scegliere la nuova Mark?» interpretò infine, ancor più dubbiosa e sorpresa per quella proposta imprevista.
«Perché no?» confermò lui, fissandola con aspettativa.
«Tony, non ci capisco nulla di robotica, non credo di poter...»
«Intendevo dal punto di vista estetico.»
«Non sono la persona più adatta a giudicare armature.»
«Ha dei gusti indiscutibilmente più raffinati dei miei,» la blandì lui, sfoderando il suo storico sorriso ammaliante.
Pepper realizzò solo allora quanto le fosse mancato.
«Quindi dovrò farle da stilista?» concluse, fingendosi riluttante ad accettare.
«Quello lo faccio già io, lei al massimo potrebbe essere la mia personal dresser,» chiosò Tony, poggiando sornione il mento sulle dita intrecciate, già sapendo di aver vinto.
«Va bene, vedrò di trovarle qualcosa da mettere per il grande giorno,» concesse Pepper, lieta che le fosse stato offerto un modo per vedere quell'evento in una luce diversa e più spensierata. 
Tony ammiccò, prima di tornare ai suoi schermi con un volteggio della sedia.
In cuor suo, Pepper si sentiva anche lusingata per quel gesto: Tony era sempre stato estremamente geloso dei suoi appunti e progetti, nonostante si fidasse ciecamente di lei, ed era piuttosto riservato al riguardo. Recuperò una cartellina rigida da una delle scrivanie e vi inserì con cura i fogli, stringendola poi al petto con fare quasi protettivo.
In quel mentre, Tony lanciò un'esclamazione esultante che quasi la fece sobbalzare, per poi voltarsi verso di lei con un sorriso a trentadue denti.
«Finito,» annunciò trepidante. «Ora può avvicinarsi,» aggiunse, invitandola con un cenno della mano esageratamente galante.
Pepper eseguì rapida, affiancandolo ed escludendo dalla mente il luogo in cui si trovava per concentrarsi solo su ciò che Tony le stava mostrando. Scrutò lo schermo davanti a loro, su cui distinse quella che sembrava la prima pagina di una presentazione 3D, al centro della quale campeggiava una riproduzione del braccio meccanico di Tony; in basso erano discretamente impressi i loghi della Stark EXPO, delle Stark Industries e della September Foundation. In alto, con l'ultima parte posta tra parentesi come se fosse provvisoria, vi era l'intestazione “Progetto (Ph.01 X)”.
«Premessa forse un po' tardiva,» esordì Tony, prima che lei potesse porre qualsiasi domanda. «Non è esattamente una sorpresa per lei, ma più che altro per la EXPO e per chi vi parteciperà. Anche se speravo di sorprendere anche lei e che le facesse piacere,» sciorinò con accortezza, con le dita giunte davanti al volto e gli indici a toccarsi il naso mentre la scrutava di sottecchi.
«La ascolto,» lo incoraggiò lei, intuendo la sua titubanza.
Tony in tutta risposta premette il tasto invio e il documento digitale si traslò su un ologramma un po' compresso, evidentemente pensato per essere proiettato su un maxi-schermo. Mandò avanti la presentazione e Pepper non poté fare a meno di rimanere meravigliata nel vedere la schermata successiva: da un lato si vedeva un progetto completo della protesi del braccio, corredata da uno spaccato e un esploso curati e definiti; dall'altro, vi era la scansione del foglio stropicciato su cui Tony aveva abbozzato la primissima versione di quella stessa protesi, con tratti incerti, confusionari e annegati nelle varie formule, vettori e appunti che la circondavano. Il primo passo, la prima idea, il primo mattone su cui aveva iniziato a ricostruire la propria vita. Nel riportare lo sguardo su Tony, si accorse che stava sorridendo con malinconia, quasi fosse a sua volta perso in quei ricordi.
«Questo è il mio retaggio,» disse, quasi con solennità. «Ed è uno dei ricordi che vorrei lasciarmi dietro,» aggiunse a voce più bassa, ma senza il minimo tremito a scuoterla.
Le mani di Pepper si contrassero leggermente, cogliendo tutti i sottintesi di quella frase, ma sentì crescere allo stesso tempo un moto d'orgoglio e ammirazione assolutamente genuini nei confronti di Tony, come non ne provava dal momento in cui l'aveva visto di nuovo in piedi.
«Vuole renderle pubbliche,» constatò con semplicità, stentando a credere che avesse davvero intenzione di esporre al mondo quelle che in fin dei conti erano ormai parti di sé.
«Il piano è quello, anche se ho strappato a Stern solo il permesso per presentarne i progetti e qualche prototipo incompleto,» commentò con lieve contrarietà. «In compenso, potrò girare per la EXPO senza licenza per le protesi, visto che non arriverà probabilmente in tempo; le Industries devono solo prendersi ogni responsabilità per eventuali “incidenti”,» e volse l'occhio al cielo con evidente insofferenza.
S'interruppe e tamburellò sul bracciolo della sedia, prendendo tempo e fiato.
«Quindi, in pratica, presenterò me stesso,» asserì, passando alla pagina successiva, a questo punto Pepper trasalì.
Sulla diapositiva vi erano due foto in bianco e nero che mostravano con chiarezza lo stato dei suoi moncherini nelle settimane immediatamente successive all'amputazione, assieme alla trascrizione della sua cartella clinica che ne illustrava le condizioni in termini più specifici; Ian era creditato a piè di pagina.
«Sono l'unica cavia esistente,» spiegò lui con tranquillità, notando il suo stupore e cambiando però rapidamente pagina. «E devo fornire tutti i dati disponibili per permettere ad altri team di ricerca di emulare o modificare quel che ho già fatto io. Non mi aspetto che le mie protesi vadano bene per tutti.» 
Alzò appena le spalle, ma le rughe che solcavano la sua fronte erano un evidente segno di come non si sentisse realmente a proprio agio nel discutere quel punto. Pepper tacque per qualche lungo istante, cercando di ogliere la portata di quella scelta e, soprattutto, le ripercussioni che avrebbe avuto su Tony. Perché se nel mettere a punto quella sua idea poteva essere rimasto impassibile, non sapeva se sarebbe riuscito a rimanere tale anche su un palco, dinanzi a migliaia di spettatori e sotto l'occhio impietoso delle telecamere, mentre alle sue spalle scorrevano i mesi di sofferenza, fallimenti e depressione che anche lei ricordava così bene. Soprattutto, si chiedeva come potesse reggere il peso di così tanti sguardi quando era spesso intento a schivare persino il suo.
Il fulcro del progetto poteva anche essere sulla parte tecnica, e le poche foto presenti finora erano accuratamente selezionate in modo da essere il quanto più possibile anonime, ma riusciva già a immaginare la reazione della stampa e delle Everhart di turno messe davanti all'occasione di poter gettare una manciata di fango in più sulla dignità di Tony. Ricordava fin troppo bene lo scoop di Vanity Fair e il modo impietoso in cui aveva descritto il suo corpo mutilato; era stata a un passo dall'andare in prima persona alla porta della Everhart per farle rimangiare ogni singola parola di quell'articolo.
Ammirava la dedizione con cui Tony si stava mettendo in prima linea per quell'iniziativa, ma l'idea di vederlo soffrire più di quanto non stesse già facendo per colpa di qualche pettegolezzo molesto la impensieriva e faceva infuriare allo stesso tempo.
«Capisco la necessità di rendere disponibili tutte le informazioni... ma è davvero necessario fornire dati così sensibili ?» accennò alla presentazione, che ora mostrava un innocuo spaccato di un micro-reattore arc. «Insomma, sa meglio di me che l'opinione pubblica sa essere inclemente.»
«Sì,» replicò lui un po' bruscamente, intuendo a cosa si riferisse. «Non sono entusiasta di... mostrarmi in quello stato, ma non vedo alternative.» 
Si agitò nervoso sulla sedia. Era chiaramente a disagio al pensiero di doversi esporre in quel modo, ma anche deciso a non tirarsi indietro; in quel momento sembrò comunque perdere un po' della sua determinazione e si reclinò fiaccamente sullo schienale.
«Mi metteranno alla gogna mediatica per settimane,» bofonchiò rassegnato. «È la cosa più stupida che potessi pensare di fare,» sbottò poi con improvvisa frustrazione, additando quasi con sdegno il progetto e facendo per metterlo da parte.
«Invece lo trovo molto coraggioso,» commentò soltanto Pepper, posandogli con gentilezza una mano sul braccio meccanico, a fermare i suoi gesti inconsulti; lui si bloccò, come folgorato, e la presentazione si arenò su un'anonima pagina riguardante la fusione dell'unobtanium.
Tony scosse appena la testa, senza sottrarsi a quel contatto e con un sorriso che sembrava indeciso se emergere sul suo volto o meno, come se apprezzasse il complimento ma non fosse pronto ad accettarlo o dubitasse della sua veridicità.
«No, non... faccio quello che faccio sempre, no? Mi metto in mostra e in ridicolo, non c'è nulla di coraggioso,» si schermì, azzardando un sogghigno autoironico.
«Sa che non è così,» lo rimbrottò lei, e lasciò scorrere la mano lungo il suo braccio meccanico seguendone delicatamente i contorni affusolati, quasi sperando che potesse percepire quella carezza; lo sentì inspirare più a fondo e socchiudere la palpebra, come se si stesse concentrando al massimo per riuscire in quell'intento.
«Se fossi davvero coraggioso, non ti avrei chiesto di starmi accanto,» mormorò infine a capo chino, girando un poco la sedia per sfuggire al suo tocco.
Lei non lo trattenne, ma non poté evitare che il suo sguardo si intristisse un poco a quel suo ennesimo ritrarsi.
«Penso che tu lo sia anche per questo,» lo contraddisse con fermezza, riprendendo poi a mandare avanti la presentazione al posto suo senza aggiungere altro.
Non si girò verso di lui, ma intravedeva con la coda dell'occhio il modo in cui la stava fissando, con quello sguardo che scaturiva direttamente da due anni prima. Si sentì arrossire leggermente, ma con un calore discreto e piacevole che andò a tirare delle precise e sensibili corde nel suo stomaco, risvegliando una sensazione che era certa di non provare dalla sua prima cotta del liceo. O forse da una serata di beneficenza non poi così lontana.
Arrivò alla fine della presentazione, che Tony aveva continuato a illustrarle per sommi capi; l'ultima pagina mostrava quella foto inviata mesi prima allo SHIELD, che lo immortalava con un ghigno vittorioso dopo essersi rimesso in piedi. Pepper sorrise apertamente, rivolgendosi verso di lui e trovando un riflesso dalla sua espressione in quella altrettanto distesa e sorridente di Tony.
«Quindi? Che ne pensa?» la incalzò, di nuovo allegro.
«È stata decisamente un bella sorpresa,» disse lei, trovando il suo sguardo e indugiandovi per qualche secondo di troppo. «Ed è giusto che il mondo sappia e riconosca cosa è riuscito a fare.»
«Per una volta, non lo faccio per gli applausi,» disse lui a sguardo basso, inclinando appena il capo come a minimizzare la cosa.
«Si merita anche quelli,» ribatté lei, non lasciandogliela vinta.
Tony sollevò appena un sopracciglio, un'espressione furbetta a mascherare la gioia serena e sottile che irradiava in quel momento.
«Signorina Potts, oggi si è proprio messa in testa di conquistarmi a suon di paroline dolci,» la canzonò, girando con fare irritante sulla sedia.
Pepper si limitò ad alzare gli occhi al cielo, tornando a concentrarsi sulla presentazione ormai terminata e borbottando tra sé un ben udibile “come se ce ne fosse bisogno”. Tony sbuffò in un mezzo risolino forse imbarazzato, forse solo divertito, per poi riprendere a parlare con vivacità:
«Tra l'altro, non ha ancora sentito la parte migliore di tutta la cosa, ovvero quella che la riguarda,» sillabò con tono suadente.
Pepper si voltò appena, interessata e pronta a gestire qualunque assurda appendice che Tony era in procinto di aggiungere al progetto. L'uomo si alzò in piedi, come se ritenesse di dover fare quell'annuncio in modo più composto, nonostante fosse evidente che quella posizione gli costasse fatica. Rimase per un istante a capo e sguardo chino, per poi raddrizzarsi con la schiena diritta, quasi impettito. Quando parlò, fu con voce chiara e solcata da un'emozione appena tenuta a bada che la rese più vibrante e piena.
«Vorrei che lei mi aiutasse a presentare il progetto, dal vivo, con me, alla EXPO,» disse d'un fiato.
Pepper pensò fugacemente che, se non le era preso un infarto quel giorno per la raffica di emozioni contrastanti e incessante che l'aveva colpita, poteva dichiararsi al sicuro per il resto della vita.
«Io?» riuscì solo a dire, esterrefatta, e vide subito l'espressione di Tony mutare da una sicurezza quasi spavalda a uno sguardo estremamente simile a quello di un cane abbandonato senza preavviso sul ciglio della strada.
«Sì, uh, lei. È l'unica che... insomma,» si schiarì la gola per ritagliarsi un attimo di respiro, «È la persona più adatta e l'unica che... che può capirne la portata e tutto quello che c'è dietro, nel bene e nel male. Ed è l'unica mi è stata sempre accanto. Sì,» la fermò prima che lei potesse contraddirlo, «sempre. E non ho intenzione di ritrattare questo punto,» la avvisò perentorio.
Pepper si sentì più spiazzata per quell'affermazione che per la richiesta di affiancarlo alla EXPO, e ciò le impedì di approfittare della breve pausa di Tony per inserirsi nel discorso, permettendogli così di continuare a parlare a raffica:
«Sarà... impegnativo. Insomma, saremo io e lei su un palco sotto ai riflettori e so che non è esattamente una “sorpresa” convenzionale... sicuramente avrebbe preferito un mazzo di fiori o dei cioccolatini, ma lo sa che mi piace esagerare...» prese quasi a tartagliare e Pepper si portò di fronte a lui, senza riuscire a trovare subito le parole giuste, così lui continuò ancora, sempre più nervoso: «Non sono neanche sicuro che lei voglia prendersi l'impegno, ma non mi offenderò se non lo farà e...»
Pepper lo interruppe prendendogli con delicatezza le mani e fermando ancora una volta il suo gesticolare agitato.
«Sono qui, Tony. E ci sarò anche alla EXPO, e per qualunque cosa deciderai di fare dopo.»
Stava per ritrarsi, rimproverandosi tra sé per aver invaso ancora una volta i suoi spazi, ma lui la trattenne con una presa così leggera che la percepì appena mentre le sfiorava i polsi con le dita. Lasciò inerte la mano meccanica, come sempre, e sembrò profondamente combattuto tra lasciar sfumare di nuovo quel contatto fugace o approfondirlo. Infine si risolse a stringerla a sé in un breve quanto inaspettato abbraccio che le fece quasi mancare il respiro. Ebbe appena il tempo di percepire il calore del suo corpo, il lieve sentore di olio per motori, ferro e dopobarba impresso sulla sua pelle e di serrare per un istante le proprie braccia attorno alle sue spalle, che lui si era già staccato. Mise tra loro un incerto passo di distanza, sfuggendo il suo sguardo nel rivolgerle un sorriso appena accennato che sembrava quasi di scuse.
«Non so neanche più come ringraziarti,» disse appena udibile, mentre si poggiava coi palmi sul bancone, impegnando poi mani e occhio con qualche schermata superstite rimasta aperta.
«Questa mi sembra un'ottima alternativa a un “grazie”,» replicò lei, in tono ostentatamente ironico che poteva ben poco nel celare lo sguardo colmo d'affetto che gli stava rivolgendo.
«Sono una persona che tende a perdere tempo,» proferì lui, senza preavviso, fermando i suoi traffici e fissando un punto inesistente davanti a sé. «Magari tutto... tutto questo è un incentivo a non farlo,» rifletté ad alta voce in tono colpevole, sempre senza osare guardarla e portando una mano a coprirsi lo sfregio, quasi volesse schermarsi da lei.
«Nessuno ci vieta di seguire i nostri tempi,» gli fece notare lei, con la consueta, semplice schiettezza che sembrava sempre riportarlo prontamente coi piedi per terra, ancorando i suoi pensieri nel mondo reale.
Lui non rispose, ma intercettò di sfuggita i suoi occhi in un muto assenso, prima di tornare a sfoggiare la solita espressione disincantata. Si raddrizzò e cliccò deciso sulla presentazione ancora sospesa a mezz'aria. Questa si ripristinò, tornando alla pagina iniziale.
«E anche questa è fatta,» commentò, per poi lasciare che una singola linea contrariata si formasse tra le sue sopracciglia. «O quasi...» si corresse, portando una mano al mento mentre ingrandiva l'intestazione.
Questa recitava ancora “Progetto (Ph.01 X)”. Tony prese a tormentarsi dubbioso il pizzetto, per poi incrociare le braccia con aria adesso insoddisfatta. Si girò di scatto verso la tastiera e con un gesto risoluto cancellò il titolo, digitandone uno nuovo a colpo sicuro. Premette nuovamente invio con un mezzo svolazzo della mano, stavolta sorridendo compiaciuto. Pepper strizzò appena gli occhi nel leggere il nuovo titolo:
«“Progetto Phoenix”?»
Il sorriso di Tony si allargò.
«Mi sembra appropriato.»



FINE PARTE SECONDA




________________________________________________________________________________________
 
Note Dell'Autrice:

Sssalve!
Avevo promesso un capitolo in tempi più brevi, sebbene più corto, e mi ritrovo a pubblicarne uno quasi in ritardo e lungo come al solito... i misteri della stesura e dei cambiamenti in corso d'opera :P
Non riesco quasi a credere di aver messo la parola fine a questa travagliata seconda parte: Ashes si chiude qui, dal prossimo capitolo si inizia Rebirth, terza ed ultima parte.
Quest'idea del "Progetto Phoenix" era stata discussa tra me e MoonRay nelle prime fasi della storia, per poi essere archiviata. Non mi è dispiaciuto recuperare il concetto, per quanto cliché.


Ora sto crollando sulla tastiera, ma per qualsiasi chiarimento/domanda sono a disposizione, visto che come al solito è finito per uscir fuori un capitolo piuttosto denso :) Mi limito a dire che assumere più spesso il PoV di Pepper è una scelta ben consapevole, e di tenere sempre a mente che, essendo lei umana come tutti, può fraintendere comportamenti e reazioni di Tony, così come intuirne più lucidamente la causa rispetto a lui. Insomma, cari lettori: andateci coi piedi di piombo (soprattutto per la faccenda del contatto fisico).
E ricordate che "what's done, cannot be undone" *posa amletica pureseèMacbeth*

Ringrazio tantissimo T612 (il capitolo avrei voluto pubblicarlo venerdì, tusaiperché, ma sono ritardataria come sempre <3 :'), Emyclarinet e _Atlas_ per aver recensito lo scorso capitolo e Ghillyam per aver aggiunto la storia alle ricordate: mi rendete come sempre felicissima <3 E grazie a tutti coloro che seguono da dietro le quinte e che hanno aggiunto Phoenix tra le seguite/preferite/ricordate :)

Non so dare una data precisa d'aggiornamento: mi hanno scombinato le date della sessione d'esame e sarà un'impresa far quadrare tutto. In più, visto che Phoenix è ormai prossima alla conclusione, vorrei dedicare ad ogni capitolo la massima cura, quindi seguirò la politica del quality over quantity. Posso solo annunciare, finalmente in modo 100% definitivo, che i capitoli saranno 50 tondi tondi, prologo ed epilogo esclusi :D
Dopo 'sta sfilza di comunicazioni di servizio, mi eclisso (e magari dormo pure),
Au revoir,

-Light-

P.S. Pensavate che avessi seppellito la Everhart e certi trascorsi imbarazzanti, eh? Giammai!
P.P.S. Come sempre per le citazioni "doppie", il blu arc è per Tony, il rosso ramato è per Pepper (@Atlas, so già quale delle due apprezzerai :P).




© Marvel

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Capitolo 44
*** Supernova ***





Parte Terza


REBIRTH

"E cosa vuoi che mi facciano, le sofferenze? [...]
Vedo il sole, e se il sole non lo vedo, so che c'è.
E sapere che c'è il sole, è già tutta la vita."
Fëdor Dostoevskij, I Fratelli Karamazov







43


Supernova




"You got it tough, I've seen the toughest around
And I know, baby, just how you feel
You got to roll with the punches and get to what's real

Ah, might as well jump"

[Jump – Van Halen]




"If I'm to fall would you be there to applaud?
Or would you hide behind them all?
'Cause if I have to go
In my heart you'll grow
And that's where you belong

Guess I'm outta time"

[Outta Time – Oasis]





24 Aprile, Flushing Meadows, New York, 19:45

Lo sfavillante tappeto notturno di New York si srotolava sotto la pancia dell'aereo, in un caotico snodarsi di strade brulicanti e grattacieli slanciati nel buio. Il puntino luminoso dell'Unisfera si avvicinava, un faro pulsante che emergeva dall'oceano di alberi scuri, inframezzati dagli atolli luminosi dei futuristici padiglioni.
Tony si sentiva completamente ebbro. Non aveva toccato un goccio d'alcol, eppure gli sembrava di poter bere con lo sguardo ogni singola luce notturna e di sentire la frizzante brezza d'alta quota dargli alla testa come il più pregiato dei whiskey. Si stava ubriacando di New York, della sua skyline inconfondibile, dei suoi colori caldi e chiassosi, dell'aria fredda sulla propria pelle e della prospettiva di potersi presto tuffare a capofitto in quel turbinio di sensazioni a lungo agognate.
Rivolse un'ultima occhiata a quel caleidoscopio di luci ammiccanti prima di scostarsi dalla zona di lancio per affrettarsi verso quella di carico. Sentì il proprio cuore accelerare i battiti e scacciare il velo d'intorpidimento che gli occludeva il petto non appena vide la Mark IV, tirata a lucido e appesa a due bracci meccanici pronti a saldarla su di lui. Si scoprì ancora una volta soddisfatto del nuovo design scelto da Pepper: era più affilato e snello della vecchia Mark, con linee più nette che ne accentuavano il taglio dinamico. Anche gli arti erano meno massicci e facilmente manovrabili anche con l'ingombro aggiuntivo delle protesi. Tony diede una pacca affettuosa alla piastra frontale, con la cavità circolare pronta ad ospitare il suo reattore. Sentì un calore improvviso sbocciargli nel petto e irradiarsi nelle sue vene.
Stava per indossare di nuovo l'armatura. Quel pensiero non aveva ancora avuto modo di prendere forma nella sua mente, in tutti quei mesi di frenetici preparativi; ma ora, con la Mark pronta all'uso di fronte a lui, la pancia dell'aereo spalancata e la Expo – la sua Expo – che si avvicinava, si sentì invadere da una scarica di adrenalina, paura e aspettativa che andò a confluire in quella distinta ebbrezza che lo faceva fluttuare a un palmo da terra, pronto al decollo.
«Signor Stark, la torre di controllo ha dato l'OK per il lancio nei prossimi dieci minuti.»
La voce di Pepper lo raggiunse a malapena sopra il rombo dei motori, ma bastò ad aumentare esponenzialmente quella sensazione. Si voltò verso di lei, senza attenuare il sorriso smagliante che gli illuminava il volto. Lei gli si fece incontro, muovendosi in scioltezza sui tacchi alti attraverso l'aereo in movimento come fosse nella tranquillità del proprio ufficio, con le curve eleganti fasciate da un essenziale tubino nero e i capelli raccolti in uno chignon leggermente scomposto dal vento. Sulle spalle aveva su sua insistenza una sua felpa, a proteggersi dalle raffiche gelide che si insinuavano nel velivolo. Tony s'impegnò il più possibile a non assumere un'espressione eccessivamente ebete, ma la sua presenza, unita al misto di ansia, eccitazione e felicità che lo pervadeva, lo stava rendendo un compito molto difficile.
Recepì in ritardo l'informazione appena riferitagli, che implicava il dover affrettare i preparativi per essere pronto al decollo quando avrebbero sorvolato di nuovo la zona di lancio. Doveva e voleva indossare l'armatura non un minuto di più, né uno di meno. Percepì l'aereo virare, invertendo la rotta e dirigendosi di nuovo verso la Expo. Indirizzò un rapido cenno d'assenso a Pepper, per poi comprimere il bastone da passeggio telescopico e assicurarlo a un apposito aggancio sulla coscia dell'armatura, pronto ad essere recuperato una volta sul palco. Voltò le spalle a Pepper per misurare la percentuale di palladio, riscontrandola ancora fissa a un non troppo positivo 45%. Ripose il congegno e tamponò il pollice con un fazzoletto, rivolgendo poi un sorriso rassicurante a Pepper, che pur non avendo aperto bocca si era accigliata nell'osservare quell'operazione. Tony si raddrizzò il papillon, lisciò le pieghe del doppiopetto gessato e si assicurò che la benda adesiva sull'occhio fosse ben fissata.
Prese un respiro profondo che gli punse i polmoni: era pronto.
Esitò ancora un breve istante prima di posizionarsi sulla piccola pedana circolare e inserire le punte delle scarpe laccate negli stivali metallici. Oscillò appena nel compiere quel movimento un tempo così familiare, e recuperò l'equilibrio aggrappandosi alle maniglie sospese, cosa che spronò i bracci meccanici ad attivarsi, cominciando a saldare e incastrare le placche metalliche sul suo corpo.
Pepper si fermò a qualche passo da lui, le braccia incrociate sotto il seno e un velo di malcelata preoccupazione calato sul volto mentre seguiva le sue manovre. Tony le scoccò un'occhiata sicura di sé, percependo sempre meno l'aria gelida dell'hangar man mano che veniva ricoperto dalla corazza e, di contro, registrando un chiaro e crescente cardiopalma ad ogni pezzo dell'armatura che trovava la propria collocazione. La placca frontale fu l'ultima ad aderire al suo corpo, e trattenne bruscamente il fiato nel sentire la lieve vibrazione del reattore propagarsi attraverso il rivestimento metallico, dando vita alla sua seconda pelle in un coro di giunture e cuscinetti sibilanti. Tentò un cauto passetto, prendendo atto della pesantezza dei suoi movimenti e del leggero ritardo di risposta delle protesi, ma quel piccolo inconveniente fu scacciato dalla pura, immensa gioia che provò nell'indossare di nuovo quel pezzo di sé, avvolto nell'abbraccio metallico che gli era mancato come l'aria per più di un anno. Solo allora si ricordò di respirare, e si voltò verso Pepper con lo stesso, immutato sorriso che non aveva abbandonato il suo volto da quella mattina. E nonostante la chiara inquietudine, una timida risposta si fece comunque strada sul volto della donna, che si avvicinò a lui con gli angoli delle labbra rivolti in modo esitante verso l'alto.
«Come sta?» s'informò, in un tono neutrale e chiaramente frutto di un notevole sforzo di autocontrollo.
Tony in tutta risposta scese dalla pedana, azzardando un paio di passi rigidi, ma stabili, e trattenendo la tentazione di attivare i propulsori e prendere a saltare e svolazzare qua e là come un bambino. Percepiva una pressione al centro del petto, ma non ritenne opportuno renderglielo noto, e neanche soffermarvisi troppo lui stesso. Adesso non poteva comunque tirarsi indietro.
«Quello dovrebbe dirmelo lei,» rispose infine con un sogghigno, allargando con fare vanitoso le braccia e ruotando goffamente su se stesso per darle una visione completa della nuova armatura.
Pepper tentennò per un istante, un chiaro rimbecco pronto a uscire dalla sua bocca, ma finì per sorridergli apertamente.
«Sta bene,» concluse, avvicinandosi a lui e chinando appena il capo così che la frangetta andasse a celare il suo sguardo.
«Lo so. Anche se il suo non è un parere oggettivo,» aggiunse con fare malizioso, e lei si limitò ad alzare giocosamente gli occhi al cielo.
Tony trattenne un risolino e recuperò il casco dell'armatura; lo indossò, lasciando però la piastra frontale sollevata e aggiustandosi per l'ennesima volta la benda, reso impacciato dagli spessi guanti metallici. Vide Pepper frenare un gesto, come per aiutarlo, e non seppe se esserle grato o meno. Si sentiva molto più incline nel venire in contatto con lei, e poteva ritenere un miglioramento il fatto di non provare più un forte disagio ogni volta che si sfioravano volutamente o meno, ma il viso era ancora una zona decisamente tabù. Era terribilmente consapevole di quanto la cicatrice lo deturpasse, e si sentiva contrarre le viscere al solo pensiero che lei la vedesse o toccasse, quindi fu ben lieto di sistemare da solo quella misera pezzetta nera che celava il suo sfregio.
«Un minuto al lancio!» gracchiò in quel momento il pilota dall'altoparlante, facendo sobbalzare entrambi.
Tony dovette sforzarsi di non precipitarsi di corsa al portellone, cosa che anche senza l'impaccio dell'armatura sarebbe stata decisamente rischiosa, e riuscì a portarsi con calma all'uscita senza inciampare nei suoi stessi piedi. Pepper lo tallonò prontamente e si ritrovarono entrambi a fissare la metropoli sfavillante sotto di loro.
«Ci siamo,» constatò lui con la bocca secca, per rompere quel silenzio fattosi d'un tratto insostenibile.
Intravide Pepper annuire rigidamente accanto a lui, altrettanto tesa. Tony avanzò di un passo lungo la pedana; il vento lo investì in piena faccia e, di nuovo, gli girò la testa. Il suo stomaco, il suo cuore, i suoi polmoni: sembrava che ogni singolo organo avesse fatto una capriola di gioia al solo pensiero dell'imminente decollo, anticipando le elettrizzanti vertigini che l'avrebbero avvolto da lì a poco.
«Trenta secondi!»
Si voltò verso Pepper, la cui espressione sembrava incapace di stabilizzarsi e continuava a oscillare da un sorriso stentato a un cipiglio corrucciato, e da un'aria determinata a una assolutamente spaesata, mentre spostava incessantemente il peso da un tacco all'altro e si rifugiava infreddolita nella sua felpa, stringendola con troppa forza tra le dita. Tony percepiva la sua paura e allo stesso tempo la volontà di non esternarla, e se da una parte ciò lo fece sentire in colpa, dall'altra non poté che ammirarla per la sua risolutezza.
«Ehi, cos'è quel muso lungo? È uno dei giorni più belli della mia vita anche grazie a lei,» riuscì a dire, sfoggiando un sorriso spavaldo. «Andrà bene, Pep,» aggiunse subito, con con più serietà.
«Lo so,» replicò lei, con un sospiro frettoloso e agitato e un sorriso sottile che le illuminò gli occhi, senza però scacciarne del tutto le ombre di paura.
Il suo colorito già solitamente pallido era diventato quasi spettrale: le lentiggini risaltavano più che mai sulle sue guance diafane.
«Venti secondi!»
Tony si accostò a lei, senza più idee su come rassicurarla, se non ostentare un atteggiamento impavido e del tutto sicuro di sé – cosa vera solo per metà, perché alla sua esaltazione si mischiava un ben percepibile e contorto filo di angoscia che sembrava annodato direttamente al suo reattore, pronto a tendersi e ad estrarlo dal suo corpo come il tappo di un lavandino. Era del tutto cosciente che qualcosa poteva andare storto. Quel volo poteva trasformarsi in uno schianto per colpa delle interferenze. Poteva aver commesso un errore di calcolo e trovarsi a fronteggiare un 80% di intossicazione irreversibile. Poteva arrivare sul palco ed avere un infarto o semplicemente sfigurare di fronte a migliaia di persone.
«Dieci secondi!»
No, le preoccupazioni di Pepper non erano affatto infondate, ma per quanto avrebbe voluto essere rassicurato da lei, si sentì in dovere di non fomentarle. Così si stampò in faccia un sorrisetto impertinente e alzò appena un sopracciglio con fare malizioso, con l'intento di usare l'ultima tattica che gli era rimasta, ovvero la sua solita, spudorata ironia:
«Su, mi dia un bacetto d'incoraggiamento, o di questo passo toccherà a lei presentare l'Expo,» sparò con un ghigno sfacciato, già pronto a lasciarsi cadere lestamente nel vuoto per sfuggire alla sua reazione indignata.
Prevedibilmente, le guance della donna si incendiarono, virando sul colore dei suoi capelli e preannunciando il suo rimprovero scandalizzato.
Anche se...
«Cinque!»
Il sorriso di Tony scemò e lasciò il posto alla confusione nel rendersi conto che l'espressione di Pepper si era fatta fin troppo seria, per una battuta intesa con leggerezza. Prima che potesse rettificare, e prima ancora che avesse modo di capire ciò che stava accadendo, Pepper si sporse verso di lui, gli poggiò le mani sulle spalle e premette le labbra sulle sue, troncandogli le successive parole in bocca.
Il suo cervello si inceppò. Si sentì piombare in uno stato di paralisi che gli impedì di convertire quel sovraccarico di sensazioni in stimoli di senso compiuto; registrò appieno il calore delle sue labbra solo quando svanì, sostituito dalla brezza gelida. Si trovò a sprofondare nei suoi occhi chiari e ancora troppo vicini. Lo fissavano in modo indecifrabile, mentre lui era ancora intento a ristabilire la connessione tra pensieri e parole, soffocati entrambi dall'impellente tentazione di cercare di nuovo quel contatto, di cui era rimasta solo un'ombra tiepida.
«Tre!»
Si riscosse appena nel realizzare di non avere tempo per fare nulla di ciò che avrebbe voluto, se non slanciarsi fuori dall'aereo secondo i piani, verso un qualcosa di incerto e imprevedibile.
«Due!»
Non aveva tempo, e magari anche lei aveva pensato di non averne, perché qualcosa poteva andare storto. Glielo lesse negli occhi, nel fuggevole guizzo di colpevolezza che attraversò le sue iridi cerulee: quello poteva essere un addio.
Sentì un vuoto gelido allargarsi nel suo petto, in contrasto con il magma ribollente che gli scaldava lo stomaco in subbuglio e già in preda alle vertigini.
«Uno!»
Le lanciò un'ultima occhiata combattuta prima di chiudere l'elmo con un secondo di ritardo, lasciando che la patina dorata celasse il suo sguardo.
Poi si lasciò cadere nel cielo buio di New York.


***


Caduta libera.
La sua testa diventò una centrifuga di luci, New York una cartina notturna sotto di lui, sempre più grande e dettagliata man mano che piombava a propulsori spenti verso la Expo.
Il suo corpo era rimasto da qualche parte sull'aereo, e gli sembrava che un cordone invisibile si tendesse tra esso e la sua armatura, pronto a farlo scattare di nuovo verso l'alto a un passo da terra. Stava precipitando, e non sapeva dire se l'atterraggio sarebbe stato dolce quanto quell'istante ormai cristallizzato nella sua memoria, ma dotato di più di uno spigolo acuminato che si incuneava nel suo cervello.
Boccheggiò sorpreso quando si rese conto di aver deviato troppo dal percorso stabilito, complice il secondo di ritardo nel decollo. Impattò con uno dei razzi pirotecnici sparati dalla Expo, che si aprì in un ventaglio di accecanti scintille dorate attorno a lui. Fu poco più doloroso di una leggera testata e percepì a malapena l'esplosione oltre la solida corazza in oro e titanio, ma fu abbastanza per far sobbalzare il reattore, inviargli una stilettata ai moncherini e riportarlo di schianto alla realtà.
Aveva una Expo da presentare. Avrebbe pensato dopo al resto, alle labbra morbide di Pepper e al brivido che l'aveva scosso da capo a piedi mozzandogli il fiato...
Spiegò bruscamente i flap posteriori, seguendo l'avviso sull'interfaccia azzurrina; frenò la propria discesa e corresse la rotta, per poi attivare i propulsori con dieci secondi d'anticipo rispetto ai suoi calcoli. Imprecò tra sé, ma si godette la sensazione di velocità che soppiantò la marea di confusione ed emozioni che si era impossessata in lui. Diede ancora potenza, lanciando un'esclamazione esilarata nel sentirsi leggero come una corrente d'aria, di nuovo in possesso del proprio corpo e totalmente inebriato da ciò che più amava fare al mondo. Avrebbe voluto prolungare quell'attimo, puntare verso l'orizzonte e volare per ore sfiorando le onde dell'Atlantico, ma nel vedere la Expo illuminata sotto di lui e la folla accalcata nel padiglione, sentì comunque un largo sorriso aprirsi sul suo volto. Si diresse a testa bassa verso l'arena scoperta sempre più vicina, assaporando quegli ultimi istanti di libertà. Oltre il rombo e il fischio del vento distinse le note inconfondibili di Shoot To Thrill, e si concesse una virata leggermente più ampia del dovuto, che lasciò una spettacolare scia di fiamme dietro di sé, dando l'impressione che una freccia infuocata attraversasse il cielo.
Il propulsore posteriore destro singhiozzò proprio mentre iniziava a modificare la parabola per l'atterraggio, facendolo sbandare e interrompendo la manovra; anche senza il supporto delle schermate di JARVIS, capì che non sarebbe mai riuscito ad atterrare elegantemente in piedi come aveva pianificato. A volte odiava dover improvvisare.
Il palco si avvicinava, con l'area circolare designata per l'atterraggio evidenziata da neon lampeggianti, contro i quali stava per schiantarsi di testa. Improvvisò: s'impennò bruscamente a pochi metri dal palco e spense di colpo i propulsori, lasciandosi cadere di peso nel cerchio luminoso. Atterrò su un ginocchio in un clangore di metallo e attenuò l'impatto col pugno, camuffando il gesto come una posa ostentatamente plastica.
Espirò un'unica volta, rapidamente, con la palpebra socchiusa nell'ombra azzurrina del casco. Il mondo festante e pronto ad accoglierlo era un ronzio ovattato oltre la calotta metallica, e solo l'eco del proprio respiro gli assordò le orecchie.
Un istante, un respiro secco, un singolo attimo di silenzio in cui tutto ciò che percepì furono il suo cuore che martellava contro la corazza e il peso rassicurante dell'armatura sulle spalle, con lui congelato in quel momento di stasi.
Una parte di lui stava continuando a cadere. Ma lui era lì, su quel palco, sotto gli occhi di chi l'aveva aspettato per un anno.
Inspirò nel buio.
Poi si rialzò con sicurezza in un unico, fluido movimento, e sollevò le braccia, mentre dietro di sé sprizzavano dozzine di fontane dorate, con la musica irruente degli AC/DC che riprendeva a dettare il ritmo del suo cuore. Il suo sguardo abbracciò tutto ciò che aveva davanti, dalla marea di gente in visibilio accalcata sotto al palco ai fuochi d'artificio multicolore che esplodevano nel cielo stellato, dalle sfarzose luminarie che addobbavano gli alberi del parco ai neon pulsanti del padiglione inondato di lustrini e coriandoli rosso-oro. Il suo petto si gonfiò d'orgoglio, scacciando il senso d'occlusione e l'immagine del reticolo plumbeo.
In quel momento esisteva solo lui: Tony Stark, Iron Man, in piedi per la sua Expo.
Non ebbe alcun bisogno di imbastire il ghigno compiaciuto ed esaltato che rivelò al pubblico non appena i bracci meccanici emersi dalla pedana rimossero l'armatura. Libero dal metallo, recuperò il bastone da passeggio e lo aprì con naturalezza, facendo qualche passo svogliato per portarsi al bordo del palco. Per un solo momento fu drasticamente cosciente di ogni singolo sguardo appuntato su di lui, o meglio, sulla sua mano meccanica, sul bastone e sulla benda che celava il suo sfregio, ma gli applausi e il clamore non cessarono e, anzi, aumentarono d'intensità fin quasi a coprire la musica. Alzò in bella vista la protesi in un cenno di saluto al pubblico mentre l'assolo di chitarra elettrica cresceva d'intensità, e abbassò di scatto la mano proprio quando l'ultimo accordo segnò la fine della canzone, in un gesto frivolo e puramente scenografico che ampliò il suo sorriso.
Accennò un mezzo inchino, accompagnandolo con uno svolazzo del bastone, e attivò il microfono appuntato sul bavero, sentendosi di nuovo saldo sulle sue gambe e perfettamente a suo agio nel suo ambiente naturale, ovvero al centro di un palco e al centro dell'attenzione, con le vertigini dello spericolato volo appena concluso che gli facevano tremare piacevolmente le gambe.
«Ah, è bello essere di nuovo qui!» esordì con rara sincerità, e il pubblicò si quietò appena nell'udire la sua voce stentorea, che rimbombò nell'arena illuminata dallo sfarfallio dei flash e dai proiettori. «Vi sono mancato,» affermò poi in tono ovvio, e una sostenuta ovazione di risposta corroborò le sue parole.
Ciò suscitò un ampio sogghigno sul suo volto, impostatosi di nuovo sulla sua classica faccia da schiaffi degna del genio, miliardario e playboy che tutti ricordavano. Si ricompose un poco, unendo a quell'espressione così conosciuta il gesto di picchiettare svagatamente per terra col bastone, per lui ormai abituale, ma estraneo al resto del mondo. Colse più di uno spettatore indicarlo apertamente, e concentrò ogni fibra di sé nel non allungare la mano a toccarsi la benda, che percepiva essersi scollata appena dalla sua pelle.
«Anche voi mi siete mancati,» continuò poi, con una disinvoltura che celava una vena di serietà. «Mi sono mancate un sacco di cose, incluso poter passeggiare su un palco, indossare l'armatura ed essere acclamato. Siete assolutamente autorizzati a compensare quest'ultima mancanza,» li invitò con un gesto rivolto a sé, scatenando un clamore assordante che coprì le sue ultime parole.
Sogghignò, appagato di quella reazione: la maggior parte delle volte, amava improvvisare. Ristabilì poi l'ordine con un pacato gesto delle mani, prendendo di nuovo la parola.
«Le voci sulla mia presunta morte sono state enormemente esagerate,» asserì con un'alzata di spalle. «Come vedete, non sono morto, non sono infermo e non sono impazzito, come molti dei miei detrattori hanno simpaticamente sostenuto in questo mio periodo di assenza,» continuò con una punta di durezza, che sperò andasse a trafiggere quella schiera di giornalisti che aveva fatto del diffamarlo il suo nuovo hobby.
«Ma non sono qui per parlare di chi non ha creduto che potessi tornare. Se proprio dovessi parlare di qualcuno, sarebbe di chi invece ha creduto in me, ha sostenuto le mie idee e mi ha permesso di essere qui oggi,» continuò, con voce ferma.
Se non l'avesse piantata d'improvvisare, quel groppo in gola avrebbe finito per strozzarlo, si rimproverò mentalmente; ma il pensiero che Pepper, Ian e Kyle potessero sentire quelle parole era stato più forte del suo buonsenso. Quello era rimasto sull'aereo ad annegare in una pozza di endorfine, e dubitava di poterlo recuperare in tempi brevi.
«Non sono qui neanche per raccontarvi come dalle ceneri di una barbara prigionia e di un tradimento non si sia mai personificata metafora più grande della Fenice nella storia dell'uomo!»
A quel punto fece un altro mezzo inchino, godendosi ancora una volta l'applauso scrosciante che gli si riversò addosso, facendo aumentare i suoi battiti.
«Non sono qui per dire di aver ideato, sviluppato e testato completamente da solo una tecnologia ritenuta impensabile per almeno altri dieci anni, nonostante tutti gli ostacoli che mi si sono parati davanti, e che ho intenzione di renderla accessibile e fruibile a tutti!» nel pronunciare tutto ciò, tirò leggermente su la manica del completo, scoprendo una porzione della protesi e agitando le dita per mostrarne il perfetto funzionamento, almeno ai loro occhi, e fu accolto da un'altra ovazione che stemperò il suo timore per quel gesto ardito.
«E non sono qui per dirvi che Iron Man è tornato, e il mondo potrà quindi riprendere a vivere il suo più lungo periodo di pace ininterrotta!» continuò ancora, sperando che il sottotono di amaro rammarico di quella frase fosse percepibile solo a lui.
Inspirò a fondo e sentì il reattore premere al centro della sua gabbia toracica, onnipresente. Ignorò la sensazione, riprendendo a parlare con nuovo vigore, spronato dalle acclamazioni che stava ricevendo e che soffocò schermendosi di nuovo con le mani e incrociandole poi dietro la schiena:
«Vi prego, non si tratta di me,» annunciò. «Non si tratta di voi, e nemmeno di noi.»
Il pubblico si fece d'un tratto più silenzioso, colpito dalla sua improvvisa serietà e compostezza.
«Si tratta del retaggio
Quella parola pesò sulla sua lingua e sembrò sprofondare nell'aria tiepida di fine aprile come una corrente gelida. 
«Si tratta di quel che vogliamo lasciare alle generazioni future,» affermò, e dovette domare l'istinto di portare una mano al reattore, le protesi fattesi improvvisamente più pesanti.
Il suo sguardo sorvolò il pubblico, andando ad appuntarsi sull'Unisfera illuminata di una luce azzurrina. Un'ombra della Città del Futuro di suo padre gli offuscò la vista. Quello che stava per lasciarsi dietro sarebbe stato abbastanza? Oppure si stava lasciando dietro troppo? Si umettò le labbra, ancora lambite da un calore che non accennava a dissiparsi, e riprese a parlare prima che quella pausa prolungata destasse sospetti.
«Ed è per questo che per il prossimo anno, per la prima volta dal 1974, gli uomini e le donne più in gamba di società e nazioni di tutto il mondo metteranno insieme le loro risorse, e condivideranno la loro visione per gettare le basi di un futuro più roseo,» spiegò con ritrovata sicurezza, scandendo le proprie parole con ampi gesti. «Perciò, non si tratta di noi,» concluse con ovvietà.
Si fermò esattamente al centro del palco, poggiandosi al bastone e scrutando con intensità il suo pubblico.
«Se c'è una cosa che voglio dire, se proprio devo dire qualcosa...» allargò le braccia, includendo con quel gesto tutti i suoi spettatori e l'intera fiera, «È “bentornati alla Stark Expo!”» esclamò a piena voce, con un sorriso caloroso e trionfante.
Una cascata di lustrini eruttò dalle fontane pirotecniche alle sue spalle, e una nuova serie di fuochi d'artificio rosso-oro illuminò a giorno il cielo di New York.
Tony allargò le braccia e lasciò che quella pioggia dorata lo investisse, calando il sipario su di lui.


***

24 Aprile, Manhattan, 22:00

L'ago affondò con facilità nel suo deltoide, strappandogli una smorfia infastidita quando una sensazione di gelo gli avvolse il muscolo.
Distolse lo sguardo dallo stantuffo della siringa per puntarlo sul volto corrucciato di Ian, impegnato a manovrarla con accortezza. Dopo pochi secondi, sfilò l'ago con un gesto delicato ma fermo, premendogli subito una garza sul foro d'ingresso e facendogli cenno di mantenere la pressione. Tony eseguì con cautela, sforzandosi di dosare la forza delle dita metalliche sul quadratino di stoffa e fissando con sguardo vacuo il puntino rosso che lo aveva macchiato.
Erano in silenzio da interi minuti, entrambi presi dalla tensione per motivi diversi, ma congrui ai loro opposti ruoli di medico e paziente. Oltre la porta della sua camera anche Pepper era in tensione, ne era certo, ma non si pentiva della scelta di averle risparmiato le sue procedure mediche ignorando le sue proteste. Non erano ancora rimasti faccia a faccia da quando l'aveva lasciata sull'aereo, e non era certo quello il momento giusto.
Non che dopo l'inaugurazione avesse avuto alcuna intenzione di affrontare l'argomento in sospeso – se poteva definirsi tale – ma il 67% di palladio nel sangue era stato un altro ottimo motivo per ritardare quel confronto. Già nel lasciare il palco aveva avuto un forte capogiro; nel leggere la cifra sul rilevatore aveva sentito il sangue defluire a cascata dal suo volto, lasciandolo ghiacciato e pallido. I sintomi sino ad allora tenuti a bada dall'adrenalina e dall'esaltazione del momento appena trascorso gli si erano rovesciati addosso in un colpo solo, minacciando di farlo svenire dietro le quinte della Expo che aveva appena presentato.
Happy l'aveva prontamente riacciuffato per la collottola e accompagnato per vie traverse all'auto, schivando la maggior parte delle forche caudine di giornalisti e fan in delirio appena oltre la porta principale. Tony non gli era mai stato così grato come mentre veniva passivamente sballottato qua e là per corridoi secondari e vialetti non illuminati, nonostante le serie difficoltà a mettere a fuoco cosa stesse accadendo attorno a lui oltre il rombo tonante che aveva preso a scuotergli i timpani. 
Oltre il velo d'intontimento, aveva accolto i morbidi sedili in pelle della Rolls Royce come un paradiso terrestre. L'impressione di beatitudine si era prima accentuata e poi incrinata nel realizzare che Pepper era seduta accanto a lui su quegli stessi sedili, e che la situazione poteva quindi molto rapidamente tramutarsi nel suo inferno privato. Fortunatamente – oppure no – si sentiva troppo male anche solo per pensare di intavolare una discussione coerente, così aveva passato la mezz'ora di macchina che separava Flushing Meadows dal suo attico a Manhattan in silenzio, con il volto spalmato sul finestrino e consapevole, tra un sobbalzo dell'auto e l'altro, degli occhi angosciati della donna che gli trafiggevano la schiena.
Era stato intercettato da Ian non appena aveva messo piede sul pianerottolo dell' appartamento a Park Avenue. Si era lasciato trascinare in camera sua quasi di peso da lui e Happy prima di crollare seduto sul letto, a malapena consapevole del medico che si affaccendava attorno a lui borbottando tra i denti qualcosa riguardo alla sua incoscienza e sconsideratezza – il solito disco rotto che conosceva a memoria, indegno di alcuna attenzione da parte sua. Era stato piuttosto occupato a rimanere vigile e a non farsi sopraffare dal magma di sensazioni, fisiche e non, che aveva preso a sconquassare la sua mente. Il senso d'occlusione che gli stritolava i polmoni gli aveva ricordato il momento terrorizzante in cui si era tolto il reattore– e l'incubo in cui affondava e annegava– e il barile in cui gli ficcavano la testa nella grotta...
Gli era mancato il fiato quasi fosse davvero sott'acqua.
Aveva presagito in tempo l'approssimarsi di un attacco di panico ed era riuscito a gestirlo abbastanza bene da non collassare ai piedi di Ian. Non era sicuro che quello stato di calma indotta a forza avrebbe retto sino alla fine della sua visita, ma concentrarsi sul mantenere stabile il proprio respiro affaticato e contare all'indietro erano ottimi modi per ignorare i pensieri imbizzarriti che crepitavano in sottofondo. Al momento si sentiva decisamente più padrone di sé, ed era intento a captare qualsiasi segnale anomalo proveniente dal suo corpo stremato. Strizzò il pugno sano un paio di volte, avvertendo un leggero intorpidimento al braccio, come se dell'acqua gelata avesse preso a scorrergli nelle vene.
Ian si era seduto a gambe accavallate sulla poltroncina nell'angolo, tenendolo sotto stretta osservazione mentre annotava dati e valori sulla sua voluminosa cartella clinica.
«Novità?» chiese dopo una buona decina di minuti in tono inusualmente sommesso, posandosi infine penna e scartoffie in grembo.
Tony si inumidì le labbra, senza distogliere lo sguardo dalla garza che teneva premuta contro il braccio. Riusciva a respirare, ma si sentiva ancora un macigno sul petto e si stava sforzando di reprimere i lievi brividi che gli scuotevano le spalle; la nausea subì un'impennata tale che ebbe timore di parlare e si prese qualche secondo per assicurarsi che dalla sua bocca uscissero unicamente le proprie parole.
«Non mi sono ancora liquefatto,» asserì, con un'ombra d'ironia un po' incerta che non si manifestò sul suo volto contratto.
«Riscontra effetti spiacevoli?»
«Sì, ma non so se è il palladio o l'anti-palladio... la mia solita fortuna,» sospirò appena, con un sorrisetto più simile a una smorfia, procedendo poi a recuperare il rilevatore dalla tasca.
Lanciò uno sguardo a Ian, che annuì in risposta, in evidente tensione. Tony premette il pollice sull'ago con più forza del necessario, impedendosi di esitare ancora e strizzando l'occhio per la puntura.
«64%» esalò in un respiro, senza nascondere il sollievo che gli stava sciogliendo i muscoli; adocchiò Ian che si abbandonava allo schienale, rilassandosi a sua volta.
«È in diminuzione. Bene,» commentò il medico, per poi alzarsi e farglisi incontro corrucciato. «Cioè, non è esattamente “bene”, ma...»
«Potrebbe essere peggio,» completò Tony, senza risentirsi e col pollice ancora posato sul rilevatore, che tremava leggermente tra le sue mani malferme.
Ian prese un breve respiro nel fermarsi davanti a lui, tirando con fare indeciso i lembi della giacca e sistemandosi gli occhiali sulla punta del naso.
«So che non cambierà nulla, Doc,» lo anticipò piattamente, vedendolo aprir bocca per parlare.
L'altro non rispose, ma si adombrò ulteriormente. Gli tolse con gentilezza il rilevatore dalle mani, ripulendogli poi la piccola ferita sul polpastrello con una garza e applicandovi un cerotto. Tony lo lasciò fare, di nuovo assente e sempre più intorpidito. Guardò il piccolo congegno poggiato sul materasso, con le cifre rosse e luminose che sembravano imprimersi sulla sua retina.
Non sarebbe cambiato nulla, si ripeté meccanicamente. L'intossicazione sarebbe scesa ancora di qualche tacca, magari anche sotto al 60%, con un po' di fortuna e un'indigestione di clorofilla. Poi avrebbe ripreso a salire inesorabile, fino a far fermare il suo cuore.
Le parole che aveva pronunciato Ian qualche tempo prima risuonarono nelle sue orecchie, inconfutabili: il dilitio non era una soluzione.
Avvertì delle lievi vertigini, di fatto solo l'ennesimo capogiro, ma si sentì catapultato ancora una volta in caduta libera e poi su quell'aereo. Per un singolo istante si trovò a desiderare che quello con Pepper fosse stato davvero un addio. Lle vertigini si trasformarono in una stretta ferrea che quasi gli mozzò il fiato. Era stato uno sprazzo fugace, più un tentativo di pensiero destinato a spegnersi prima di essere completato che una considerazione fatta e finita, ma bastò a risvegliare quella vergogna rimasta sopita per quasi un anno. Non poteva concedersi quelle debolezze meschine, neanche nella propria testa.
Strinse il quadratino di garza nel pugno metallico, facendo stridere appena le giunture.
«Doc?» chiamò piano, in un tono molto meno vivace di quanto avrebbe voluto.
Sentiva di non avere neanche più la forza di mostrarsi sicuro di sé e indifferente a quel che stava accadendo; almeno, non costantemente. E adesso che l'inaugurazione era passata e l'aura dorata che gli aveva lasciato addosso iniziava a sbiadire, sentiva la sua facciata sgretolarsi ad ogni battito.
«Qual è la sua prognosi?» chiese, incapace di esprimere quella domanda in termini più diretti, quasi che farlo la potesse rendere ancor più reale.
«Quattro o cinque mesi,» rispose il medico in modo altrettanto sommesso, continuando a riordinare i suoi strumenti nella ventiquattr'ore.
Tony alzò la testa verso di lui, un po' sorpreso, e il medico intercettò il suo sguardo.
«È una previsione ottimistica,» confessò, di nuovo a occhi bassi.
«Non è da lei essere ottimista, mi sento quasi onorato,» commentò con un sorrisetto obliquo, ben presto soppiantato da una linea tesa. «E se le chiedessi di essere realista?»
Ian scosse la testa un paio di volte, chiaramente riluttante, per poi liberare un sospiro e rispondere col consueto distacco:
«Tre mesi.»
Tony incassò il colpo in silenzio, rivolgendo al medico un unico cenno d'assenso, quasi a suggellare il modo definitivo quel fatto.
Tre mesi. Lo sapeva, non era una novità. Quelle due parole si depositarono alla base della sua nuca, appesantendogli la testa con un monito funesto che parve imprimersi a fondo nel suo cervello.
«Ne vuole parlare?» la voce di Ian arrivò inaspettata, riscuotendolo.
«Di cosa?» replicò, sinceramente confuso.
«Di ciò che vuole,» Ian fece un gesto vago con la mano che esplicitò anche il suo insolito disagio. «Non necessariamente con me,» puntualizzò poi, prendendo a pulirsi gli occhiali in modo così forzatamente disinvolto da risultare quasi caricaturale.
Tony capì l'antifona e lo scrutò assorto per qualche istante, assurdamente convinto che il medico lo stesse prendendo in giro in qualche modo che non riusciva a comprendere, complice il proprio stato non del tutto lucido. Come unica linea di difesa trovò quella di arroccarsi sui consumati bastioni del proprio sarcasmo, sperando che il medico desistesse o scoprisse le sue carte:
«Ammetto che è estremamente gradito sentirsi chiedere se si vuole uno strizzacervelli invece di ritrovarsene uno in salotto senza preavviso, ma mi sembra un tantino...» esitò, poi allargò le mani con fare spaesato. «Fuori tempo?» abbandonò i gomiti sulle ginocchia, con le mani ora strette tra loro a cercare un appiglio solido.
Aveva l'impressione che quell'intera giornata fosse un inno al pessimo tempismo.
«Signor Stark, non voglio forzarla,» si ritrasse quindi Ian, inforcando di nuovo gli occhiali. «Era un'offerta amichevole, ma se non vuole accettarla me ne farò una ragione,» concluse, modulando le sue parole con insolito tatto.
Tony si strofinò con aria assente il pizzetto, chiedendosi se stesse davvero rifiutando. Aveva ancora molte difficoltà a riconoscere una mano amica quando la vedeva, eppure non era difficile capire che Ian fosse preoccupato per lui al di là del suo ruolo professionale.
«Semplicemente, non credo avrebbe molto senso a questo punto,» alzò le spalle, senza turbarsi più di tanto. «Ho modi più costruttivi per passare il tempo che mi rimane, piuttosto che starmene in panciolle su un lettino a parlare di cose a cui non voglio nemmeno pensare,» concluse, tradendosi suo malgrado con quell'ultima esternazione.
Sperò che Ian non gliela ritorcesse contro, ma per fortuna accolse in silenzio il suo rifiuto. Si chiese involontariamente se fosse già troppo tardi per tornare sui propri passi, ma mise a tacere quell'interrogativo.
«Non posso obbligarla. Però mi deve promettere una cosa,» esordì di nuovo il medico, e Tony si mise d'istinto sulla difensiva:
«Uh, non so se gliel'hanno mai detto, ma il campo delle promesse non è mai stato il mio forte e ho svariati testimoni a confermarlo,» replicò con fare disincantato.
«Vorrei che provasse lo stesso a mantenere questa,» insistette Ian, con più fermezza del solito.
«Spari, Doc,» sospirò, incrociando rassegnato le braccia ma anche incuriosito da tutta quella serietà.
E preoccupato, e intimorito, perché ormai aveva la sensazione che ovunque si voltasse spuntassero nuove minacce e problemi nonostante tutti i suoi sforzi per evitarli e condurre pacificamente la propria vita.
«Quando starà bene...» Ian alzò una mano a frenare quel “se” che gli era salito in automatico alle labbra, quella particella di dubbio che metteva tutto in discussione e poteva ribaltare la sua stessa sorte. «Non voglio parlare per ipotesi, ma per certezze. Me lo concede?»
Tony rimase interdetto per qualche istante, poi annuì, decidendo di lasciar correre e di accettare quell'incredibile dose di ottimismo da parte del medico più scettico, cinico e realista della Terra.
«Quando starà bene, mi promette che si rivolgerà a un professionista?»
Tony non trattenne un sonoro sbuffo, irritandosi lievemente.
«Ci tiene così tanto a farmi psicanalizzare?»
«Vorrei semplicemente che andasse in terapia, prima o poi,» riformulò lui.
«Pensavo che titoli del tipo “Tony Stark il Futurista Folle” fossero passati di moda da un pezzo, e non pensavo lei fosse un loro fan,» scandì caustico, sentendo la propria fronte aggrottarsi al pensiero.
«Non sto dicendo questo, e lo sa perfettamente,» replicò rigido Ian, perdendo un poco del suo aplomb.
Tony si stropicciò l'occhio stanco, trattenendo un'altra risposta impulsiva e indelicata.
«Doc, andare in terapia non è in cima alla “lista di cose che farò quando starò bene”,» sospirò comunque, sperando che la questione finisse lì. «E mi creda, il mio problema principale è qui,» batté le nocche sul reattore, «Non qui,» concluse, portando l'indice alla tempia con fare esplicativo.
«Tony.»
Lui quasi boccheggiò nel sentirsi chiamare per nome, e squadrò Ian come se gli fosse improvvisamente spuntata una seconda testa.
«Lo sto dicendo nel suo interesse. Se non vuole farlo per lei stesso, lo faccia almeno per chi le sta intorno,» continuò il medico, una volta accertatosi di avere la sua completa attenzione.
«Non credo che cambierebbe...»
«Cambia tutto,» lo interruppe Ian, con fare perentorio. «È più intelligente di così. Si è sicuramente meritato il titolo di "Iron Man" per dei motivi che esulano da quanto metallo abbia addosso,» continuò con voce ferma e priva di qualunque esitazione.
Tony abbassò lo sguardo, preso alla sprovvista da quel riconoscimento inaspettato, che gli fece dimenticare per un istante il fatto che fosse in procinto di perdere per sempre quel titolo.
«... ma per quanto possa sempre farcela da solo, non credo che voglia anche rimanerlo,» terminò, lanciandogli un'unica occhiata eloquente per poi distogliere lo sguardo, quasi a lasciargli il suo spazio mentre rifletteva su quell'affermazione.
Tony tacque brevemente, prendendo atto delle rughe profonde che si erano accentuate attorno agli occhi del medico, e di quanto questi sembrassero inquieti, nonostante si mantenessero cristallini come sempre.
«Parla per sentito dire, per luoghi comuni o per esperienza personale?» indagò infine, scrutandolo di sottecchi.
Il medico affondò le mani nelle tasche della giacca e ricambiò distaccato il suo sguardo, lasciandosi però sfuggire un sospiro appena percettibile.
«Ha importanza?» borbottò, riprendendo il suo consueto atteggiamento burbero.
«Suppongo di no e suppongo che la sua sia in un certo senso una risposta esaustiva,» considerò Tony, frenando a stento la sua curiosità. «Quindi pensa che... parlarne, qualunque cosa voglia dire, possa farmi bene anche ora?» cambiò argomento, con evidente sollievo del medico.
Avrebbe voluto porla come una domanda sincera e interessata, ma finì per suonare involontariamente sarcastico.
«Penso che possa aiutarla ad affrontare il tutto,» non si sbilanciò lui, ma una scintilla illuminò il suo volto a quella domanda.
«Non mi ritiene in grado? Che novità.»
Il fastidio che aveva represso fino ad allora trapelò inequivocabile dalla sua voce.
«Conosce qualcuno che lo è?» rimpallò Ian, senza scomporsi.
Tony raddrizzò la schiena con un movimento brusco, quasi a sfuggire dall'angolo in cui si sentiva spinto ad ogni parola, di nuovo senza via d'uscita.
«Doc, so quello che sto facendo...» ripeté per la centesima volta nella sua vita, ma s'interruppe, quasi sussultando.
Il suo sguardo si fece distante, perso sul panorama notturno di New York oltre la vetrata della sua stanza.
«E non lo so,» aggiunse, volgendo entrambi i palmi verso l'alto in un gesto confuso.
La sua mente tornò all'inaugurazione, all'aereo, a Pepper, e si sentì spalancare il petto. Si prese la mano meccanica, seguendo la scanalatura del palmo col pollice sensibile. Continuò a ripetere quel gesto, quasi si aspettasse di trovare una risposta nel metallo.
«Non lo so,» ripeté, sentendosi sconfitto e vulnerabile di fronte agli occhi penetranti di Ian.
La percezione del proprio corpo si acuì, come tutte le volte in cui si soffermava sugli sguardi altrui che vi si posavano; volse verso il medico la parte intatta del volto e coprì la mano meccanica con quella sana, prendendo un respiro profondo che non attenuò la sua vergogna.
«Non c'è nulla di male ad accettare un aiuto, ormai dovrebbe averlo capito,» buttò lì Ian, in tono perfettamente neutrale ma con un'ombra di rassegnazione annidata nel suo volto.
Tony si mordicchiò nervosamente le labbra, provando un insensato bisogno di dire tutto ciò che gli passava per la testa. Le sue parole si arrestarono a un passo dalle sue corde vocali, rimanendo mute. Continuò a sfregarsi il palmo metallico, concentrandosi su quella sensazione concreta che faceva da àncora nella realtà.
Sarebbe stato così semplice parlare, liberarsi da quei pesi che aveva scelto di tenere per sé e per sé soltanto. Aveva giurato di non mentire mai più a Pepper, ma non riusciva comunque a spingere i suoi pensieri più cupi oltre quel freno che si imponeva. Non riusciva a dirle che erano mesi che evitava di guardarsi allo specchio, né che le uniche volte in cui ci riusciva era nei suoi sogni, che si tramutavano ben presto in incubi. Non riusciva a dirle che a volte, nella solitudine del suo laboratorio, si toglieva entrambe le protesi per ricordarsi quale fosse il suo vero corpo e scacciare la sensazione di essere stato fagocitato dalle sue stesse macchine – e allora lo sguardo gli cadeva inevitabilmente sul reattore, l'unico vincolo artificiale che lo ancorava alla vita e che era ormai sul punto di recidersi.
Non riusciva neanche a rispondere in modo del tutto veritiero alla banale domanda "come stai?"
"Come sempre", "meglio del solito", "peggio del solito”. Ma mai "male".
Si svegliava la mattina con la sensazione che qualcosa gli stritolasse il petto e i polmoni, coi moncherini in fiamme e la testa che sembrava essere passata per un frullatore tanto gli doleva e girava, ma nessuno di quei sintomi raggiungeva la consapevolezza di Pepper tramite la sua voce. Lei forse – sicuramente – li intuiva dal suo respiro sempre più affaticato, dai suoi movimenti un po' instabili e traballanti, dai momenti in cui serrava brevemente l'occhio a una fitta più acuta, dal suo sforzarsi di mangiare più di qualche boccone dal suo piatto quando la nausea gli chiudeva lo stomaco o dal numero di volte in cui si chiudeva in bagno subito dopo, assalito dai conati.
Fermò il pollice al centro del palmo metallico, rievocando il calore illusorio di quando Pepper lo aveva stretto molto tempo prima, conscio che non avrebbe mai potuto sentirlo davvero. Sentì il suo abbraccio cingerlo come in quella stessa sera di gennaio, e allora era stato così facile ricambiarlo e lasciarsi cadere a pezzi, nella sicurezza che lei li avrebbe raccolti. E poi era stato facile pronunciare parole vuote che strattonavano inutilmente le catene che lo inchiodavano a terra, a ricordargli che poteva decollare tutte le volte che voleva, ma il suo corpo sarebbe sempre rimasto laggiù, stritolato dal metallo e troppo pesante per spiccare il volo.
Di nuovo l'inaugurazione, l'aereo, Pepper.
Avrebbe voluto strapparsi quel brandello di memoria che mandava in tilt ogni suo senso, con lo stomaco che galleggiava in una piacevole bolla d'estasi mentre il reticolo sul suo petto si stringeva e stringeva ancora, acuendo ogni stilettata di dolore. E allo stesso tempo avrebbe voluto perdercisi, fingere che quel singolo istante potesse annullare tutto il resto, dimenticandosi che quella non era una fiaba, ma la vita reale – e nella vita reale stava morendo in un corpo non suo.
Sollevò lo sguardo verso Ian.
«Pepper si starà preoccupando,» replicò, con voce fioca.
Il medico trattenne un lieve sospiro, ma annuì senza commentare. Non sembrava risentito, forse solo un po' deluso.
«Allora sarà meglio rassicurarla,» concluse con un'alzata di spalle.
L'inaugurazione, l'aereo, Pepper. Le sue labbra, il calore delle sue mani bloccato dal metallo.
Un flipper impazzito che rimbalzava nella sua testa.
Tilt. Game over.
«In settimana ha un paio d'ore libere?» proruppe, prima che Ian potesse raggiungere la porta.
Il medico si voltò a guardarlo, sorpreso e momentaneamente senza parole.
«Insomma, certo che potrebbe avere un paio d'ore libere; mi chiedevo solo se volesse averle per...» rettificò Tony, già pentendosi di aver parlato, ma si interruppe nel vedere il sorriso rassicurante che si dipinse sul volto di Ian.
«Sono sicuro che saprò convincere il mio datore di lavoro a concedermele.»
Tony sfoderò un debole ghigno in risposta.
«Credo proprio di sì. Ultimamente, ha imparato a non fare troppe stronzate.»


***


24 Aprile, Manhattan, 23:00

«Ma chi ha inventato questi aggeggi infernali?»
«Vuole una forchetta?»
«Neanche per sogno,» ribatté Tony, continuando ad armeggiare vivacemente con le bacchette e i noodles cinesi, neanche fosse nel pieno di una partita di shangai.
Pepper si limitò a lanciargli un'occhiata a metà tra l'esasperato e il rassegnato, con un pizzico di divertimento un po' colpevole nel vedere la sua biotecnologia sconfitta da un paio di bastoncini di legno.
«Può ridere, sa? Non mi offendo,» mentì platealmente lui intercettando il suo sguardo, con la faccia di chi è già pronto a immusonirsi al primo commento fuori luogo.
«La prossima volta scelgo io il menù,» replicò lei, evitando la trappola in scioltezza.
«Così mi fa sperare in una prossima volta,» ammiccò lui, riuscendo infine ad acciuffare un boccone di noodles e a mangiarlo senza troppi danni, per poi rinunciare ad usare la protesi e passare alla mancina.
Lei non commentò, fingendosi intenta a spiluccare le sue verdure come se ciò richiedesse la sua più totale concentrazione. Tony sembrava a sua volta piuttosto preso dalla cena, e non riusciva a ricordare l'ultima volta che l'aveva visto mangiare con così tanto gusto. Il dilitio sembrava aver fatto miracoli sul suo appetito e sul suo umore; a colpo d'occhio era ancora provato, ma aveva un colorito decisamente più sano. Le vene scure a cui aveva ormai fatto l'abitudine si erano ritirate appena sotto il colletto, nascondendole il costante memento dell'intossicazione.
Non volle soffermarsi su quando l'aveva visto subito dopo la Expo, e su come avesse pensato di averlo perso davvero per una bravata a cui lei stessa aveva acconsentito. Di rimando, si soffermò su ciò che era successo prima. Non che fosse davvero in grado di ignorarlo completamente, quando si sentiva avvitare e contrarre lo stomaco ogni volta che gli posava gli occhi addosso, con un misto di senso di colpa, confusione e paura che non riusciva a soffocare, neanche rifugiandosi discretamente nella stoffa della sua felpa che ancora – stupidamente – indossava e che conservava il suo profumo. L'impressione delle sue labbra era ancora vivida sulle proprie, così come il suo sguardo smarrito subito dopo.
Aveva l'impressione di muoversi in una bolla di tempo distorto, in cui ogni secondo che passava sembrava prolungarsi all'infinito, moltiplicando il suo disagio e i suoi pensieri alla deriva.
«Vogliamo ignorarlo ancora per molto?» proruppe infine, posando la sua scatoletta di take-away quasi intatta.
«Cosa?» bofonchiò lui, senza alzare lo sguardo dal cibo, ma con una nota d'allarme nella voce.
«L'elefante nella stanza.»
«È una metafora riferita alla mia mancanza di grazia?» 
Tony le rivolse un sorrisetto sghembo che non raggiunse il suo sguardo. Pepper si mise a braccia conserte, prendendo tempo. Arrivò rapidamente alla conclusione che quella fosse l'ultima occasione per lasciar cadere l'argomento, ma si trovò a ignorare le direttive del suo cervello, esattamente come poche ore prima sull'aereo.
«Mi riferivo all'inaugurazione.»
Lo sguardo di Tony stavolta scattò in alto, verso di lei, poi fu dirottato all'istante verso la parete di vetro affacciata sulla città in un movimento affatto naturale. Si pulì con calma la bocca col tovagliolo, e Pepper notò distintamente le sue mani fremere appena, inquiete. Tamburellò brevemente con le dita sul tavolo con un ticchettio, prima di scuotere quasi tra sé la testa.
«Mi sembra che non sia successo nulla.»
Quella constatazione parve impattare tra di loro come un blocco di granito.
Pepper impietrì. Non poté che fissarlo per lunghi secondi, la bocca semiaperta, gli occhi sgranati e increduli che non riuscivano a distogliersi dal suo viso apparentemente tranquillo. Si rese conto che avrebbe forse dovuto provare qualcosa. Magari rabbia, o delusione, o dolore, o un misto variopinto delle loro diverse sfumature, ma il collegamento tra cuore, bocca e cervello sembrava essere stato reciso di netto, lasciandola muta e inerte.
Tony continuò a guardare da tutt'altra parte, con aria distante.
«E questo cosa dovrebbe significare?» riuscì ad articolare infine lei, suscitando un brillio colpevole nell'iride sfuggente dell'uomo.
«Che non è la sola a poter decidere quando è successo qualcosa o meno,» replicò serafico, rievocando l'eco di parole che avevano voluto dimenticare entrambi.
«
Peccato che stavolta sia successo qualcosa,» insistette lei, mentre la rabbia prendeva a poco a poco il sopravvento sul suo raziocinio, inframmezzata da punture di spillo dolorose che s'impegnò ad ignorare.
Tony non rispose e prese a rigirarsi una delle bacchette tra le dita, seguendone i movimenti con la massima concentrazione pur di non alzare lo sguardo verso di lei.
«Ti stavo offrendo una via d'uscita,» borbottò infine, e un lieve, inaspettato sorriso sfiorò le sue labbra. «Ma tu non ti tiri mai indietro,» completò con quella che sembrava tristezza, lasciandosi sfuggire la bacchetta con un toc sordo.
Pepper si passò una mano sul volto teso e affondò le dita sulle palpebre, rifugiandosi per un attimo dietro quella cortina. La voce di Tony era rimasta piatta, apatica, come se tutta la vitalità che l'aveva pervaso fino a poco prima dell'inaugurazione fosse stata risucchiata da un gorgo invisibile.
«Mi spieghi che ti prende?» chiese, in un tono parzialmente aggressivo che non riuscì a stemperare e che doveva servire a mascherare la sua paura per quelle parole così gelide.
Era sempre schermata dalla propria mano e temeva di soffermare troppo lo sguardo sull'uomo che le stava di fronte per timore di annebbiare la poca lucidità che le era rimasta. Perché doveva sempre ritorcersi tutto contro uno dei due?
Sapeva di aver compiuto un gesto impulsivo, forse affrettato, ma la reazione di Tony le sembrava completamente sconclusionata, e le faceva temere di aver ferito delle corde più sensibili di quanto avesse creduto.
Sentiva il proprio cuore arrancare a singhiozzo, mentre l'attesa per una risposta si prolungava, con lui ancora determinato a non offrire alcun appiglio su cosa stesse realmente provando o pensando. L'unico segno che non fosse così imperturbabile come voleva dare a vedere era il fatto che continuasse a tenere la mano meccanica celata sotto al tavolo, e che quella sana si assicurasse con insistenza che la benda sul volto fosse ben aderente alla cicatrice.
«Ti sembra così strano che voglia fare finta di nulla?» proferì infine, e non riuscì a cogliere alcun intento sarcastico in quella domanda.
A spiazzarla fu ancora la volta la sua voce, ancora spenta e più bassa del solito, come se parlare gli costasse più fatica di quanto potesse permettersi.
«Non riesco a capirne il perché.» 
Pepper riuscì a far calare la propria voce di qualche decibel, ma sentiva l'inderogabile urgenza di lasciarla esplodere, così da liberarsi almeno parte di quella insostenibile pressione interna che le stava rendendo il corpo di gelatina.
«Neanch'io riesco a capire perché tu l'abbia fatto proprio in quel momento,» ribatté pronto lui, ancora con quella pacatezza fuori luogo. «Cos'è, volevi farmi un regalo d'addio?» stavolta una traccia di pungente risentimento adombrò le sue parole taglienti e il suo sopracciglio scattò appena vero l'alto.
Una scintilla di comprensione scaturì nei pensieri di Pepper, riuscendo finalmente a illuminarli in modo coerente.
«Non l'ho fatto per pietà,» scandì, adesso tenendo a malapena sotto controllo l'indignazione per quell'accusa indiretta. «Se avessi davvero provato solo pietà e compassione per te, saresti rimasto da solo un mese dopo l'incidente,» aggiunse, senza frenarsi.
Tony scosse la testa, come a scacciare quelle parole, per poi arricciare le dita che stringevano con troppa forza i bicipiti e reclinare il capo all'indietro, incontrando il muro di mattoni a vista. Lo vede deglutire con difficoltà prima di aprire di nuovo bocca:
«Non volevo mettere in dubbio niente di... di quanto ci siamo detti,» proferì infine, facendo un notevole sforzo nel selezionare le parole giuste e appaiandole poi con uno sguardo diretto ed eloquente. «Quello che hai fatto tu è quello che vorrei fare anch'io, se non avessi uno stramaledetto reattore che mi sta uccidendo ficcato nel petto,» sbottò poi tra i denti, serrando improvvisamente il pugno e perdendo la patina di compostezza che era riuscito a mantenere fino ad allora. «O se non fossi un robot per metà o se non fossi sfigurato,» aggiunse più piano, con quello che assomigliava molto a disgusto e che causò una rapida, pungente stretta al cuore a Pepper.
Stava cercando di seguire i suoi ragionamenti, più intricati e contraddittori che mai, ma riusciva a malapena a tenere il passo coi propri e non faceva che ritrovarsi in apparenti vicoli ciechi. Tony nel parlare si era scostato dal tavolo ed era evidente che si stesse sforzando di respirare normalmente, ma non sembrava sul punto di un attacco di panico. La guardava a scatti, senza riuscire a sostenere il suo sguardo e continuando a rivolgerle la parte sana del viso e a nascondere la protesi sotto il tavolo. Sembrava che tutto il suo corpo fosse sul punto di accartocciarsi su se stesso per scomparire alla sua vista mentre cercava di mantenere la sua solita posa spavalda.
«Tony,» fece il gesto di alzarsi, ma a quel movimento inaspettato lui si ritrasse ancor di più, stavolta con un lampo di riconoscibile panico nello sguardo, al che lei si fermò spiazzata, rimanendo seduta. «Pensi davvero che il tuo aspetto o il tuo corpo siano un problema per me?» si arrischiò a chiedere con più calma, scegliendo di ignorare quel che le aveva detto subito prima.
Non voleva pensare al reattore, né a quello che stava infliggendo a Tony, né all'orologio invisibile che continuava a ticchettare in sottofondo. E allo stesso tempo, temeva di affacciarsi su quella nuova porta che Tony aveva appena schiuso.
Lui la fissò per la prima volta direttamente e tentennò, le sopracciglia corrugate in un'espressione combattuta. Era ancora seduto in modo da offrire la minor superficie possibile ai suoi occhi, quasi si trovasse in un duello in cui poteva essere ferito da un momento all'altro.
«Tu mi guardi e vedi questo,» asserì poi, puntando il pollice sul reattore. «L'hai detto tu,» aggiunse, con un'alzata di spalle noncurante, ma rigida.
«Non c'entra nulla, adesso,» lo rimbeccò, accigliandosi a sua volta spaesata, ma sentendosi mancare nel sentirsi ritorcere contro le sue stesse parole.
«Ma non l'hai negato,» osservò lui, con mesto trionfo e un sorriso amaro, evitando ancora una volta l'argomento.
«Tony, è così difficile accettare che io tenga a te, così come sei?» sospirò Pepper, poggiando i gomiti sul tavolo che li separava e inspirando poi di nuovo a fondo.
Lui le fece eco, flebilmente, e abbassò ancora lo sguardo. Pepper non riuscì a leggere la sua espressione apatica: era come tentare di decifrare un astratto senza conoscere l'intenzione dell'artista.
«Sì,» mormorò soltanto, dopo un lungo silenzio.
A quel punto sembrò sgonfiarsi come un palloncino e il suo sguardo assunse una sfumatura vacua. Pepper sentì quella risposta sprofondare nel suo petto come un ferro rovente e si trovò a socchiudere gli occhi, come se ciò potesse attutire il colpo.
«Non è quello che vorrei dire, ma è così,» continuò Tony, ora più concitato. «E non so come...» fece un gesto di scoramento con la mano e a Pepper non sfuggì il tremito che scosse la sua voce in quel singolo istante. «Non so cosa fare,» confessò, passandosi la mano sul volto e confondendo le proprie parole.
Quella semplice affermazione risuonò molto più densa di quanto avrebbe dovuto, carica di tutto ciò che Tony aveva sempre taciuto e continuava a tacerle, simile a un minuscolo e innocuo atomo pronto a scindersi e a liberare la sua energia.
«E immagino che anche tu...»
«Tony.» Pepper lo interruppe con fermezza prima che potesse completare la frase. «Io so quello che vorrei fare dal momento in cui sei tornato dall'Afghanistan.»
Lo vide trasecolare e chiudere di scatto la bocca già pronta a ribattere.
«Capisco che per te possa essere difficile da credere, ma è la verità, e non so più come dirtelo,» concluse, senza più nascondere la tristezza che aveva continuato ad accumularsi durante tutta la discussione.
Tony sembrava aver dimenticato come si parlasse, perché se ne stava semplicemente seduto davanti a lei, fissando la mano meccanica ancora celata oltre il bordo del tavolo mentre il suo volto continuava ad essere una lastra piatta e inespressiva. Portò una mano al reattore nel suo solito gesto inquietantemente abituale.
Pepper avrebbe voluto alzarsi e stringerlo a sé, come già aveva fatto altre volte, ma sapeva che in quel momento non sarebbe stata la scelta giusta, non dopo che si era ritratto così inequivocabilmente da lei e averle mostrato delle ferite fino ad allora nascoste. Soppresse l'impulso, nonostante potesse percepire i suoi piedi che scalpitavano per seguirlo e l'orma del suo profumo che le sfiorava il naso, impressa sulla felpa. Stava giusto per aggiungere qualcosa e dare sfogo a uno qualsiasi dei pensieri che si affollavano nella sua testa, ma Tony ruppe di colpo il silenzio, con una voce roca e sforzata che le ricordò spiacevolmente quella che aveva avuto dopo un'ora di pianto ininterrotto:
«Non posso chiederti di raccogliere anche i miei pezzi,» nel dirlo rialzò appena lo sguardo, ora fattosi di nuovo liquido e profondo, anche se ancora distante.
«Dovevamo raccoglierli insieme. Pensavo che fossimo d'accordo,» gli fece notare lei, sollevata per aver infine intravisto un'apertura nello strato di apatia e scoraggiamento di Tony, ma lui scosse la testa in risposta.
«Non risolverebbe nulla di tutto questo,» replicò lapidario, con un gesto quasi stizzito verso di sé, e Pepper riuscì a percepire in quella breve, semplice frase tutta la rabbia e frustrazione che Tony stava reprimendo.
In quel mentre lui si alzò di scatto, facendo leva sullo schienale della sedia quando un'evidente fitta lo colpì, costringendolo a fermarsi sul posto con una mano a coprirsi la bocca.
«Tony? Stai...»
«No, non sto “bene”,» sbottò lui a denti stretti, facendola ammutolire.
Le rivolse un'occhiata colpevole.
«Sono... sono solo sfinito e non mi sembra che stiamo risolvendo nulla,» continuò, con voce sforzata.
«E chiudermi la porta in faccia come hai fatto con Rhodes ti sembra una soluzione?» osservò lei, con freddezza.
Lui sobbalzò a quell'attacco, ma non si scompose:
«Rhodey è un caso a parte... Questa è una decisione ponderata. E soprattutto momentanea,» replicò lui, senza che una sola traccia di turbamento scuotesse la sua voce. «Non sei tu il problema, e credo solo che sia meglio indire un time-out, prima che io finisca per rovinare tutto come al solito,» finì perentorio, avviandosi già verso la propria camera con passi cauti e pesanti.
Pepper non provò a fermarlo né a contraddirlo, ma si portò entrambe le mani al volto accaldato, con la testa sul punto di scoppiare. Si chiese se dovesse dire ancora qualcosa, e se avrebbe avuto alcun senso. Si trovò solo a concordare con lui per quella brusca interruzione. Lo vide bloccarsi sul primo gradino della rampa che conduceva al piano rialzato, stringendo il corrimano e con fare esitante.
«Pepper?»
Lei rivolse stancamente la testa verso di lui, sentendo però un sobbalzo al cuore nel notare il modo in cui la stava guardando – quel modo – e l'accenno di sorriso che si era fatto largo sul suo volto.
«Per quel che vale, oggi è stato davvero uno dei giorni più belli della mia vita,» s'interruppe brevemente. «Inclusi i “fuori programma”,» aggiunse in fretta e in quello che assomigliava molto a una via di mezzo tra uno “scusa” e un “grazie”, prima di salire più rapido che poteva le scale senza guardarsi indietro.
Pepper rimase seduta compostamente finché non sentì lo scatto della sua porta che si chiudeva, poi si lasciò scivolare a braccia conserte sul tavolo, il mento sulle mani e gli occhi che vagavano irrequieti per il loft ora vuoto e fin troppo silenzioso. Iniziava ad essere stanca di permettere agli eventi di seguire il proprio corso e lasciare che fosse il tempo a “risolvere” ogni cosa, quando era quello stesso tempo ad inghiottire ogni sguardo al futuro e a soffocare ogni sentimento che tentava di scaturire tra loro.
Rimase a lungo lì, sola con le sue riflessioni e con gli occhi che cercavano inconsciamente una porta chiusa, con quella tenue fiammella a scaldarla appena, ostinandosi a danzarle nel petto.

***


25 Aprile, Manhattan

Erano le tre di notte passate, quando l'insofferenza superò la stanchezza e Tony si alzò di colpo dal letto, sul quale era crollato senza neanche infilarsi sotto le coperte.
Uscì silenziosamente dalla sua camera, sostando poi sulla soglia nel buio del ballatoio per qualche minuto. Assorbì la quiete che regnava nel loft sottostante e lasciò che placasse a poco a poco i suoi pensieri mentre fissava il salone affacciato sui grattacieli illuminati. Sembravano semplici addobbi appesi alla vetrata, da lì, o delle sagome fittizie e intangibili fissate sullo sfondo di un teatrino. Più fissava quelle luci, più desiderava raggiungerle e immergervisi come qualche ora prima, inebriandosi del vento sferzante e delle vertigini.
Scese le scale e raggiunse la vetrata senza neanche accorgersi che i suoi piedi zoppicanti l'avessero portato fin là. Oltre il vetro, in basso, scorgeva la strada deserta, delimitata dalle luci calde dei lampioni e striata dai fanalini di qualche sporadico taxi di passaggio. Poggiò la fronte sul vetro freddo, cogliendo un fugace riflesso del suo volto, ma spinse lo sguardo oltre la superficie lucida, verso l'orizzonte rischiarato dal riverbero arancio della città. Rimase lì per un tempo che non seppe quantificare, respirando appena e fissando i contorni dei palazzi che venivano offuscati ritmicamente dalla nebbia di condensa sul vetro.
Quasi sperò che quella parete trasparente si dissolvesse di colpo, spinto da un anelito che non avrebbe saputo definire, ma che aveva lo stesso sapore della frizzante aria notturna di New York.




 
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Supernova: *inserire nuovamente musica di Super Quark* Evento che si verifica alla morte di determinati tipi di stelle, che liberano un'enorme quantità di luce ed energia prima di spegnersi, collassare completamente e, in alcuni casi, formare un buco nero.

Note Dell'Autrice:

Salve a tutti!
Spero che abbasserete torce e forconi il tempo necessario per la filippica in mia difesa, perché mi rendo conto che ptorei aver risvegliato più di un istinto omicida in voi poveri lettori con questo capitolo... *para le mani avanti; quelle sue, quelle spaiate di Tony e quelle dei malcapitati di turno*

Vi ricordate la mia insistenza sulle fisime fisiche di Tony? Ecco, puntava tutto a questo, e mi auguro di aver costruito bene le premesse, visto che ho preferito concentrarmi sulle reazioni "a caldo" dei due sciagurati piuttosto che su elucubrazioni mentali troppo elaborate. Ah, il modo "sospeso" in cui discutono è voluto, proprio per contrastare coi vari altri faccia-a-faccia che hanno avuto nel corso della storia. Spero che la scelta di gestire così la scena risulti chiara :)
Un qualcosa che mi premeva molto affrontare ormai da un po' è la questione della salute mentale di Tony, di qui la discussione con Ian. Tony, in modo più o meno esplicito, in Phoenix soffre di depressione, oltre che di disturbo d'ansia. Non sono problemi che solitamente si risolvono con la semplice forza di volontà o con metodi fai-da-te: pur volendo mantenermi IC non mi sono sentita di propagandare un "se ne esce anche da soli" incarnato da un Tony perfettamente equilibrato dopo quello che ha subito (e che si è inflitto). Non potevo farlo andare spontaneamente in terapia, né fargli accettare un aiuto esterno vista la sua sfiducia, ma Ian mi è sembrato un buon compromesso, soprattutto legato alla richiesta di cercare poi aiuto in una figura più specializzata di lui in quel campo.

Termino qui il mio papiro di chiarimenti e rovesciatemi pure addosso insulti dubbi e perplessità, sto qui apposta :) Posso solo dirvi che il prossimo capitolo è risolutivo in molti aspetti finora lasciati in sospeso e che potrete finalmente tirare un sospiro di sollievo. Forse.

Ringrazio infinitamente _Atlas_, che dopo avermi sopportato per anni su EFP ha avuto l'onore di farlo di persona ed è riuscita a non uccidermi per quanto l'ho fatta penare; T612, con la quale è sempre un piacere scambiarsi aggiornamenti e informazioni nerd; Emyclarinet, che con le sue recensioni mi istiga ad essere ancor più cattiva con Tony e spero quindi apprezzerà il capitolo. Un grazie speciale va ad Enigmista96, che ha ripreso a seguire Phoenix dopo anni di assenza e mi ha resa felicissima nel leggere la sua inaspettata e graditissima recensione <3
Grazie di cuore, sapere che seguite sempre e vedere vecchi e nuovi lettori avvicinarsi alla storia mi spinge a dare del mio meglio per concluderla :') <3

E dopo 'sta parentesi melensa, au revoir e a presto! (stavolta davvero)

-Light-

P.S. In tutto ciò, sono ovviamente ancora in shock per Stan Lee :'( Avrei potuto dedicargli il capitolo, ma poi ho avuto un'idea migliore... 'Nuff said!
P.P.S. Il design per la nuova Mark coincide con quello della Mark 33 (Silver Centurion), ovviamente in versione rosso-oro.

 

© Marvel

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Capitolo 45
*** Neutron star ***



44

 

 

Neutron star




"Spend my days cursing my soul
Wishing I could paint my scars to make me whole
Oh, I know I could be better
But my love, I won't give up"

[West Coast – Imagine Dragons]







28 Aprile, Triskelion, Washington D.C., 16:30

Chissà quante volte suo padre si era seduto in quello stesso punto.
Non era un quesito rilevante, né razionale, né in qualche modo fondato: in realtà era molto probabile che quell'ala del Triskelion non fosse neanche esistita, ai suoi tempi. Il pensiero era semplicemente emerso di sua sponte nella sua testa ed era rimasto lì, percepibile ma non invadente, come un discreto invito a prendere in considerazione quella possibilità. Era lo stesso pensiero che lo spingeva a tenere la schiena un po' più dritta e lo sguardo un po' più saldo anche di fronte alla consueta espressione temporalesca di Fury, seduto dall'altro lato della scrivania.
Tony rimase ancora in pacata attesa che fosse lui a parlare per primo, mentre questi sembrava più incline a stilare un catalogo mentale di ogni oggetto presente nel suo vasto ufficio, almeno a giudicare dal modo in cui il suo sguardo saettava qua e là senza fissarsi in un punto in particolare. Tony gettò un'occhiata annoiata verso Washington, sopra la quale svettava la sagoma appuntita dell'obelisco; non sembrava così maestoso, visto dall'altezza considerevole del quartier generale dello SHIELD che dominava l'intera città dalla sua roccaforte sul Potomac. Aveva un vago ricordo della mastodontica struttura ancora in costruzione, quando da ragazzino suo padre l'aveva trascinato di peso nella capitale in uno dei suoi viaggi d'affari per “insegnargli il mestiere”. Di quel viaggio ricordava solo un paio di riunioni noiose, un breve incontro con Peggy, una visita alla Casa Bianca dalla quale si era defilato e un'infinità di paternali di cui aveva rimosso le parole precise, trattenendone solo il tono burbero e di rimprovero per la sua scarsa attenzione e rispetto verso l'eredità di famiglia.
Allora non aveva neanche lontanamente immaginato che quell'eredità gli sarebbe poi piombata tra capo e collo un paio d'anni dopo, né quali legami intercorressero tra lo SHIELD e le Industries né, tanto meno, che a distanza di quasi vent'anni si sarebbe ritrovato lui stesso coinvolto negli “affari” su cui suo padre aveva mantenuto un religioso riserbo. Non era certo che sarebbe stato fiero di come stava gestendo quel retaggio.
Tamburellò con le dita sulla scrivania, in un gesto di lieve impazienza che sperava riuscisse a rompere l'apparente mutismo di Fury, sprofondato nelle sue elucubrazioni mentali da quando gli aveva annunciato, senza troppi giri di parole, della sua intossicazione e di ciò che avrebbe comportato di lì a tre mesi.
Non aveva esattamente pianificato o annunciato quella visita. Era più corretto dire che, dopo un'estenuante udienza in tribunale e uno sgradito colloquio con Stern al Pentagono, si fosse presentato di punto in bianco al Triskelion. Si era rallegrato del fatto che il suo livello d'autorizzazione fosse rimasto immutato, sufficiente a garantirgli l'accesso all'hub centrale e al piano degli uffici prima di essere intercettato da Coulson. Ci erano volute un po' di moine e qualche sguardo implorante per convincerlo a scortarlo da Fury, ma Agente non aveva poi opposto molta resistenza e, dopo il primo momento di sconcerto probabilmente dovuto al suo aspetto provato, l'aveva accolto con insolita vivacità.
Fury non era sembrato dello stesso umore, e Tony era certo che avesse subodorato all'istante come quella non fosse una semplice visita di piacere. Lui stesso, d'altro canto, non si era più preoccupato di rendere credibile la propria maschera gioviale non appena Coulson aveva lasciato l'ufficio. Aveva saltato in toto i convenevoli e, in altre circostanze, si sarebbe anche compiaciuto della reazione spiazzata di Fury al suo lugubre annuncio.
A giudicare dalla pausa riflessiva del direttore, questo non l'aveva previsto.
«Ti devo delle scuse,» proruppe infine questi, rivolgendogli uno sguardo penetrante che Tony sostenne senza esitazioni.
«Risparmiatele,» replicò lapidario, e quelle parole accentuarono le pieghe sulla fronte del direttore. «Non ho bisogno di sentirmi dire che “ti dispiace” solo perché adesso sto morendo. Se davvero avessi voluto scusarti per come mi hai trattato, lo avresti fatto tempo fa,» continuò piattamente, senza però nascondere il proprio risentimento al ricordo dei primi, atroci mesi subito dopo l'incidente.
L'unica risposta di Fury fu un lungo sospiro e un'aggrottata di sopracciglia, ma, invece di alterarsi come avrebbe solitamente fatto per una risposta così impudente, si limitò a scrollare il capo.
«Non insisterò di certo,» stabilì infine. «Quindi? Sei venuto fin qui solo per dirmi questo?» chiese poi, di nuovo burbero e dritto al punto.
Tony incrociò le braccia tirando le labbra in una smorfia obliqua, riluttante a rispondere.
«Avevo alcune faccende legali da sbrogliare qui a Washington, ma sono sicuro che tu ne sia già al corrente.»
Il lieve cenno d'assenso di Fury confermò le sue parole.
«Sembra che sia stata una vittoria su tutti i fronti,» commentò poi, e Tony captò un sottofondo compiaciuto in quell'affermazione, a cui rispose con un sogghigno tetro.
«Magra consolazione,» disse con amarezza. «E comunque, sono ancora colpevole di essere stato Iron Man, almeno secondo Stern,» aggiunse con uno sbuffo seccato.
«Sempre meglio di essere condannato per omicidio,» gli fece notare Fury, dando peso ad ogni parola.
«Probabilmente l'ho ucciso davvero io,» ribatté Tony, serrando appena la mascella in modo involontario, quasi a frantumare l'immagine di Iron Monger che aveva fatto capolino nella sua testa. «Ma penso che riuscirò comunque a dormire la notte,» aggiunse con spavalderia forzata, visto che non riusciva a ricordare l'ultima volta che avesse dormito indisturbato per più di tre ore di fila. «Spero che lo SHIELD riesca a fare lo stesso,» lo provocò poi, ammiccando con complicità.
Fury scelse di non confermare né negare quell'insinuazione, ma il suo unico occhio s'incupì, e Tony si accontentò di quel silenzio carico di sottintesi. D'altronde, non serviva un genio come lui per capire che il suo processo fosse andato a buon fine non solo grazie alla competenza di Kyle, ma anche e soprattutto per le ingerenze dell'Agenzia; senso di colpa, forse, o forse solo molti interessi a garantirsi le sue simpatie a lungo termine – oltre ai suoi finanziamenti. In fondo, gli stava bene così: non aveva mai preteso di giocare ai migliori amici con Fury, né si aspettava che le manovre di quest'ultimo esulassero dai tornaconti personali dello SHIELD. Se il tutto andava a suo beneficio, tanto meglio.
Anche adesso, era sicuro che le rotelle del direttore stessero ruotando a velocità frenetica alla ricerca di un modo per “tappare il buco”, stavolta definitivo, che Iron Man avrebbe inevitabilmente lasciato di lì a poco. E, probabilmente, a uno per mettere le mani sulla sua tecnologia. Per sua sfortuna, Tony aveva già provveduto a salvaguardare con largo anticipo il proprio retaggio nel modo che gli era più congeniale. Sì, suo padre sarebbe davvero stato fiero di lui...
«Hai intenzione di dirlo alla squadra?» gli chiese a quel punto Fury, dirottando sveltamente l'argomento.
«Mi stai chiedendo cosa voglio? A me? Questa sì che è una novità,» Tony finse stupore, portandosi leziosamente una mano al petto a sottolineare il suo sarcasmo.
Fury si mantenne imperturbabile, in pacata attesa di una risposta; Tony respirò a fondo, reclinandosi sullo schienale e girando appena sulla sedia da ufficio.
«Sì,» sospirò dopo un po', più conciliante. «Non vorrei, ma devo,» puntualizzò, poco entusiasta.
«Non sei obbligato,» lo sorprese Fury, con apparente ovvietà.
Quell'offerta di coprirlo si discostava dalla linea d'azione che Tony aveva previsto: nascondere la sua imminente dipartita sarebbe andato a netto svantaggio di una riorganizzazione logistica della squadra in tempi brevi. E forse, anche di un possibile recupero emotivo dei suoi componenti. Non amava soffermarsi su quell'aspetto, che finiva sempre per dividerlo tra la parte di sé che si aspettava un sospiro di sollievo collettivo per la scomparsa del loro membro più inutile, e quella che temeva invece... non sapeva esattamente cosa. Quando ci pensava, riemergevano sempre gli stessi fotogrammi: Bruce che lo sorreggeva e lo incoraggiava, rimproverandolo duramente per essersi lasciato andare; il biglietto che gli aveva scritto Clint una vita fa, ancora custodito in un cassetto; Nataša che lo abbracciava con calore, contenta di vederlo di nuovo in piedi; la delusione di Thor, perché dall' “uomo di ferro” si era aspettato molto di più; Coulson che si metteva in prima linea per lui, offrendogli una seconda opportunità; Rogers che gli stringeva con naturalezza la mano inerte che lui odiava invece con tutto se stesso.
«Preferisco che lo sappiano da me, piuttosto che lo scoprano da un titolo di giornale probabilmente poco lusinghiero,» rispose infine, con la gola improvvisamente secca che gli arrochì la voce.

Non si meritano il mio silenzio,” concluse, ma tenne quella considerazione per sé.
«Potts lo sa?»
Nonostante l'andamento schematico e formale della conversazione, o interrogatorio, vi fu un'insolita delicatezza nel tono in cui Fury pose quella domanda.
«Da mesi,» confessò quindi, sfuggendo per la prima volta il suo sguardo.
Strinse il cellulare nella tasca con la mano meccanica, terribilmente conscio che Pepper non aveva ancora risposto al messaggio in cui le annunciava di
aver fatto progressi per il rilascio della licenza e di essere stato prosciolto dalla maggior parte delle accuse, sebbene fosse ancora lontano da un'assoluzione completa. Forse avrebbe dovuto chiamarla direttamente, ma percepiva un cardiopalma al solo pensiero, considerando gli eventi di qualche giorno prima. Non lo aveva neanche accompagnato al processo, accampando vaghi impegni organizzativi alla Expo. E la presentazione del Progetto Phoenix era ormai dietro l'angolo. Si costrinse ad allentare la presa, o avrebbe finito per frantumare il telefono.
«E il colonnello Rhodes?» lo riscosse ancora Fury, nel chiaro intento di recuperare tutti i vari tasselli di cui era rimasto all'oscuro finora per comporre una panoramica della situazione.
Tony tacque per qualche istante.
«Abbiamo litigato giusto l'altro giorno,» rivelò infine, decidendo di non girarci troppo intorno. «Non sapeva del mio tentato suicidio e non l'ha presa bene quando ho deciso di dirglielo. Né il suicidio, né il fatto di non averlo saputo prima.»
Lo sguardo di Fury si intensificò e lui molleggiò con fare nervoso sulla sedia, la testa incassata nelle spalle.
«Poi l'ho informato dell'intossicazione e l'ha presa anche peggio.» A quel punto alzò appena lo sguardo. «Ha detto che avrebbe preferito saperlo direttamente al mio funerale, piuttosto che scoprire che gli avevo mentito così a lungo. Non so quanto senso abbia, ma immagino che sia quello che mi merito,» concluse, con un sorriso ironico ma tirato.
Fury inspirò rumorosamente dalle narici, quasi stesse per soffiare fuoco e fiamme, fissandolo in modo indecifrabile ma indubbiamente rabbuiato. Probabilmente stava ponderando cosa diavolo dovesse fare di lui, adesso che si era rivelato inservibile.
«Anch'io avrei gradito aggiornamenti più tempestivi,» masticò infine, e in cuor suo Tony gli fu grato per non aver edulcorato il suo fastidio.
Non avrebbe sopportato di sentirsi trattare con i guanti solo in luce delle sue condizioni.
«Tre mesi non sono molti per trovare un rimpiazzo, ma...» cominciò Tony, con consumata disinvoltura, ma fu interrotto sul nascere:
«Un “rimpiazzo”?» sbottò, seccamente. «Cos'è, pensi che possa prendere il primo agente che passa, ficcarlo nell'armatura e sperare per il meglio?»
Tony emise un verso snervato, alzando l'occhio al cielo.
«Buon Dio, no, così mi faresti rivoltare nella tomba,» scosse la testa, sfoggiando un'espressione orripilata. «Stavo per dire che potrei ovviare io stesso all'inconveniente da me creato,» disse poi, poggiando con nonchalance il braccio metallico sulla scrivania.
Colse una scintilla d'interesse nello sguardo di Fury, un chiaro invito a continuare.
«Tanto per cominciare, avrai comunque l'Iron Legion,» esordì, ricevendo un prudente cenno d'assenso in risposta. «Il progetto è ultimato, ho il primo prototipo pronto e sono sicuro che ne farai buon uso. Poi, ho qualche altro progettino in cantiere...» sfoderò il cellulare e lo poggiò sul tavolo in mezzo a loro, attivando un ologramma con dei tocchi veloci e precisi.
Il modello 3D di un'armatura si materializzò nel cono azzurrino, e Fury si fece corrucciato.
«Questa sarebbe la soluzione?» interpretò poco convinto. «Un restyiling completo dell'armatura con qualche cannone in più?» lo incalzò, ruotando qua e là il modello con un dito mentre esaminava con scetticismo le aggiunte ed evidenti modifiche.
«Progetto War Machine,» enunciò lui, stringato. «L'idea di un'armatura guidata a distanza si è arenata,» confessò con lieve disappunto. «Ci serve ancora un elemento umano, quindi ho pensato che, se cambia la persona all'interno, sarebbe stato meglio distanziare l'armatura dalla vecchia immagine associata a me,» spiegò pragmaticamente. «E poi, Rhodey odia il rosso-oro,» aggiunse con un sorrisetto furbo, compiacendosi dello smarrimento di Fury a quelle parole.
«Credevo aveste litigato,» tentò poi di raccapezzarsi, facendo uno sforzo invidiabile per mantenere la sua aria compassata.
«Non sono nella posizione di poter fare lo schizzinoso ed è l'unica persona a cui passerei il testimone. Il fatto che in questo momento mi detesti è secondario,» replicò lui, senza battere ciglio.
«E lui è al corrente di questa tua decisione?»
«Sì...» Tony guardò ostentatamente il suo orologio da polso e alzò un sopracciglio. «... da circa un paio d'ore, ad essere precisi,» concluse soddisfatto, esibendo un sorriso disarmante.
Fury scosse la testa con fare rassegnato, guardandolo con l'aria di un vecchio preside che scruti con rimprovero un discolo finito per l'ennesima volta nel suo ufficio.
«Dovrò vagliare la proposta, possibilmente discutendone di persona anche con Rhodes,» dichiarò poi. «Nel frattempo, gradirei che non ne facessi parola con la squadra,» si raccomandò, con uno sguardo intimidatorio.
«Sissignore,» gli fece il verso lui. «Quindi ho il permesso di incontrarli?» chiese, con un velo d'ironia.
«Barton e Romanov sono già qui per fare rapporto. Posso convocare gli altri per una riunione straordinaria entro la prossima settimana,» stimò infine, intrecciando le mani sulla scrivania.
«Fallo entro domani,» gli intimò asciutto Tony, facendo leva sul bastone per alzarsi in piedi. «Come avrai intuito, non ho tempo da perdere.»


***


29 Aprile, Triskelion, 15:30

La mano nel petto gli stava comprimendo i polmoni, lentamente, un centimetro alla volta. Non lo diede a vedere e continuò a prendere piccoli respiri superficiali, schiudendo appena la bocca per permettere all'aria di filtrarvi quel tanto che bastava per non andare in ipossia. Tentò di traslare quel flusso al naso, sperando di liberarsi di quella morsa, ma tutto ciò che ottenne fu una contrazione spastica del diaframma e un singulto che riuscì a soffocare quasi del tutto. Catturò comunque l'attenzione di Coulson, che gli rivolse uno sguardo da sopra la spalla mentre frenava appena i suoi passi elastici.
«Tutto bene?»
Si concentrò per costringere l'aria a muoversi e far vibrare le corde vocali, dove si era impigliata in un bolo soffocante. Tirò un sorrisetto disinvolto.
«Sì,» spezzò infine quel lucchetto immaginario e si trattenne dall'inalare troppo apertamente una boccata d'ossigeno. «Solo panico da palcoscenico,» sdrammatizzò, pungolandolo dispettosamente col bastone tra le scapole per sospingerlo.
Coulson emise un mezzo sospiro indecifrabile e coprì gli ultimi metri che li separavano dalla sala riunioni. Gli fece cenno di entrare, già pronto a tornare alle sue occupazioni, ma Tony esitò. L'agente si accigliò, sospettoso come sempre, e prese a scrutarlo da capo a piedi quasi fosse in cerca di un segno rivelatore per giustificare quell'improvvisa titubanza
«Se vuole assistere...» esordì Tony, quasi distrattamente, e l'Agente scrollò le spalle.
«Non ne ho bisogno,» declinò concisamente, inclinando le labbra in un sorriso gentile ma venato di tristezza.
«Fury e la sua “discrezione”... dovevo aspettarmelo,» commentò Tony, scuotendo appena la testa, senza rancore.
«Buona fortuna, Stark,» si congedò Coulson con un lieve cenno del capo, per poi superarlo e allontanarsi senza fretta.
«Grazie, Agente,» replicò lui a mezza voce, senza girarsi e con lo sguardo appuntato sulla maniglia.
Sperò che l'avesse sentito.
Si assicurò di aver riconquistato il controllo dei propri polmoni prima di aprire la porta, trovando un tenue conforto nel fatto che almeno il panico poteva provare a gestirlo, al contrario dei sintomi dell'intossicazione. Si trovò a ringraziare per l'ennesima volta il dilitio e i suoi effetti benefici e lenitivi.
Una sfilza di saluti decisamente più calorosi di quanto si fosse aspettato accolse il suo ingresso, e percepì un sorriso spontaneo disegnarsi sul suo volto, mentre il peso nel petto si alleggeriva.
«Quanto entusiasmo,» commentò con fare compiaciuto, cercando di mantenersi impassibile senza troppo successo. «Per gli autografi dovete mettervi in fila,» aggiunse poi, sfoderando un mezzo ghigno tronfio.
«L'avevo detto che avrebbe ritrovato il suo ego,» lo punzecchiò Nataša, rivolta ai suoi compagni mentre gli scoccava al contempo un'occhiatina ironica.
«E su quali dati avresti basato questa tua supposizione?» Tony s'imbronciò platealmente, fermandosi di fronte a lei con un mezzo sorrisetto trattenuto. «Dopotutto, non mi sembra di averti più vista dalle mie parti... sono quasi offeso, Romanov,» recitò, incrociando le braccia sul petto.
«Non volevo interrompere la “luna di miele”,» replicò lei, con un sorrisino eloquente che gli fece alzare l'occhio al cielo, causandogli anche un lieve vuoto allo stomaco mentre coglieva quegli idioti di Clint e Bruce sogghignare sotto i baffi.
«E tu che mi dici di un certo Capodanno a Times Square?» contrattaccò prontamente, accendendo un lampo omicida nei suoi occhi e facendo trasalire Bruce.
«Stark, così come ti ho rimesso in piedi, ti stendo,» ribatté glaciale, ma con un tocco divertito nella voce.
«Un Capodanno a Times Square?» cadde dalle nuvole Steve, e spostò gli occhi tra lei e Bruce, ora paonazzo, per poi alzare confuso le sopracciglia.
«Rogers, se hai perplessità sulla storia della cicogna, sono certo che potrai trovare qualcun altro a cui chiedere,» si tirò fuori Tony, rivolgendogli uno sguardo inorridito che provocò un sonoro sospiro da parte sua.
«Possiamo tornare al motivo della riunione?» sbottò acuto Bruce, il cui volto sembrava lampeggiare ora di rosso, ora di verde, come se fosse indeciso se sprofondare nell'imbarazzo o ridurli in poltiglia.
«Permesso accordato,» ridacchiò Tony, accomodandosi al tavolo delle riunioni, di fronte a lui e tra Nataša e Clint.
Steve era seduto a capotavola; mancava solo Thor, che era stato trattenuto ad Asgard per qualche bega causata dal fratello alla corte di Odino.
Tony volle godersi quel singolo istante di tranquillità, fingendo di essere anche lui all'oscuro del motivo che li aveva fatti riunire, e lasciando che quel senso di leggerezza che non provava da tempo si dilatasse per ancora qualche secondo.
«L'unico “motivo” di cui mi sento di discutere adesso è quell'orrore,» esordì poi puntando il bastone verso Steve, che si indicò a sua volta sbarrando gli occhi come un qualche animaletto abbagliato dai fari di un'auto.
«Questo?» chiese conferma, pizzicando appena il tessuto sintetico della nuova, discutibile tuta tricolore che indossava, probabilmente un surrogato di quella ormai usurata che lui gli aveva fabbricato tempo addietro. «Cos'ha che non va?» si accigliò.
«Più o meno tutto... ma ho visto di peggio,» gli concesse poi, fingendo magnanimità. «Non spesso, però,» tossicchiò poi, schiarendosi la gola e suscitando un risolino strozzato da parte di Clint.
«E quella, allora?» ribatté Rogers, additandolo a sua volta.
«Io sono giustificato, sono qui in campagna promozionale,» annunciò, mettendo in bella vista il logo sulla maglietta della Expo che indossava sotto la giacca informale. «Biglietti gratis per tutti!» esclamò gioviale, allargando teatralmente le braccia e ritardando ancora le domande, e le discussioni, e tutto ciò che stava per piombargli addosso.
Per ora, tutto ciò che lo raggiunse fu un lieve scappellotto di giocoso rimbrotto da parte di Nataša.
«Abbiamo visto l'inaugurazione in diretta,» intervenne a quel punto Clint. «Sembra che il Futurista sia tornato sul serio,» continuò poi, in un'osservazione quasi casuale che allargò però il sorriso sul volto di Tony.
C'era qualcosa di terribilmente doloroso e allo stesso tempo toccante, nell'immagine della sua squadra al completo che assisteva a quell'evento, al punto che non seppe come rispondere e si limitò ad annuire non fidandosi della propria voce, pronta a rompere quell'illusione di calma. Percepì lo sguardo di Nataša su di sé, come se avesse percepito in qualche modo il suo turbamento, e si strinse nelle spalle quasi a ripararsene.
«Hai usato l'armatura,» proseguì a quel punto Bruce, più allegro di quanto l'avesse visto ultimamente. «Anche Iron Man è pronto a tornare?»
Dal modo in cui pose la domanda, si intuiva come la ritenesse quasi superflua, come se un diniego non fosse neanche contemplato tra le opzioni. Tony avvertì la sua bocca farsi improvvisamente secca, mentre la risposta spiritosa che era stato sul punto di dare gli si incastrava in gola.
«In verità, sono qui per formalizzare il mio ritiro dal Progetto Vendicatori,» disse d'un fiato, senza soffermarsi a pensare e lasciando scorrere via le parole in una sequenza monocorde.
Un silenzio attonito e quattro paia d'occhi sgranati ricambiarono quella rivelazione. Se avesse potuto, Tony sarebbe tornato indietro di dieci secondi esatti e avrebbe dato tutt'altra risposta per passare un'altra mezz'ora in chiacchiere inutili e piacevoli. A pensarci bene, se avesse potuto, sarebbe tornato ben più indietro di soli dieci secondi.

Ormai il danno è fatto,” si rassegnò, senza degnarsi di focalizzare quella considerazione sul momento corrente.
«Ma che stai dicendo?» 
Steve fu il primo a riprendersi, e sembrò pronto a balzare in piedi, come sempre quando si agitava o non capiva al volo qualcosa.
«Mi hai sentito,» rispose Tony, più duramente di quanto intendesse. «È per questo che Fury vi ha convocati d'urgenza.»
«Tony, quello che vuoi fare non ha senso,» scosse la testa Bruce, faticando ad articolare le parole. «Dopo tutto quello che...»
«Credi che dipenda da me?» ribatté lui, senza trattenere un moto di stizza quando si inclinò all'indietro sulla sedia, raccogliendo le energie per quel confronto che, lo sapeva, l'avrebbe sfiancato.
«E da cosa, allora?» lo incalzò Nataša, ancora pacata, ma con gli occhi che guizzavano nervosi qua e là.
«Ho qualche problema di salute,» riuscì a confessare infine, e si chiese perché ci stesse girando così tanto intorno.
Con Pepper era stato più facile. O forse, con Pepper poteva concedersi di mostrarsi come Tony e non solo come Iron Man.
«Pensavo che avessi risolto con...» iniziò Clint, perplesso.
«Non mi riferisco a queste,» Tony picchiettò appena il bastone contro la protesi della gamba, producendo un tintinnio che risuonò nella sala. «Diciamo che la mia batteria non funziona più tanto bene e mi sto... scaricando.» 
Diede una pacca sbrigativa al reattore, nascondendosi dietro alle sue solite metafore, e lesse l'improvvisa confusione sui volti dei suoi interlocutori, insieme a un'ombra di consapevolezza, un tenue sospetto che nessuno sembrava però voler esternare. Si fece forza, e scostò il colletto della t-shirt, rivelando il reticolo scuro sottostante col medesimo gesto che aveva compiuto mesi prima; quella fumosa consapevolezza si cristallizzò, tramutandosi in un doloroso sconcerto.
«Intossicazione da palladio,» spiegò quindi. «Uno degli svantaggi di avere una lampadina nel petto come super potere,» sospirò e lasciò andare la stoffa. «Finora la ricerca di soluzioni non ha dato esattamente i suoi frutti, ma...»
«Tony?»
Nataša lo interruppe chiamandolo per la prima volta in vita sua per nome – quella nuova tendenza da parte di chi lo circondava iniziava seriamente a spiazzarlo – in modo sorprendentemente allarmato e fissandolo con occhi più grandi, verdi e inquisitori del solito.
«Cosa stai cercando di dirci?»
Quella sua improvvisa titubanza gli suonava estranea, quasi forzata, per una spia del suo calibro; il fatto che cercasse comunque una qualche ritrattazione da parte sua lo dissuase dal provare a mentire riguardo alle sue reali condizioni.
«Che sono qui per... per salutarvi, o qualcosa del genere,» rispose piano lui, con un mezzo sorriso mesto che andava a celare la pressione di quelle parole che sembravano pesargli sul volto, irrigidendone i tratti. «Ci tenevo a dirvelo di persona,» concluse, abbassando lo sguardo e aspettando una reazione alla quale non si era veramente preparato.
Come sempre, non metteva mai in conto le conseguenze delle sue parole: si limitava a liberarle e ad accendere la miccia, sperando che il tutto non gli esplodesse in faccia. Non era sicuro che il Doc intendesse esattamente questo, quando gli aveva suggerito di “mettere qualche punto fermo”. Dapprima aveva trovato ridicolo quel proposito, emerso durante una delle loro chiacchierate. Poi si era reso conto di averne un bisogno quasi spasmodico. Il primo tentativo con Rhodey era stato fallimentare, e non riusciva ancora a credere di aver mandato in pezzi un'amicizia durata più di vent'anni. Erano serviti quei giorni in trasferta a Washington, lontano da Pepper, da Rhodey, dalla Expo e da una città traboccante di ricordi, per fargli apprezzare davvero i benefici del rimanere da solo coi propri pensieri. Faticava comunque a ritrovare l'ottimismo che si era ripromesso di mantenere fino alla fine ma, d'altra parte, non poteva neanche mentire alla squadra dicendo con sicurezza che sarebbe andato tutto bene. Quella era una bugia che prima o poi avrebbe dovuto smettere di raccontarsi, ma non era quello il momento giusto per farlo.

Va ancora tutto bene,” si rammentò, impedendo al proprio respiro di tradirlo proprio adesso. “Ho ancora tempo,” continuò, in quel mantra insensato che aveva però il potere di calmarlo.
Rialzò lo sguardo, trovando davanti a sé un solido muro d'incredulità che mise a dura prova la sua compostezza, ma che si impegnò a infrangere:
«Ehi, non pensavo bastasse così poco a commuovervi,» scherzò, con un gesto della mano come a scacciare quell'aria negativa che sembrava comprimerli. «Per ora sto bene, non c'è bisogno di fare quei musi lunghi,» riprese il discorso, con brio in parte forzato, in parte reale.
Si sentiva veramente molto meglio dopo quell'iniezione di dilitio e abbastanza in forze da poter fare tutto ciò che voleva, incluso scherzare sulle proprie condizioni di salute, almeno in pubblico.
«Stark...» la voce di Steve recava in sé una traccia di commiserazione così palese che a Tony quasi non saltarono i nervi, ma si spalmò una cortina ironica in faccia e si costrinse a non reagire in malo modo.
«Capitan Ghiacciolo, non dirmi che stai per scioglierti in lacrime, quello potrebbe veramente uccidermi,» si lagnò, cercando con lo sguardo il supporto dei suoi compagni, che però sembravano occupati a trovare una reazione consona al suo annuncio.
Si fece un po' più serio, rendendosi conto che l'espressione addolorata del Capitano si rifletteva anche sul volto degli altri, con vari gradi d'intensità. Si mosse a disagio al proprio posto, rimproverandosi mentalmente: che si era aspettato?
In cuor suo, forse aveva sperato che gli eroi più forti della Terra fossero in qualche modo anche meno toccati da eventi simili – meno umani – o che ignorassero la cosa, o la svalutassero come un problema minore che non li riguardava. Forse così avrebbe avuto modo anche lui di ridimensionare tutto ciò che sentiva incombere su di lui.
«A cosa devo tutta questa empatia?» commentò con forzata impassibilità, sentendosi invadere da un senso di calore per quell'evidente preoccupazione nei suoi confronti, ma anche percependo una profonda frustrazione.
La reazione giusta sarebbe stata accettare il suo ritiro come un qualcosa di sensato e tanti saluti ad Iron Man. Porte chiuse, punti fermi: non sarebbe dovuto essere così difficile ottenerli.
«Sei un membro della squadra,» intervenne Clint, nel suo solito tono piatto che lasciava però trapelare un'ombra di turbamento.
«Sei un amico,» lo corresse Bruce, che aveva continuato a fissare il pavimento fino ad allora, rigidamente a braccia conserte come se stesse cercando di trattenere il proprio corpo pronto ad esplodere.
«E tu sei arrabbiato,» ribatté Tony con più serietà, accennando al suo orologio da polso che segnava dei battiti cardiaci fuori norma.
«Lo sono sempre,» alzò le spalle lui, per poi sospirare con irritazione. «Capisco perché tu non ce l'abbia detto prima, ma avremmo potuto aiutarti,»
«Ne dubito,» lo rimbeccò lui, bruscamente. «Cerco una soluzione e un'alternativa al palladio da quasi un anno e...»
«Non intendevo quello, Tony,» Bruce scosse la testa, infastidito.
«Lo so,» scandì lui, con un tremito nella voce. «Non sono un idiota, nonostante tutti continuino a pensarlo,» sbottò, irritandosi repentinamente. «Ma non volevo coinvolgervi per evitare di scatenare ciò che sta succedendo adesso, ovvero l'avvicinarsi di una compassionevole festicciola di piagnistei perché, oh, che dispiacere, Tony Stark si è finalmente deciso a morire davvero
Il gelo calò nella stanza, nonostante l'aria attorno a loro sembrasse sfrigolare per la tensione improvvisa. Tony si prese la radice del naso tra le dita, immettendo più aria nei polmoni contratti e brucianti e sentendosi comunque pronto a esplodere di nuovo.
«Tony, nessuno vuole che tu muoia.»
Steve pronunciò quelle parole con una naturalezza e una traccia di infantile sconcerto tali da indurlo a trarre un altro respiro profondo per non lasciarsi sfuggire una replica sferzante. Era sull'orlo del vortice e non capiva neanche come ci fosse arrivato; eppure era diventato abile a sottrarsi al panico, e ancor più a impedire che quell'ombra densa e costante che si portava appresso lo ghermisse a tradimento, spremendo fuori dalla sua mente ogni sprazzo di positività.
Lanciò uno sguardo ai suoi compagni e percepì il loro disagio e la loro confusione, ma anche, gli sembrò, disprezzo e delusione: era sempre lui l'anello debole che rischiava di far sfaldare tutta la catena. Represse quei ragionamenti, perché sapeva che provenivano dal vortice, ma una particella di dubbio continuò ad aleggiare nella sua testa, e lui ad oscillare sul bordo, incapace di tirarsi in salvo.
Gli si era inceppato il meccanismo interno, quello inserito in qualche parte recondita nel suo corpo che gli permetteva di andare avanti, di essere se stesso. Era come se non fosse più lui a parlare, o muoversi, o pensare. Rimaneva solo un riflesso evanescente, sbiadito e apatico. Non erano suoi quei pensieri, quella rassegnazione; sembrava semplicemente che li captasse da qualcun altro nell'etere, ritrovandoseli in testa senza sapere cosa farsene, o se fossero davvero suoi. E quel meccanismo rimaneva bloccato, stridendo inutilmente nel tentativo di riprendere a girare. Voleva sbloccarlo con tutte le sue forze. Voleva tornare a respirare aria pura, a muoversi liberamente, a volare, a combattere, a stringere Pepper a sé senza sentirsi incompleto. Mai come in quel momento aveva il bisogno di “mettere dei punti fermi”.
Fece per rispondere, ma si rese conto di non riuscire a formulare alcuna parola arguta per farlo.
«Neanch'io voglio,» gracchiò infine, lasciando svanire il suo primo, superficiale strato d'indifferenza e sfuggendo i loro sguardi. «Per questo mi sto fidando di voi,» continuò, deglutendo a fatica. «Ho solo bisogno di qualcuno che mi copra le spalle mentre sistemo questo casino,» concluse in fretta.
«Finché non tornerai,» completò Bruce, fissandolo con un fare a metà tra lo speranzoso e l'intimidatorio.
Tony guardò ciascuno di loro negli occhi, soppesando quella possibilità che gli era sempre sembrata uno spiraglio lontano e pronto a richiudersi, per poi realizzare che voleva crederci con tutto se stesso.
«Finché non tornerò,» concordò, tenendo aperto quello spiraglio.


***


29 Aprile, Manhattan, 22:30

Lo squillo del campanello lo colse impreparato. Era sicuro che Pepper si sarebbe fermata a dormire fuori, e il fatto che fosse invece di ritorno gli causò un lieve picco d'ansia, considerando che non si vedevano dall'inaugurazione. D'altronde, che bisogno aveva di suonare, se aveva libero accesso all'appartamento?
Lo squillo si ripeté, fugando il dubbio che fosse stato solo un parto della sua mente esausta. Distolse l'attenzione dalla tv e si forzò in piedi, zoppicando poi verso la porta e rinunciando a recuperare il bastone rotolato sotto il tavolino. Ignorò ogni norma di sicurezza e buonsenso, preoccupandosi solo che il pigiama andasse a coprire totalmente i segni dell'intossicazione, e aprì la porta senza controllare chi fosse l'inatteso visitatore notturno.
Quasi perse l'appoggio della gamba sana nel ritrovarsi di fronte a Rhodey, serio e compito sulla soglia, con le mani giunte in grembo quasi fosse sull'attenti. Tony trasecolò ancora qualche istante, mentre il suo sarcasmo di solito estremamente reattivo arrancava per tenere il passo con la situazione.
«Non ho ordinato nulla a domicilio,» sparò, fingendo rammarico. «Quindi, se vuole lasciarmi alle mie occupazioni notturne le sarei più che...»
Rhodey sospirò così sonoramente da farlo interrompere.
«Sei uno stronzo,» dichiarò, e prima che potesse rispondere a tono, fu attratto da lui in un abbraccio tanto impacciato quanto energico.
S'irrigidì per un singolo istante, percependo mille sensori d'allarme che scattavano all'unisono per quel contatto inaspettato, ma li mise a tacere con foga, e ricambiò con qualche istante di ritardo, altrettanto goffamente.
«E te ne accorgi ora?» bofonchiò divertito, tremando appena per il sollievo di rivedere il suo migliore amico. «E poi, non sono io quello che ha detto...»
«Lo so quello che ho detto,» si affrettò a troncarlo l'altro, dandogli una pacca sulla schiena per poi lasciarlo andare con sguardo contrito, una mano ancora sulla sua spalla. «Mi dispiace. Non ero lucido,» ammise, e Tony notò come i suoi occhi scattarono fugaci verso il reattore.
Fu grato che non fosse visibile, sebbene la luce azzurrina trapelasse fiocamente sotto la stoffa scura. Rimase in silenzio per qualche istante, con le parole della loro precedente discussione che gli rimbombavano in testa. Avrebbe potuto rinfacciargliele e spintonarlo via, ma il timore di non poter avere un'altra occasione per rivederlo mise a tacere quel proposito.
«Adesso che abbiamo concluso i saluti strappalacrime, vorrei evitare che mi si congeli il piede che mi rimane,» osservò, accennando alle piante nude sul pavimento di marmo gelido. «Quindi, se vuoi accomodarti...» si fece da parte, invitandolo con un gesto del capo.
Rhodey sembrò sorpreso da quella sua reazione, forse aspettandosi più freddezza, o più sarcasmo, o semplicemente distacco come aveva fatto in precedenza e in più occasioni, poi lo superò con poche, ampie falcate. Tony chiuse la porta alle sue spalle e optò per sedersi su uno dei vicini sgabelli della penisola, piuttosto che sul divano, visto che la protesi inferiore gli stava ricordando di non essere proprio in piena forma. Rhodey notò quella deviazione e sembrò sul punto di commentarla, ma si trattenne visibilmente. Tony gli scoccò un'occhiata penetrante, prima di lasciar andare un sospiro esasperato.
«Rhodey, sto bene,» puntualizzò, lasciando ondeggiare appena il piede meccanico nel vuoto. «Penso di averlo ripetuto più volte in una settimana che in tutta la mia vita,» aggiunse poi, poggiando il gomito sul tavolo in una posa svogliata.
Rhodey in tutta risposta scosse la testa e si sedette sullo sgabello accanto al suo, voltandolo poi verso di lui.
«Ti rendi conto di non essere credibile, vero?»
Tony tirò le labbra e si limitò ad allungarsi sul piano per afferrare una borraccia di clorofilla, prendendo poi a sorseggiarla con la massima disinvoltura.
«Potrei stare peggio,» borbottò poi, in automatico e senza troppa convinzione.
Si premurò di sistemarsi la maglietta che era scivolata troppo in avanti, scoprendo una porzione dell'intreccio violaceo sottostante; sapeva che Rhodey l'aveva comunque adocchiato, così come aveva sicuramente notato il suo deperimento.
«Vuoi spiegarmi?» lo incalzò a quel punto l'amico, e il suo tono insolitamente pacato gli fece chiedere se l'avesse mai visto così teso in vita sua, lui che di solito non ci pensava due volte a mandarlo a quel paese quando gli faceva perdere le staffe.
«È una storia lunga,» svagò Tony, pur consapevole che esigere delle spiegazioni riguardo a tutto ciò che gli aveva rivelato fosse lecito.
«Mi accontento anche di un riassunto,» ritrattò Rhodey, quasi ad attenuare la sua richiesta.
«Hai così tanta fretta di andar via?» evitò di rispondere lui.
«Sapevo che avrei dovuto cavarti fuori ogni parola con la forza,» si scoraggiò l'altro.
«Non vedo il motivo di tenermi altri segreti.» Tony bevve un altro sorso di clorofilla, a prendersi una breve pausa, poi ripose la borraccia ormai vuota per sostituirla con un bicchier d'acqua. «A quale puntata delle “Mirabolanti Avventure di Tony Stark” sei rimasto?»
«Al “sono un idiota che mente al mio migliore amico”,» replicò secco Rhodey, e Tony si lasciò sfuggire un mezzo sorrisetto amaro nel veder riemergere l'indole intransigente di Rhodey.
«Ti beccherai quel riassunto a breve,» temporeggiò lui, suscitando un lieve fastidio sul volto dell'amico. «Tu, piuttosto, cosa ti spinge a bussare alla mia porta a quest'ora indecente? A parte la sete di conoscenza, intendo,» rivoltò poi il discorso, indicandolo con un guizzo furbo della mano.
Rhodey si accomodò sul suo sedile e intrecciò le mani sul tavolo, come faceva sempre quando si trovava in una posizione che riteneva difficile. Tony attese pazientemente la risposta, anche se aveva un tangibile presentimento sui motivi che potevano aver fatto cambiare idea a una testa dura come Rhodey in modo così repentino.
«Fury mi ha convocato per discutere del progetto War machine,» disse infatti, e Tony abbassò lo sguardo al bicchiere che teneva in mano, improvvisamente concentrato a seguirne i rilievi coi polpastrelli.

Non ha davvero perso tempo,” osservò tra sé, indeciso se ritenersi compiaciuto o meno per quella solerzia nei suoi confronti.
«E?»
«E ho rifiutato.»
«Rhodey...»
Tony si abbandonò sullo schienale, con l'impressione di potersi liquefare e scivolare a terra in una pozzetta di scoramento da un momento all'altro, mentre il sollievo che si era aspettato di provare si convertiva in uno stringente nodo d'ansia.
«Non se ne parla, Tones. Non ho alcuna intenzione di prendere il tuo posto; al massimo potrò affiancarti in futuro, se ancora vorrai,» continuò serratamente.

In futuro,” pensò lui tra sé con disfattismo, scoccandogli uno sguardo incredulo, e Rhodey lo sostenne senza alcuna esitazione.
«Non so se essere commosso o arrabbiato,» sbottò poi, poggiando la fronte al palmo della mano. «Mi farete diventare pazzo. Tu, Fury, la banda di stramboidi e Pepper,» sbottò con incontenibile frustrazione.
«Perché ci preoccupiamo per te?»
«Cos- No! Cioè, sì, anche per quello!» s'infervorò lui, agitando le mani. «Fury si scusa con me, i Vendicatori non vogliono che me ne vada, tu mandi all'aria i miei buoni propositi per non rendere inutile tutto ciò che ho fatto e Pepper non...» incespicò, costretto a riprendere fiato e incapace di formulare qualsiasi pensiero coerente riguardo a lei.
Rhodey gli rivolse uno sguardo inquisitore.
«Non mi dire che avete litigato di nuovo.»
«Non esattamente. In realtà siamo... come dire...» roteò la mano in un gesto vago, come se bastasse a spiegare tutto.
«Ti prego, dammi la notizia che aspetto da dieci anni,» quasi lo implorò Rhodes, mettendo per un attimo da parte tutto il resto.
Tony si rifugiò dietro un sorrisetto poco convincente.
«È successo quel che è successo,» lo sviò, senza soddisfare la sua curiosità. «Ma il... tempismo è pessimo, come puoi intuire,» articolò evasivo.
Rhodey incrociò le braccia e lo fissò severamente, come se stesse cercando di risolvere un puzzle particolarmente complesso da cui mancavano però un paio di pezzi. Poteva quasi vedere le sue rotelle girare cigolando dentro la sua testa.
«E quindi?» proferì dopo qualche secondo di attento ragionamento. «Lasci che vada tutto a monte?»
«L'alternativa qual è? Morirle tra le braccia?» scattò Tony, facendosi caustico, e si pentì delle sue parole nel vedere l'espressione sempre immutabile dell'amico rattristarsi appena.
«L'alternativa è fare quello che volete fare da una vita,» ribatté calmo, pur con la mascella contratta che sembrava dover tenere a bada i suoi occhi ora lucidi. «E spero davvero che lei non ti senta mai dire qualcosa del genere, considerando quello che le hai fatto passare l'anno scorso,» aggiunse più duramente.
«Quello è esattamente il motivo per cui voglio tenerla lontana,» s'intestardì lui, puntando un indice contro il tavolo a sottolineare il concetto. «Pensi che altrimenti esiterei?» si lasciò sfuggire poi, con un'incertezza fin troppo marcata.

Esiterei?” si chiese in risposta quella vocina che gli strisciava in testa, ricordandogli del ferro, e delle cicatrici, e delle ferite che potevano riaprirsi al minimo tocco.
«Tony, vuoi darti una svegliata?» sbottò Rhodes, improvvisamente accalorato. «Piantala di trovare scuse: ci siete entrambi dentro fino al collo, a prescindere da come stai o cosa hai fatto! Ti sta accanto da mesi, le hai affidato l'azienda... vivete insieme, maledizione, per quanto vuoi fare finta che...»
«Ci sono dei limiti, Rhodey,» replicò piano lui, in un tono molto più calmo di quanto non si sentisse lui stesso; si strinse d'istinto il ginocchio della protesi.
«Sei tu a importeli,» lo rimbeccò l'amico, senza cedere di un passo.
«Non penso proprio,» ribatté lui, con veemenza. «Non me li sono scelti io, questi “limiti”,» proseguì, alzando il braccio meccanico con fare esplicativo, per poi interrompersi di colpo nel realizzare cosa avesse appena rivelato.
Rhodey sembrò momentaneamente spiazzato dal modo in cui la discussione era scivolata dall'ambito metaforico a quello fisico, a riconfermargli che nessuno era mai stato sfiorato dal pensiero che lui, Tony Stark, potesse avere un problema col proprio corpo.
«No, ma hai scelto di vederli come tali,» si riprese l'amico, con considerevole prontezza. «Quelle dovrebbero ricordarti che li hai superati, piuttosto. E pensi davvero che a Pepper interessi come sei fatto?»
Tony poté percepire chiaramente una vampata di calore risalirgli al volto, subito interrotta da un velo di sudore gelido e dalla sensazione che il suo intero corpo fosse stato prosciugato di ogni goccia di sangue. Perché stavano parlando di quello? Rhodey non era venuto a rimproverarlo per avergli mentito? Iniziava a desiderare di non aver mai aperto la porta.
«Ha detto di no, ma...» iniziò in tono stanco, quasi distratto, volendo solo disconnettersi dalla realtà.
A quel punto fu convinto che Rhodey fosse sul punto di mettergli le mani addosso e porre fisicamente fine alla loro amicizia, visto che quasi scattò in piedi all'istante.
«Te l'ha detto? Esplicitamente?» lo incalzò, pressante.
Tony fece solo un breve cenno d'assenso, percependo di nuovo quel pesante senso di spossatezza a cui iniziava a fare l'abitudine che si adagiava sulle sue spalle.
«E... e non ci credi?» cercò di raccapezzarsi Rhodey, sempre più sconcertato.
«Sì, ma non è così semplice,» mormorò lui, sentendosi distante, ancora una volta costretto a specchiarsi nel vortice e a trovare un'immagine che non gli corrispondeva a ricambiare il suo sguardo. «Ci sto provando,» continuò, con voce spenta. «Ci sto provando e non so se ci riuscirò in tempo,» confessò poi, sentendo i muscoli contrarsi e le parole trapelare appena dalla sua mascella serrata.
Rhodey sembrò finalmente a corto di parole e Tony lesse nei suoi occhi la paura che aveva cercato di tenere a bada fino a quel momento, emersa senza preavviso. Cercò di cavarsi fuori di bocca qualche parola rassicurante, ma Rhodey lo anticipò e si alzò piazzandosi di fronte a lui, improvvisamente rianimato:
«Lo sai che ti dico?» esordì con fare perentorio, nonostante la sua voce tremasse sensibilmente. «Che avevi ragione: la depresso-mobile è una rottura di palle,» sbottò, puntandosi le mani sui fianchi e facendogli alzare un sopracciglio perplesso in risposta.
«Ecco, quando dico che non hai un briciolo di sensibilità è a questo che...»
«... quindi adesso sali sulla mia spasso-mobile senza fare storie e...»
«Piantala, non fai ridere,» protestò lui, scivolando poi giù dallo sgabello e trattenendo al contempo una risatina traditrice.
«... e ti ricordi chi cavolo sei,» concluse, calandogli una mano sulla spalla sana.
«Un idiota?» sparò lui, con un sospiro esagerato.
«Un grandissimo idiota,» specificò Rhodey, sempre serissimo. «E un bugiardo, e un cataclisma, e colui che mi ha fatto rischiare l'espulsione un centinaio di volte e che mi farà prendere un esaurimento nervoso. Ma sei anche Tony Stark. E deve ancora arrivare il problema che tu non sai risolvere,» continuò, adesso stritolandogli la spalla, quasi volendosi aggrappare con tutte le sue forze a quell'affermazione.
Tony sbuffò, restio ad abbandonare il proprio scetticismo, ma sentì un sorriso sincero tendergli le labbra. Gli strinse esitando il polso, aggrappandosi a sua volta a quell'isola di certezza e supporto che aveva scelto di ignorare fino ad allora, quel punto fermo che aveva deciso di cancellare per timore di vederlo svanire e allontanarsi da lui. Avrebbe dovuto dire molte cose, scusarsi, ringraziarlo o rassicurarlo, ma si rese conto che, con Rhodey, non ce n'era mai stato bisogno.
«Lo vuoi ancora, quel riassunto?» disse invece, senza più esitare.
Rhodey lo fissò sorpreso, per poi rivolgergli un sorriso incoraggiante.
«Certo. Ma la spasso-mobile ha bisogno di un paio di birre per carburare, quindi...»
«Sei un deficiente,» sentenziò Tony ridendo, dandogli uno spintone mentre si avviava verso il frigo.


***


30 Aprile, Manhattan, 11:00

«Com'è andata?»
«Come vuole che sia andata, Doc... esattamente come avevo previsto. Sono emotivamente compromesso.»
«Il che non è per forza un male... come si sente in generale?»
«È lei lo strizzacervelli, quindi mi aiuti a decidere tra “depresso” o “disperato”.»
«Altre opzioni?»
«“Sorprendentemente sollevato” si guadagna il terzo posto.»
«Non vorrei suonare ridondante, ma gliel'avevo detto.»
«Qual è il prossimo passo? Farmi scrivere letterine di scuse ai compagni delle elementari che ho offeso?»
«Le giuro che se continua a fare un uso improprio del sarcasmo la spedisco davvero a Kathmandu a ritrovare la pace interiore.»
«Mi sembrava di aver già declinato l'esilarante offerta del suo amico schizoide.»
«Sono più scettico di lei, lo sa, ma potrebbe almeno prenderla in considerazione se...»
«Doc, per me è già un grande sforzo accettare di essere sdraiato su un lettino a parlare con il soffitto, non mi ci vedo proprio a gambe incrociate con un turbante in testa, mh?»
«Ci ho provato. Adesso che si è tolto un po' di preoccupazioni, ha deciso di cosa vuole parlare?»
«Uh, bella domanda... ho un repertorio quasi infinito da cui scegliere.»
«Il mio datore di lavoro mi ha concesso due ore, se ben ricorda...»
«Dunque, potrei cominciare da... non so, dal fatto che avevo ancora una balia a quattordici anni? Non so se c'entri molto, ma...»
«Senta, perché non comincia dall'inizio?»
«E quale sarebbe?»
«Non devo dirglielo io.»
«Facciamo Gennaio 2009? Quello mi sembra un buon inizio...»


***


30 Aprile, Stark Expo, 20:15

La concentrazione di ossigeno nell'aria si era decisamente rarefatta. Non riusciva a capire se fosse il buio interrotto qua e là dai faretti ad accentuare quell'impressione, o l'afa soffocante che regnava dietro le quinte. Un altro colpevole piuttosto probabile poteva essere il suo papillon troppo stretto, che sciolse per l'ennesima volta con un gesto brusco, ponderando se non fosse il caso di abbandonarlo del tutto.
Si sfregò il viso, per poi imprecare quando rischiò di far staccare inavvertitamente la benda adesiva, che si affrettò a far aderire di nuovo alla cicatrice. Controllò per l'ennesima volta l'orologio, che ticchettava inesorabile, e indirizzò un cenno di OK a uno degli addetti, a intendere che era pronto a entrare sul palco – una palese menzogna. Sperò che la sua facciata sicura di sé non stesse vacillando come le sue gambe e strinse più volte i pugni, scrollando le spalle per sciogliere la tensione, poi si cacciò il bastone sotto il braccio e provò di nuovo ad annodarsi il papillon. Le dita gli tremavano così tanto che riusciva a malapena a mantenere la presa, e per un attimo non vi fu differenza tra quelle vere e quelle metalliche. Rinunciò con un lento sospiro, lasciando i due lembi a ricadere sulla camicia immacolata. Si accasciò lateralmente contro il muro, traendo ancora molti, inutili respiri profondi, sentendosi la gola costretta in una tenaglia.
Forse poteva fingere uno svenimento. Sarebbe stato meglio o peggio di farsi prendere un attacco d'ansia in diretta? Il suo intero corpo era in tumulto: per quanto ne sapeva, poteva essere sull'orlo di un infarto. Si portò una mano al petto, dove erano raggruppate le schegge, e gli parve di avvertire un dolore sordo. Si inumidì le labbra, spostando la mano sul reattore e lasciando che il suo basso ronzio fungesse da calmante, scacciando quelle sensazioni fasulle. Era tutto sotto controllo. Avrebbe sempre potuto tagliare la presentazione e anticipare la sua uscita di scena.
Il suo ennesimo sospiro nervoso fu interrotto da un rumore improvviso.
Tacchi. Si avvicinavano, cadenzati, e il suo cuore prese a palpitare a singhiozzo quasi cercasse di seguirne il ritmo. Tenne lo sguardo fisso sulle punte lucide delle sue scarpe, e osò alzarlo solo quando il rumore si interruppe. Si sentì sciogliere dal sollievo, tanto che non si arrischiò a lasciare il proprio appoggio.
«Scusi il ritardo,» esordì Pepper, a bassa voce per non turbare la quiete soffusa. «Sono stata intercettata dalla stampa,» spiegò, e controllò rapidamente che il suo elaborato chignon fosse ancora intatto; la sua solita ciocca ribelle era comunque sfuggita al laccetto a sua insaputa, arricciandosi a incorniciarle il viso.
Tony notò solo allora quanto sembrasse accaldata, come se avesse corso. O forse si era solo infuriata con qualcuno dei giornalisti – e in quel caso poteva farsi anche un'idea di chi potesse essere.
«Pensavo che non sarebbe venuta,» si lasciò sfuggire, e Pepper quasi sbarrò gli occhi per la sorpresa, per poi addolcirli appena.
«Gliel'avevo promesso,» dichiarò con semplicità.
Tony preferì non soffermarsi troppo su quelle parole, che avevano uno spiacevole retrogusto d'obbligo a cui non volle dar peso: conosceva Pepper quel tanto che bastava per sapere che, se era lì, era perché voleva esserci.
Si distolse dai suoi pensieri quando udì in sottofondo la voce decisa e un po' gracchiante di suo padre: il filmato d'introduzione doveva essere partito, concedendogli gli ultimi minuti di preparativi.
Fu allora che la donna adocchiò fugacemente il suo papillon sfatto, in una domanda silenziosa.
«Le... le dispiace?» mormorò lui, appena udibile e senza incrociare il suo sguardo, sollevando un'estremità del nastro tra le dita ed esitando ad aggiungere altro per giustificare quella richiesta.
«Ancora non ha imparato?» lo trasse d'impaccio lei con un sorriso leggero.
«Perché devo imparare, se c'è lei?» rispose furbamente, in un guizzo d'impertinenza che suscitò un lieve sbuffo da parte sua che poté percepire sulla propria pelle.
Non sapeva perché si fosse cacciato in quel vicolo cieco, quando la soluzione più semplice sarebbe stata togliersi quell'affare dal collo; si maledisse ancora quando Pepper si accostò a lui, riducendolo a un unico, teso fascio di nervi pronti ad andare in cortocircuito. Tenne lo sguardo puntato dietro di lei nei pochi secondi che le servirono ad annodare impeccabilmente il papillon, lasciandolo abbastanza lento per permettergli di respirare quel cocktail di anidride carbonica che era diventata l'aria attorno a lui – la stessa che stava respirando lei, ora così vicina da poterle contare le ciglia.
«Perfetto,» annunciò con soddisfazione, raddrizzando il fiocco e riguadagnando le distanze.
Prima che completasse il movimento, Tony protese appena la mano sfiorandole le dita, ignorando il suo buonsenso – che non era davvero il suo buonsenso, lo sapeva, ma piuttosto la vocina maligna che risaliva il vortice e voleva devastarlo camuffata come tale. Lei lo guardò meravigliata, ma non si ritrasse a quel contatto appena accennato che Tony stava cercando in tutti i modi di mantenere, nonostante la paura folle che gli pulsava nello stomaco.
«Sei bellissima,» mormorò sincero, contrastandola e intrecciando al contempo le dita alle sue, bollenti tra le proprie nonostante si sentisse lui stesso sul punto di squagliarsi.
Pepper ricambiò delicatamente la stretta, abbassando gli occhi chiari come sempre quando la metteva in imbarazzo.
«Grazie,» replicò piano. «E anche tu non hai niente da invidiarmi,» aggiunse, con un lieve, genuino impaccio che accentuò le fossette sulle sue guance.
Tony mancò un paio di battiti, non riuscendo a ricordare l'ultima volta che qualcuno gli aveva detto qualcosa del genere, soprattutto ultimamente e soprattutto in modo così spontaneo. Riuscì a sciogliersi in un sorriso esitante.
Vi fu un breve momento di silenzio, interrotto solo dal discorso ovattato che risuonava dagli altoparlanti e dal mormorio del pubblico poche decine di metri più in là.
«Sto letteralmente per mettermi a nudo di fronte al mondo,» riprese Tony sempre a bassa voce; nel parlare strinse con più forza la sua mano, non poté farne a meno. «Questo dovrebbe essere più semplice,» accennò col capo alle loro dita intrecciate, sperando che capisse quello che neanche lui era in grado di esternare a parole.
«E perché non lo è?» gli chiese, senza alcuna malizia ed evitando di guardarlo, forse per non farlo sentire pressato.
Una bolla di silenzio assoluto li avvolse, per poi scoppiare al vigoroso applauso del pubblico: il filmato era giunto al termine. Le ovazioni della folla invisibile a pochi passi da loro mandarono fuori tempo il suo cuore, dandogli l'impressione che si stesse affrettando nella sua corsa per recuperare il ritmo.
Deglutì a fatica.
«Non lo so, ma forse...»
«Forse non è questo il momento più adatto,» concluse lei, con dolcezza, e Tony annuì grato in risposta, rilassandosi un poco.
«Più tardi?» arrischiò subito dopo, fissando il palco illuminato e in loro attesa.
Pepper esitò, forse presa alla sprovvista da quella richiesta.
«Più tardi,» confermò poi, regalandogli un sorriso attraversato da una vena di nervosismo.
Tony mosse un passo titubante verso il palco, e non poté frenare il lieve tremito che gli invase la mano, subito bloccato dalla presa salda di Pepper. Si arrestò sulla linea d'ombra che lo divideva dalla luce dei riflettori. Cercò il suo sguardo e lo trovò, come sempre: due soli azzurri in una costellazione di efelidi.
Strinse un'ultima volta la sua mano, per poi lasciare la sua sicurezza e fare per primo il suo ingresso sul palco, lasciandosi inghiottire dalle acclamazioni.


***


1° Maggio, Manhattan, 02:30

«È andata bene,» commentò infine Tony, dopo un silenzio che come pochi giorni prima si era prolungato per tutta la lunga, tesa mezz'ora di tragitto da Flushing Meadows a Manhattan.
Passò la tessera magnetica nel lettore di fianco alla porta, offrì l'impronta del suo pollice sul touch-screen e la serratura si sbloccò, consentendo loro l'accesso all'appartamento.
«Direi di sì,» replicò Pepper con qualche secondo di ritardo, varcando la soglia prima di Tony, che le tenne aperta la porta con spontanea galanteria.
«Mi hanno applaudito,» rincarò lui, quasi apprensivo, gettando la giacca dello smoking sullo schienale del divano e liberandosi del papillon, come un condannato graziato all'ultimo che si libera del nodo scorsoio.
«E la cosa la stupisce?»
Pepper stava accuratamente evitando di guardarlo in volto, ma almeno sembrava aver ritrovato la parola; lui si impegnò a sua volta a distogliere educatamente lo sguardo quando lei si chinò accanto a lui per togliersi i tacchi.
«Un po'. Mi aspettavo fischi e gente che prendeva torce e forconi per la caccia al mostro,» sbuffò, attraversando il salone e lasciandosi cadere sulla poltrona con malcelata insofferenza, dopo aver abbandonato il bastone per terra senza troppe cerimonie.
Stese la gamba meccanica sul poggiapiedi e si beò del netto sollievo che si propagò dal moncherino in su non appena la pressione su di esso diminuì. Probabilmente sarebbe stato meglio rimuoverla per la notte, ma piuttosto che compiere l'operazione davanti a Pepper avrebbe preferito tornare sul palco con migliaia di occhi appuntati addosso.
«In tal caso, non saresti stato tu a dover scappare,» osservò lei, con una luce vagamente omicida negli occhi che la diceva lunga sulla linea di difesa che stava progettando in previsione dell'imminente boom di gossip.
«Ricordami di non prestarti mai l'armatura,» sorrise Tony, ricevendo uno sbuffo divertito in risposta, in verità non molto rassicurante.
La osservò affascinato mentre si liberava con sollievo i capelli dalla complessa acconciatura in cui erano costretti, togliendo una ad una le forcine e lasciandoli ricadere in onde ramate sulle spalle, per poi raccoglierli di nuovo in una crocchia morbida. Lei intercettò il suo sguardo e Tony lo abbassò con un istante di ritardo; colse un sorrisino esitante da parte sua, ma poteva anche essere stato solo un'ombra fugace.
La donna si sedette nell'angolo del divano a un passo dalla sua poltrona, con le gambe ripiegate sotto di sé, e Tony torse appena il busto per rivolgersi verso di lei, nonostante nessuno dei due sembrasse avere intenzione di guardare in faccia l'altro.
«Vuoi ancora parlarne?» cominciò esitante Pepper dopo quelli che parvero interi minuti, riprendendo il discorso lasciato in sospeso dietro le quinte.
Tony sfuggì il suo sguardo e lo puntò sulla skyline di New York, fingendo interesse per un elicottero di passaggio e fingendo anche che le sue budella non avessero preso ad annodarsi tra loro in modi fantasiosi e inestricabili.
«Ne ho già parlato col Doc,» esordì, sviando solo momentaneamente il discorso, e poté cogliere il moto di sgomento della donna anche senza guardarla. «E con Rhodey. E anche la presentazione di oggi ha aiutato a vedere il tutto in modo più... razionale.» Esitò, umettandosi le labbra. «Sono riuscito a mettere qualche dettaglio in prospettiva. Vorrei fare lo stesso adesso, con te,» enunciò d'un fiato.
Le scoccò un'occhiata di sottecchi e mantenne il capo chino, accavallando le gambe nonostante la fitta lancinante che ciò gli provocò.
«Hai risolto con Rhodes?» s'informò lei, con chiara aspettativa, e Tony non si stupì del fatto che avesse frenato la sua curiosità per altre questioni concentrandosi su quella che sapeva essere importante per lui.
«Se ieri fossi tornata, ci avresti trovati mezzi brilli a rivangare tutte le cazzate che abbiamo combinato al MIT,» offrì lui in risposta, con un sorriso sghembo che lei ricambiò appena.
«Sono contenta che abbiate chiarito. Rhodey ci tiene, a te,» aggiunse, con ovvietà.
«Lo so. Forse anche più di quanto mi merito,» ribatté, con un pizzico di amarezza, e non riuscì a frenare uno sguardo verso di lei, a sottintendere tutte le altre cose che non si sarebbe meritato.
«E in base a cosa decidi cosa ti meriti?» gli chiese a tradimento Pepper, con una calma assoluta che non gli riusciva di decifrare come positiva o negativa.
«Diciamo che essere un C-3PO mancato non aiuta la mia causa,» ribatté spigliato, col suo solito fare sicuro minato in verità da mille dubbi, e nel dirlo sollevò la protesi.
«Hai parlato anche di questo, con Ian e Rhodey?» indagò Pepper, e Tony fu grato per quella sua pacatezza, e per il modo in cui stava cercando di non farlo sentire giudicato mentre si addentravano nell'argomento.
«Più o meno,» bofonchiò, sprofondando più comodamente nella poltrona. «Non di tutto. Ho pensato che fosse meglio chiarire un paio di fatti solo con te,» spiegò, con crescente nervosismo.
«Ti ascolto,» rispose lei, senza esitare.
A quel punto sollevò lo sguardo verso di lui, in attesa. Lui tentennò. Di nuovo, sapeva cosa stava facendo... e non lo sapeva, brancolava nel buio dei suoi stessi pensieri, che ormai vedevano solo un solido muro a tre mesi di distanza. E non sapeva parlare alle persone; soprattutto, non sapeva parlare di se stesso ad altri, e farlo con Pepper era quanto di più terrificante riuscisse a immaginare. Ma doveva riuscirci.
«Che non straveda per il mio corpo credo sia evidente,» proferì infine, frettolosamente, come se il minimo istante di esitazione avesse potuto far svanire quelle parole. «D'altronde, non pensavo che la clausola del contratto per diventare Iron Man implicasse diventarlo di nome e di fatto.»
Nel momento stesso in cui finì di parlare, ebbe la netta impressione di essere completamente nudo di fronte ai suoi occhi, con anche un paio di riflettori a mettere in risalto ogni suo difetto. Strinse i denti e incrociò le braccia facendosi più piccolo che poté sul suo sedile, colto dalla frustrazione e da quel bisogno improvviso e vitale di ritrarsi, coprirsi e nascondere le sue brutture, le sue ferite, le sue protesi, tutto ciò che percepiva come sbagliato ed estraneo e che pesava ogni giorno di più. Desiderò di avere di nuovo l'armatura addosso per potersi almeno librare in aria nonostante quel fardello.
«E da quando è diventato un problema?»
La voce gentile di Pepper fu un balsamo. Tony masticò a vuoto, cercando il coraggio che gli era mancato per più di un anno.
«Non so dire con esattezza quando, ma... la mia immagine pubblica non ha aiutato,» confessò infine, con lo sguardo puntato con decisione su una giuntura della protesi inferiore, escludendo tutto ciò che lo circondava e cercando di ignorare la sensazione che qualcuno stesse sghignazzando alle sue spalle. «Insomma, per mesi non si è parlato d'altro che... lo sai. Avrai letto lo scoop della Everhart,» s'impappinò, odiandosi per quelle incertezze e per non essere più in grado di calare una rassicurante maschera sul proprio volto.
«L'ho letto,» rispose Pepper, gli parve con freddezza. «E non sei certo tu a doverti vergognare,» concluse, e una occhiata fugace nella sua direzione bastò a focalizzare il suo cipiglio improvvisamente fosco. «Forse è davvero un bene non saper usare la tua armatura,» aggiunse, in un blando tentativo di calmarsi che non soffocò comunque la sua voce vibrante d'indignazione.
Tony le sorrise, e percepì un sordo indolenzimento al centro delle spalle non appena i suoi muscoli contratti si rilassarono appena, per poi contrarsi alle successive parole della donna:
«Non fraintendermi: penso ancora che tu abbia agito in modo sconsiderato, ma non per i motivi che pensi tu,» puntualizzò, adesso lievemente irritata. «Se non fosse stato per quelle foto, avremmo concluso il processo molto prima,» spiegò poi, con voce priva d'inflessione.
«Quindi è solo per quello?» 
Tony non poté nascondere un pizzico di delusione che si rendeva conto essere totalmente fuori luogo, e che suscitò infatti lo sguardo severo di Pepper.
«Ho visto donne uscire dal tuo letto per dieci anni, Tony. Non sono così impressionabile,» replicò, con secca schiettezza e un alone rosso che iniziava a propagarsi sulle sue guance.
«Il contratto di sincerità vincola entrambi,» le ricordò senza scomporsi, indirizzandole un occhiolino d'incoraggiamento.
Lei esalò un sospiro, in cui a Tony parve di sentire un sorriso. Nella penombra, non poteva esserne certo.
«Mi ha... infastidita,» ammise, laconica e vagamente scocciata.
«Vede? Ormai la conosco, signorina Potts,» esultò lui, rivolgendole però uno sguardo privo di malizia e colmo invece di colpevolezza, ora certo di quanto quel fatto l'avesse turbata all'epoca.
«Ti ricordo che all'inizio tu eri geloso di Kyle,» contrattaccò Pepper, inoppugnabile.
«Touché,» sospirò a sua volta Tony, colto in fallo e senza argomenti a suo favore.
Un breve silenzio seguì quella parentesi scherzosa, lasciando loro modo di riprendere il filo dei propri pensieri.
«Quando sei tornato dall'Afghanistan ho apprezzato il tuo “cambio d'abitudini”,» riprese poi Pepper, attirando di nuovo la sua attenzione. «Quello che hai fatto con la Everhart mi ha... spiazzato. Credevo di aver frainteso tutto.»
Tony inspirò a fondo, e a lungo, prima di decidersi a rispondere.
«Ero talmente arrabbiato, Pep. Avevo bisogno di... distrarmi, di sentirmi normale, magari di tornare per un attimo ai “vecchi tempi”. Ho ceduto. E dopo ero solo più arrabbiato con me stesso, con lei, col mondo che mi avrebbe riso in faccia come in effetti ha fatto...» risucchiò un respiro tremolante. «È andato tutto a catafascio da lì in poi, per una scopata finita male,» sbottò, in un tentativo d'ironia che si ridusse a uno sbocco di fiele.
Il solo ricordo gli causò una vampata di vergogna che gli risalì al volto, e fu lieto di non essere in piena luce.
«È per quello che ti sei ubriacato e... e tutto il resto?»
«Anche,» Tony soppesò la domanda, faticando a trovare dei nessi logici nelle sue azioni. «Avevo rovinato tutto con le mie mani, ti avevo messa in mezzo al processo e avevo allontanato te e chi cercava di aiutarmi,» disse d'un fiato, gettando fuori tutto, di nuovo, come aveva fatto con Ian e con Rhodey.
E stavolta fu più facile, come se si fosse allenato a dovere per una corsa invece di presentarsi il giorno della gara pretendendo di vincere senza aver fatto sforzi.
«Poi ti ho ferita, e quello è qualcosa che non potevo e non posso perdonarmi,» concluse, stentando a trovare la voce.
«Tony, è stato un incidente,» replicò lei, senza rancore, ma notò il modo in cui portò la mano al braccio, proprio dove le aveva fatto male.
«Essere stato ubriaco non è una scusa, anzi,» la contraddisse, senza vacillare e rifiutando giustificazioni inesistenti.
«Infatti non lo è,» ribadì lei, con durezza e senza scontare le sue responsabilità. «Ma so che non lo faresti mai di proposito. Se avessi avuto anche un solo dubbio al riguardo, non sarei qui.»
Tony tacque, rendendosi conto di aver serrato il pugno metallico fino a farlo tremare.
«Mi dispiace,» riuscì a dire, incapace di guardarla.
«Lo so,» rispose lei, in tono così delicato da sembrare una carezza. «Ma questo non è un buon motivo per tenermi a distanza,» aggiunse, ancora più piano.
Tony si girò finalmente verso di lei, come mosso dalla sua voce, e incontrò i suoi occhi, che invece sembravano non essersi mai distolti da lui per tutto quel tempo. Si sentì di nuovo messo a nudo, ma non nel modo derisorio che aveva imparato a odiare, ma in quello con cui Pepper era sempre riuscita a superare tutte le sue barriere.
«Cosa vuoi fare, adesso?» gli chiese a sorpresa.
«Trovare una soluzione, come sempre,» replicò piattamente lui, d'istinto.
«Cosa vuoi fare davvero?»
«La lista dei miei hobby si è drasticamente ridotta,» svicolò di nuovo lui.
«Tony, non ti ho visto lavorare al reattore da almeno un mese,» lo assecondò infine, rinunciando a ottenere una risposta alla sua vera domanda.
Lui non replicò e prese a tormentarsi intentamente una giuntura della mano meccanica.
«Perché non ho fatto alcun progresso.»
Vide Pepper impallidire.
«Il dilitio serve solo ad alleviare i sintomi e a rallentare un po' l'intossicazione. Sto meglio, ma non sto davvero guarendo,» fece una pausa, lasciando che Pepper assorbisse quella notizia, nonostante non fosse una novità per nessuno dei due.
«Quanto...»
«Tre mesi,» la anticipò lui, a mezza voce. 
«Non puoi arrenderti così, Tony,» esalò lei, con un'acuta nota di paura nella voce.
«Ho fatto il possibile,» replicò lui, in tono stanco. «Ora voglio solo...» si bloccò, mentre un fiume di immagini si riversava nella sua testa.
Il fischio del vento quando volava; la sabbia calda sotto i piedi a Malibu e le onde fresche e salmastre dell'oceano; i battibecchi con Cap e le zuffe con Nat e i dibattiti con Bruce; gli incontri di boxe e le gare sulla Pacific con Happy; le feste noiose animate da Rhodey e da qualche drink di troppo; il suo laboratorio e le diatribe senza fine con Dum-E e U, i traffici notturni per costruire quel che voleva esattamente come lo immaginava; Pepper e i suoi capelli setosi, il suo profumo di casa, il suo tocco gentile, le sue labbra morbide e le braccia che avrebbe voluto accettare per sentirla con tutto se stesso.
«Non voglio più perdere tempo,» si trovò a mormorare quasi tra sé, in quella che era più una preghiera che una risoluzione.
Di nuovo, si appellò a lei e ai suoi occhi, che lo ricambiarono con quieta aspettativa. 
«Ma non so come dovrei...» s'interruppe ed inspirò bruscamente, alzandosi poi a fatica e approcciandola senza la minima idea di cosa stesse facendo, col cuore che tambureggiava nel petto. «Non so neanche da dove cominciare, e non...» s'interruppe quando Pepper si alzò davanti a lui, con elegante cautela.
Gli prese lentamente la mano, come aveva fatto lui prima della presentazione. Tony si contrasse d'istinto, ancora consapevole del peso delle protesi e con l'unico desiderio di coprire il proprio volto e di riempire quel silenzio, ma riuscì a perdersi in quel semplice contatto, estraniandosi da tutto il resto.
«È davvero così difficile?» lo canzonò dolcemente Pepper, posando anche l'altra mano a racchiudere la sua, e Tony inclinò appena le labbra nel suo solito sorrisetto obliquo.
«È che non sono abituato a...»
"... ad essere amato," pensò, in un lampo fuggevole.
«... a un interesse disinteressato,» parafrasò invece, annodandosi la lingua e facendola sorridere appena. «Mi confonde, non... non rientra nei miei parametri e finisco per fare stronzate. Come dopo l'inaugurazione,» terminò d'un fiato, e si rese conto di essersi inconsapevolmente accostato a lei, col corpo che riusciva finalmente a ignorare almeno in parte le catene che lo trattenevano.
La sua mano si mosse d'istinto, liberandosi dalla presa di Pepper, e per una volta non la trattenne, nonostante la rigida titubanza con cui si mosse: catturò quella ciocca di capelli sfuggente che le cadeva sempre davanti al volto e gliela sistemò dietro l'orecchio, portando a termine un gesto rimasto troppo a lungo in sospeso. Pepper non gli diede il tempo di fare o dire nient'altro e lo cinse in vita con un abbraccio, stringendo con forza la stoffa della camicia sulla sua schiena. Tony sobbalzò, ma si mosse impacciato a ricambiare, e si accorse subito di quanto Pepper fosse rimasta rigida nella sua stretta; per un attimo temette di aver commesso un qualche errore irreparabile e si chiese se non dovesse ritrarre il braccio meccanico, ma quando accennò a farlo, fu Pepper stessa a trattenerlo.
«Promettimi che non ti arrenderai,» la sentì sussurrare contro di lui, con una voce contratta che gli ferì le orecchie.
Lui annuì appena, stordito, evitando di ricordarle che non era bravo a mantenere le promesse.
«Pep, te l'ho appena detto, io...»
«Ho bisogno di sentirtelo dire,» lo incalzò, con una sofferta urgenza che non aveva mai sentito.
La vocina invadente continuava a gridargli di staccarsi da lei, che stava sbagliando, che avrebbe dovuto annullarsi in quell'istante e rifuggire quel contatto che sembrava bruciargli addosso, scaldandolo al contempo.
Invece si ritrasse da quel vortice minaccioso e invitante e la strinse di più a sé col respiro corto, lasciando che nascondesse il viso nell'incavo della sua spalla. La sentì sussultare appena e non ebbe bisogno di guardarla in volto per capire che stava piangendo, né aveva intenzione di farlo. Si sentiva come se stesse custodendo qualcosa di estremamente raro, fragile e prezioso che non aveva però diritto a guardare. La cullò in silenzio, accompagnando il suo pianto con lievi, impalpabili carezze lungo la schiena, lasciando che liberasse il suo dolore e fornendole al contempo gli argini per contenerlo, impedendole di rimanerne sopraffatta.
Solo dopo lunghi minuti, quando la sentì tirare un lungo sospiro tremolate, trovò il coraggio di inclinarle appena il viso con un indice e lasciarle un bacio sulle labbra, senza osare di più. Il suo cuore sfarfallò in uno sprazzo di viva euforia
quando le sentì inclinarsi appena verso l'alto, per poi tornare a lambire le sue, altrettanto delicate. Si sentì lontano da lì e dal proprio corpo, avvolto completamente in quel contatto, che andò ad espandere quel piccolo punto tra il reattore e il cuore finché non gli invase del tutto il petto, in una vertigine che sciolse i nodi che lo ancoravano a terra,
«Te lo prometto,» mormorò a un soffio da lei, ancorandosi ora alle sue iridi lucide per non far tremare la voce.
Lei annuì impercettibilmente, e la sorresse quando la sentì rilassarsi del tutto nelle sue braccia. Premette le labbra sui suoi capelli, ne aspirò a fondo il profumo e lo sentì farsi strada nei polmoni, nel petto, nello stomaco, fino a permeare il suo intero corpo di un calore sottile che raggiungeva anche i suoi pezzi freddi e inerti.
I punti fermi, in fondo, erano sempre stati accanto a lui.




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Note Dell'Autrice:

E fu così che dopo sei anni, 44 gatti capitoli e infinityi fiumi d'angst, habemus Pepperony! *squillo di trombe angeliche* 
Vi avevo ingannato con quel "Supernova" accoppiato ai buchi neri, eh? (sperodisì) Invece, strano a dirsi, Tony ha scampato il buco nero :')
Questo l'ho soprannominato il "capitolo delle chiacchiere", per ovvi motivi. E spero che il tutto, seppur abbastanza denso di eventi, sia risultato gradevole e coerente con tutto ciò che è accaduto in precedenza.

Ringrazio enormemente _Atlas_, T612, Enigmista96, 50shadesOfLOTS_Always ed Emyclarinet che hanno recensito lo scorso capitolo mandandomi al settimo cielo. Ringrazio in particolare T612, che mi ha ispirato il dialogo sui limiti tra Rhodey e Tony grazie alla sua one-shot Limitless, che vi invito caldamente a leggere, perché merita veramente tanto <3
Infine, dedico il capitolo alla mia carissima Atlas, che 'sta scena l'ha aspettata per sei anni interi :') E so che mi hai maledetta ad ogni stretta di mano tra Tony e Pepper... ma spero di essermi fatta perdonare ;)

I prossimi aggiornamenti saranno uno attorno a Natale (tra il 24 e il 27) e uno nell'anno nuovo (tra il 6 e il 10). Non so dare una data precisa perché dalla settimana prossima sarò dispersa in terra tedesca e intenta ad abbuffarmi di dolcetti&birra&vin brulé, quindi il tempo per scrivere sarà ridotto. Almeno uno dei due è però assicurato :)
Nel dubbio, vi saluto augurandovi tante Buone Feste <3
Un abbraccio a tutti voi,

-Light-

P.S. Gli Imagine Dragons hanno fatto uscire il loro nuovo album in fase di stesura di questo capitolo: grazie a loro e alla canzone d'intro (di cui avrei anche potuto mettere tutto il testo, che tanto pareva fatto apposta per quello che volevo scrivere), vi siete scampati il triplo dell'angst previsto <3

*COMUNICAZIONE DI SERVIZIO*

A partire dal prossimo capitolo, Phoenix verrà trasferita sul fandom di The Avengers!


 

© Marvel

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Capitolo 46
*** Highway to Hell ***



45

 

 

Highway to Hell




"And I will no longer do as I am told
And I am no longer afraid to walk alone
Let me go, let me be
I'm escaping from your grip
You will never own me again"

[The Handler – Muse]








Due fessure azzurrine nel buio e un circoletto di luce poco più sotto. Attorno si intuivano dei riflessi metallici, rilucenti nell'oscurità.
Tony aggrottò la fronte con fare un po' seccato: di nuovo l'armatura?
"Il mio laboratorio di sogni sta esaurendo l'inventiva."
Si guardò intorno, realizzando di essere nella solita, sterminata stanza nera. Tanto per cambiare era nudo, ma per lo meno aveva tutti i pezzi al posto giusto, incluso il reattore, a cui diede una pacca sollevata. Era strano non sentire il peso del braccio meccanico, non avvertire la rigidezza della gamba e avere un preciso senso della profondità con entrambi gli occhi. Erano delle sensazioni alle quali si era ormai disabituato, e che gli sembravano quasi estranee.
Scrollò le spalle e si incamminò verso quelle tre luci. Non che ci fosse molto altro da fare.
"Dovrò scrivere una lettera di protesta a Morfeo," sbuffò tra sé.
Camminò per un po'. L'armatura era più lontana di quanto gli fosse sembrato.
Una corrente d'aria lo sfiorò e rabbrividì, ritrovandosi con la pelle d'oca. Ruotò capo e occhi, cercandone inutilmente la fonte. Ora che ci faceva caso il suo corpo era stranamente sensibile, al contrario di quasi tutti i sogni precedenti.
Sotto le piante dei piedi avvertiva una superficie regolare, piana e leggermente ruvida.
"Cemento?"
Si arrestò e portò una mano alla nuca, come sempre quando rifletteva su qualcosa, e le sue dita incontrarono delle ciocche lunghe e ribelli, invece del taglio corto che portava da qualche tempo. Ritrasse la mano, tirandosi appena le punte dei capelli con fare perplesso.
Riprese la marcia e accelerò il passo. L'armatura si avvicinava.
C'era vento, adesso. Distingueva un mormorio di automobili in sottofondo, assieme a un sentore di fumo acre, come di gomma bruciata e benzina. I suoi sensi stavano ricostruendo una scena che gli sembrava familiare e che accendeva un pizzicore spiacevole nel suo stomaco, impossibile da focalizzare.
Era l'Afghanistan? No, si rassicurò subito: lì c'erano solo il lezzo di sangue rappreso, il crepitio costante di braci morenti e il sapore di acqua torbida in bocca, nelle narici, nei polmoni...
Aumentò ancora il passo, sfociando in una corsetta nervosa e impaziente.
Arrivò davanti all'armatura col fiato leggermente corto. Solo allora si rese conto che qualcosa non andava: dovette alzare la testa per guardare il reattore; le fessure azzurre incombevano minacciose su di lui.
"Da quando è così grande...?"
Fu allora che quel pizzicore inquieto si tramutò in un blocco solido di terrore, proprio quando Iron Monger si rianimò con un ruggito metallico scagliandosi contro di lui.


***


5 Gennaio 2009, Settore 16, Stark Industries

L'atterraggio sul tetto fu più duro di quanto avesse previsto e batté la tempia contro la calotta interna dell'elmo, mentre cercava inutilmente di frenare la caduta coi propulsori ormai agonizzanti. Il colpo lo stordì, ma riuscì a liberarsi in tempo del guanto sinistro, ormai in cortocircuito e sul punto di ustionargli una mano. Tentò di rialzarsi a fatica, rintronato e con la testa leggera, ma la gamba destra non reagiva come avrebbe dovuto e crollò di nuovo su un ginocchio. All'inizio non capì se ciò dipendesse dall'armatura o dal suo corpo, poi percepì con chiarezza il metallo che gli penetrava nella carne, mozzandogli il fiato ad ogni minima contrazione dei muscoli e delle ossa che si muovevano in modo anomalo e agghiacciante. Abbassò lo sguardo e una stoccata nauseante lo colpì allo stomaco. Mise a fuoco oltre un velo di lacrime il gambale accartocciato che gli stritolava il polpaccio, ormai una massa contorta di metallo cremisi e sangue così scuro da sembrare nero.
Quando era successo? Forse quando l'aveva scaraventato contro quell'autobus...
Provò a muovere il piede, ma quello non rispose, come fosse sconnesso dal resto del suo corpo.
«Tony!» la voce squillante di Pepper risuonò nell'auricolare.
Provò a parlare, ci provò con tutto se stesso, ma gli uscì solo un respiro spezzato.
«Oddio, sta... sta bene?»
Stavolta colse una crescente nota di panico nelle sue parole e si obbligò a rispondere, deglutendo a stento sangue e saliva:
«Più o meno. Ho perso potenza e –...» una fitta lancinante al ginocchio lo fece interrompere con un sibilo. «Credo... di avere una gamba rotta,» annaspò infine, schiudendo l'elmo.
Accolse con sollievo la ventata d'aria fresca che lo investì sul volto madido e fu scosso al contempo da un conato. Adesso avrebbe vomitato, ne era certo. La sensazione delle ossa scomposte nella gamba gli stava rivoltando le budella, ma riuscì solo a sputare un po' di sangue che gli lasciò la bocca più impastata di prima. Per un istante gli parve di percepire la consistenza ruvida della sabbia in gola, ma s'impedì di focalizzarla, concentrandosi invece sulla voce di Pepper:
«I soccorsi stanno arrivando. Rimanga dov'è, e...»
Un boato fece tremare il tetto oscurando la sua voce e lui si voltò di scatto, verso la colossale armatura che era appena atterrata dinanzi a lui. Richiuse di scatto la visiera e si appiattì a terra appena in tempo per schivare il gancio che stava per disintegrargli la testa.
Si rialzò sul ginocchio integro e d'istinto fece per lanciare un raggio dal guanto, prima di realizzare di aver usato la mano disarmata. Il secondo pugno lo colpì in pieno volto, cozzando contro la maschera e sbalzandolo via di qualche metro. Una scarica di adrenalina residua gli permise di ignorare il dolore quel tanto che bastava per attivare i propulsori posteriori e scagliarsi a testa bassa contro Stane, per ricambiare la cortesia con tutta la forza che gli rimaneva. Provò un moto di feroce soddisfazione nel sentire il proprio pugno metallico impattare col suo casco con un rintocco di gong, strappandogli un lamento soffocato.
"Questo è per la gamba, bastardo."
Si pentì della propria avventatezza quando si trovò avviluppato nella sua stretta ferrea, che ora minacciava di frantumargli le vertebre. Si dibatté debolmente sentendosi un pesce preso all'amo, e la furia di poco prima si tramutò in paura quando sentì le placche posteriori dell'armatura che iniziavano a cedere con un cigolio. Avvertì un'acuta fitta al costato e il suo cervello andò momentaneamente in stand-by, impedendogli di processare ciò che sentiva per reagire di conseguenza. Il corpo smise di rispondere ai comandi, scivolando in una gelida paralisi. Gli mancava l'aria: vide rosso, poi bianco, infine la sua vista si oscurò, animata solo da migliaia di minuscole stelle intermittenti man mano che sentiva la pressione aumentare fino a strizzargli i polmoni. Le fessure azzurrine di Iron Monger sembravano deriderlo nel buio.
La sua paura si tramutò in qualcos'altro, un terrore cieco e ancestrale che gli rianimò membra e cervello, in un fiotto prepotente di calore che gli scosse la spina dorsale e gli artigliò la nuca. Riprese a pensare e le sinapsi si riavviarono come saette concitate che presero a rimbalzare nel suo cranio. Respirare diventava sempre più laborioso.
"Gamba rotta, repulsori fuori uso, missili offline..." elencò frenetico. "Stai per schiattare, fai
qualcosa!"
«Razzi!» riuscì ad articolare infine, e l'armatura eseguì, accecando momentaneamente Stane con delle piccole esplosioni, poco più di qualche petardo, ma abbastanza per fargli allentare la presa e mandargli in tilt i sensori ottici.
Puntò la gamba sana contro la massiccia corazza e fece leva, per poi attivare i propulsori riuscendo infine a rompere quella morsa. Rovinò a terra inerte e solo allora si rese conto di aver semplicemente ritardato l'inevitabile. 
Non riusciva a muoversi.
Non riusciva a muoversi
La sua testa si fece leggera, quasi si fosse separata dal corpo. Fece leva sugli avambracci e riuscì solo a trascinarsi di un passo per poi ricadere a terra, ancora protetto dal denso e basso fumo dei razzi. I passi di Stane si abbattevano sul tetto, riverberando nelle sue ossa mentre si agitava alla sua ricerca in quella nebbia per ora impenetrabile, ma destinata a disperdersi per lasciarlo di nuovo indifeso.

Abbatté un pugno a terra, sopraffatto dalla frustrazione e dal dolore, ma si rifiutò di abbandonarsi lì. Si sollevò sul fianco sano e strisciò sui gomiti dietro a un bocchettone d'areazione, un precario riparo che però lo proteggeva alla vista.
"Sono spacciato," gli rimbombò nella mente, ottenebrata dalla consapevolezza che, qualunque morte lo attendesse, non sarebbe stata eroica né indolore.
Il suo respiro accelerò e iniziò ad iperventilare, in cerca d'aria, di una via di fuga, ma sotto di sé c'era solo solido cemento, e il cielo velato sopra di lui gli era precluso.
"Non posso morire così. Ho fatto ancora troppo poco."
Piegò la gamba devastata e soffocò un grido: poteva ancora muoverla, anche se a caro prezzo.
"E poi che penserà il resto della boy-band? Non sono solo un 'uomo-scatoletta', non posso darla vinta a Capitan Ghiacciolo!"
Fece leva sulla gamba integra, poggiandosi alla parete metallica per mantenersi in piedi.
"E se finisco all'aldilà che racconto a Yinsen? Che sono morto spiaccicato da una brutta copia della mia stessa armatura? Sai che ridere."
Chiuse per un momento gli occhi e fu sul punto di perdere i sensi, a un passo da un piacevole e allettante oblio che avrebbe annullato tutte le sensazioni spiacevoli e dolorose che...–
"No! No, resta sveglio! Là sotto c'è Pepper. C'è Pepper e non puoi farle questo, non
puoi farle questo, svegliati!"
Si morse con forza l'interno della guancia, costringendosi a riaprire di scatto gli occhi e tornare presente a se stesso, col sapore del sangue a impregnargli la lingua. Era un genio, era Tony Stark: avrebbe trovato una soluzione, anche adesso. 
Riuscì a trascinarsi dietro al gabbiotto d'accesso al tetto, ponendo una difesa più solida tra lui e le morse mortali della gigantesca armatura. Sbirciò appena oltre l'angolo, mettendo a fuoco il suo nemico che setacciava l'area, facendo tremare il tetto ancora avvolto da una sottile nebbiolina. La consapevolezza che là dentro ci fosse Stane riemerse prepotente. Aveva appena tentato di ucciderlo senza alcuna esitazione.
Una strana morsa gli afferrò il petto, un misto di delusione, rabbia e profondo sgomento a cui non seppe dare un nome se non dopo qualche istante: tradimento. Affondò come una lama proprio nel punto in cui si raggruppavano le schegge che minacciavano il suo cuore.
"Cazzo, papà, ti sei scelto proprio degli amici di merda," riuscì a pensare quasi rassegnato, e gli sembrò che la lama si torcesse nel suo petto, allargando una ferita già aperta.
Poi fu distante da lì, avvolto da una calma assoluta e gelida.
Era di nuovo nella grotta. Davanti a lui c'era il bastardo dagli occhi di vipera che lo guardava dimenarsi sull'orlo di un barile implorando per una boccata d'aria, o accartocciarsi sotto le percosse con la testa e il volto protetti solo dalle sue stesse, deboli braccia. E stavolta dietro di lui intravide un'ombra più cupa, quella di un burattinaio che tirava le fila di tutto quel macabro teatrino, guidando da dietro le quinte ogni colpo che si era abbattuto sul suo corpo e ogni mano che gli aveva strappato i capelli per costringerlo sott'acqua. Durò un istante, un attimo di puro gelo che fece poi largo a una marea bruciante. I suoi occhi si appuntarono su quell'armatura mastodontica desiderando solo di poterla fondere con lo sguardo, catturando tra quei flutti roventi la bestia che aveva ordinato di squarciargli il petto per infiggervi un cuore di metallo.
Quando parlò la sua voce era trasfigurata, tremante e gutturale come se scaturisse da una caverna.
«Potts. È lì?»
Vedeva la foto associata al suo contatto sullo schermo rotto, sfigurata dalle crepe che lo attraversavano, e fu solo aggrappandosi al suo volto che riuscì a rimanere lucido e a non slanciarsi verso Obadiah per cavargli gli occhi, o fracassargli la gabbia toracica come avevano fatto con lui, o massacrarlo di pugni fino a...
«Tony!» la voce di Pepper arrivò come un toccasana, interrompendo quel flusso di immagini che non avrebbe mai creduto di poter evocare, pronto a montare di nuovo non appena avesse lasciato il freno al suo raziocinio traballante.
Doveva essere terrorizzata, forse più di lui, e forse più per il tono in cui l'aveva involontariamente appena chiamata che per tutto il resto. Pensò alla serata di beneficenza, al contrasto tra l'onda calda dei suoi capelli e la stoffa blu cobalto che andava a esaltare la sfumatura più chiara delle sue iridi. Il velo d'acqua che sembrava ovattargli le orecchie si assottigliò, permettendogli di parlare con più lucidità:
«Ho un piano,» ansimò, cercando inutilmente di mascherare le sue reali condizioni che trasparivano comunque dalla voce sforzata. «Dobbiamo sovraccaricare il reattore,» cominciò, cercando di continuare a pensare.
Ci fu un breve silenzio dall'altro capo e si sentì raggelare, nonostante Obadiah fosse ancora nel suo campo visivo – e pericolosamente diretto verso di lui, che si appiattì ancor di più contro il muro.
«E come pensa di fare?» gli arrivò infine, con un misto di sollievo nel sentirla rispondere e di angoscia per ciò che prevedeva il suo piano.
«Lo farà lei,» si obbligò a dire, maledicendosi con tutto se stesso, ma troppo nel pallone per riuscire a formulare una valida alternativa.
Iniziava a sentirsi la testa leggera, e la gamba era un inferno bruciante di dolore che catalizzava tutta la sua attenzione, stritolandogli il cervello. Sentì i passi metallici dell'armatura di Stane in avvicinamento e si trascinò all'altra estremità del muro, riprendendo a parlare più piano che poté:
«Vada alla console centrale e accenda tutti i circuiti,» esalò, percependo una vibrazione più forte che scosse la terra sotto i suoi piedi. «Quando mi sarò allontanato, prema il pulsante del bypass principale. Farà un bel botto,» cercò di assumere un tono più leggero nel tentativo di rassicurarla, e fu grato che non potesse vederlo in quel momento.
«Ok, sto entrando adesso,» rispose lei, tesa, ma senza esitazioni, e riuscì ad immaginare nitidamente la linea sottile e tirata delle sue labbra e le sopracciglia appena corrugate per la concentrazione.
Assieme alla paura cieca che lo afferrò alla gola provò anche un netto moto d'orgoglio verso di lei, che scacciò almeno in parte il tremito che lo scuoteva da capo a piedi.
«Aspetti che io sia sceso dal terrazzo,» si raccomandò, stringendo più volte i pugni e preparandosi a scattare. «Io le guadagno un po' di tempo,» concluse, ricalcando con tardiva consapevolezza l'eco di parole fin troppo fresche nella sua memoria.
La mano di Iron Monger sbucò oltre l'angolo, poggiata al muro poche decine di centimetri sopra la sua testa, e l'intonaco sbriciolato picchiettò sul suo casco metallico. Inspirò a fondo, incamerando tutta l'aria che poté e si concentrò unicamente su quello, scacciando l'impronta rovente del dolore dalla propria percezione.
Fece leva sulla gamba integra e lasciò il riparo del muro, scagliandosi contro Stane. Questi ebbe un fugace tentennamento nel vederselo arrivare addosso senza preavviso e lui ne approfittò per issarsi sulle sue spalle, andando ad afferrare a colpo sicuro un fascio di fibre ottiche tra le placche metalliche, sradicandolo poi con tutte le sue forze dall'armatura. Stane mosse il capo qua e là, prevedibilmente accecato, e iniziò a dimenarsi come un ossesso nel tentativo di scrollarselo di dosso; prima che Tony potesse mirare al cavo d'alimentazione degli arti superiori, si sentì afferrare e tirare per il casco; fu costretto a sganciarlo dal suo supporto e a mollare la presa per non venire decapitato, e Stane riuscì finalmente a disarcionarlo e scagliarlo via come fosse incorporeo, privandolo di quella difesa. Impattò a peso morto sulla vetrata sovrastante il reattore, boccheggiando in cerca d'aria. Il suo tentativo di rimettersi in piedi fallì: ormai la gamba devastata era completamente inerte.
Rimase carponi, con l'impressione di respirare dei chiodi incandescenti.
Sentiva Obadiah blaterare in sottofondo, preso da un delirio di onnipotenza, e registrò a malapena il proprio elmo accartocciato che rimbalzava accanto a lui sulla vetrata, gettato via con disprezzo dal suo ex- socio. Il suo sguardo era puntato in basso, verso il puntino rossiccio che si aggirava rapido nell'azzurro abbagliante, armeggiando attorno alle centraline di comando del reattore. Si sentiva prosciugato di ogni energia, e la volontà che si dibatteva nel suo petto era appena sufficiente a impedirgli di rannicchiarsi a terra, chiudere gli occhi e lasciare che ciò che non era successo sei mesi prima accadesse ora, ironicamente di nuovo per mano di qualcosa creato da lui. Sentiva il buio che lambiva i suoi sensi, allettante e carezzevole, come una buonanotte promessa di un sonno dolce e lieve.
"È questa, l'ultima sfida del grande Tony Stark?"
Si forzò a sollevare gli occhi, e incontrò quelli spenti del suo casco rosso-oro sfigurato; subito dietro, si ergeva la figura minacciosa e torreggiante di Stane. Si trovò a digrignare i denti: quella era la
sua armatura, la sua promessa di libertà in una grotta oscura; quei pezzi metallici erano stati forgiati dalle sue mani e da quelle di Yinsen. Portò una mano al proprio reattore, solo un pallido riflesso di quello davanti a lui, eppure egualmente brillante, custode di tutta la fiducia che gli altri vi avevano riposto.
Si issò su un ginocchio, contrastando con furia il buio, deciso a non abbandonarsi docilmente a quel sonno ingannevole.
Non cedette di un solo centimetro, piantandosi al suo posto con le forze che gli rimanevano e sostenendo lo sguardo di Obadiah, ora a viso scoperto, con un misto di sufficienza e rabbia. Il suo padrino, con gli occhi accesi da una lucida follia, gli puntò addosso una delle mitragliatrici senza alcuna esitazione, e Tony ebbe appena il tempo di pararsi il volto scoperto con un braccio, usando uno dei flap anteriori come scudo improvvisato. Socchiuse le palpebre nella pioggia di scintille, rintronato dal fracasso del metallo contro metallo, cercando di mantenere l'equilibrio mentre sentiva la vetrata iniziare a cedere sotto di lui, colpita dai proiettili.
Poi accaddero troppe cose insieme, e fu come essere sballottato qua e là da una mano invisibile, senza riuscire a ricollegare le sue sensazioni al mondo reale. La voce di Pepper lo raggiunse, appena udibile oltre la spessa vetrata, ma il suo istinto di attivare i propulsori per abbandonare il tetto fu stroncato da una fitta straziante al volto e dalla sensazione di precipitare. Annaspò nel vuoto e la trave metallica a cui si avvinghiò gli mozzò il respiro, mentre il peso dell'armatura lo trascinava in basso, ad oscillare inerme sopra il nucleo ribollente del reattore. Scalciò debolmente nel vuoto, con la vista oscurata dal sangue e la sensazione di avere un ferro rovente conficcato nell'occhio, mentre sentiva il resto della vetrata disintegrarsi sotto i colpi alla cieca di Stane. I suoi pensieri sfarfallanti andarono a Pepper e alla pioggia acuminata che l'aveva appena investita. E se lui fosse morto, Obadiah sarebbe passato a lei.
«Premi il bottone!» si sgolò, con la voce deformata dal dolore.
«Così morirai!» la sentì protestare, sensatamente, nonostante il panico che riconobbe in quelle parole.
Un missile sparato da Stane esplose a qualche metro da lui; il contraccolpo gli fece perdere la presa, e riuscì a recuperarla solo con la flebile forza che gli rimaneva nelle dita.
«Premilo!» ripeté, preparandosi ad attivare i propulsori posteriori.
Sentì la propria mano cedere e seppe che stava per morire, scomparendo proprio nella creazione di suo padre.
L'improvvisa scarica di energia lo sbalzò invece in alto, e riuscì a deviare la traiettoria il tanto che bastava per non esserne completamente risucchiato. Atterrò sul telaio del lucernario e rimase lì, con la vista offuscata e il respiro spezzato, cercando di muoversi il meno possibile. L'armatura era leggermente più reattiva e sentì il blocco al petto alleviarsi un poco: la scarica doveva aver fornito un pizzico d'energia al reattore morente. Attraverso il velo di lacrime e sangue, distinse Stane che veniva investito in pieno dal raggio, le sue grida perse nella cacofonia di elettricità e lamiere divelte. Il cielo si illuminò a giorno, come acceso da un lampo mostruoso, per poi spegnersi con un brontolio profondo.
Il silenzio premette sulle sue orecchie, interrotto solo dallo schianto dell'enorme armatura che collassava a pochi metri da lui, ponendo entrambi in precario equilibrio sui resti del telaio della vetrata. Obadiah, ancora all'interno della corazza, sembrava morto, o forse solo svenuto.
Tony concentrò tutte le sue forze nel mantenersi vigile, contrastando la sua coscienza sempre più fluttuante, resa labile dall'emorragia e tormentata dalle fitte al volto e alla gamba. Portò la mano nuda a detergersi il sangue che gli oscurava la vista, e non trattenne un grido non appena le sue dita sfiorarono lo squarcio. Non ebbe tempo per soffermarsi a valutare il danno: le travi metalliche mandarono un lamento preoccupante e le sentì inclinarsi, facendo scivolare di qualche centimetro lui e Stane. Intravide quest'ultimo muoversi debolmente, incastrato nell'armatura, e sganciare le cinghie di sicurezza che lo imbracavano all'interno. Il telaio cedette ancora, sollecitato dal suo dimenarsi, ed entrambi trattennero involontariamente il respiro.
Tony sentì il nugolo di violente emozioni che l'aveva invaso poco prima scemare, e lasciar posto a un senso di disgusto e pena per l'uomo accanto a lui, intento a districarsi tra i resti contorti del suo stesso operato. Lo vide protendere una mano nella sua direzione, con l'altra ancora intrappolata nell'arto metallico di Iron Monger. Mirava a una trave sporgente poco più in alto di lui per trarsi in salvo, e Tony percepì il telaio affossarsi pericolosamente, sul punto di spezzarsi di netto e trascinarli entrambi verso morte certa. Si scansò a fatica, il tanto che bastava per porsi sul solido cornicione di cemento, mentre Obadiah tentava inutilmente di sporgersi ancor di più, riuscendo però solo a sfiorare la trave con la punta delle dita.
Era a portata di mano, realizzò Tony. Gli sarebbe bastato allungare il braccio per offrirgli l'appiglio che cercava. Serrò i denti, pensando alla grotta, pensando a Yinsen, e al reattore incastonato nel suo petto, e a come quella serpe avesse tradito sia la sua fiducia che quella di suo padre e avesse tentato di uccidere Pepper.
Fissò la mano tesa verso di lui, continuando a rimestare incessantemente quel calderone colmo d'odio. Un singolo fotogramma emerse nella catena di ricordi convulsi e colmi di sofferenza che si stava sforzando di evocare, sovrapponendosi al presente: un Obadiah più giovane e con solo una spruzzata di grigio nella barba biondiccia, stretto in uno sgargiante completo anni '70 e con un panama a coprirgli i capelli folti. Anche allora tendeva una mano verso di lui, nascondendo solo in parte la sagoma squadrata di un robottino rosso sgargiante. Suo padre era sullo sfondo, già affrettato verso il suo ufficio e a mani vuote, e sentiva quelle gentili di sua madre posate sulla spalla in un gesto al contempo affettuoso e protettivo.
Per un istante, rivide quel robottino rosso nella mano protesa di Stane, e il suo braccio scattò d'istinto in avanti proprio quando il telaio cedette ancora con un assordante cigolio.
Stane si aggrappò a lui, scampando la caduta con un grido sorpreso. Tony sentì il suo peso tendere ogni muscolo del proprio braccio, e si puntellò contro il bordo con ogni residuo di forza e volontà che gli rimaneva. Stane gli rivolse uno sguardo stralunato, nel quale tentò di riconoscere il proprio padrino, trovando solo due fredde lastre inespressive, ma non mollò la presa. Si accorse solo allora che Stane non stava tirando per issarsi in alto, ma per trascinare lui verso il basso.
«Abbiamo fatto la nostra parte,» proferì, in un tono agghiacciante che fece defluire da lui ogni stilla di benevolenza. «Adesso è il momento di uscire di scena.»
Con un gesto repentino, allungò l'altra mano ancora avvolta dall'enorme guanto metallico e la serrò appena sopra il suo gomito, trasformando quella presa in una morsa ferrea dolorosa. Tony non riuscì a contrastare la sua forza e si sentì sbalzare in avanti, verso il vuoto e il magma elettrico del reattore. Riuscì ad artigliarsi ai resti del telaio, dove rimase incastrato tra le sue travi divelte, che funsero da rete di sicurezza. Fu allora che la porzione su cui poggiava Stane cedette definitivamente: lui precipitò ancora aggrappato al suo braccio, e Tony lo sentì allungarsi più di quanto fosse naturale, mentre ogni singolo tendine e muscolo bruciava e ogni singolo osso tremava con agonizzante nitidezza, sul punto di frantumarsi. Si sentì gridare come da molto lontano mentre tentava di sganciare alla cieca il rivestimento dell'armatura, inutilmente.
L'ultima cosa che percepì fu un secco schiocco di legno spezzato e uno strappo di stoffa lacerata, poi la disturbante realizzazione che il suo corpo fosse diventato più leggero del dovuto.
Il buio arrivò pietoso ad offuscare i suoi sensi.


***


Fu risvegliato dalla vertigine che lo prendeva allo stomaco, e per un momento fu convinto di star decollando come al solito con la propria armatura. L'illusione s'infranse quando si sentì cadere per quelle che parvero miglia, finché l'impatto sulla schiena non gli spezzò il respiro. 
Il mondo era dolore e sangue e metallo. 
Socchiuse l'occhio pesto e tutto ciò che mise a fuoco fu un riflesso azzurro e indefinito sopra di lui. Lo riportò al cielo terso in Afghanistan, e agli occhi benevoli di Yinsen, e al nucleo vivo del reattore nella grotta, e alle onde del Pacifico che lo accoglievano a casa.
L'aria gli sfuggì dalle labbra spaccate in un refolo stentato e lasciò che palpebra ricadesse a privarlo di quel colore familiare. Era certo che l'avrebbe ritrovato al suo risveglio, negli occhi di chi l'aveva aspettato per tre mesi – o forse per dieci anni – e lo chiamava, anche adesso, indicandogli una via d'uscita che non riusciva a vedere.
Si abbandonò di nuovo quietamente all'incoscienza, distaccandosi dal suo corpo sofferente, ed entrò in un inquietante mondo sospeso fatto di specchi, abissi e riflessi estranei.


***


"Dove sono?"
Acqua, e delle luci in lontananza. Lo sciabordio delle onde contro la chiglia di un battello. Altre luci fluttuano tutt'intorno. Il vento porta con sé un odore salmastro e le note di un organetto. Una città galleggia sulla laguna, illuminata dall'ultimo chiarore azzurrino del crepuscolo estivo.
«Tony? Si sbrighi, è tardi.»
Si gira verso di lei e rimane incantato ad ammirarla. Si è dimenticato di quel vestito verde smeraldo e di quanto le stia bene. Spesso dimentica semplicemente quanto sia bella lei. 
Le rivolge un sorriso senza neanche pensarci; gli affiora spontaneo alle labbra, sospinto da quella bolla leggera che a volte gli invade il petto quando la guarda.
«Arrivo. Solo un momento.»
Esita e rivolge di nuovo lo sguardo alla placida distesa d'acqua. Ha la sensazione di aver dimenticato qualcosa. Lo cerca speranzoso nelle luci lontane, ma quelle occhieggiano indifferenti in risposta.
È in ritardo. Lo sa, lo sente, ma indugia ancora.
«Anthony.»
Una voce permea l'aria calda. È cupa, profonda e fin troppo conosciuta, carica però di una preoccupazione estranea.
"Ignoralo. Lui ti ha sempre ignorato."
Quando muove il primo passo, la laguna è già sparita.
È rimasto il buio, ora punteggiato da mille, fredde luci azzurrine che sembrano trafiggerlo.
«Anthony! Che cosa stai facendo?»




____________________________________________________________________________
 

Note Dell'Autrice:

Ah, la magia del Natale <3
Non potevo davvero scegliere capitolo più allegro e festivo per questo periodo, in effetti... ma ho compensato altrove con dosi di miele illegale, quindi penso di essere giustificata, su.
Parto col dire che questo capitolo esiste da sei anni. La primissima bozza è stata scritta a quattro mani, poi ho ovviamente colmato i vari buchi emersi con la revisione, ma il succo della questione rimane lo stesso: Stane è uno stronzo <3 E le varie elucubrazioni su di lui verranno approfondite in seguito, ma sono un misto tra i fumetti e il mio headcanon che lo riguarda. La scena in cui Stane si aggrappa al suo braccio è una versione rielaborata di una scena eliminata del film Iron Man, di cui ho ripreso alcune battute.

Sono felicissima di vedere che nuovi lettori si siano avvicinati alla storia, per cui ringrazio tantissimo Flavia_14 e Sissi Malfoy Black che hanno recuperato tutto i capitoli e hanno commentato l'ultimo, facendomi uno stupendo regalo di Natale <3 Grazie anche a _Atlas_, T612, Enigmista96, Emyclarinet e 50ShadesOfLOTS_Always che hanno commentato lo scorso capitolo e/o i precedenti. Non avete idea di quanto mi rendiate felice con ogni parola che mi lasciate <3

Qui chiudo, prima che diventi un manoscritto. Spero vivamente di aggiornare entro il 10 gennaio :)
Buone feste e un caro saluto a tutti voi,

-Light-


P.S. La parte in cui Tony si rialza "contrastando con furia il buio" e quella immediatamente precedente sono rielaborazioni della poesia Do not go gentle into that goodnight di Dylan Thomas, che è una delle mie preferite in assoluto e vi consiglio di leggere se non la conoscete già <3


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Capitolo 47
*** Knockin' on Heaven's door ***



46


Knockin' on Heaven's door




"Confusion will be my epitaph
As I crawl a cracked and broken path
If we make it, we can all sit back and laugh
But I fear tomorrow I'll be crying"

[Epitaph – King Crimson]





12 Maggio, Villa Stark

Tic toc. Tic toc.
Si ripromise di contare di nuovo fino a trenta.
Inspirò. Espirò.
Tic Toc
. Tic Toc.
Arrivò a centoventi. Perse il controllo del suo respiro, adesso fuori tempo rispetto al ticchettio snervante dell'orologio. Perché si ostinava ad avere un'anticaglia ticchettante sul comodino?
Tic toc
. Tic toc.
Forse per scandire meglio le sue notti insonni, per dare loro una dimensione e dei contorni misurabili senza dover per forza aprire gli occhi nel buio e rischiare di incontrare il nulla.
Tic toc. Tic toc.
Il fioco riverbero azzurrino proveniente dal suo petto rischiarò il quadrante.
Le 2:17.
La voce di suo padre continuava a rimbombargli in testa.
"Cosa stai facendo?"
Si era rigirato quella domanda in testa per ore, analizzandola da ogni angolazione, scandendola con mille sfumature differenti, e ancora non riusciva a trovare una risposta che lo soddisfacesse e che lo lasciasse in pace col dolore lancinante ai moncherini che gli impediva di riscivolare nel sonno.
Cosa
stava facendo?
Stava lavorando al suo retaggio, affinché non andasse perduto. No, si corresse, era il suo retaggio che stava divorando lui, una vena intossicata alla volta.
Stava aspettando troppe cose e ne stava rimandando altrettante.
Tic Toc. Tic Toc.
Le 2:20.
Stava perdendo tempo in ogni modo possibile.
Si rivoltò nel letto in un moto di frustrazione e ciò gli strappò un lamento per le ferite insolitamente sensibili. Si era abituato ad avere qualche crisi notturna, ma adesso si sentiva come se avesse due rozzi chiodi infissi nei moncherini al posto delle protesi. E più rimaneva sdraiato, più aveva l'impressione che un peso gli schiacciasse il petto rubandogli il respiro, mentre il materasso sembrava cosparso di vetri acuminati.
Trasse un profondo respiro prima di sollevarsi a sedere in un sol movimento, stringendo i denti per il coro di protesta che sembrò levarsi da ogni cellula del suo corpo. Piantò saldamente i piedi a terra e si alzò chiedendosi se le gambe avrebbero retto, in quelle condizioni e rinunciando al bastone. Protestarono vivacemente, ma ressero, così uscì zoppicando dalla sua camera in cerca d’aria fresca, sollievo e distrazioni.
Vagò per un po’ a vuoto per l'enorme villa, irrequieto e accompagnato solo dal rumore metallico della protesi che impattava col marmo freddo. Più camminava, più si sentiva sul punto di rovinare a terra, ma allo stesso tempo era incapace di stare fermo: gli sembrava di avere costantemente un'ombra che si aggirava ai margini della sua visuale, incalzandolo a muoversi. Ad ogni passo il moncherino gridava, risvegliando ricordi ora fin troppo chiari, ma non si arrestò, volendo scacciarli e riuscendo solo ad evocarli in modo sempre più vivido.
Le sue gambe volevano guidarlo verso la camera di Pepper, ma contrastò pervicacemente quella tentazione. Non voleva che lo vedesse in quello stato, e non sapeva spiegarsi se fosse per amor proprio o per evitare di causarle altro dolore o, ancora, per timore di ciò che sarebbe potuto accadere una volta lì. Ad ogni modo, si tenne a distanza dalla sua porta.
Finì per recuperare la chiave nell’armadietto dell’atrio, imboccando poi la porta dello studio di suo padre. La chiuse dietro di sé, poggiandosi al legno vecchio per non farla riaprire ed esitando ad accendere la luce. Mosse un passo incerto, allungando a tentoni una mano davanti a sé mentre si abituava pian piano al buio, interrotto solo dalla lama di luce che filtrava dallo stipite difettoso. Si lasciò avvolgere dal tenue sentore della carta ingiallita e del legno vecchio che permeava l’aria, quasi tangibile nell’oscurità. Premette infine l’interruttore e la lampadina sfrigolò, gettando una luce traballante che si stabilizzò dopo qualche secondo, rivelando le ben note sagome che popolavano lo studio ancora sottosopra dopo la sua ultima incursione. In un angolo erano impilati i documenti che, prima o poi, avrebbe dovuto consegnare allo SHIELD; nell’altro erano ammucchiati quelli che invece si era ripromesso di distruggere e che erano invece rimasti lì a impolverarsi. Alcuni fascicoli sulla Stark Expo del ’74 erano poggiati su uno sgabello in una risma ordinata, probabilmente riportati lì da Pepper dopo il suo lavoro di documentazione.
Si avvicinò lentamente alla scrivania e vi poggiò distrattamente la mano, seguendo le venature del legno con le dita. Il suo sguardò vagò sul muro di rilegature che colorava la libreria, senza soffermarsi su nessuna in particolare. Iniziava ad accusare delle fitte più insistenti, così si inclinò contro la scrivania, alleviando il peso dalla gamba e stringendo il bordo con le dita sane, le labbra tirate involontariamente in una smorfia.
Trovò finalmente la forza di indirizzare lo sguardo al baule lì accanto, e la sua mano meccanica corse al reattore, picchiettando leggermente sulla sua superficie liscia. Prima di poterci ripensare si scostò dal suo sostengo, s’inginocchio con un gemito a malapena soffocato e fece scattare le chiusure metalliche, che opposero una flebile resistenza prima di cedere, permettendogli di aprire il coperchio con un cigolio sommesso di cardini a lungo non oliati.
Rimase per un attimo disorientato dalla mole di colori, forme e figure familiari che intravvide a colpo d’occhio sulla superficie ben stipata del contenitore: un vestito lì, la cornice di un quadro là, una scatola di scarpe qua. Si chiese se non avrebbe fatto meglio a richiuderlo e lasciar riposare il passato e i ricordi. Sollevò delicatamente un vestito estivo a motivi floreali, ben riposto in cima a una pila di indumenti, e passò il pollice sui piccoli rilievi dei fiordalisi ricamati finemente sulla stoffa chiara. Gli parve di sentire una scia appena accennata di acqua di colonia, assieme alle note ovattate di una melodia conosciuta. Si lasciò sfuggire un tenue sospiro mentre ripiegava con accortezza il vestito per riporlo accanto a lui, lisciando poi con una carezza le pieghe del lino leggero. Passò a svuotare il baule con obbligata lentezza, soffermandosi di tanto in tanto a rigirarsi in mano un oggetto conosciuto, lasciando che evocasse qualche stralcio di ricordo. Dopo una buona ventina di minuti portò alla luce la sua vecchia cesta di giocattoli sul fondo, con sopra un pezzo di cartone rigido a mo’ di coperchio. La tirò fuori con qualche scossone, cercando di trattenere uno starnuto per la polvere che gli stava già facendo lacrimare l’occhio, ma finì comunque per lasciarselo sfuggire assieme alla cesta, che rovinò a terra e si rovesciò con un disordinato fracasso di plastica.
Osservò con disappunto la selezione di quei pochi giocattoli sparpagliati che, quando suo padre aveva deciso di punto in bianco che non era più un bambino, era riuscito a mettere in salvo con l’aiuto di sua madre. Prese tra due dita il modellino elettrico di una Shelby da corsa che all’epoca aveva passato giornate intere a modificare e gli venne da sorridere appena nel pensare alle sue auto in garage: non era poi cambiato molto, sotto quel punto di vista. Il suo sorriso si affievolì nel passare in rassegna il resto dei giocattoli sparpagliati di fronte a lui, individuando quasi all’istante il motivo per cui se ne stava inginocchiato per terra nello studio di suo padre alle tre di notte, cercando di ignorare il dolore al volto e ai moncherini fattosi man mano sempre più insopportabile.
Il robottino rosso era rivolto a faccia in su, con la testa ovoidale e coperta dalla maschera argentata che faceva capolino da sotto un’astronave, le corte tenaglie ancora piegate in un qualche gesto ora privo di significato. Nel soffermarsi su quel dettaglio, una spiacevole tensione gli attraversò il braccio artificiale, qualcosa che teoricamente non avrebbe dovuto percepire. Si sfregò il rivestimento metallico, come a scacciare la pressione che sentiva appena sopra il gomito, e si costrinse a prendere il robot. Gli sembrò più pesante di quanto fosse ragionevole pensare e più piccolo di quanto ricordasse, tra le sue mani adulte, segnate e ora asimmetriche. Lasciò la presa con quella meccanica, che aveva cominciato a stringerlo con troppa forza rischiando di deformarlo. Liberò il respiro che non si era accorto di aver trattenuto e rilassò il volto inconsciamente corrucciato, sciogliendo la tensione delle sopracciglia aggrottate. Tenne lo sguardo fisso sul rosso vivo del robot, quasi ipnotizzato.
Emise un altro sospiro, più secco, quasi violento. Poi posò il robottino, risistemò con rapidità il contenuto del baule al proprio posto e si rialzò a fatica, recuperando il giocattolo. Chiuse coperchio e chiavistello, spense la luce e si sbatté la porta alle spalle senza curarsi di chiuderla a chiave, col robottino ancora stretto in mano.


***


Trovò rifugio in terrazza e si accontentò di scrutare il cielo dal basso, piuttosto che attraversarlo in volo come avrebbe voluto. Cercava qualche stella, ma era nuvoloso, e la luna dimezzata sbucava solo di tanto in tanto da un’apertura tra le nubi, lanciando qualche raggio perlaceo sulla superficie appena agitata dell’oceano.
Tony se ne stava poggiato al parapetto, con gli avambracci puntati contro il cemento e il robottino in piedi lì accanto, come se stesse ammirando anche lui il panorama. L’aveva posizionato vicino al bordo, ad appena pochi millimetri dal vuoto, ed era lì da almeno venti minuti. Si sfregò il volto in un gesto esausto: stava esitando, ancora una volta, come nel sogno. Provava una fitta di rabbia feroce ogni volta che fissava quell’oggetto, eppure ogni volta che faceva per spingerlo oltre il bordo lo colpiva un’altra fitta, più dolorosa, pericolosamente vicina al punto in cui erano incastrati i frammenti della bomba. 
Non riusciva a capacitarsi di trovarsi lì a causa dell’uomo che gli aveva regalato quel giocattolo. Era una concatenazione di eventi di cui era stato cosciente sin dal momento in cui si era risvegliato su quel letto d’ospedale, ma paradossalmente, proprio ora che riusciva a ricordare nel dettaglio ciò che era accaduto, il tutto aveva assunto contorni onirici e ineffabili. L’unica cosa vivida e reale era il dolore ai moncherini; sapeva che a breve si sarebbe pentito amaramente della sua passeggiata notturna, ma si ostinava a resistere, concentrandosi su quella sensazione spiacevole per scacciare il dubbio di non essersi mai svegliato dopo l’incidente. Ma era lì, in piedi, e stava morendo per colpa di Stane.
Sfruttò quel getto di rabbia e prese un respiro profondo, e con esso anche il robot, soppesandolo poi nel palmo metallico. Serrò la mano, e udì un lieve stridio di plastica in risposta. Un attimo prima di perdere il controllo e disintegrarlo, lasciò la presa oltre il bordo.
Nel guardarlo cadere, provò un senso di vertigine che non scomparve neanche quando il puntino rosso fu inghiottito dai flutti scuri. Non era la sensazione piacevole che lo coglieva al decollo, ma piuttosto quella di precipitare all’infinito, quasi si fosse buttato lui stesso dalla scogliera. Per un attimo si chiese se non l’avesse fatto davvero, e gli parve di sentire l’abbraccio freddo e salmastro delle onde sulla pelle. Avvertì un gorgo spalancarsi al centro del petto.
Si scostò bruscamente dal parapetto, reprimendo un conato e rendendosi conto solo allora dei brividi che lo scuotevano già da chissà quanto. Era zuppo di sudore freddo e gli sembrava che la pressione nella sua gabbia toracica fosse aumentata, rendendolo dolorosamente consapevole del reattore che la trapassava e di ogni singola costola.
Si lasciò cadere seduto sulla cornice dell’aiuola, accanto alla ginestra che dondolava tranquilla nella brezza serale. Gli tremavano le gambe, ma le ignorò e portò il palmo metallico a coprirsi la bocca, soffocando un lamento e un respiro strozzato assieme. Non voleva avere un altro attacco di panico dopo quello che l’aveva colto nel sonno, ma il suo corpo sembrava aver deciso altrimenti e stava cercando di cacciarlo fuori di sé per l’ennesima volta. Strizzò l’occhio, imponendosi di controllare il respiro contando all'indietro, come gli aveva insegnato a fare Ian, e riuscì a incamerare una boccata d’aria appena sufficiente a non fargli oscurare la vista. Di nuovo, sfruttò le fitte come appigli, riuscendo ad allontanarsi pian piano dal vortice, nonostante la corrente che cercava di attirarlo a sé fosse ancora ben percepibile e le immagini dell’incubo gli scorressero in testa a ripetizione.
Stane che cadeva, il suo braccio che si allungava seguendo un puro istinto, il robottino che cadeva a sua volta. Contrasse i pugni, col fiato corto.
Un rumore secco che spiccò contro quello soffuso della risacca lo fece voltare verso la porta-finestra che si apriva sul terrazzo. Un misto di piacevole sorpresa e apprensione gli strinse lo stomaco nel vedere Pepper che chiudeva il vetro dietro di sé, con i capelli sciolti scarmigliati dal sonno e dalla brezza leggera e la solita accoppiata di maglietta e pantaloncini trafugati a lui che usava come pigiama.
«Anche lei qui, signorina Potts?» la accolse, rivolgendole un sorriso appena accennato e cercando di non suonare affannato per non dare a vedere il suo turbamento.
Il sollievo di averla lì accanto superava di gran lunga il senso di colpa per essere probabilmente la causa della sua insonnia.
«Ho sentito un rumore e ho pensato che fossi sveglio,» rispose lei avvicinandosi e rimanendo in piedi accanto a lui.
Tony pensò alla scatola che gli era caduta prima nell’ufficio e alla ben poca grazia che aveva avuto nel riordinare il baule e nel lasciare la stanza. Si accigliò appena, sia per quello, che per il fatto che fosse passata almeno mezz’ora. Non si spiegava perché Pepper avesse aspettato così tanto prima di raggiungerlo, e soprattutto se si fosse dovuta convincere a farlo. Trattenne l’urgenza di sospirare per le insensate congetture che lo assillavano puntualmente. Tenerle a bada era estenuante e a volte avrebbe solo voluto accettarle come vere per avere un momento di pace mentale. Soffocò quel senso di inadeguatezza che cercava di sopraffarlo ogni volta che si trovava vicino a lei e raccolse la voce per parlare di nuovo:
«Ti ho svegliata?»
Pepper esitò nel rispondere e lui percepì l’ansia impennarsi per un istante, chiudendogli lo stomaco.
«No,» disse lei, senza incrociare il suo sguardo.
Si sedette accanto a lui, con la ginestra che protendeva appena i suoi rami tra loro in una lieve barriera facilmente travalicabile.
«Quindi eri già sveglia?» indagò Tony, intuendo la sua reticenza.
Di nuovo, non ottenne subito risposta. La osservò sfiorare i minuti boccioli gialli con la punta delle dita, in un gesto assente.
«Non riuscivo a dormire,» confessò poi, in fretta. «Tu?»
«Sono rimasto sveglio in laboratorio,» mentì lui.
Sentì gli occhi di Pepper che lo scrutavano a fondo, cercando di smascherarlo, ma s’impedì di far trapelare un qualsiasi cenno di cedimento. Un conto era essere sinceri, un altro era farla preoccupare per qualcosa che sfuggiva al controllo di entrambi; non aveva alcun bisogno di sapere quanto lo stessero tormentando le ferite in quel momento, né perché il dolore fosse così accentuato. Né che l’intossicazione sfiorava ormai il 65%. Erano rimasti d’accordo di non parlarne più esplicitamente e in termini numerici e percentuali, ma ormai sentiva il palladio che iniziava a chiudergli i polmoni come una pianta infestante ed era inutile cercare di camuffare il malessere: Pepper ne era sempre perfettamente cosciente e aveva solo scelto di rispettare i suoi silenzi al riguardo, rimanendogli accanto.
Anche adesso aveva sicuramente captato la sua bugia, ma non insistette, e gliene fu grato. Si limitò a fargli una carezza sul braccio, suscitandogli il consueto miscuglio di emozioni che avrebbe potuto farlo uscire di testa; quel tira e molla inconcludente tra il volersi ridurre a un atomo invisibile e il voler invece fondersi con la sua pelle ad ogni minimo contatto.
In quel breve lasso di tempo si era imposto di superare quella fisima, ripetendosi che anche quello –
soprattutto quello – faceva parte dell’essere amati, e aveva raccolto più vittorie che sconfitte. Il fatto che neanche Pepper si fosse dimostrata incline ad accelerare i tempi era stato un ulteriore sprone. Ma adesso non si sentiva assolutamente nelle condizioni di essere indulgente col proprio corpo, non con i pensieri che si scontravano con violenza nella sua testa rintronandolo e riportandolo al momento in cui era stato mutilato e sfigurato.
Si ritrasse quindi al contatto senza riuscire a frenarsi, e Pepper lasciò subito scivolare via la mano. Tony notò come tirò impercettibilmente le labbra nel farlo, con una singola piega che andò a intaccarle la fronte. Gli sfuggì un lungo sospiro che s’impegnò a rendere il più silenzioso possibile, per poi accostarsi di più a lei fino a sfiorarla, sperando che capisse e che sopportasse quel suo lato che spesso sfuggiva al suo controllo. Lei non si mosse e, anzi, si adagiò nel suo calore. Cercò la sua mano artificiale, stavolta, e stavolta Tony si sforzò di accettare quel gesto, come sempre disorientato dal conflitto tra l’assenza di tatto e il vedere ciò che avrebbe dovuto sentire, risvegliando un’ombra di percezione nel suo arto inanimato. Non osò muoversi, come sempre paralizzato dal timore di farle involontariamente male, ma quel contatto mediato era più gestibile di uno diretto.
«Giuro che ci sto provando,» mormorò frustrato, come unica spiegazione, e sentì il sospiro di Pepper solleticargli la pelle in tutta risposta.
«Va bene così, Tony. Ne abbiamo parlato,» lo rassicurò, inclinando il volto verso di lui.
Lui non rispose, ma tirò appena lo bocca in un’espressione poco convinta. Pepper era sembrata in un certo senso più esitante a venire in contatto fisico con lui; non che non lo ricercasse, anzi, non gli era mai stata così vicina, ma vi era una sorta di reticenza di fondo da parte sua che non riusciva a collocare. E non riusciva a capire se ciò nascesse dalla volontà di rispettare i suoi spazi, o da un ripensamento sulle sue scelte. Quasi a voler fugare quel dubbio, inghiotti la sua ansia e allentò per un istante il freno che si era imposto: si chinò verso di lei, per poi esitare volutamente a pochi millimetri dalle sue labbra – non che sarebbe mai riuscito a incontrarle davvero. Fu lei a colmare la distanza causandogli un sussulto interiore, con tanta naturalezza da farlo vergognare di aver dubitato di lei. Non appena sentì le sue labbra allontanarsi le seguì d’istinto, prolungando un poco quel breve contatto che gli rimescolava i pensieri spingendo sotto la superficie quelli più cupi. Avrebbe voluto raggomitolarsi in quei singoli istanti per ore, mettendo in sospeso tutto ciò che gli impediva di ricercarli più spesso.
Quando interruppe il bacio, fu solo perché sentì il cuore sul punto di entrare in fibrillazione, e rimase comunque vicino a lei, chiedendosi in sottofondo se fosse tutto così facile perché in quel momento non era nel pieno controllo di se stesso, o se si trattasse invece del caso il contrario. Quei pensieri avrebbero finito per farlo impazzire davvero, anche se aveva il sospetto che gli incubi ci sarebbero riusciti prima.
Il ricordo di Pepper fasciata da quel lungo vestito verde di tanti anni prima fece di nuovo capolino nella sua mente, quasi a rassicurarlo. Le sorrise appena, suscitando un’espressione confusa sul suo volto, impegnata com’era a cercare di decifrare i suoi comportamenti contraddittori, e spostò lo sguardo sull’oceano increspato e delimitato dal serpente di luci che rincorreva la Pacific Highway sulla costa.
«Ti ricordi Venezia?» si decise a chiedere, incurante di quanto suonasse strana quella domanda.
Poté quasi percepire nell’aria la perplessità di Pepper, ma quando parlò il suo tono rimase neutro, con solo una punta di curiosità a ravvivarlo:
«Certo. Perché?»
Tony scrollò le spalle, confuso a sua volta, e sfuggì il suo sguardo coprendosi poi con la mano il lato sinistro del volto in una tenue difesa, accusando l'assenza della benda.
«Niente. Ci sarei voluto tornare,» disse evasivo.
Non riuscì ad aggiungere altro, né a nascondere il rimpianto che trapelò dalla sua voce e che espresse molto più di quanto avrebbe voluto. Sentì Pepper irrigidirsi appena e ad accostarsi a lui come di riflesso, cogliendo all’istante i sottintesi di quell’affermazione e le possibilità che escludeva.
«Magari quest’estate,» la sentì dire poi, a voce bassa ma ferma, con quella tenacia che non la abbandonava mai.
Tony si trovò a stringerla delicatamente a sé, ignorando ancora le proteste insensate della sua mente e accogliendo con silenziosa gratitudine quelle parole, forse banali, forse illusorie, ma dolci per le sue orecchie. La morsa al petto non si allentò, ma divenne sopportabile. Pepper era sempre in grado di riaprire la porta sul futuro ogni volta che lui la chiudeva.
«Vuoi rientrare?» le chiese dopo un po’.
Lei si riscosse dal torpore, sollevando la testa fino ad allora poggiata sulla sua spalla.
«Tu vuoi rientrare?»
Tony considerò per qualche secondo la domanda. Si trovò a non voler interrompere quel momento, per quanto una parte di sé avrebbe accolto volentieri il rifugio del proprio letto. Dopo quell’incubo si sentiva più vulnerabile che mai, come se qualcuno gli avesse di nuovo aperto il petto per mettere a nudo non solo il suo cuore, ma anche tutto ciò di invisibile in cui galleggiava. Ma c’era solo Pepper a guardarlo, e non aveva motivo di nascondersi ai suoi occhi, anche se non era in grado o non voleva esprimersi a parole; non ora, almeno.

Forse domani. Forse quest’estate.”
«Sto bene qui,» rispose infine, rivolgendole un sorriso mesto e appena accennato.
«Anch’io,» concluse Pepper, tornando a guardare l’oceano buio e poggiandosi di nuovo a lui.
Tony fece lo stesso, seguendo distratto il moto lontano delle onde, punteggiate da riflessi che gli rievocava ricordi altrettanto distanti.
"Non sarebbe un brutto posto per morire," quel pensiero repentino sfuggì al suo controllo assieme alla lacrima che gli rigò il volto, muta e invisibile nella penombra della terrazza.


***


13 Maggio, 4:15, Villa Stark

Forse non avrebbe dovuto lasciarlo solo.
Pepper si rigirò ancora nel letto, attorcigliandosi sempre più nelle pieghe del lenzuolo esattamente come stava facendo la sua mente coi pensieri. Non riusciva a togliersi dalla testa lo sguardo confuso e sofferente di Tony e le sembrava di non essere riuscita a decifrarlo del tutto, o forse di non averci provato affatto.
Sapeva che, quando la cercava in modo così diretto ed esplicito, seppur esitante, nascondeva sempre un turbamento più profondo che metteva momentaneamente in secondo piano tutto ciò che lo avrebbe spinto a ritrarsi in un’altra situazione. Era una presa di coscienza dolorosa, accompagnata dalla consapevolezza che in ogni gesto che Tony le rivolgeva, per quanto piccolo, vi fossero una premura e un’intensità ben percepibile, come se tentasse sempre di racchiudervi tutto ciò che poteva nel timore di non poterlo ripetere. E lei faceva lo stesso, attanagliata da un timore simile che si diramava però in direzioni più variegate.
Si chiedeva se, o meglio
quanto, le sarebbe mancato seguire con la punta delle dita il filo diritto della sua mandibola, o sentire il suo pizzetto pizzicarle la guancia, o passargli una mano tra le ciocche morbide, o accogliere le sue labbra calde e ferme con le proprie. Era l’unica stilla di paura che la faceva esitare e che a volte bloccava sul nascere un gesto troppo audace o ne interrompeva uno che avrebbe potuto imprimersi troppo a fondo nella sua memoria.
Ritornava comunque troppo spesso col pensiero a quegli attimi sull’aereo, quando aveva ceduto a quel bacio trattenuto per mesi; e a quello di qualche giorno dopo, quando Tony l’aveva infine accettato, dando ufficialmente il via a un qualcosa che nessuno dei due sapeva o voleva definire o etichettare. Da quel momento avevano preso a orbitare l'uno attorno all'altro in modo quasi inconsapevole, come due magneti, ma coi poli rivolti troppo spesso dal lato sbagliato che creavano un'invisibile e tangibile forza repulsiva tra loro. Riuscivano a contrastarla quel tanto che bastava per ritagliarsi dei momenti di quieta normalità, ma aveva sempre l’impressione che fossero solo pagliuzze rubate a ciò che sarebbe potuto essere e che non sarebbe mai stato.
Quella realizzazione la colpì in profondità, rubandole il fiato per un istante. Sapeva che Tony aveva ripreso a lavorare notte e giorno al nuovo reattore, esattamente come le aveva promesso, così come sapeva che non aveva ottenuto risultati. Gliela leggeva nello sguardo, quella frustrazione mista ad amarezza che lo coglieva ogni volta che usciva con passo falsamente baldanzoso dal laboratorio, che pesava in modo indelebile nelle parole che gli sfuggivano di tanto in tanto, andando a scoprire le corde sanguinanti che tentava in tutti i modi di nasconderle; come quella sera. E più ripensava alla malcelata sofferenza nel suo sguardo smarrito, alle sue parole malinconiche e a quel bacio che, piuttosto che un'altra conferma, le era sembrato una domanda, più si convinceva che non avrebbe
assolutamente dovuto lasciarlo solo.
Il singolo fotogramma che tormentava ancora le sue notti, quello della luce azzurrina del reattore scissa dal petto del suo proprietario, le balenò davanti agli occhi in un monito cupo.
Si era già tirata su di scatto nel letto, quando lo squillo del suo cellulare ruppe il silenzio notturno.


***


13 Maggio, 4:15, Villa Stark

Tony maledisse per l’ennesima volta la propria avventatezza mentre soffocava un gemito nel cuscino, sforzandosi di controllare gli spasmi che avevano preso a scuoterlo da capo a piedi. Aveva la netta percezione di ogni singolo osso e muscolo nel suo corpo, tutti decisamente doloranti o pervasi da una spiacevole sensazione gelatinosa. Le protesi erano diventate due tizzoni ardenti premute sui moncherini.
Sapeva che porle sotto sforzo in una situazione di stress non era mai una grande idea, ma non aveva pensato di subire delle ripercussioni così violente, probabilmente anche amplificate dall’intossicazione. Non si spiegava altrimenti l’emicrania che si era aggiunta al vasto assortimento di fitte che gli impediva di chiudere occhio, né il respiro fattosi più superficiale e accelerato.

Respira, ora ti passa. È normale,” tentò di convincersi ancora.
Ma sapeva che non era normale: era il palladio che lo stava uccidendo e che ci teneva a farglielo presente.
Artigliò il lenzuolo e affondò le unghie nel materasso sottostante quando l’ennesimo crampo gli stritolò le ferite, spezzandogli il respiro e facendogli desiderare di poter semplicemente svenire. O di avere i suoi antidolorifici a portata di mano, ma era quasi con disperazione che aveva constatato che il tubetto sul comodino era vuoto, e di non essere assolutamente in grado di alzarsi per recuperarne uno dei tanti sparsi per tutta la casa.
Gettò uno sguardo all’orologio e quasi desistette dai suoi intenti, prima che i suoi pensieri venissero annebbiati da una nuova ondata di dolore, convincendolo a mettere da parte orgoglio e sensi di colpa. Attivò il microfono di JARVIS con uno schiocco di dita e mormorò rapido un comando. Pochi istanti dopo sentì il cellulare di Pepper squillare ovattato nell'altra camera; gli venne da sorridere appena contro il cuscino nel riconoscere le prime note di
Born To Run, troncata dopo soli pochi secondi. La voce di Pepper risuonò nell'interfono, stranamente vigile nonostante gli evidenti strascichi del sonno appena interrotto. Forse, di nuovo, non era l’unico a non chiudere occhio.
«Tony? Che succede?»
«Ho finito gli antidolorifici,» esordì lui, con voce sforzata e saltando i convenevoli. «Ne avrei un discreto bisogno,» si obbligò a dire poi, con mal riuscita leggerezza, per poi affondare di nuovo la faccia nel cuscino per smorzare un respiro traballante.
Ci fu un breve silenzio dall’altro capo, sinonimo di una preoccupazione che non avrebbe voluto suscitare.
«Dove sono?» gli arrivò poi, e captò un fruscio di lenzuola in sottofondo mentre già si alzava senza esitazioni.
«In laboratorio. Non ricordo dove,» troncò un lamento contro i denti e sperò che la chiamata fosse finita in tempo per non captarlo.
Sentì dei passi felpati lungo il corridoio, affrettati; arrivarono di fronte alla sua porta, s'interruppero brevemente e poi proseguirono, diretti al piano inferiore.
Tony cacciò la testa sotto al cuscino, in attesa. Non era certo la prima volta che gli capitava di aver bisogno del suo aiuto a orari improbabili, ma era stato ormai molto tempo fa, prima delle protesi e soprattutto prima che il loro rapporto scivolasse in territori non ancora del tutto esplorati. Sentì un persistente velo d’ansia posarsi sulle sue spalle, assieme al desiderio soppresso di averla accanto.
Poco più di un minuto dopo udì la maniglia che scattava, e il materasso si abbassò appena quando Pepper si sedette sulla sponda del letto. Non trovò la forza di smuovere il cuscino dalla faccia, nell'irrazionale convinzione che potesse servire ad attutire almeno il mal di testa. Riconobbe, ovattato, il rumore del tubetto di plastica degli antidolorifici che veniva posato sul comodino, seguito da quello del vetro di un bicchiere. Lui non reagì, timoroso di turbare la relativa quiete che si era creata nella sua scatola cranica. Sentì la sua mano che gli sfiorava la spalla, delicata, come a verificare che fosse sveglio.
«Grazie,» articolò, sempre senza muoversi, con la voce appena udibile contro la stoffa.
Un refolo d'aria più fresca gli sfiorò il volto quando Pepper scostò il cuscino; non si ribellò, non ne aveva comunque la forza. Inquadrò i suoi occhi stanchi, ma illuminati di apprensione, e pensò che avrebbe anche potuto resistere fino al mattino, invece di farla svegliare di nuovo nel cuore della notte, per altro facendola spaventare a morte. Cercò di rivolgerle un sorriso rassicurante, ma sapeva che non l'avrebbe convinta, soprattutto perché quello che gli attraversò il voltò dovette assomigliare più a uno spasmo. Apprezzò il fatto che Pepper non avesse iniziato a tempestarlo di domande su come si sentisse, facendolo sentire ancora più sotto pressione di quanto non fosse.
Si fece forza e si tirò su sul gomito sano, il volto contratto in una maschera sofferente che non riuscì a stemperare. Pepper lo sorresse, prendendo atto di quanto fosse provato, e lo aiutò a poggiarsi contro la testiera. Gli offrì il bicchiere con la pasticca e lui la ingollò a fatica, con la nausea fino ad allora sopita che tornava a farsi sentire. Si affrettò a distendersi prima che peggiorasse, di nuovo prono e mezzo abbracciato al cuscino, con il volto premuto contro la federa dal lato cieco in modo da continuare a guardarla.
Pepper aveva seguito attentamente ogni suo movimento, stavolta senza intervenire: avevano raggiunto un'intesa piuttosto buona sui momenti in cui aveva bisogno di aiuto. Colse un istante di esitazione da parte sua, prima che si mettesse seduta accanto a lui con la schiena rivolta verso il suo fianco, le ginocchia ripiegate sotto il mento.
Lui accolse in silenzio quella vicinanza, troppo intento a immaginare che il medicinale appena assunto prendesse a sciogliere i dolorosi nodi di tensione che costellavano il suo corpo, ma sapeva che era troppo presto perché facesse effetto. In compenso, i suoi pensieri si stavano facendo sempre più ingarbugliati e poco razionali, aprendo la strada a un ventaglio di azioni possibili che di norma non gli sarebbero mai passate per la testa. Si chiese cosa sarebbe successo se avesse allungato un braccio a cingere la vita di Pepper, stringendola e attirandola a sé; si chiese cosa sarebbe successo se, invece, avesse chiesto a lei di fare lo stesso; si chiese, ancora, cosa sarebbe successe se l’avesse cacciata via, risparmiandole quello spettacolo pietoso a cui si sentiva obbligata ad assistere. Si sentiva di nuovo sotto una pressa che lo stritolava, impedendogli di respirare e acuendo ogni sensazione spiacevole. Percepì in gola il retrogusto salino delle lacrime e si sforzò di inghiottirle.
«Pep, vai a dormire,» mormorò a fatica, senza troppe speranze di venire ascoltato.
«Gli antidolorifici ci metteranno un po' a fare effetto. Aspetto che ti riaddormenti,» replicò infatti lei, con ferma naturalezza.
«Non ce n’è bisogno. Sono abituato,» s’impuntò lui, lasciandosi sfuggire suo malgrado un sibilo quando mosse inavvertitamente i moncherini.
«Io no,» tagliò corto lei a voce più bassa, facendolo accigliare.
Non aveva intenzione di demordere, ma ogni sua protesta fu zittita quando sentì la mano di Pepper che gli affondava tra i capelli, prendendo ad accarezzarli.
«Questo è un colpo basso,» gli sfuggì in un mugolio arrendevole, inclinando involontariamente la testa a seguire quel movimento.
Poté percepirla sorridere appena anche senza guardarla, e soppresse quella maledetta vocina che gli urlava senza sosta di sottrarsi, riuscendo a ridurla a un semplice ronzio di sottofondo, non del tutto ignorabile ma comunque indistinto. Pepper aveva intuito abbastanza rapidamente che quella era una sorta di zona franca, per lui molto più gestibile dal punto di vista fisico, forse perché per dieci anni era stato abituato a farsi sistemare puntualmente i capelli da lei prima di conferenze o meeting, quando si presentava dopo una notte brava con un’acconciatura ben poco consona a un incontro formale. Fatto sta che quel gesto lo sprofondava in uno stato di beatitudine completa. In quei momenti Pepper avrebbe potuto chiedergli di dipingere l’armatura di rosa shocking e avrebbe acconsentito senza battere ciglio.
Nessuna donna gli aveva mai riservato delle carezze così delicate, che superavano la sua pelle per arrivare lì, tra il reattore il cuore, dove si condensavano in una stretta piacevole e rassicurante che sembrava guidare i suoi battiti. Si concentrò quindi su quella sensazione piacevole, sulle sue dita che gli districavano le ciocche più lunghe sulla fronte e che sembravano fare lo stesso coi suoi pensieri, trovando il capo di ognuno ed evitando che si annodassero di nuovo tra loro.
Era comunque raro che Pepper ricercasse quel contatto con lui in modo così esplicito e prolungato. La solita vocina gli suggeriva che fosse per il senso di repulsione istintiva che provava per lui, ma sapeva, lo
sapeva, che non era altro che un'accortezza nei suoi confronti, proprio per rispettare quegli spazi che faticava così tanto a concederle. Riusciva a superare quei limiti autoimposti solo nei momenti in cui le sue difese erano troppo fiacche per essere efficienti; e in quei casi, Pepper si insinuava con la consueta discrezione tra le falle, cercando di aiutarlo a sanarle dall’interno. 
Sospirò appena, gettando fuori una minima parte della marea di pensieri che minacciava di affogarlo e lasciando che fosse il tocco di Pepper ad avvolgerlo al loro posto. Oltre a quella sottile protezione sentiva ancora l'ombra della paura premere su di lui, nonostante l'incubo fosse finito da un pezzo e il suo ultimo ricordo materiale giacesse sul fondo del mare. Sentì comunque il suo corpo rilassarsi a poco a poco a quelle carezze, inibito dall’antidolorifico che stava lentamente agendo, e senza accorgersene si trovò a fluttuare verso un piacevole dormiveglia. Fece appena in tempo a chiudere la palpebra, che due feroci occhi azzurrini si spalancarono davanti a lui. Si destò con un lieve sussulto, contraendo i muscoli in uno spasmo e trattenendo bruscamente il respiro.
«Tony?» la voce allarmata ma limpida di Pepper lo raggiunse, strappandolo del tutto all’incubo.
«Sto bene,» annaspò, di nuovo con l’orrenda sensazione di avere dell’acqua salmastra nei polmoni.
Percepì Pepper chinarsi appena su di lui e continuò a tenere il volto affondato nel cuscino, sia per nascondere lo sfregio, sia per evitare i suoi occhi.
«Davvero?» gli chiese, con un evidente sottotono retorico.
Tony rimase in silenzio, frenando l’istinto di mentirle di nuovo mentre la propria attenzione era orientata da tutt’altra parte: avrebbe solo voluto che lei riprendesse ad accarezzargli i capelli, ma la sua mano si era invece spostata al centro delle sue spalle, leggera, ma fin troppo vicina al punto in cui la protesi del braccio si ancorava alla pelle. Sentì il cuore schizzargli nel petto al solo pensiero che sfiorasse per sbaglio le ferite, e si irrigidì dolorosamente. Pepper sembrò intuire il problema, perché interruppe il contatto, lasciando solo l’orma del suo calore a lambire il metallo.
«No,» rispose infine lui, con un filo di voce che si sforzò di mantenere stabile.
Pepper incassò in silenzio quella risposta, forse sorpresa dalla sua schiettezza.
«È per questo che prima sei uscito?» indovinò senza troppo sforzo.
«Mi serviva una boccata d’aria,» replicò lui, di nuovo evasivo, di nuovo assediato dalle immagini che non riusciva più ad arginare, di nuovo incapace di muoversi e paralizzato dal dolore come lo era stato su quel tetto. «Tu perché eri sveglia?» si affrettò a chiedere prima di venire sopraffatto, sentendosi comunque meschino nel rivoltare a quel modo la discussione.
«Avevo troppi pensieri,» rispose lei, senza ritrarsi, e Tony assorbì quella che in effetti non era una novità, sebbene non fosse mai stata espressa ad alta voce.
«Ne vuoi parlare?» le propose di getto, e quasi si stupì di quanto quelle parole gli fossero venute naturali, nonostante tutto il coacervo di pensieri e sensazioni che lo assillava in quel momento.
«Non c’è molto da dire,» svicolò lei, con un lieve tremito che la tradì nell’alzare appena le spalle esili, in un gesto al contempo rassegnato e noncurante.
«Guarda che sono un ottimo ascoltatore, quando non sono occupato a parlare di me stesso,» insistette, usando un tono lievemente scherzoso per farle capire che non aveva intenzione di pressarla.
Inclinò appena il volto per guardarla, seduta lì accanto col profilo delicato appena visibile nella penombra della camera, le mani strette sotto le ginocchia a tenerle piegate. Sembrava ancora più esile di quanto non fosse, così rannicchiata. Tony passò in rassegna almeno una dozzina di approcci tinti da sfumature d’ironia più o meno intense per invogliarla a parlare, solo per lasciarsi sfuggire un profondo, inutile sospiro che prolungò il silenzio.
«Ho paura. Ma lo sai già,» affermò infine lei, come se fosse incapace di trattenersi oltre e allo stesso tempo di aggiungere altro.
Tony non rispose. Non credeva di poter scacciare delle paure che lui stesso non riusciva a controllare. Si limitò a girarsi cautamente su un fianco per stringersi a lei, quel tanto che bastava per permettere a entrambi di percepire il calore dell’altro; la sentì poggiare cautamente la schiena contro il suo addome, in una silenziosa ricerca di vicinanza e conforto, la stessa che lui non riusciva quasi mai ad esternare. Riusciva a sentirla respirare, un movimento lieve a cui si adeguò d’istinto, sentendolo quasi come proprio.
«Ho avuto un incubo,» le confessò infine, a voce bassa. «Anche se forse era un dramma in tre atti, o qualcosa del genere,» minimizzò, con incerta leggerezza.
Ci fu una pausa che sembrò addensarsi tra loro.
«E cosa hai sognato?» dal suo tono intuì che aveva avuto timore di chiederlo.
«Molte repliche, un Transformer mal riuscito e una rivisitazione del
Re Leone,» sciorinò lui, più spigliato.
Udì Pepper sbuffare, forse il principio di una risatina.
«Se non ne vuoi parlare, non devi,» lo rassicurò, senza alcuna traccia di rimprovero.
Tony sbuffò di rimando contro il cuscino, in cerca di un modo in cui poterle raccontare ciò che aveva sognato. O meglio, vissuto di nuovo. Avrebbe potuto parlarle dello scontro in modo pragmatico, senza sprecarsi in sentimentalismi inutili, o avrebbe potuto dirle quanto fosse stato sollevato di saperla al sicuro nonostante la sua situazione disperata, o avrebbe potuto confessarle quell’istante di stolta compassione che l’aveva condannato per sempre. Un punto valeva l’altro, ma si trovò a scegliere l’unico che contasse veramente:
«Non è colpa tua,» esordì, cercando il suo sguardo.
Lei lo incontrò, gli occhi chiari appena visibili nella penombra. Riuscì comunque a leggervi la sorpresa, assieme a un velo d’apprensione nel modo in cui tirò impercettibilmente le labbra.
«Cosa?» tentennò lei, senza nascondere la tensione del riuscire già ad immaginare la risposta.
«Quello che mi è successo,» chiarì Tony, parlando con lenta cautela, consapevole di stare toccando un tema molto sensibile e in sospeso da più di un anno.
Lei infatti sviò subito il suo sguardo, puntandolo in basso; si passò nervosamente le mani lungo le gambe, per poi prendere a torcersi le dita nella sua consueta esternazione ansiosa.
«Non che prima avessi alcun dubbio,» si affrettò ad aggiungere Tony, sempre con voce pacata. «Ma adesso ho le prove incontestabili, sempre che ti fidi del mio inconscio e della mia memoria rediviva,» concluse senza mai distogliere lo sguardo, come se ciò potesse dare più spessore alle sue parole.
Pepper non sembrò affatto tranquillizzata e non smise di tormentarsi le mani.
«Cosa hai ricordato?» gli chiese, a metà tra lo speranzoso e l’angosciato.
«Ho sognato l'incidente,» disse lui, vacillando appena nel parlare. «Non è la prima volta, ma sono sempre stati sogni confusi o assurdi…» s’interruppe, cercando di distogliersi dal dolore ai moncherini che era tornato a farsi sentire con più insistenza, quasi in reazione all’argomento. «Stavolta c’erano troppi dettagli, e li ricordo ancora tutti. Non era solo un sogno,» concluse, con decisione.
Sentì Pepper agitarsi sul posto, con le mani ora strette attorno alle caviglie sottili e il mento incuneato tra le ginocchia; i capelli lisci e appena arricciati sulle punte le schermavano il volto in una cortina ramata, impedendogli di vedere la sua espressione.
«Anch’io ricordo cosa è successo quel giorno,» mormorò infine, atona. «E lo so che vuoi rassicurarmi, ma io
ho concretamente avuto un ruolo in quello che ti–»
«No, Pep, stammi a sentire,» la interruppe lui, con improvvisa veemenza, e fece perno sui gomiti per sollevarsi, ignorando le fitte lancinanti che lo colpirono senza però farlo desistere dal suo intento.
«Tony, non sforzarti,» si allarmò lei, girandosi rapida verso di lui e provando a farlo distendere di nuovo.
Premette d’istinto una mano contro il suo petto e lui sobbalzò appena, ma non si lasciò arrestare e contrastò senza fatica quella leggera pressione, mettendosi così seduto a fronteggiarla, col cuore a mille e un affanno malcelato. Pepper lo fissava con occhi resi enormi dalla preoccupazione, le mani ora serrate tra loro in grembo come se non sapesse cosa farsene; Tony vi insinuò la sua, rompendo quella morsa e che si trasferì subito alle sue dita. Convogliò tutta la sua forza di volontà nel mettere di nuovo a tacere quell’insidiosa vocina che gli suggeriva quanto potesse essere sgradita per lei quell’improvvisa vicinanza. Il fatto che la flebile luminescenza azzurrina del reattore fosse adesso l’unica fonte di luce non lo aiutava a gestire meglio la situazione.
«Tutto ciò che ho… che ho
perso...» 
Si obbligò a deglutire il blocco d’ansia che gli aveva ostruito la gola, cercando di non fargli pronunciare ad alta voce quei dettagli che sembravano ancora straziarlo fisicamente. 
«Questa,» ricominciò, e batté piano le nocche metalliche sul rivestimento della protesi inferiore, «non so esattamente come sia successo… il mio database ha ancora qualche lacuna.»
Offrì un lieve, stentato sorrisetto di scuse, puntando lo sguardo sulle giunture della protesi, e captò quello di Pepper farsi attento e addolorato assieme, realizzando ciò che si stava apprestando a raccontarle.
«Comunque, è successo molto prima che tu intervenissi,» esitò per una frazione di secondo. «L’ho detto anche a te, che mi ero rotto la gamba… ti ricordi?» tentò, non volendo in realtà risvegliare quelle immagini anche nella sua testa, ma pensando allo stesso tempo che fosse l’unico modo per farle credere che quei fatti fossero reali, non solo un parto onirico del suo inconscio.
Lei annuì rapida ad occhi bassi, stringendo di più la sua mano, passando le dita sulle linee del suo palmo e seguendo i calletti che gli segnavano i polpastrelli, quasi a distrarsi da ciò che stava sentendo.
«Avevo già chiamato i soccorsi. Pensavo che fosse finita,» disse poi, appena udibile.
Tony tacque per un po’, con lo scontro che si svolgeva di nuovo davanti ai suoi occhi, incluso tutto ciò che avrebbe potuto fare per evitare di finire su quel letto d’ospedale. In un modo, o nell’altro. Il pensiero gli ghiacciò le vene, come sempre quando si trovava a considerare anche solo lontanamente l’idea di una morte volontaria. Riprese a parlare, concentrandosi unicamente su quello che stava dicendo.
«Anche questo,» accennò in modo impercettibile al proprio viso, esponendo comunque il lato intatto, «è successo prima che tu sovraccaricassi il reattore. Un proiettile vagante,» fornì come unica, laconica spiegazione.
Non riuscì a entrare più nel dettaglio, né Pepper sembrò incline a insistere. La sua unica reazione fu quella di accostarsi un poco a lui, portandosi sensibilmente dal lato sano del suo volto per evitargli di tenere la testa girata. Le fu grato per quell'accortezza. Poteva fare i conti con un paio di arti di metallo, facilmente nascondibili e comunque non così ripugnanti finché i punti di giunzione rimanevano coperti, ma quello che portava in faccia era un manifesto della sua sconfitta, e non sarebbe mai riuscito ad accettarlo come parte di sé. Aveva davvero provato a rinunciare alla benda, ma era come essere costantemente nudo per metà. Anche adesso apprezzava la premura di Pepper, nonostante non fosse del tutto certo che fosse per puro riguardo verso di lui o se dietro vi fosse una sua reticenza nel vedere lo sfregio che lo deturpava.
Sbuffò piano dal naso, iniziando ad accusare la stanchezza causata dal suo corpo ormai in fiamme e da pensieri altrettanto brucianti.
«E il braccio…» ricominciò infine, solo per interrompersi, rendendosi conto che gli era mancata l’aria nel parlare.
Poté quasi sentire Pepper trattenere a sua volta il respiro, forse pensando che l’avesse colpito una qualche illuminazione, un ricordo nascosto in un vicolo cieco della sua coscienza che smentisse tutto ciò che aveva detto finora, rendendola responsabile dell’accaduto. La rassicurò stringendole le mani, mentre cercava di recuperare la voce, inutilmente.
«Tu non c’entri,» riuscì a dire, energicamente. «Neanche con questo, è solo… accaduto troppo in fretta. Un momento era lì, quello dopo…» inceppò sulla sua stessa lingua, mangiandosi le parole. «Non me ne sono neanche accorto,» mentì, chiudendo involontariamente il pugno metallico in una morsa e sentendosi furioso con se stesso. «Te l’ho già detto, è
merito tuo se sono qui, anche se non mi vuoi credere.»
Lei scosse la testa, scoraggiata, facendo fremere i capelli che le incorniciavano il volto.
«Non è così semplice,» replicò, per poi bloccarsi prima di poter continuare e rivolgergli uno sguardo smarrito, ma anche improvvisamente consapevole.
«No, non lo è,» mormorò lui, con un quieto misto di sorpresa e sollievo nel sentire l’eco involontario delle proprie stesse parole.
«Non riesco a cambiare idea da un momento all’altro solo perché lo dici tu, anche se vorrei,» continuò poi lei con più impeto, quasi a volersi giustificare o difendere, e Tony le impedì di iniziare a gesticolare affannata, trattenendole gentilmente le mani nella propria.
«Pepper
lo so. So quanto è difficile accettare quello che ti dicono gli altri e credere che sia vero e che lo pensino davvero. Fidati dell’esperto,» continuò, sorridendole appena con un velo di mestizia.
Trattenne momentaneamente quello che stava per dirle solo per lasciare che anche le sue labbra si incurvassero in poco più di un’intenzione di sorriso, che distese comunque i suoi lineamenti fino ad allora corrucciati. Annuì, a prendere atto delle sue parole, per poi guardarlo, intuendo chissà come che non le aveva ancora detto tutto. Lui sospirò appena prima di parlare:
«Non
voglio che tu viva col peso della mia morte sulla coscienza,» riuscì a dire, e la vide sussultare nonostante lo strato di dolcezza in cui aveva cercato di incartare quelle parole, comunque troppo spigolose per non lacerarlo.
«Non accadrà,» ribatté subito lei, ribattendo però a un’altra affermazione e guardandolo con la fiera ostinazione di chi si pone a strenua difesa di un ultimo baluardo.
Tony non rispose, ma districò la mano dalle sue e la usò per guidarla verso di lui, cingendola in un mezzo abbraccio spontaneo e quasi impalpabile in cui lei si adagiò con esitante sorpresa.
«Non è colpa tua,» le ripeté ancora, con la voce che le sfiorava l’orecchio.
Si rifugiò a sua volta in quella parentesi di quiete, nonostante la tensione latente di sentir rispuntare d’un tratto quella vocina maligna che gli avrebbe intimato di sottrarsi. 
«E sono qui apposta per ripetertelo e romperti le scatole finché non ci crederai, come fai tu con me. Il minimo che possa fare è ricambiare il favore, no?» aggiunse, in un guizzo d'autoironia.
La sentì sorridere appena, per poi quasi sciogliersi contro di lui, aspirando a fondo. Non disse una sola parola, ma Tony poteva percepire fisicamente il sollievo che si irradiava da lei, come se avesse infine lasciato cadere un peso a cui si era ormai abituata e i suoi muscoli si fossero rilassati di colpo, tremanti e finalmente consci di tutta la stanchezza accumulata. Anche lui si rilassò, abbandonando la tensione che gli aveva stretto i muscoli fino ad allora e smorzando così i crampi che non gli davano tregua. Si concesse di perdersi ancora per qualche secondo nel profumo di Pepper prima di scostare leggermente il volto da lei, ma continuò a tenerla stretta a sé nel rendersi conto che la sua ansia sembra essersi sopita, almeno in parte. Forse era la spossatezza, forse il semplice fatto di essersi avvicinati gradualmente, lasciandogli tempo di prendere coscienza del suo corpo così com’era, senza quelle zavorre che lo trascinavano costantemente sul fondo; forse quello di stare
davvero migliorando in quel senso, e di aver compiuto qualche passo avanti. Non spese troppo tempo a rimuginarci, preferendo godere appieno di quegli attimi preziosi che doveva sempre conquistarsi.
«Ha sonno, signorina Potts?» la prese in giro dopo un po’, notando che il suo respiro si era fatto più profondo e cadenzato mentre si abbandonava pian piano tra le sue braccia.
«No,» si riscosse lei, con voce un po’ impastata.
«Mente in modo pessimo, per essere stata la mia assistente,» le fece notare, con un mezzo sorriso furbetto.
«Penso di poter perdere qualche ora di sonno per lei.»
A quelle parole Tony cercò di soffocare un verso strozzato, ma ogni tentativo di contenersi fallì miseramente e sfociò in una risatina asfittica che scosse entrambi, suscitando l’estrema perplessità della donna.
«Che c'è di divertente?» chiese spaesata, scostandosi da lui e corrugando le sopracciglia.
«Se te lo dico, mi ammazzi,» sogghignò ancora lui, ora senza fiato, con qualche stilettata qua e là che tentava di ricordargli quanto fosse malmesso in quel momento.
Pepper alzò gli occhi al cielo, ma sorrise, contagiata dal suo inatteso scoppio d’ilarità.
«Tieniti pure i tuoi segreti, allora,» lo punzecchiò senza rancore, per poi accigliarsi quando Tony fece suo malgrado una smorfia sofferente, piegandosi in avanti. «Tony? Stavo scher–»
«Il mio senso dell’umorismo funziona ancora,» la rassicurò lui. «Il resto non tanto. Ho bisogno di una pausa,» si costrinse a dire, sciogliendo l’abbraccio e sdraiandosi con cautela, lasciandosi accompagnare nel movimento da Pepper.
«Meglio?» gli chiese, dopo che si fu accomodato prono, con la faccia di nuovo affondata nel cuscino.
Tony bofonchiò una risposta affermativa, tirando un respiro tremolante nella consapevolezza che quella notte non sarebbe mai riuscito a dormire e che, per quanto si sentisse egoista, non voleva comunque passarla da solo, né in silenzio.
«Pep?» chiamò piano, con voce ovattata, e la sentì girarsi verso di lui, in ascolto. «Ho ricordato anche altre cose,» disse, in tono spento.
«Di che tipo?» chiese lei, chiaramente presa in contropiede dalla sua loquacità notturna.
«Del tipo di cui avrei fatto a meno,» temporeggiò, senza però alcuna intenzione di sottrarsi all’argomento.
Il profondo stato di confusione in cui si era svegliato tornò a farsi sentire, spingendolo alla deriva. Esitò ancora, prima di riprendere a parlare.
«È colpa mia, se ho perso il braccio,» buttò fuori in un sol fiato, e dirlo gli causò un tale spaesamento da fargli credere di essere da tutt’altra parte; forse su un tetto distrutto, o in una grotta buia, o in un obitorio gelido.
«Tony? Che stai dicendo?» lo sbigottimento di Pepper era quasi tangibile.
Probabilmente credeva che stesse delirando, e forse non aveva torto.
«Ho cercato di aiutare Stane,» cercò di spiegare, senza alcun controllo sui suoi pensieri e sul modo in cui si tramutavano in parole.
Vide Pepper fare tanto d’occhi, sgomenta di fronte a quella confessione.
«Stava cadendo, l’ho afferrato e lui ha cercato di trascinarmi con sé,» s’interruppe, col respiro ora irregolare. «Non ci è riuscito solo perché mi sono incastrato, ma lui non mi ha mollato, non…» il rumore rivoltante del suo braccio che cedeva di schianto gli riempì la testa, e premette la bocca contro la federa, impedendosi di continuare e tramutare quei suoni in immagini.
La mano di Pepper tornò a sfiorargli i capelli, silenziosa ma rassicurante. Tesa, anche, turbata da quei ricordi che le aveva appena trasferito.
«Non so perché l’ho fatto,» riprese poi, frastornato. «Ma non l’ho ucciso io,» commentò poi, senza capire neanche lui se con rammarico o sollievo.
«Ti dispiace che sia morto?» chiese Pepper, con quello che assomigliava a incredula disapprovazione.
«No,» replicò subito lui, senza neanche doverci riflettere, con la rabbia che gli pungeva le viscere, lasciandogli però un sapore amaro in bocca. «Mi ha rovinato la vita. Se fosse sopravvissuto, avrei probabilmente finito per ucciderlo davvero,» continuò, a fugare ogni possibile dubbio, mentre i pensieri che aveva avuto durante lo scontro gli si ripresentavano davanti, violenti e brutali.
«Però?» Pepper gli offrì la deviazione di cui aveva bisogno, e la imboccò con sollievo anche se a tentoni, senza alcuna idea di dove l’avrebbe portato.
«Non lo so. Non ci capisco più niente, non so neanche perché me ne freghi così tanto o perché debba rimanere sveglio a pensarci,» sbottò con improvvisa frustrazione, stringendo i denti per la protesta dei moncherini a quel lieve sussulto.
Mentì solo in parte: non aveva davvero idea di come esternare a parole quel conflitto che si era scatenato dentro di sé e che si ostinava a sovrapporre il robottino rosso con la morsa crudele di Iron Monger.
«Era qualcuno di cui ti fidavi,» intervenne Pepper, cautamente, senza rompere il contatto con lui e accompagnando le proprie parole alle carezze che aveva ripreso a fargli. «Un socio, un amico tuo e di tuo padre… è normale sentirsi traditi, ed è normale che ti chieda perché sia successo,» concluse, usando la sua consueta logica ferrea e suonando allo stesso tempo impotente.
Aveva ragione, su tutto, ma ciò non quietava il maremoto in corso dentro di lui, impegnato com'era ad arrovellarsi su quei decenni di fiducia evidentemente fasulla, e poi su quei tre mesi in una grotta che li faceva sgretolare come sabbia al vento, e ancora su quella mezz’ora di scontro che li spazzava via del tutto. Cercava una connessione, un filo rosso, un qualcosa che giustificasse il tutto. Ma quando guardava indietro, incontrava solo lo sguardo severo di suo padre che gli diceva di non perdere tempo.
«C'è stato un periodo in cui chiamavo Stane "zio Obie",» esordì stancamente, col solo desiderio di poter gettar fuori i pezzi di quel puzzle destinato a rimanere irrisolto per poter finalmente chiudere gli occhi e dormire.
Sentì le dita di Pepper stringergli i capelli, sorpresa dalla piega che aveva preso la discussione.
«All’epoca ne capivo più di robotica che di parentele. Fu mia madre a spiegarmi che non era davvero mio zio... anche se non era facile farmi cambiare idea,» aggiunse, divertito.
«Ah, davvero?» commentò ironica Pepper, ma piano, come se temesse di dire qualcosa di sbagliato.
Tony accennò un sorrisino che parve rassicurarla.
«Sono migliorato, credimi. La facevo impazzire,» disse, prima di farsi di nuovo serio. «Stane non le è mai piaciuto,» rifletté, riprendendo il discorso e arricciando il lenzuolo tra le dita metalliche. «Ho fatto un errore stupido e ne ho pagato il prezzo,» concluse poi con durezza.
Gli tornò davanti il ricordo di quel piccolo regalo adesso affondato nel Pacifico, di Stane che glielo porgeva e di come sua madre avesse tenuto le mani sulle sue spalle come a proteggerlo discretamente, forse seguendo un qualche istinto innato. Lui allora aveva percepito solo affetto da entrambe le parti, racchiuso in un robottino rosso e nell’abbraccio materno, troppo piccolo per comprendere le dinamiche degli adulti, ma abbastanza grande da accorgersi dell’enorme vuoto che lo separava da suo padre, una sagoma fissa sullo sfondo della sua vita. Quando pensava a lui, la prima immagine che emergeva era quella della sua schiena, delle spalle diritte e contornate dalla linea austera di un completo scuro.
Stane era stato un rimpiazzo, così come Jarvis: assolutamente insufficiente a colmare il vuoto, ma comunque abbastanza per riuscire a ignorarlo o per gettare un ponte pericolante che a volte lo superasse.
Rimase in silenzio per un po', abbandonandosi alle carezze delicate e incoraggianti di Pepper. Normalmente non si sarebbe mai sognato di parlare in modo così aperto di certe cose. Aveva preferito rinchiuderle in uno stanzino della sua mente, così come aveva sigillato molti dei suoi ricordi materiali dietro la vecchia porta al piano terra. Anche se, più che uno stanzino, quella nella sua mente era una camera blindata a tenuta stagna, di cui aveva rafforzato sempre più le difese. Ultimamente, però, si era sentito sempre più incline a rimuovere un lucchetto e una serratura dietro l'altra, arrivando a mettere di nuovo piede in quel
caveau e scoprendo di avere molte, troppe cose da mettere in ordine prima che fosse troppo tardi. E Pepper era l’unica che riuscisse ad aiutarlo in quel compito gravoso. Poteva quasi sentire la voce burberamente soddisfatta di Ian bofonchiare l’ennesimo "gliel'avevo detto".
«Tony,» lo riscosse Pepper dopo un po' e in modo più acceso, come se avesse cercato di trattenere ciò che stava per dire senza però riuscirci. «Capisco che tu ti penta di aver
provato a salvare Stane, viste le conseguenze.»
Prese un breve respiro prima di continuare, tenendolo in sospeso.

«Ma non dovresti pentirti di aver
voluto salvarlo,» concluse, altrettanto rapidamente.
Tony provò a riflettere su quelle parole, ma rinunciò dopo appena qualche istante, logorato dal mal di testa e dalla rabbia repressa che aveva ripreso a scuoterlo.
«È la stessa cosa,» replicò asciutto. «Il risultato non cambia.»
«Non sto dicendo...» Pepper si interruppe, con un sospiro frustrato. «Tony, se potessi tornare indietro ti impedirei a tutti i costi di farlo... ma probabilmente ti impedirei anche di continuare ad essere Iron Man,» sbottò, e Tony sentì la sua mano contrarsi, tirandogli appena le ciocche come se volesse trattenerlo anche adesso. «Il punto è che sei fatto così. Non riesci semplicemente a tirarti indietro o a lasciare che gli eventi facciano il loro corso se puoi scegliere di fare la cosa giusta,» continuò, con una tale, cristallina convinzione che Tony non poté fare altro che guardarla vacuamente, muto e allo stesso tempo sentendosi riempito da quelle parole.
«Non sono
sempre stato così,» replicò infine, con voce debole. «Non ero poi tanto diverso da Stane,» aggiunse, con la consapevolezza latente che, considerato tutto il dolore che aveva provocato, quel contrappasso che aveva subìto era meritato e fin troppo clemente.
«Tony.» 
Pepper si chinò su di lui, accostandosi al suo volto e catturando il suo sguardo. 
«Non
osare paragonarti a lui. Sei un uomo migliore di quanto lui sia mai stato e sicuramente migliore di quanto credi.»
Lui incrociò con sorpresa i suoi occhi azzurri, trovandoli incolleriti di fronte alla sua affermazione detta a cuor leggero.

«Non appena hai scoperto cosa stessero facendo davvero con le tue armi hai cercato di rimediare, ignorando chiunque ti dicesse che era una follia, inclusa me e Rhodey. Era quella la cosa la cosa giusta da fare, anche se noi non riuscivamo a capirlo.»
Lui scosse la testa, rintanandosi più a fondo col viso nel cuscino.

«L’ho fatto solo grazie ad Iron Man… se non fossi–»
«L’hai fatto perché volevi farlo,» ribadì lei, senza cedere. «Ciò non cambia che tu prima abbia sbagliato, e noi con te,» aggiunse con palpabile rimorso. «Ma hai anche deciso di offrire al mondo molto di più di cose che esplodono. Non è per questo che hai creato Iron Man?» lo incalzò poi, rimanendo ancora a un soffio dal suo volto.
«L'ho creato per scappare e sopravvivere,» la smentì lui, pragmatico. «Non ti conviene farmi così eroico,» aggiunse, stemperando le sue parole con un mezzo sorriso non così sicuro di sé come avrebbe voluto.
«L'avrai anche creato per quello, ma nessuno ti ha costretto ad esserlo per tutta la vita,» lo rimbeccò lei, prontamente e con un guizzo di vittoria negli occhi.
Stavolta Tony ammutolì, sfuggendoli.
«Ho fatto una promessa,» esalò dopo un po', socchiudendo la palpebra per schermarsi dal suo sguardo vicino e penetrante, che per un attimo si era sovrapposto a uno altrettanto acuto e azzurro. «Non solo a te... ho il brutto vizio di parlare a vanvera, a quanto pare,» specificò, stringendo appena la federa del cuscino tra le dita mentre si lasciava sfuggire un sorriso amaro.
«Cosa hai promesso?» gli chiese lei, evitando col consueto, innato tatto di chiedere a chi l'avesse fatta.
«Di non sprecare la mia vita,» mormorò, senza curarsi di nascondere il tremito che scosse quella frase. «E probabilmente non riuscirò a mantenere né questa, né quella che ho fatto a te. Ma te l’ho detto: ci sto provando,» concluse, obbligandosi a guardarla di nuovo con tutta la fermezza che gli riuscì di recuperare.
«Lo so,» rispose semplicemente lei, prima di posargli un leggero e inaspettato bacio sulle labbra facendogli distintamente mancare un battito.
Pepper recuperò subito distanza, tornando seduta nella posizione di poco prima e riprendendo a giocherellare coi suoi capelli con la massima naturalezza; Tony sospirò appena, con l'impressione di respirare più liberamente e di avere almeno la metà dei pensieri a vorticare nella sua testa. La sagoma del robottino rosso sprofondò lentamente sul fondo dei suoi ricordi, così come l'oggetto materiale tra le onde dell'oceano. Sarebbe riemerso, era inevitabile, ma almeno avrebbe cessato di essere l'estremità di un filo ingarbugliato che forse non era così importante districare.
Finalmente, riuscì a chiudere l'occhio e riuscì a lambire il margine del sonno, cullato dal tocco di Pepper.
«Vuoi che rimanga?» gli arrivò da lontano, da oltre la soglia che aveva appena oltrepassato.
Il suo cuore mancò un altro battito, ma non si mosse, né parlò.
Quel filo, quello teso tra loro, era molto più importante di qualunque altro. 
Di nuovo, gli sembrò che fosse la voce scontrosa di suo padre a riempire il silenzio.

Che cosa stai facendo?”
Stava aspettando. Aspettare era stato un modo per credere che ci sarebbe stato un momento migliore di quello. Per tutto, per un “loro”. Adesso rischiavano di non avere più alcun momento.
Si stava spegnendo a poco a poco divorato dal palladio, dai rimpianti e dai rimorsi che cercava di attenuare sempre più giorno dopo giorno. Sapeva di aver imboccato la strada giusta, e di aver compiuto progressi non trascurabili. Ma non era abbastanza, nonostante si sentisse più vivo e completo che mai e nonostante sapesse di aver portato a termine molto più di quanto chiunque avrebbe potuto immaginare. Non era
mai abbastanza. E forse avrebbe dovuto smettere di voler fare di più di così e accettare che ci fossero anche dei limiti non imposti da lui stesso.
Continuò a fingere di dormire e lei ad accarezzargli i capelli come una brezza leggera, trascinandolo sempre più vicino al dormiveglia.
«Stai mantenendo entrambe le promesse,» credette di sentirla dire sottovoce, prima che gli arricciasse un'ultima volta le ciocche sulla fronte tra le dita e ritraesse senza fretta la mano, indugiando poi sulla nuca e sulla base del collo, a voler prolungare quella carezza.
Gli sfuggì un respiro più profondo, che non seppe ricondurre con sicurezza alle parole o al gesto, ma che gli svuotò ancora un po' i polmoni, allentando la rete plumbea che li stringeva.

Forse domani.”
Quel pensiero navigò sulla superficie della sua mente, lasciando una scia d’aspettativa dietro di sé. Percepì Pepper che si alzava alzarsi ai margini della sua coscienza, e quando la serratura della porta scattò galleggiava già nel dormiveglia. Il calore delle sue labbra aleggiò ancora a lungo sulle proprie.
"Domani," stabilì tranquillo, scostando appena il velo del sonno per poi richiuderlo con delicatezza.
Aveva molte cose da fare, ed era l'ultima volta che rimandava.




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Note Dell'Autrice:

Buonsalve a tutti e Buon Anno Nuovo! :D
Miracolosamente, arrivo quasi in orario, cosa che in realtà non mi sarei mai aspettata, vista l'osticità del capitolo. E sì, Knockin' on Heaven's door, perché Stairway to Heaven era troppo scontata, dopo lo scorso capitolo :P
Voilà, l'ennesimo notturno condito con Pepperony tutto per voi <3 Ammetto che questo è stato un capitolo un po' "cercato", per soddisfare sia la mia vena angst che quella fluff, e spero che vi riterrete soddisfatti di entrambe anche voi :)
Vi sono delle ambiguità studiate, molti richiami a capitoli precedenti non sempre esplicitati e una precisa volontà di rendere contraddittori e vaganti i pensieri di Tony, soprattutto sul "tema-Stane". Sono curiosa di sentire i vostri commenti, opinioni e interpretazioni in merito :)
(e riguardo al tutto, il testo della canzone dell'intro gioca un ruolo di discreto rilievo).

Detto ciò, sono veramente al settimo cielo per aver "raccolto" così tanti nuovi lettori e persone che hanno aggiunto la storia alle seguite, ricordate o preferite <3 Un grazie va quindi a St4rk_yEmyclarinet (grazie per la "doppietta!"), _Atlas_, e T612 per aver recensito lo scorso capitolo e a Flavia_14 e Sissi Malfoy Black per aver recensito quello precedente :) Un grazie speciale a shilyss per aver iniziato a leggere e recensire addirittura dal primo capitolo, facendomi una bellissima sorpresa <3

Spero di aggiornare in tempi umani, ma non penso di riuscire a pubblicare prima di febbraio causa sessione, quindi purtroppo la pacchia è finita :')
Hasta la vista e vi auguro un buon ingresso nel 2019 :D

-Light-

P.S. Il vestito coi fiordalisi di Maria è un blando rimando alla mia one-shot Sonata n°5 «Primavera» (o anche: I Love Rock 'n' Roll).
P.P.S. Il "robottino rosso" è, nello specifico, Robby The Robot, ovvero codesto orrore. Tanto per ribadire il cattivo gusto di Obie.

EDIT: Ringrazio infinitamente la mia carissima Matilde per questo disegno meraviglioso ispirato al capitolo <3 


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Capitolo 48
*** The show must go on ***



47


The show must go on




"Tired of lying in the sunshine
Staying home to watch the rain
You are young and life is long
And there is time to kill today"

[Time – Pink Floyd]




13 Maggio, Pacific Highway, 10:45

Gigli o calle? Non ricordava quali preferisse, ma era sicuro che le piacessero entrambi.
Esitò ancora qualche istante davanti al chiosco sul ciglio della strada, sporgendosi fuori dall’Audi decappottabile e tendendo il collo per osservare meglio la schiera di mazzi, vasi e
bouquet che facevano bella mostra sul banchetto. Il fioraio continuava guardarlo fisso con ben poco tatto, neanche gli fosse atterrato davanti Thor, e Tony preferì pensare che fosse per la sua fama, piuttosto che per la mano meccanica che sporgeva dal polsino. Inclinò un poco gli occhiali da sole per mettere meglio a fuoco la scelta floreale, prima di sbuffare insoddisfatto.
«Senta, me li dia entrambi,» concluse, con un gesto verso i due mazzi di fiori bianchi.
Nel dirlo allungò un centone all’inserviente ancora sotto shock, che afferrò la banconota come una reliquia e gli tese in trance i due acquisti.
«Ecco, grazie… no, no, li poggi sul sedile, non mi piace che mi si porgano le cose,» si raccomandò concitato, schivando quell’approccio sgradito. «Tenga il resto e rinnovi la baracca,» disse poi riavviando l’auto, che inserì subito il pilota automatico al primo tocco dell’acceleratore.
«Ma lei è Iron Man?» gli gridò dietro il fioraio, adesso con un sorriso confuso.
«Ogni tanto!» rispose sogghignando Tony, ammiccando da dietro gli occhiali scuri, prima di ruotare il volante con la sinistra e imboccare di nuovo con un rombo la Pacific a picco sul mare.


***


13 Maggio, Villa Stark, tre ore prima…

Il getto della doccia si abbatté piacevolmente sulla sua schiena, rilassando a poco a poco i suoi muscoli contratti. Tony reclinò all’indietro la testa e lasciò che l’acqua calda gli bagnasse anche il volto e i capelli, chiudendolo in una bolla di tepore liquido e accogliente. Stimò di poter resistere in piedi senza appoggi per una ventina di minuti, visto che la protesi si stava dimostrando abbastanza collaborativa dopo l’iniezione di dilitio di quella mattina, che gli aveva anche allargato i polmoni e attenuato le fitte ai moncherini. Il reticolo sul suo petto era ancora visibile sottopelle, ma era impallidito, restringendosi e ritirando i suoi viluppi dalla zona circostante il collo. Poteva quasi fingere che non esistesse, se indossava una maglietta, o se, come adesso, teneva chiuso l’occhio senza abbassare lo sguardo, escludendo anche la luminescenza azzurrina del reattore.
Rimase in catalessi per ancora una decina di secondi, prima di cercare a tentoni lo shampoo per iniziare pigramente a lavarsi, godendosi quel rituale mattutino che lo rimetteva al mondo. Stare sotto la doccia era una delle azioni quotidiane che più gli era mancata durante il suo periodo di quasi-immobilità, e aveva sopportato molto male il fatto di farsi aiutare, di dover stare seduto per lavarsi, o peggio, di usare la vasca da bagno, salvo scoprire che quella era uno dei pochi metodi per alleviare le fitte ai moncherini. Dall’Afghanistan aveva sviluppato un astio represso per l’acqua ferma in generale, fomentato dai suoi incubi in fin di vita non esattamente rassicuranti, e se in passato poteva passare ore a crogiolarsi nella vasca tra schiuma, bolle e sali profumati, magari anche in dolce compagnia, adesso se ne teneva molto lontano e aveva ripreso a starsene il più possibile sotto la doccia non appena era stato in grado di reggersi sulle proprie gambe per più di cinque minuti.
In quel momento, dopo la nottata d’inferno appena passata e le tre ore scarse di sonno, aveva davvero bisogno di bearsi il più possibile sotto il getto d’acqua calda. Anche se, a pensarci bene, virare su una temperatura polare sarebbe stata più appropriato ed efficace, visto lo stato fisico che poco prima l’aveva spinto a dileguarsi dalla vista di Pepper accampando una scusa non molto credibile. Incrociarla a sorpresa in corridoio, appena uscita lei stessa dalla doccia e con addosso nient’altro che un accappatoio, apparentemente in ritardo catastrofico per i suoi appuntamenti alle Industries e perciò incurante del suo stato, non aveva esattamente mitigato la sua tipica “situazione mattutina”. Era svicolato in bagno in fretta e furia cercando di darle il più possibile la schiena, straparlando nel tentativo di mascherare l’inconveniente, e sperava segretamente che lei fosse stata troppo presa a celare a sua volta il proprio viso paonazzo e a tenersi stretto l’accappatoio per dare peso alle sue farneticazioni.
Si trovò a sospirare, sfregandosi le mani sul volto bagnato. Non sapeva bene come definire il loro rapporto, ma tra il suo corpo sfigurato e la decisa ansia che lo coglieva ogni volta che era nel raggio da un metro da lei, vestita o meno che fosse, era più che convinto che fosse troppo presto per qualunque cosa esulasse dal semplice starle vicino. In quei momenti si sentiva un bimbetto delle elementari, non un playboy navigato – e non era nemmeno colpa sua. Si strofinò con irritazione i capelli insaponati, come a scrollarsi di testa quei pensieri su cui non avrebbe dovuto soffermarsi: l’ultima cosa che desiderava era forzare una situazione già abbastanza forzata, almeno dal suo punto di vista. E se il suo corpo decideva di reagire per conto proprio a impulsi naturali, che lo facesse pure: sarebbe sopravvissuto all’imbarazzo, e poteva considerarlo un segno che forse almeno qualcosa di lui funzionasse ancora a dovere. Non aveva tempo, ma era sicuro – sperava – di averne abbastanza per affrontare anche quell'argomento con Pepper. Possibilmente non a parole, e in modi che non aveva intenzione di immaginare nel dettaglio adesso.
Fu provvidenzialmente distratto dalle sue elucubrazioni quando lo squillo del telefono trapassò la cappa di vapore in cui era avvolto, e se da una parte si sentì sollevato, dall’altra lanciò una maledizione contro chiunque lo stesse disturbando con così poco tempismo rompendo la sua parentesi di relax.
«JARVIS, chi è il rompiscatole?»
«Il signor Andrews. Lo metto in attesa?» propose gioviale il maggiordomo.
Tony sbuffò, prendendo seriamente in considerazione l’offerta per poi declinarla, vinto dalla curiosità:
«Passalo sull’interfono,» ordinò, senza chiudere l’acqua né uscire dalla doccia.
«Ehi, buongiorno, Stark!» esordì il ragazzo con inaspettata allegria.
«Sì, sì, buongiorno anche a te, K,» mugugnò lui, impegnandosi a suonare indifferente. «Fa’ in fretta, sono sotto la doccia,» lo incalzò poi, anche se lo scroscio in sottofondo era già abbastanza esplicativo.
«Stai tentando di sedurmi?» indagò malizioso Kyle.
«Ovviamente,» rispose lui serafico mentre si sciacquava i capelli, chiedendosi se quella mattina vi fosse un qualche complotto contro di lui, vista l'insistenza sulla sua vita sessuale.
«Non credo che Virginia sarebbe molto d’accordo,» lo stuzzicò prevedibilmente l’altro, e già pregustando la sua reazione indignata.
«No, credo proprio di no,» lo assecondò invece lui, lasciandosi sfuggire un sorrisetto al silenzio basito dell’altro. «Che c’è? Geloso?» ridacchiò poi, riscuotendo Kyle dal suo stand-by verbale.
«Se tu non fossi
tu, Stark, direi che mi stai prendendo per il culo,» ribatté serissimo l’avvocato, e Tony si trattenne dallo sbottare apertamente a ridere per la pessima scelta di parole.
«Devo intenderlo in senso lettera–»
«Intendilo
come ti pare, ma adesso ascoltami,» lo interruppe l’altro, adesso probabilmente paonazzo dall’altro capo del telefono.
Tony si ritenne soddisfatto per la sua piccola rivincita dopo mesi di allusioni e battutine su lui e Pepper da parte dell’amico, in combutta con Ian. 
«Ho delle novità,» annunciò Kyle, dopo essersi assicurato che fosse in ascolto.
Tony si fece attento, per quanto potesse essere attento nello stato di intontimento causatogli dalla doccia calda.
«Spara,» lo incitò, incerto se quel silenzio dovesse essere interpretato come un semplice stratagemma per aumentare la
suspence, o come una reticenza da parte dell’avvocato nel riferire una brutta notizia.
«Stern ha appena approvato la tua licenza!» annunciò poi, squillante.
«Cosa?!» sputacchiò lui, scansandosi dal getto d’acqua che aveva inalato per la sorpresa e finendo quasi per scivolare sul pavimento viscido.
«Mi hai sentito,» replicò l’altro, che dal tono stava sicuramente sogghignando a tutto spiano. «A quanto pare la vostra chiacchierata a Washington è servita… non so cosa gli hai promesso, e non voglio saperlo, ma l’ha convinto a firmare e la licenza è valida ad effetto immediato,» spiegò a macchinetta, lasciando Tony in un soffuso stupore e con un sorriso sempre più ampio stampato in faccia.
«Immediato?» ripeté un po’ stolidamente. «Cioè… insomma… posso uscire
adesso?» si sincerò, temendo di aver capito male sotto lo scroscio dell’acqua, e per prevenire fraintendimenti la chiuse, rimanendo in attesa di una risposta con lo sgocciolio residuo a fare da sottofondo.
«Intanto esci dalla doccia, e firma il documento elettronico che ti ho inviato,» lo incitò il ragazzo. «Poi, sarai un uomo libero,» concluse con innegabile soddisfazione.
Tony non se lo fece ripetere, e due minuti dopo era seduto sul piano del bagno con le gambe penzoloni e l’accappatoio addosso, intento a scorrere un ologramma del documento in questione. Non era sua abitudine leggere qualcosa prima di firmarlo, ma in questo caso si impegnò addirittura a visionare clausole e note a piè di pagina per fugare ogni dubbio, mentre Kyle attendeva pazientemente in linea.
«Siamo sicuri che non sia un
bluff, vero?» insistette per la quinta volta, e il quinto sospiro di Kyle fece eco alla sua domanda, stavolta seguito da una risposta.
«Stark, ho visionato quel documento almeno una ventina di volte, ho controllato ogni postilla, appendice e comma esistente e mi sono sorbito un’ora e mezza al telefono con Knight per assicurarmi che lascerà cadere l’accusa riguardante le protesi,» sciorinò l’altro, palesemente seccato per quell’ultimo, ingrato compito.
«Ti sei decisamente meritato quella statua, K,» commentò Tony a mezza voce, continuando a rigirarsi in mano l’agglomerato di pixel olografici. «E anche un altro paio di diavolerie che spero di completare presto,» aggiunse, e poté quasi sentire l’aspettativa di Kyle crescere attraverso la linea telefonica.
Si sentiva un po’ meschino a far finta che tutto procedesse al meglio, ma si stava
davvero impegnando a progettare i tutori per Kyle, tentando di aggirare tutte le problematiche poste dai reattori, e sperava di realizzarne almeno un prototipo prima di…
Sbuffò tra sé, passandosi la mano tra i capelli a districarne le ciocche umide. Kyle non si era sorpreso più di tanto quando gli aveva rivelato le sue condizioni di salute, confermando semplicemente un sospetto che aveva da tempo, e Tony aveva apprezzato il fatto che si fosse sprecato molto poco in commiserazione e molto di più nel cercare di rendergli quell’ultimo periodo un po’ più sereno dal punto di vista legale. Aveva fatto miracoli all’ultima udienza, annichilendo Knight e rendendolo quasi del tutto libero dalle grinfie del governo, non fosse per la questione del controllo di Iron Man, a cui spettava allo SHIELD porre un freno. In quell’anno e mezzo l’aveva salvato innumerevoli volte, scampandogli probabilmente una condanna severa che avrebbe anche potuto spedirlo a marcire per un decennio a Seagate, e tanti saluti all’uomo di ferro. Non riuscire a ripagarlo a dovere come gli aveva promesso lo crucciava molto più di quanto volesse ammettere, ma Kyle, sebbene riponesse innegabilmente molte speranze nel suo lavoro, non sembrava intenzionato a colpevolizzarlo, e si era anzi raccomandato di concentrarsi sul nuovo reattore. Tony, dal canto suo, non era mai stato così contento di aver avviato ufficialmente il Progetto Phoenix, garantendo all’amico almeno una chance futura di riprendere a camminare.
«Stark, sei ancora lì?»
Tony si rese conto di essere rimasto troppo a lungo in silenzio, e si riscosse in fretta dai suoi pensieri.
«Sì, anche se credo di essere sotto shock,» buttò lì con leggerezza, pur non riuscendo del tutto a mascherare il suo tono un po’ più cupo.
«Allora sbrigati a firmare, così puoi dare una bella notizia alla tua rossa,» suggerì smaliziato l’altro, facendogli scuotere appena la testa mentre ingrandiva il documento.
Alzò la sinistra a mezz’aria, ormai per abitudine, poi ci ripensò con un mezzo sorrisetto e tracciò la firma nell’apposita casella con l’indice della destra. Dubitava di aver mai scritto il proprio nome in modo più storto, illeggibile e poco elegante, ma non si era neanche mai sentito più soddisfatto di aver firmato un documento legale in vita sua: Pepper sarebbe davvero stata fiera di lui. E a quel proposito, Kyle aveva ragione: era un bel po’ che non le dava una bella notizia. 
Così ringraziò l’avvocato, si affrettò ad asciugarsi e rivestirsi, e uscì rapido dal bagno per porre rimedio al più presto.


***


Ovviamente, Tony contò sul fatto che l’imbarazzante incontro di un’ora prima fosse magicamente evaporato dalla memoria di Pepper, quando scese al piano di sotto per cercarla. Si fermò ai piedi delle scale, picchiettando a terra il bastone da passeggio mentre si guardava attorno perplesso, senza scorgere traccia della sua… i suoi pensieri si arrestarono bruscamente quando gli mancò il termine esatto per definirla. S’impegnò a smettere di cercarlo per evitare di farsi venire un mal di testa proprio oggi che si sentiva così bene.
«Pep?» chiamò infine a voce alta, senza ottenere risposta.
«La signorina Potts è uscita poco fa per recarsi alle Industries,» gli ricordò JARVIS, strappandogli un sospiro insoddisfatto.
Avrebbe voluto annunciarle la novità di persona, soprattutto dopo tutti i buoni propositi che si era imposto la notte prima, ma avrebbe dovuto aspettare il suo ritorno, sperando che la mole di lavoro non la trattenesse alle Industries fino a sera – cosa che in realtà accadeva spesso da quando avevano inaugurato la Expo.
Sbuffò di nuovo, e il picchiettio del legno sul pavimento in marmo si ripeté più veloce, a rispecchiare la sua insofferenza. Continuava a lanciare occhiate fuori dalla vetrata realizzando con chiarezza crescente che, in quel momento, avrebbe semplicemente potuto imboccare la porta di casa da solo e recarsi ovunque avesse voluto senza timore di infrangere la legge. Magari si sarebbe attirato molti, troppi sguardi curiosi, ma i raggi caldi del sole che filtravano in salone iniziavano ad esercitare su di lui un’attrazione difficile da contrastare. Gli fu chiaro che non sarebbe mai riuscito ad aspettare fino al giorno dopo per uscire, così come gli fu chiaro che non era più il miliardario playboy che faceva mostra di sé ovunque andasse, beandosi dell’ammirazione altrui. Al contrario, avrebbe volentieri fatto a meno della sua notorietà… ma tenere un basso profilo non gli sarebbe comunque stato possibile, con una benda in faccia e la vistosa mano meccanica che sbucava a tradimento dal polsino.
Tentennò sul posto, combattuto, mentre lasciava vagare lo sguardo qua e là con fare innervosito. Si sentiva sempre più soffocare dalle ampie mura della villa che adesso gli sembravano comunque troppo strette, dopo averci passato l’ultimo anno e passa. Si soffermò automaticamente sulla porta dello studio sulla parete di fondo, in parte perché l’incubo della notte precedente lo teneva ancora sulle spine, in parte perché pensare all’archivio di suo padre gli richiamava inevitabilmente quello nella sua testa in cui aveva stipato tutti i ricordi che nell’ultimo periodo avevano iniziato a trapelare contro la sua volontà. Il robottino rosso era ormai destinato a sedimentarsi sul fondo del mare, ma rimanevano ancora molte istantanee ad affollargli la mente. Nel suo passato c’erano ancora delle porte da chiudere, o forse da aprire, e altrettanti punti fermi da mettere.
Meditò ancora per cinque minuti buoni, avvicinandosi di mezzo passo alla volta a quella porta che aveva varcato più spesso in un anno che in una vita intera; a metà strada si arrestò, gettò fuori un sonoro sospirò e cavò fuori di tasca il cellulare, scorrendo rapido la lista dei contatti per poi avviare la chiamata.
Il secondo squillo s’interruppe a metà:
«Stark? Che ha combinato?» lo interpellò una voce oscillante tra il perplesso e l’allarmato che gli suscitò un sorrisetto.
«Io? Nulla, Agente,» replicò, esagerando l’intonazione da bimbo innocente. «Ma credo di avere un bel po’ di scartoffie da smaltire, e pensavo che lo SHIELD sarebbe stato felice di ampliare i suoi archivi con materiale inedito,» sciorinò a colpo sicuro, recuperando nel frattempo la chiave dello studio e varcandone poi la soglia polverosa.
«Materiale?» il cigolio inconfondibile di una sedia da ufficio riempì il breve silenzio mentre Coulson tentava di raccapezzarsi. «Che tipo di materiale?»
«Il tipo che starebbe meglio rinchiuso al sicuro in un
caveau dello SHIELD, piuttosto che nell’ex-ufficio fatiscente di mio padre.» Fece una pausa a effetto, tamburellando le dita meccaniche sullo stipite mentre la lampadina appesa al soffitto sfrigolava, stentando ad accendersi. «Con qualche chicca extra sul suo eroe a stelle e strisce preferito. Le interessa?» continuò con fare saputo, certo di essersi già conquistato l’attenzione dell’Agente.
«Di quanto materiale stiamo parlando?» indagò infatti Coulson, celando abbastanza malamente la propria curiosità.
Lo sguardo di Tony si spostò sulle instabili pile di fascicoli, dossier e raccoglitori accatastati sul pavimento, prendendo infine atto della loro mole complessiva non indifferente.
«Abbastanza per riempire, diciamo… il bagagliaio della mia R8 senza comprometterne la tenuta di strada,» stimò infine, con vivacità.
Udì un sospiro dall’altro capo.
«Stark, che diavolo ha intenzione di–»
«Agente, è libero oggi pomeriggio?»


***


13 Maggio, Santa Monica, 11:30

I cimiteri si assomigliavano un po’ tutti.
Non che Tony avesse molta esperienza in materia, ma quella gli sembrava una nozione abbastanza scontata, considerando che i parametri rispettati dovevano essere necessariamente sempre gli stessi: lapidi ordinatamente schierate, alberi e arbusti a stemperare i riflessi freddi del marmo, prati ben curati che attutivano i passi, e una sorta di contratto non scritto che imponeva una maggioranza di belle giornate di sole per le visite ai propri cari – in contrasto con quello per una pioggerellina fitta e insistente per i funerali.
Il Woodlawn Memorial non faceva eccezione, se non per la particolarità di essere punteggiato da alte palme dal fusto oscillante, oltre che dai classici abeti, pioppi e cipressi. 
Tony stava temporeggiando da due minuti buoni nella sottile fascia d’ombra del muro di cinta, ad appena qualche passo dal cancello principale. Si risistemò gli occhiali da sole che continuavano a scivolargli sul naso, complice il sole impietoso del mezzogiorno californiano, per poi lanciare un’occhiata circospetta alle sue spalle, come se ci fosse qualcuno ad osservare la sua indecisione. Tutto ciò che vide fu la sua Audi bianca parcheggiata dall’altro lato della strada, in quel momento fin troppo invitante. Scacciò la tensione dal suo petto dopo molti minuti di respiri controllati, finché non si sentì del tutto padrone di se stesso.
Mosse il primo passo quasi in trance, ripercorrendo le orme invisibili che aveva lasciato diciotto anni prima. Non era mai tornato lì dopo il funerale. Dieci anni prima, con Rhodey, era riuscito ad arrivare fino a Santa Monica, per poi evitare il cimitero e rifugiarsi nel primo bar a portata di mano. Un’altra volta, più recente, era arrivato fino al cancello ed era rimasto lì, con una mano poggiata sulla presenza estranea del reattore infisso di fresco nel proprio petto.
Aveva rimandato, sempre, prima per rabbia, poi per paura, ultimamente per una consapevolezza che aveva ormai interiorizzato, ma che non voleva concretizzare nella forma di una lapide fredda e definitiva. Accelerò il passo, il mazzo di fiori stretto in una mano e il bastone nell’altra, anche se avrebbe voluto dirigersi nella direzione opposta. 
Il percorso tracciato quell’unica volta era cristallino nella sua memoria troppo minuziosa. Si fermò a colpo sicuro all’ombra di un pioppo, e lasciò ricadere i fiori a sfiorare i fili d’erba un po’ troppo alti. La lapide era sobria, elegante nella sua semplicità; solo la fattura del marmo chiaro e pregiato lasciava intuire la ricchezza dei proprietari. Una pianta d’edera ben curata la incorniciava, seguendone le linee ondulate, col verde vivace in contrasto con lo sfondo bianco ormai un po’ scurito. In un cartiglio, sopra ai nomi dei suoi genitori, campeggiava quello di famiglia:
Stark, nero su bianco. Quasi un ammonimento, così come lo spazio lasciato vuoto alla base della lapide. Sotto il cartiglio, in caratteri sottili e delicati, una citazione: il domani appartiene a chi si prepara ad affrontarlo oggi. A leggerla, gli sembrava di sentirla recitare dalla voce bassa e un po’ roca di suo padre, sovrapposta ai suoi mille detti per ogni occasione. Nessuna foto: stupidamente, da ragazzo non aveva voluto scegliere neanche quelle per il funerale. Si trovò a cercare gli occhi castani e caldi di sua madre, ma incontrò solo la pietra fredda e venata di un grigio perlaceo.
Strinse il mazzo di fiori nella mano, rimanendo immobile, muto.
Si chiese se dovesse dire qualcosa, se avesse senso salutarli, o se magari bastasse lasciar scorrere i pensieri per trovare una connessione, o qualunque cosa cercasse la gente quando si piazzava davanti a una tomba. Non era ben certo di cosa stesse cercando lui, ma era abbastanza sicuro di dover posare quei fiori là davanti, e di doversi togliere gli occhiali da sole. Adagiò le calle e i gigli candidi ai piedi del marmo, sul basamento di marmo più scuro, per poi sfilarsi i Ray-Ban e appuntarli sul taschino della camicia. Rimase accovacciato sul ginocchio meccanico con lo sguardo all’altezza dei loro nomi.

Maria Carbonell Stark
. Howard A. Stark.
Li lesse più volte, come se non li conoscesse, come se ripetere quelle lettere incise su una lapide potesse donare loro un qualche significato aggiuntivo rispetto a leggerle in un giornale o su un documento. A posteriori, era lieto di non aver fatto scrivere per esteso il nome che condivideva con suo padre. All’epoca era stata una questione di principio, un ultimo atto di rifiuto verso di lui. Adesso la cosa aveva sottintesi più tetri. Toccò coi polpastrelli sensibili lo spazio vuoto sotto i suoi genitori, percependo la superficie levigata e fresca nonostante il sole a picco che trapelava oltre le fronde del pioppo, creando tenui giochi di luce liquida sul bianco. Tirò le labbra, passando a sfiorare i solchi delle lettere già incise, della stella e della croce accanto ai numeri di ciascuno, tutti più dolorosi e allo stesso rassicuranti di quella porzione intonsa che sembrava in sua attesa.
Si arrischiò a portare la mano metallica a contatto col marmo, come se quel gesto potesse rivelare un’informazione in più su di sé e metterli a conoscenza di ciò che gli era successo, per quanto considerasse assurda e irrazionale quell’idea. Era uno scienziato, un fisico: non credeva nell’aldilà e non aveva alcuna ragione per farlo. Eppure, mantenne la protesi a contatto con i loro nomi – con
loro – e si impegnò a formulare un pensiero più definito degli stralci intermittenti che gli stavano attraversando la testa. Tutti inesprimibili a parole, né semplici da condensare in concetti di senso compiuto.
I colori sembravano frammentarsi in mille immagini, in ciascuna delle quali i suoni si accavallavano con gli odori e i sapori si mescolavano con il tatto. Così pensava alle estati a Malibu e non vedeva solo l’oceano immutato, ma sentiva la carezza del vento fresco in faccia, che gli faceva assaggiare il mare nella bocca e aspirare il sale nei polmoni mentre correva tra gli schizzi sul bagnasciuga, trascinando per mano sua madre sorridente. Pensava al laboratorio e subito percepiva il saldatore tiepido tra le dita, la pressione degli occhiali protettivi sul volto e l’odore di stagno liquefatto, assieme alla mano forte di suo padre che racchiudeva la sua, correggendola burberamente e in tono brusco, ma senza mai stringere troppo nonostante la presa salda e callosa. Pensava alle note lontane di un pianoforte e subito vedeva i ricami di fiordalisi sul vestito di sua madre, percepiva quella lieve essenza di rosa che portava sempre con sé e che non aveva mai capito se fosse acqua di colonia o il suo profumo naturale, sentiva le sue labbra che gli lasciavano un bacio sulla guancia a tre anni, a dieci, a sedici, a ventuno, e non aveva mai pensato che sarebbe arrivato un ultimo, anche se l'ultimo era proprio quello che ricordava più chiaramente. Da suo padre, non c’era stato nemmeno un primo.
Passò le dita su quel numero fatidico, 1991, quasi a volerlo cancellare, per poi rendersi conto della futilità del gesto. Inspirò a fondo, coi polmoni più ampi che accettarono grati quel ricambio d’ossigeno, pur consapevoli della gabbia che ancora li imprigionava. Si portò d’istinto la mano libera al reattore. Per un momento sperò che, dovunque fossero, non potessero vederlo e al contempo, intensamente, sperò anche l’opposto. Sua madre si sarebbe addolorata, a saperlo in quelle condizioni, ma si sarebbe anche rallegrata nel vedere tutto ciò che aveva realizzato, il modo in cui era cambiato in tutti quegli anni; sarebbe stata lusingata della September Foundation, sarebbe stata orgogliosa di lui, avrebbe acclamato i suoi successi come aveva sempre fatto. Probabilmente l’avrebbe anche redarguito per aver temporeggiato così a lungo con Pepper. E per averle distrutto il pianoforte.
Suo padre… non riusciva a mettere a fuoco la sua reazione. Sgomento? Rifiuto? Forse una punta di dispiacere, ben camuffata sotto rigidi strati di rughe severe – era suo figlio,
doveva essere così, era una legge naturale. Magari anche senso di colpa – ingiustificato, ma da qualcuno doveva pur aver preso – perché non aveva inventato il reattore per salvare e uccidere suo figlio. Forse sarebbe anche stato fiero di lui, per una volta.
Mille domande gli si intrecciarono in testa: cosa ne avrebbe pensato di Iron Man? Avrebbe apprezzato l’idea della Expo e avrebbe approvato il suo retaggio? E le protesi – le avrebbe considerate un’aberrazione o un passo verso il futuro? Le avrebbe odiate perché sfiguravano suo figlio o ne avrebbe visto l’utilità? Lo avrebbe accettato così com’era, quando non era riuscito a farlo per ventun anni?
Il cuore iniziò a martellargli nel petto, accelerando appena, finché non intervenne la voce ovattata di sua madre a placare quelle congetture, ad abbracciarlo a prescindere dalla sua altezza, o età, o aspetto. Lo aveva sempre fatto, dicendogli che Howard lo rimproverava ad alta voce per poi lodarlo in disparte; che lo ignorava in sua presenza ma parlava di lui in sua assenza; che pareva quasi evitarlo quando era a casa, ma chiedeva a lei con finta indifferenza quando sarebbe tornato dal collegio o dal MIT per le vacanze. Lui non ci aveva mai creduto, bollando il tutto come una menzogna per salvarlo ai suoi occhi, per illuderlo di un affetto che non aveva mai ricevuto sulla propria pelle. E sua madre non aveva mai davvero provato a colmare il vuoto tra loro, o a rimproverare suo padre. La ricordava come il centro del proprio mondo, il sole attorno al quale ruotava la propria esistenza; ma ogni volta che c'era suo padre quel sole si oscurava, eclissato, e lui stesso sprofondava nella sua ombra.
Adesso vedeva una logica nelle azioni dei suoi genitori, per quanto non sempre giustificabile; e per quanto la distanza tra lui e suo padre rimanesse incolmabile, la sentiva un po’ meno dolorosa e insondabile. Forse anche sopportabile.
Fissò di nuovo i nomi di sua madre e di suo padre, chiedendosi se fosse giusto accettare i loro difetti solo quando aveva scoperto i propri, e se fosse una beffa del caso accettarne la morte proprio adesso che lui riusciva a scorgerla sul suo cammino. Non ritenne sensato darsi risposta.
Aveva pensato di venire lì per aprire una porta o per chiuderla, un qualcosa che in quel periodo si stava impegnando a fare con dedizione. Si rendeva conto solo ora che non c’era alcuna porta: quella che aveva davanti era una semplice soglia. Ciò la rendeva solo più spaventosa, e il pensiero gli causò un vuoto allo stomaco. Si affrettò a scacciare quell’immagine troppo evocativa, stemperata dal fatto che forse, contro tutta la sua logica ferrea e leggi scientifiche, dall'altra parte ci sarebbe stato qualcuno ad aspettarlo.
Sfiorò di nuovo i nomi, schiudendo la bocca senza produrne alcun suono. Quelle parole semplici e fondamentali gli rimasero ancora una volta incastrate in gola, trattenute dalla rete dei suoi stessi pensieri. Gliene sfuggì un’altra, anch’essa silenziosa, un “grazie” che aveva pensato per la maggior parte della sua infanzia, mentre suonava un pianoforte sotto gli occhi di sua madre o ammirava gli armeggi di suo padre in laboratorio, e che forse aveva poi formulato altre volte due anni prima, quando l’unica luce a rischiarare la grotta era stata quella azzurrina che gli aveva regalato suo padre.
Fissò la lapide, sentendosi smarrito ma anche insolitamente calmo, con altri ricordi dolceamari che lo lambivano ritmicamente, come una risacca continua e pacifica a cui non avrebbe voluto sottrarsi.
Inforcò di nuovo gli occhiali da sole, adocchiando un’ultima volta lo spazio vuoto che sembrava fissarlo di rimando dal marmo lucido della tomba, e sollevò il mento quasi con sfida verso quella soglia ormai terribilmente vicina, a cui però si rifiutava di consegnarsi già da adesso.
Si rialzò in piedi, con una lieve fitta al moncherino per la posizione scomoda tenuta troppo a lungo. Non sapeva quantificare quanto tempo fosse rimasto lì, ma per essere la prima volta in diciott’anni gli sembrava abbastanza.
Allungò un’ultima volta la mano sensibile verso la lapide, accarezzandone il profilo ricoperto d’edera, per poi staccarsene riluttante, e al contempo sollevato.
Si avviò fuori dal cimitero con passo più lieve, come se una parte di lui fosse rimasta inginocchiata là davanti, a continuare un discorso rimasto a lungo in sospeso.


***


13 Maggio, Santa Monica, 13:30

Essendo un infrasettimanale, a quell’ora non c’era molto viavai sul lungomare, occupato solo da un gruppetto di adolescenti che aveva preferito la spiaggia alla scuola, qualche coppietta a braccetto, e sporadici atleti intenti a fare jogging a dispetto della temperatura già infernale nonostante fosse solo maggio. Anche il bancone e i tavoli all’aperto di Perry’s contavano pochi avventori, per lo più pensionati in cerca di un po’ di refrigerio e di una partita a poker a due passi dall’oceano.
Tony si attirò non pochi sguardi nell’attraversare il piazzale antistante il locale, ma nessuno lo importunò, anche se intravide un passante sfoderare spudoratamente il proprio telefono per immortalarlo. Lo ignorò, calcandosi per bene gli occhiali da sole in faccia e ignorando la scossa di disagio che sembrava tirarlo per la giacca, indirizzandolo verso la sua auto per tornare a casa, al riparo da sguardi estranei. Trattenne quell’impulso, e anche quello di slacciare un altro bottone della camicia, per non rischiare di scoprire accidentalmente le venature plumbee sottostanti. La sua insofferenza al caldo non era scemata, ma si rassegnò a tollerarlo in silenzio: preferiva cuocere a fuoco lento nel suo completo di lino a maniche lunghe, piuttosto che scoprire un centimetro di troppo del braccio meccanico.
Si accostò al bancone, preannunciato dal ticchettio che accompagnava i suoi passi, e richiamò l’attenzione del barman voltato di spalle battendo sul piano di legno con le nocche metalliche. L’uomo si girò, rimase per un secondo bloccato dallo stupore con uno shaker a mezz’aria, e si aprì poi in un sorriso incredulo.
«Signor Stark!» lo accolse, facendoglisi incontro. «Non mi aspettavo di rivederla,» confessò, non potendo fare a meno di adocchiare fugacemente la mano artificiale posata sul bancone, ma Tony non se ne ebbe a male.
«Tendo sempre a sovvertire le aspettative,» replicò invece con un mezzo sorrisetto compiaciuto, sedendosi sullo sgabello.
Nei mesi estivi, quando gli capitava di essere a Santa Monica, era una sorta di habitué di quel bar un po’ sgangherato. Non era il tipo di posto dove ci si sarebbe aspettati di trovare Tony Stark, e Perry, un omone hawaiano tatuato, baffuto, con un bandana perennemente legata in testa e una Harley parcheggiata lì accanto a confermare gli stereotipi, si era sempre impegnato a non diffondere troppo la voce.
«Cosa beve? Offre la casa,» arrivò subito al dunque, senza perdersi in chiacchiere come suo solito, ma evidentemente contento di aver recuperato un cliente del suo calibro.
«Un Tequila Sunrise,» accettò un po’ colpevole Tony, conscio che non avrebbe dovuto bere, ma ignorando in blocco il suo buonsenso e i moniti di Ian. «E un cheeseburger,» aggiunse, concludendo che non potesse esserci cibo migliore per celebrare una riacquistata libertà.
Un quarto d’ora dopo, era intento a testare i propri nervi nel riuscire a mangiare senza dare spettacolo, ovvero limitando al minimo l’uso della protesi per evitare disastri e sguardi indiscreti. Non se la stava cavando così male, ed era lieto che, tra un ordine e l’altro, Perry fulminasse con lo sguardo chiunque lo fissasse troppo a lungo. Così si sarebbe almeno risparmiato di attivare il suo sarcasmo devastante e molto poco politicamente corretto per scrollarsi di dosso i curiosi.
A metà del suo cheeseburger si vide comparire a sorpresa un Mojito sotto al naso, al che fu costretto a richiamare il barman con un sospiro.

«Perry, grazie, ma n
on l’ho ordinato,» disse controvoglia.
«
Glielo offre quel signore laggiù,» replicò l'altro, accennando dietro di lui.
Tony si voltò, inquadrando un vecchietto dai capelli bianchi tirati indietro con la brillantina e la bocca sormontata paio di baffetti curati.
L’impressione di serietà era stemperata dagli ampi Ray-Ban dalle lenti arancioni che spiccavano sul suo largo naso, e dalla maglietta con la stampa a colori vivaci “Legends Never Die”. Vedendosi indicato, sfoggiò un ampio sogghigno e sollevò il proprio bicchiere nella sua direzione, in un brindisi che Tony ricambiò un po’ incerto a mo’ di ringraziamento, col volto incrinato a sua volta da un mezzo sorrisetto.
Si voltò di nuovo ed esitò prima di bere, per poi pensare che non sarebbe certo stato quello strappo alla regola ad ucciderlo. Stava giusto per prendere il primo sorso, quando si vide sfilare il bicchiere da sotto il naso con la stessa rapidità con cui era comparso. Sollevò la testa, già pronto a infuriarsi per un qualche scherzo di cattivo gusto, e si trovò a fissare due occhi molto verdi e molto divertiti, incorniciati da folti capelli rossi.
«Buon Dio!» sbottò, ritraendosi e sobbalzando per la sorpresa, e Nataša accolse quella reazione con un sorrisino un po’ perfido.
«Ciao, Stark,» lo salutò, sorseggiando tranquilla il suo drink. «Tutto bene?»
«Non se mi fai prendere un infarto,» soffiò lui, portandosi una mano al petto con fare teatrale.
Scrutò la donna, in borghese con una semplice camicetta color sabbia e un paio di jeans, e con i capelli più corti rispetto all’ultima volta che l’aveva vista. Il suo volto era illeggibile come sempre, se non per l’espressione furbetta che faceva capolino nella piega delle sue labbra. A parte la sua comparsa decisamente poco delicata, era contento di vederla.
«Cos’è, Coulson ha dato buca?» si riprese infine Tony, scrollando la testa prima di addentare ciò che rimaneva del panino.
«Le sembro il tipo che dà buca?»
A Tony quasi andò di traverso il boccone nel vedersi comparire l’Agente dall’altro lato, ma riuscì a non soffocarsi e a non terminare la propria carriera riverso sul bancone di un bar come gli era sempre stato pronosticato. Deglutì, un po’ rosso in volto.
«La mia salute è già precaria, vedete di non accelerare il processo,» sbottò, con umorismo un po’ nero, sfoggiando un sorrisetto nel vedere il cambio d’espressione sui loro volti a far loro capire che li stava prendendo in giro.
Coulson era come sempre impeccabile nel suo sobrio completo nero, che passava però molto poco inosservato in quella località balneare. Si lanciò un’occhiata attorno, constatando che a quel punto avevano decisamente attirato l’attenzione degli avventori – e dire che quei due dovevano essere spie d’alto livello.
«Cambiamo aria,» bofonchiò, per poi scivolare giù dallo sgabello e lasciare di nascosto una generosa mancia a Perry, che altrimenti non l’avrebbe mai accettata.
Si avviarono senza parlare verso la sua auto, che aveva lasciato nei pressi del pontile per farsi una passeggiata. La brezza era tesa, ma non fastidiosa, e gli spazzava indietro i capelli in modo piacevole, quasi a ricordargli cosa si provasse a stare all’aria aperta. Dopo un centinaio di metri, notò che Nataša aveva un’espressione innegabilmente soddisfatta stampata in volto, e la sorprese ad occhieggiare i suoi passi zoppicanti con occhio attento, al che si lasciò sfuggire un sogghigno.
«Sono migliorato?» la stuzzicò, azzardando un volteggio col bastone mentre camminava più impettito.
«Discretamente,» gli concesse, senza sbilanciarsi. «Hai fatto esercizio?»
«Non molto, in realtà,» confessò Tony, un po’ reticente a spiegarne il motivo.
Nataša sembrò intuirlo lo stesso, perché adocchiò il reattore e non insistette, per poi dargli un leggero spintone.
«Lavativo,» lo rimbrottò.
Tony si limitò ad alzare le spalle, accettando quell’accusa giocosa, che allontanava discorsi troppo cupi da fare sotto quel sole incastonato in un cielo sgombro da nubi. Coulson li osservava, pacato ed enigmatico come sempre, e Tony si trovò ancora una volta a sorprendersi per il fatto che si fosse presentato lì nonostante lo scarso anticipo.
«Era a Portland anche oggi, Agente?» chiese sfacciato, quando fu costretto a rallentare un po’ il passo per una fitta molesta.
«Crede che sarei qui, se fossi stato a Portland?» sollevò le sopracciglia lui.
«Non so se posso fare concorrenza a Audrey,» ammise, storcendo la bocca insoddisfatto.
«Tu, invece? Come mai da solo?» indagò Nataša, con altrettanta poca discrezione e cogliendo la palla al balzo.
Tony esitò, ringraziando gli occhiali che celavano il suo sguardo, per poi rinunciare a svicolare alla domanda.
«Pepper è impegnata alle Industries. In realtà non sa neanche della licenza, e di conseguenza…»
«… non sa che sei qui,» concluse Nataša, quasi rassegnata.
«Povera donna,» chiosò l’altro. «Spero che tu sia raggiungibile,» aggiunse in tono inquisitore.
Tony annuì, evitando di rivelare di aver dimenticato più o meno volontariamente il telefono a casa. Non volle pensare al centinaio di chiamate perse che doveva aver ricevuto da lei. Aveva voluto quella mattinata solo per sé, senza interferenze esterne di alcun tipo. E dopotutto le aveva lasciato un biglietto: non era certo così scriteriato.
Arrivati alla sua auto Tony aprì il portabagagli, nel quale erano stipati gli scatoloni con le scartoffie di suo padre e della SSR. Coulson annuì, interessato, scorrendo i titoli di qualche dossier – casualmente proprio quelli sul Progetto: Rebirth.
«Allora, accettate l’offerta o devo portare tutto al macero?» li incalzò Tony.
«Certo...» borbottò Coulson, perso nella lettura di un dossier del '45. «Altro materiale da digitalizzare. Hill sarà contenta,» commentò poi, in un misto indecifrabile di rassegnazione e soddisfazione.
«Tu no?» lo rimbeccò Nataša, a sua volta non propriamente entusiasta di fronte al nuovo carico di lavoro.
«Fury di sicuro,» concluse l'agente, accigliato.
«“Grazie per il pensiero, Tony, te ne saremo eternamente grati”,» cinguettò il suddetto alle loro spalle, incrociando le braccia con fare risentito.
«Ci saranno davvero utili,» lo rassicurò Nataša, alzando gli occhi al cielo. «Per te lo sono stati?» chiese poi, in tono eloquente.
«Marginalmente,» sviò lui, ticchettando a terra col bastone e fissandosi la punta delle scarpe, prima di superare la donna e salire al posto di guida per troncare la questione. «Siete venuti da comuni mortali o c’è un Quinjet nascosto da qualche parte?» cambiò discorso poi, avviando il motore e facendo loro cenno di salire.
«Lola è parcheggiata in città,» lo indirizzò Coulson, sporgendosi da dietro con uno sguardo preoccupato alla sua mano meccanica sul volante.
Tony sospirò, staccò platealmente entrambe le mani e lasciò che la macchina partisse in modalità automatica, riservandogli uno sguardo seccato dallo specchietto retrovisore; colse Nataša sogghignare tra sé per quello scambio silenzioso, e cercò di stemperare un po’ il suo cipiglio.
Venti minuti dopo, avevano finito di trasferire gli scatoloni nel cofano di Lola, e Tony si apprestò a salutarli sbrigativamente per fare ritorno alla villa, prima che Pepper si preoccupasse troppo. Si era incupito, non sapeva dire neanche lui perché; forse il ripensare alle ore perse a scartabellare inutilmente l’archivio di suo padre l’aveva irritato, o forse era solo il palladio che influiva sul suo umore. Prima che potesse congedarsi, Coulson gli fece cenno di aspettare.
«Ho anch’io qualcosa per lei,» annunciò, chinandosi oltre la portiera per prelevare una scatola dal sedile del passeggero.
Lo sguardo di Tony fu subito attratto dal simbolo dello SHIELD impresso sul coperchio.
«Cos’ha per me, Agente? Prove scomode per macchiarmi la reputazione?» buttò lì, celando la propria curiosità e incrociando le mani dietro la schiena per evitare di prendere direttamente la scatola.
Coulson intuì la sua riluttanza e si limitò a poggiarle nella sua macchina con un sospiro, mentre Nataša aspettava poggiata sul muso di Lola.
«Materiale saltato fuori durante la digitalizzazione. Ho pensato che le avrebbe fatto piacere riaverlo.»
Tony aggrottò le sopracciglia e adocchiò meglio la scatola. Mascherò con successo il secondo o terzo quasi-infarto della giornata quando mise a fuoco la scritta sul lato finora celato: “Proprietà di H. Stark”. Dovette frenare le proprie mani dall’aprirla qui e ora, e le strinse invece sul bastone, simulando indifferenza.
«Che genere di materiale?» chiese svogliato, fissando le lettere del nome di suo padre con un lieve effetto
déjà-vu.
«Privato,» fu tutto ciò che offrì Coulson. «Niente che possa interessare allo SHIELD. Credo che spetti a lei decidere cosa farne,» esplicò infine, vedendolo ancora scettico.
Tony percepì la propria trepidazione scemare un poco, ma scrollò le spalle, senza esternare nulla di ciò che stava provando. Se loro non avevano trovato nulla d’interessante, non voleva dire che non ci fosse
davvero nulla. Avrebbe dovuto indagare più a fondo di persona. E smettere di farsi così tante aspettative.
«Grazie, suppongo… avevo bisogno di qualche altro memento di mio padre in giro,» minimizzò, stringendo poi la mano a Coulson con la sinistra e stemperando il proprio commento un po' ingrato con un tono ironico.
«Si riguardi, Stark. Contiamo ancora su di lei,» si congedò altrettanto in fretta lui.
«Non su Iron Man?» lo rimbeccò pronto, memore delle sue parole.
«C’è differenza?» sorrise l’altro sibillino, già salendo in macchina, e Tony si lasciò scappare di rimando un sorrisetto un po’ stupito.
Nataša gli si fece incontro con un istante d’esitazione, lo sguardo basso e le braccia incrociate sotto il seno, esattamente come quando l’aveva salutato alla fine della fisioterapia. Tony la scrutò sospettoso.
«Romanov, se hai intenzione di mettermi KO con una delle tua mosse ninja, non–»
Si lasciò abbracciare, anche se aveva riconosciuto l’intento e avrebbe potuto scostarsi facilmente, ma ricevere un abbraccio da Nataša era un evento epocale e non aveva intenzione di rifiutarlo. A quel contatto percepì un lieve picco di disagio che si sforzò di camuffare, anche se era difficile nascondere qualcosa alla spia.
«Noi siamo sempre all’Helicarrier,» proferì la donna, staccandosi dopo averlo stretto un'ultima volta po’ più forte. «Lo sai, no?»
«Lo so,» confermò lui, con un piccolo sbuffo. «Anch’io sono sempre alla Villa,» aggiunse poi, alzando le spalle e stando al gioco.
«Spero che ora non ci sarai proprio sempre,» gli ricordò lei, inclinando le labbra in un raro sorriso, e Tony si limitò ad annuire in risposta.
«Tra un paio di settimane potrebbe venirmi voglia di organizzare una festa coi fiocchi, in onore dei vecchi tempi,» si lasciò sfuggire poi, con vaghezza e un velo di mestizia nel pensare al suo compleanno ormai così vicino. «Di’ al resto della banda di tenersi libero, o potrei davvero offendermi,» scherzò poi, alleggerendo le proprie parole.
Nataša annuì senza commentare, e Tony poté giurare di aver visto i suoi occhi farsi un po’ lucidi un attimo prima che si girasse di scatto per risalire in macchina.
«Vedremo, Stark,» gli disse soltanto, senza guardarlo, e lui lo interpretò come un deciso sì.
«E non combini disastri... se vuole festeggiare, la villa le serve intera,» gli ricordò Coulson, prima di partire e svoltare ben presto dietro il primo angolo.
Tony si sedette a sua volta in macchina, senza mettere in moto e guardando di sottecchi la scatola accanto a lui. Si costrinse a non aprirla, o avrebbe finito per perdersi documenti di vitale importanza in giro per Santa Monica.
Guardò l’orologio, realizzando che erano quasi le quattro e che non sarebbe arrivato a casa prima di un’altra mezz’ora. Si lasciò scorrere addosso la giornata e, a parte un velo di stanchezza e qualche doloretto sopportabile, realizzò di sentirsi bene, a dispetto della nottataccia trascorsa. Inspirò a fondo l’aria marina che s’inoltrava fino alle strade interne, e tamburellò una marcetta vivace sul volante, con un sorrisetto a tirargli le labbra nel pensare a Pepper che probabilmente lo aspettava a casa. Si sentì stringere lo stomaco, ma non con la solita ansia: fu uno strattone piacevole che gli trasmesse solo un quieto senso di aspettativa e impazienza di rivederla, come quelle rare volte in cui era stato in un viaggio d'affari in capo al mondo senza di lei.
Il suo sorriso s’inclinò in una smorfia, rammentandosi che forse lei non l’avrebbe accolto proprio a braccia aperte, dopo un giorno d’assenza improvvisa e assolutamente ingiustificata passato chissà dove, lasciandola in apprensione per lui. Si grattò la nuca, meditabondo e molto poco propenso a rovinare la giornata a entrambi per una sua leggerezza, ma un piano in verità molto semplice gli si formò subito in testa, convincendolo a girare la chiave per mettersi in marcia, con un’espressione furbetta stampata in faccia.
Sapeva esattamente come farsi perdonare.




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Note Dell'Autrice:

Salve!
Sono in ritardo? Direi assolutamente di sì, ma tra esami vari, disguidi accademici e compagnia bella questo periodo è stato un disastro.
A parte i miei casini... la scena di Tony che visita i suoi è preventivata da circa sei mesi ed è una grande soddisfazione riuscire a portarla "sullo schermo". Spero che il modo in cui l'ho rappresentata vi sia piaciuto (ci tengo a specificare che non vi è un perdono totale nei confronti di Howard, piuttosto un abbandono del rancore).
Il capitolo, sebbene con molto ritardo, è dedicato a Stan Lee <3 Inserire un suo cameo nella storia subito dopo la sua morte sarebbe stato forzato, e ho preferito concedergli uno spazio più dignitoso, sperando anche di avervi sorpreso, come fa lui in ogni film Marvel :)
Ah, maliziosetti, se a inizio capitolo avete pensato male, avete pensato benissimo u.u
Per tutto il resto c'è Mastercard, sono più che disponibile a fornire chiarimenti su trama, dettagli&co, che questo capitolo è una miniera d'informazioni :P

Ringrazio T612, Emyclarinet, _Atlas_ ed Enigmista96 per aver recensito lo scorso capitolo, e tutti coloro che hanno recentemente aggiunto la storia tra le seguite, preferite e ricordate <3 Non sapete quanto mi fate felice <3
Spero di riuscire ad aggiornare presto, e sicuramente non con così tanto ritardo come a questo giro :)
Un bacione e hasta la vista,

-Light-

P.S. La citazione sulla tomba degli Stark è da attribuire a Malcom X.
P.P.S. Il capitolo ha cambiato titolo un qualcosa come dieci volte, poi è arrivato il film Bohemian Rhapsody a ricordarmi che amo i Queen <3

 

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Capitolo 49
*** Sometimes you can't make it on your own ***


48

  

Sometimes you can't make it on your own




"When something's broke
I wanna put a bit of fixin' on it
When something's bored
I wanna put a little exciting on it
If something's low
I wanna put a little high on it
When something's lost
I wanna fight to get it back again"

[The Fixer – Pearl Jam]







13 Maggio, Villa Stark, 16:30

"Sono uscito. Non preoccuparti: tornerò presto e non farò stupidaggini. Tony.”
Pepper, dopo averlo letto per la quarta volta, accartocciò ancora il biglietto nel palmo della mano, nello stesso modo in cui il suo stomaco aveva continuato ad accartocciarsi in una stretta ansiosa da quando era tornata alla villa. Ansiosa, e decisamente arrabbiata, anche se cercava di convincersi del contrario e di placare le ondate furiose che di tanto in tanto prendevano il sopravvento sul suo raziocinio.

Non preoccuparti”, diceva. Certo, perché preoccuparsi? Dopotutto aveva solo una gamba e un braccio meccanico che rendevano un azzardo ogni suo movimento, un reattore che lo stava uccidendo nel petto, e la sera prima era solo stato a un passo dal piangere per il dolore ai moncherini. Perché mai si sarebbe dovuta preoccupare nel saperlo a zonzo chissà dove?
Bevve con rabbia un sorso di tè bollente, incurante di scottarsi, con la mano che tremò nonostante gli sforzi di placarla. Aveva perso il conto delle chiamate a vuoto che gli aveva fatto, prima di realizzare che il suo telefono giaceva su un bancone del laboratorio, dove era scesa in un atto di forza per assicurarsi che le armature fossero ancora tutte – si era quasi sciolta dal sollievo nel constatare che fossero al loro posto. Aveva quindi chiamato in successione Rhodey, Ian e Kyle, ma nessuno dei tre aveva idea di dove si fosse cacciato il loro amico, paziente o assistito. Un biglietto sulla porta, nessuna coordinata precisa e un contorno di vaghezza era tutto ciò che Tony si era lasciato alle spalle.
Sapeva che
probabilmente non stava davvero facendo nulla di pericoloso, almeno per i suoi standard, e, dopo che Kyle gli aveva detto della licenza, capiva perfettamente il suo desiderio di uscire dopo un anno e più di reclusione… era il fatto di averla lasciata di punto in bianco in una pozza d’angoscia a far uscire di testa lei.
Prese un grosso respiro per calmarsi, riuscendo solo ad aumentare il proprio nervosismo, manifesto nel modo in cui picchiettava sul bordo della tazza. Tentare di fornire una spiegazione per i comportamenti strampalati di Tony era sempre stato vano, ma aveva sperato che, visto il contratto di assoluta trasparenza che ormai vigeva tra loro, si sarebbe sempre degnato di metterla al corrente di ciò che faceva. Le riusciva abbastanza complesso definire il loro rapporto in quel momento, ma era più che determinata a non lasciare che omissioni del genere diventassero –
di nuovo – la norma.
Si lasciò sprofondare nello schienale morbido del divano, sentendosi più esausta che mai: quella situazione iniziava a logorarla. Gli impegni alle Industries la tenevano occupata quel tanto che bastava per non farla impazzire, ma le sembrava di sentir fisicamente scorrere il tempo in sottofondo, ricordandole di quel limite fissato ormai a meno di due mesi davanti a sé – a
loro.
Non riusciva a immaginarsi la propria vita senza Tony, e non era una constatazione legata a ciò che era successo negli ultimi mesi, ma piuttosto un qualcosa di cui era diventata intrinsecamente sempre più consapevole col passare del tempo. Era stato una costante nella sua quotidianità per dieci anni, e il solo pensare di perderlo le costringeva il respiro. Sarebbe stato come veder svanire l’orizzonte da un giorno all’altro: un qualcosa di non vitale ma sempre presente, costante, tanto interiorizzato da non farci più caso e tanto essenziale da non poterne ignorare la scomparsa.
Sentì le lacrime pizzicarle gli occhi, le ennesime di una lunga serie che sembrava iniziata quella sera dopo la Expo e che non accennava a finire, ma le trattenne, asciugandosele accortamente col dorso dell’indice prima che traboccassero. Non era davvero così triste da sentire il bisogno di piangere, e attribuì quel cedimento alla stanchezza e alle pochissime ore di sonno. Era stata una nottata estenuante per entrambi, e in realtà si chiedeva da dove Tony avesse preso la forza per uscire. D’altra parte, riusciva sempre a sorprenderla in quel senso. Si rifiutava di lasciarsi vincere dalla spossatezza, anche quando era chiaramente insostenibile, e l’aveva visto costantemente indaffarato, concedendosi solo poche parentesi d’inerzia. 
Era un fatto positivo e rassicurante, ma volte avrebbe voluto dirgli di rallentare e prendersi del tempo per sé, nonostante fosse del tutto consapevole che ciò andasse contro ogni buonsenso, e che quel desiderio inespresso celasse anche una punta d’egoismo da parte propria. Non sarebbe mai tornata indietro sulla sua decisione di stargli vicino, ma all'atto pratico ciò accadeva più raramente di quanto avrebbe voluto – e di quanto di certo avrebbe voluto lui. La notte precedente ne aveva avuto una conferma, e ciò non faceva che farla sentire più ingabbiata dagli stessi limiti che percepiva Tony. 
Sapeva che stavano facendo entrambi del loro meglio, ma sembrava non essere mai abbastanza, per quanto si ripetessero che fosse così. Stavano entrando nella paradossale situazione in cui si rendevano pian piano conto che anche i limiti avevano dei limiti: una soglia di tempo oltre la quale diventavano impossibili da sopportare e rispettare, che li spingeva a ignorarli per evitare di implodere. E ciò diventava sempre più evidente nel modo in cui avevano iniziato a cercarsi più spesso e a lungo, nel fatto che Tony riuscisse a imbrigliare sempre meglio la sua ansia uscendo dai propri confini e nel modo in cui lei si trovava a valicare i suoi, con quieta cautela, e nessuno dei due si sottraeva a quei contatti ormai necessari, ma spesso rimandati – come la notte prima, con quel
“resta” che non era arrivato da parte di Tony, ma che era sembrato aleggiare tra loro.
Prima che potesse addentrarsi in quei pensieri e scivolare nel confuso subbuglio interiore che iniziava a intrecciarle stomaco e pensieri, u
dì lo scatto della porta, che spezzò di netto quel filo ingarbugliato. Balzò in piedi, sentendosi travolgere da un'ondata di sollievo nel veder comparire Tony nell'atrio, vivo e tutto intero.
Stava per rimproverarlo per essere uscito senza dirle nulla e per essere stato totalmente irreperibile per tutto il giorno, quando si arrestò nell’atto di andargli incontro, convinta di star subendo l’effetto di un
déjà-vu e che a quell’immagine di Tony si fosse sovrapposta una di qualche anno prima. Indossava un completo estivo grigio chiaro, e gli occhiali scuri gli schermavano il volto senza celare del tutto la sua espressione scanzonata, né le guance leggermente arrossate dal sole; aveva i capelli scarmigliati, come se avesse guidato con la capote abbassata. Sottobraccio portava una scatola di cartone e con la mano meccanica impugnava il bastone e i manici di una busta di plastica di cui non riusciva a intuire il contenuto. 
Sembrava... raggiante, letteralmente, e un ampio sorriso gli attraversò il volto quando la vide. Si tolse in modo un po’ goffo gli occhiali, destreggiandosi tra i suoi ingombri, e rivelò lo sguardo acceso e le linee sul suo volto più distese; persino la sua postura sembrava più diritta. Irradiava un'aura di pura felicità, e in quel momento ogni parola di rimprovero le morì sulle labbra, perché dopo così tanto tempo si trovava finalmente a guardare il Tony che ricordava, ilare e spensierato. Si trovò semplicemente a sorridere di rimando, trovandosi a corto di parole e godendosi il sollievo di vederlo lì davanti a lei.
«Ehi, Potts, così mi fa preoccupare,» esordì Tony, senza smettere di sorridere, nonostante si intuisse una traccia di colpevolezza tra le righe.
A quel punto Pepper si impegnò almeno a tentare di assumere un’espressione severa. Era abbastanza convinta di star fallendo miseramente, a giudicare dall’aria affatto impressionata e quasi un po’ da discolo di Tony, che le stava venendo incontro con le mani ancora impegnate.
«Niente ramanzina?» proferì, alzando un sopracciglio. «Neanche un piccolo rimprovero? Niente di niente?» insistette, sempre più sorpreso e col sorriso che non abbandonava le sue labbra.
«Sembra quasi che ci sperasse,» osservò lei, prendendo nota di come Tony avesse accorciato le distanze, rispetto al solito. 
La cosa non poteva che farle piacere. Lui sfoggiò una smorfia impertinente, inclinandosi ancora verso di lei.
«Uno dei miei sport preferiti è farla arrabbiare, che gusto c'è se non ci riesco?» sogghignò con fare esasperante.
«Oh, ci sei riuscito benissimo,» cambiò tono lei, accigliandosi.
Tony imbastì dal nulla la sua solita espressione da cane bastonato, appaiandovi però un mezzo sorrisetto speranzoso.
«Ma…?» la incitò, un po’ impaziente.
«Ma sono anche contenta.»
«Del fatto che per una volta ho sbrigato da solo i miei impegni?» accennò allo scatolone che, notava adesso, recava impresso il simbolo dello SHIELD.
«Di vederti così,» replicò lei trattenendo l’impulso di accostarglisi, sia per non compromettere il suo equilibrio precario, sia per non turbare inavvertitamente la bolla di serenità in cui sembrava immerso.
«Ho finalmente fatto colpo?» si meravigliò lui. «È un record, ci sono voluti solo nove anni,» osservò poi, canzonandola con quel tono leggero che l’aveva sempre caratterizzato e che rievocava ricordi graditi.
«
Dieci. E smetti di pensare che io abbia occhi solo per te,» lo rimbeccò bonaria, stando a quella farsa che ormai risultava un po' obsoleta, ma che entrambi continuavano ad imbastire per puro diletto.
«Vuoi forse negarlo?» insinuò lui, improvvisamente malizioso.
Pepper finse un sospiro snervato, arrossendo di riflesso e senza alcuna intenzione di negare quel fatto. Per recuperare un briciolo di compostezza, visto che essere così vicini non era affatto d’aiuto, fece per prendergli lo scatolone da sotto il braccio per alleviargli il peso.
«Se vuoi aiutarmi c’è questo; tanto è tutto per te,» disse lui in fretta e con sottile impaccio, interponendo la busta tra loro.
Pepper ne afferrò di riflesso i manici, per poi sbirciare incuriosita all’interno e identificare, con un enorme sorriso, una voluminosa vaschetta di gelato.
«Solo per me, dici?» chiese conferma, stimando che là dentro ci fossero almeno un chilo di calorie e zuccheri.
Tony fece un sorriso un po’ storto, di un bambino sorpreso con le mani nella marmellata.
«
Principalmente per te,» specificò, con un indiscutibile sguardo goloso alla vaschetta. «Me l'ero preparato per farmi perdonare, ma se non c'è bisogno lo tengo per me…» suggerì, facendo per riprendersi il pensiero, che Pepper tenne prontamente fuori dalla sua portata, per poi muovere un paio di passi verso la cucina.
«Ce n’è decisamente bisogno,» lo prese in giro, voltandogli poi le spalle.
Sentì il cuore leggero mentre camminava, e si chiese quando fosse stata l’ultima volta che aveva provato una sensazione così spensierata e genuina. C’erano state troppe ombre a oscurarli, ultimamente, e la semplice possibilità di ritagliarsi un siparietto scherzoso e privo di fardelli le dava l’impressione di poter escludere dalla mente tutto il resto, se anche per pochi minuti.
«Nocciola per te, caffè per me,» elencò nel frattempo Tony, tenendole dietro con passo claudicante ma vivace, dopo aver poggiato la scatola sul divano. «Ero tentato dalla fragola, ma qualcosa mi ha detto che era meglio di no,» aggiunse, furbetto.
«Meno male,» commentò lei, con un’occhiata eloquente.
«Ero
molto tentato.»
«Allora apprezzo il tuo insolito autocontrollo.»
«Vorrà dire che dovrò trovare altri modi per irritarti,» concluse, con un sorrisetto dispettoso.
A quel punto la superò, le sottrasse la vaschetta con inaspettata agilità e le schioccò con assoluta naturalezza un improvviso bacio sulla guancia, per poi squagliarsela in cucina, lasciandola ad avvampare nel salone piacevolmente sorpresa. Quasi inchiodò sul posto, chiedendosi se quel giorno non stesse avendo delle allucinazioni dettate dallo stress. Appena la notte scorsa aveva visto Tony dover fare appello a tutto il suo autocontrollo anche solo per avvicinarsi a lei senza essere colto dall’ansia ingiustificata che lo divorava, e qualche ora prima aveva temuto che andasse in autocombustione per la vergogna per quell’innocuo incidente mattutino. E adesso le sembrava di aver a che fare col solito Tony scherzosamente impudente e disinvolto, con l’aggiunta di tutto ciò che si erano detti – e non detti – in quei mesi e che trapelava dagli sguardi e dai gesti che si scambiavano.
Si chiese fugacemente se dovesse preoccuparsi, per poi realizzare che la risposta a quella domanda, nella loro situazione, rimaneva per forza di cose immutata. Scacciò quei pensieri dalla testa: almeno per quel giorno voleva fingere anche lei che andasse tutto bene, visto che Tony sembrava più incline del solito a fare lo stesso.
Quando entrò in cucina, lo sorprese a cacciarsi una gran cucchiaiata di gelato in bocca direttamente dalla vaschetta, e non poté trattenere un sorriso nel vedere la buffa espressione colpevole che fece nel vederla, affrettandosi a deglutire di colpo.
«Non ti ho aspettata, si stava sciogliendo,» bofonchiò a mo' di scusa, sopprimendo un sobbalzo per l’evidente fitta da gelo che l’aveva attraversato.
Le porse la coppetta in cui aveva già versato la sua porzione, per poi riempire la sua e abbandonare l’assalto barbaro alla vaschetta. Pepper ringraziò con un cenno del capo, per poi esitare sul posto, indecisa se rimanere in piedi o sedersi al tavolo, e Tony sembrò alle prese con lo stesso dubbio; e anche abbastanza nervosamente, a giudicare dal modo in cui portò una mano a controllare la benda, un tic che lo tradiva puntualmente. Decise di rompere lei gli indugi: prese posto su una delle sedie e lo tirò dolcemente per la manica, badando a scegliere il lato sano e invitandolo a sedersi accanto a lei. Tony non si sottrasse e la assecondò subito con evidente sollievo, inclinando appena un angolo delle labbra verso l’alto. Sfuggì comunque il suo sguardo, abbassando le ciglia scure a schermare il proprio.
Rimasero in silenzio per un minuto buono, gomito a gomito mentre gustavano il gelato, quasi in attesa del passo successivo da parte di uno dei due. Pepper stava tenacemente cercando di ignorare il suo cuore che aveva preso a battere in modo più rapido e sonoro da quando era entrata nella stanza, e aveva l’impressione che anche Tony fosse alle prese con le stesse difficoltà, neanche fossero stati due ragazzini al primo appuntamento. Anche se a dirla tutta avevano avuto ben pochi momenti che potessero essere definiti “normali”, o anche solo quotidiani: quella era una novità, e al contempo non lo era, perché riusciva a ricordare infinite altre occasioni in cui avevano mangiato allo stesso tavolo negli ultimi dieci anni. Adesso però era diverso, e lo sapevano entrambi.
Pepper ripulì la propria coppetta, adocchiando di riflesso il resto del gelato, e Tony intercettò il gesto con aria divertita, servendo subito un’altra generosa cucchiaiata di dolce a entrambi.
«Piace?» chiese, già certo della risposta.
«Molto. Grazie,» sorrise lei, contenta di sentire la tensione che di solito si instaurava tra loro allentarsi a poco a poco. «Dove l’hai preso?» indagò poi, cercando di porre la domanda nel modo più casuale possibile, attenta a non turbare la quiete.
«Uh, in giro…» replicò prevedibilmente lui, altrettanto disinvolto e poco convincente.
Pepper non insistette, sapendo che, prima o poi, Tony le avrebbe comunque rivelato dove fosse andato quella mattina. Aveva imparato a lasciargli spazio e tempo, sotto quel punto di vista: da quando aveva fatto voto di sincerità assoluta con lei, non l’aveva ancora mai infranto, dimostrandole di essere degno di fiducia a dispetto di tutto – nonostante quel giorno ci fosse andato molto, molto vicino. Forse teneva per sé più di un dettaglio spiacevole riguardo alle sue condizioni, ma non le servivano parole per intuirlo, e capiva perfettamente quella sua reticenza. Per ora era contenta anche solo di vederlo mangiare con gusto dopo settimane di inappetenza quasi totale, oltre che nel notare il suo colorito un po’ più roseo e acceso dal sole; anche le venature scure che di solito facevano capolino dal suo colletto si erano ritratte, e intuì che avesse assunto il dilitio, che forse contribuiva al suo umore positivo.
Si accorse di essersi distratta, e che un po’ del suo gelato si era sciolto mentre giocherellava senza mangiarlo; camuffò quella deriva ostentando naturalezza, ma era certo che Tony l’avesse comunque notata, a conferma che anche a lui spesso bastavano quei non detti per comprenderla.
«Ho fatto buon uso della mia ora di libertà,» scherzò in quel mentre, riprendendo il discorso e illuminandosi al contempo.
«Kyle mi ha detto della licenza,» replicò lei, senza trattenere un ampio sorriso e trasmettendogli tutta la gioia che era stata soffocata dalla preoccupazione fino al suo ritorno.
Il volto di Tony si atteggiò in un’espressione scaltra, assottigliando lo sguardo e sollevando un angolo delle labbra in un sorrisetto obliquo.
«Alla fine ho vinto io,
ovviamente,» affermò, facendo poi cozzare la propria coppetta contro la sua in un brindisi improvvisato. «Alla faccia di Stern,» sogghignò compiaciuto.
«E di Knight,» lo assecondò Pepper, rivolgendo però mentalmente il brindisi a Tony e a quella sua ennesima vittoria.
Lui sembrò soddisfatto e suggellò il rito finendo in un sol boccone il gelato restante.
«Comunque, ti saluta Agente,» proferì, senza preavviso.
«Intendi Phil?» chiese conferma lei, perplessa da quell’informazione inaspettata.
«Intendo Agente,» replicò testardo, facendola sorridere appena.
«L’hai incontrato?» la prese alla larga, permettendogli di arrivare con calma al punto.
«Mh-hm. Avevo del materiale per lui, e lui per me. Tutta roba di mio padre,» specificò, accennando al salotto in cui aveva lasciato lo scatolone.
Pepper trovò strano quell’insolita disinvoltura nel parlare di Howard, quando solitamente il solo menzionarlo portava un cipiglio inconfondibile sul suo volto, un qualcosa a metà strada tra il risentimento, la colpevolezza e una peculiare forma d'orgoglio.
«Dallo studio?» chiese semplicemente.
«Dallo stanzino inutile,» la corresse lui, ancora privo d’inflessione. «E dagli archivi dello SHIELD che hai contribuito a digitalizzare,» concluse, con un lieve sbuffo divertito.
«Almeno è servito a qualcosa,» alzò le spalle lei, accigliandosi appena senza volerlo.
«Adesso hanno altro lavoro da sbrigare grazie a me; per fortuna che si è licenziata, signorina Potts,» la punzecchiò, senza malizia e con un sottotono di sollievo per quella parentesi relegata in un passato che sembrava ormai molto remoto.
Pepper si limitò a sorridergli, concordando silenziosamente sul fatto di aver preso una delle decisioni più giuste degli ultimi anni, nel tornare lì con lui.
«Ci siamo visti a Santa Monica.
C’era anche Nat,» continuò quindi Tony, in modo sconnesso e un po’ frettoloso, come a far passare in sordina quell’ultima informazione senza volerla davvero nascondere.
Era fatto così: non si sarebbe esposto direttamente per niente al mondo, ma forniva sempre appigli agli altri per invitarlo ad aprirsi, come se temesse di farlo in modo spontaneo. Pepper attese ancora qualche istante prima di rispondere, osservando Tony che rigirava il cucchiaino nella coppetta ormai vuota, senza aggiungere altro, ma anche senza cambiare argomento.
«Come mai a Santa Monica?» si decise a chiedere, osservando attenta la sua reazione.
«Avevo voglia di un po’ d’aria di mare,» rispose subito lui, apparentemente leggero.
A Pepper bastò rivolgere un’eloquente occhiata al Pacifico che si stagliava all’orizzonte oltre la penisola della cucina per confutare quella bugia che, ne era certa, aveva intenzionalmente reso così fragile per innescare in lei proprio quella reazione: una bugia trasparente per essere smascherato e messo nella condizione di non poterle dire altro che la verità. I processi mentali di Tony erano di certo convoluti, ma ormai aveva abbastanza dimestichezza da riuscire a seguirli e comprendere quasi a colpo sicuro.
Sotto il peso del suo sguardo, Tony s’incurvò sul tavolo con la testa chinata in avanti, prendendo a ticchettare col manico del cucchiaino sul fondo della coppetta.
«Sono passato al Woodlawn Memorial,» mormorò, senza articolare chiaramente le parole, e Pepper trovò così conferma delle sue prime supposizioni.
«Ho fatto un saluto ai miei,» scrollò le spalle poi, continuando a tenere lo sguardo puntato sulla posata.
Pepper esitò, incerta su come reagire. Tony detestava la compassione gratuita, questo le era ormai molto chiaro: confortarlo non sarebbe stato appropriato, soprattutto perché non le sembrava affatto triste, solo comprensibilmente pensoso nel menzionare la visita ai genitori. Non aveva neanche bisogno di chiedergli perché ci fosse andato proprio adesso: le confessioni di quella notte le avevano lasciato intendere che ultimamente spendesse molto tempo a rimuginare sul suo passato, soprattutto familiare. E adesso che di tempo ne aveva poco – si impose di respirare – capiva quel desiderio di volerlo sfruttare al meglio per sanare vecchie ferite.
Così non disse nulla, e gli posò invece una mano leggera sul braccio, in una carezza appena accennata. Tony si irrigidì, in un riflesso condizionato, ma non si scostò e sembrò interpretarla come uno sprone, perché proseguì a voce un po’ più piena e ferma:
«Non ci ero mai andato e…» strinse le labbra, scegliendo le parole successive. «Ho… colto l’attimo,» concluse, con un mezzo sorriso tinto di mestizia.
«E adesso come stai?» indagò lei, distogliendolo da quella linea di pensieri che, come la sua, si infrangeva contro un muro invisibile e sempre più vicino.
«Bene,» rispose lui di getto, annuendo appena a rafforzare quell’affermazione. «Davvero, non stavo così bene da… da molto,» concluse, abbassando lo sguardo, e con quella semplice frase esternò molto più di quanto avesse effettivamente detto.
«Allora direi che è stata un’ora di libertà molto produttiva,» concluse lei, riportandoli su toni più leggeri e strappandogli uno sbuffo divertito.
«Già… e ho anche vinto un regalo da Monocolo,» si rianimò con un sogghigno, deviando definitivamente dal discorso, o forse rimanendovi solo in parallelo, considerando che anche quella scatola era legata ad Howard.
«Cosa c’è dentro?» s’incuriosì lei
«Non lo so, non l’ho ancora aperta,» replicò lui, corrugando le sopracciglia con fare incerto. «Magari potremmo… uh…» s’interruppe mordendosi il labbro, un gesto di estremo nervosismo che raramente lo intaccava.
Pepper intuì quello che voleva chiederle e gli sfiorò le nocche, catturando la sua attenzione e il suo sguardo.
«Sei sicuro?» gli chiese, un po’ titubante per quella richiesta gradita, ma forse poco pensata da parte sua.
Si trattava pur sempre di una parte estremamente delicata della sua vita, e voleva dargli la possibilità di ritrattare la proposta.

«Quella chiave è ancora valida,» replicò invece lui, senza esitare, e Pepper decise che la migliore risposta a quell’affermazione fosse un rapido bacio sulla guancia.
Tony sembrò concordare.


***


Pepper era sicura che Tony avesse rimpianto amaramente la propria decisione nel momento stesso in cui sollevò il coperchio dello scatolone, rivelando come prima cosa la copertina di un album fotografico col suo nome sopra. Le scoccò un’occhiata che rasentava il panico, per poi borbottare con indifferenza molto mal riuscita un “oh, ecco dov’era finito”, senza per questo manifestare la minima intenzione di aprirlo. Pepper, invece, represse a fatica la propria curiosità: a dispetto del suo ego notevole, le foto di Tony in contesti non pubblici si contavano sulle dita di una mano, e anche la Villa ne era completamente spoglia, preferendovi dei quadri impersonali scelti da lei. L’unica superstite – un’istantanea sua e del padre per commemorare la costruzione di Dum-E – giaceva in laboratorio, e l’aveva vista più spesso nel cestino della spazzatura che sulla scrivania, nonostante non l’avesse mai gettata via in modo definitivo. Si era comunque trattenuta dal commentare o lasciar trapelare il proprio interesse per evitare di irritare un tasto già abbastanza sensibile; ma, con sua sorpresa, Tony afferrò infine l’album, per poi porgerlo a lei senza esitazioni e continuare l’ispezione della scatola.
«Divertiti,» disse, con leggerezza un po’ forzata. «Non ho idea di cosa potresti trovare là dentro: fammi solo sapere se posso guardarlo senza avere un infarto per l’imbarazzo,» continuò in fretta, prendendo a sfogliare con interesse ben più vivo un bloc-notes malridotto.
Sotto quella patina d’indifferenza, poteva quasi vedere il suo cuore battere in modo irregolare sotto la maglietta, e la presa particolarmente salda delle sue dita sulla carta ingiallita confermava la tensione dell’uomo di fronte a quella scoperta inaspettata. Considerò comunque positivo il fatto che le avesse dato ancora una volta fiducia in quell’aspetto, e gli si sedette accanto sul divano, sfogliando quietamente l’album mentre lui si barcamenava tra scartoffie, altre foto sparse e ammennicoli vari stipati in quello spazio ridotto. La sua espressione si era fatta adesso indecifrabile, assorta nei molti quaderni d’appunti che sembrava quasi riluttante ad esaminare, nonostante la cura con cui li maneggiava tradisse il suo interesse.
Pepper, dal canto suo, si trovò a sorridere intenerita di fronte alle foto d’infanzia di Tony, comunque un numero molto ridotto. Già da bambino sfoggiava un’aria impertinente, appaiata a quel suo sorrisetto da scavezzacollo rimasto pressoché immutato e che, come ebbe modo di scoprire, coincideva con quello di Howard in una delle loro rare foto insieme. Anche con Maria ne aveva a malapena un paio: nella maggior parte degli scatti era da solo, impegnato a trafficare in laboratorio o in attività decisamente scapestrate. Quasi tutte arrivavano fino ai cinque o sei anni: dopodiché ce n’erano pochissime, scattate apparentemente a distanza di parecchio tempo l’una dall’altra, segnando in modo netto il passaggio da bambino a ragazzo a giovane adulto. Il perché le sovvenne in ritardo e con una punta di tristezza, ricordandosi di qualche accenno di Tony al collegio in cui Howard l’aveva spedito fino all’università, che per lui era arrivata comunque troppo presto. Si soffermò su una delle foto relativamente più recenti: un Tony appena diciottenne, vestito di tutto punto in un completo scuro, che guardava l’obbiettivo con lo sguardo schivo di chi è stato colto di sorpresa. C’era un qualcosa, in quella foto, che non collimava con l’uomo che aveva imparato a conoscere, e che si distaccava dal bambino che aveva appena visto crescere in quelle pagine. Dai suoi occhi scuri traspariva una sorta di ritrosia che prima non esisteva e che poi non era sopravvissuta: era immortalata unicamente in quella fase di passaggio in cui Tony sembrava ancora indeciso su chi dovesse diventare; solo un ragazzo stretto in abiti adulti.
Si girò a guardarlo e lo colse con un’ombra di quella stessa espressione a offuscargli i tratti mentre osservava un’altra foto: dalla superficie lucida sorrideva dolcemente Maria, col volto incorniciato dal velo nuziale e roselline bianche intrecciate ai capelli; accanto intravedeva Howard in smoking, coi capelli ancora corvini e il volto disteso e solare nell’ammirare la sua sposa. Tony si accorse di essere osservato e infilò di scatto la diapositiva nella piccola risma del matrimonio dei suoi, per poi riporle sul fondo della scatola evitando il suo sguardo.
«Non sapevo esistessero,» proferì a mezza voce, quasi a scusarsi, per poi aggrottare le sopracciglia. «E non capisco perché fossero allo SHIELD tra documenti criptati e file top secret,» aggiunse, con una punta di confuso fastidio.
«Magari neanche a lui piaceva passare per nostalgico,» ipotizzò Pepper, quasi senza pensare, e quel commento spontaneo portò un piccolo sorriso sul volto di Tony.
«Touché,» ammise senza risentirsi.
Passò a sfogliare un altro mazzetto di foto in bianco e nero, stavolta accostandosi un poco a lei, in un discreto invito a guardarle insieme che Pepper accettò di buon grado, sia per il gesto che per la vicinanza. Erano scatti alla rinfusa del dopoguerra e del periodo immediatamente precedente, raccolti senza ordine o logica; Tony ne mise da parte uno in cui si vedevano Howard, Rogers e Peggy in una caserma durante una pausa dai combattimenti, ma per il resto non si soffermò su nessuno di essi, finché Pepper non lo fermò d’istinto prima che potesse passare a quello successivo.
«Questo è...» Pepper prese con delicatezza la foto e la avvicinò agli occhi, «Un fenicottero?» concluse incredula.
Tony inclinò la testa per vedere meglio e ridacchiò, altrettanto stupito nel riconoscere la sagoma dell’animale sporgere dalla berlina di suo padre.
«Puoi rinfacciarmi tutto, ma almeno
io non ti ho mai portato animali molesti a casa,» sottolineò, sogghignando sotto i baffi.
«Ti ricordo che a quel meeting a Bombay sei stato a un passo dall'acquistare un elefante,» commentò Pepper, facendo uno sforzo per non sbottare a ridere anche lei.
«Perché sapevo di poter contare sul tuo buonsenso nel dissuadermi,» replicò pronto lui, salvando come sempre la faccia e sfoggiando un sorrisetto storto e soddisfatto.
Pepper lo paragonò a quello di Howard in foto, evidentemente altrettanto compiaciuto per quell’acquisto esotico, che strideva con le descrizioni che Tony faceva di quell’uomo austero e intransigente.
«Gli somigli molto,» commentò sovrappensiero, rendendosi conto in ritardo della propria indelicatezza.
«A chi? Al fenicottero?» sbuffò invece lui, con un’espressione talmente torva da risultare comica ma senz’ombra di risentimento.
Pepper scosse la testa, ma lasciò accortamente cadere l’argomento. Tony riprese a frugare a tentoni nello scatolone ormai vuoto, e quasi la fece sobbalzare quando emise un fischio prolungato nell’estrarre gli ultimi oggetti: due “pizze” di pellicola con la custodia metallica un po’ ammaccata, sulla quale Tony stava picchiettando con l’indice metallico.
«1958… 1974?» lesse poi sulla targhetta ingiallita delle rispettive bobine, alzando un sopracciglio scettico. «Speriamo che non ci sia nulla di troppo scandaloso,» borbottò tra sé, storcendo la bocca.
«In che senso?» s’interessò Pepper, inclinando il capo per vederle meglio.
«Beh, i miei si sono conosciuti nel '61 e prima di lei mio padre era... come dire?» S'interruppe, pensoso. «Diciamo solo che ho ereditato da lui l'estrema debolezza per il gentil sesso e lo scarso senso del pudore,» concluse con una smorfia indecisa tra l'orgoglio e lo scherno.
Pepper arrossì, improvvisamente molto riluttante a proiettare quel filmato.
«Forse è meglio se lo guardi in privato,» suggerì, sperando che non lo interpretasse come ironia.
«Andiamo, signorina Potts, ha visto sicuramente di peggio,» ribatté però lui, con un sogghigno.
«Fortunatamente no, signor Stark, anche se nel corso degli anni ha lasciato
molto poco all'immaginazione,» stette al gioco lei, leggermente stupita da quel suo fare disinibito.
«Internet pullula già da anni di miei video "compromettenti", mi vuole dire che non ne ha mai sbirciato neanche uno?» la punzecchiò lui con la sua migliore faccia da schiaffi.
«Ho molto più rispetto per la sua privacy di quanto ne abbia lei stesso,» gli fece notare, con altrettanta spensieratezza e una punta d’imbarazzo inspiegabilmente piacevole che le pizzicò lo stomaco.
«Ammiro la sua forza di volontà,» commentò lui, con aria sorniona. «A ruoli invertiti non credo che saprei resistere a–..»
Pepper sfogliò rapida l'album rimasto aperto sulle sue ginocchia, piantandoglielo poi a un palmo dal naso.
«Attento a quello che dici, o
questa potrebbe diventare virale,» lo ammonì, con finta severità.
Tony seguì il suo indice puntato su una sua foto sbiadita e avvampò: doveva aver avuto tre o quattro anni e indossava una tutina di Capitan America mentre sventolava tutto felice uno scudo di plastica a stelle e strisce.
«A mia discolpa, ero giovane e ingenuo, ed è stato
mio padre a costringermi,» sottolineò con veemenza.
«Avevi proprio l'aria di chi è stato costretto,» lo provocò lei, con un sorrisino un po' perfido, accennando al suo volto inconfutabilmente disteso in una risata infantile.
«Uno a zero per te,» concesse lui, sfilandole rapido l'album di mano e richiudendolo con uno schiocco per evitare altre scoperte nefaste.
Si resero entrambi conto di essersi avvicinati nel corso della discussione, con Tony col busto inclinato verso di lei e Pepper col viso rivolto a lui; gli occhi di entrambi si posarono fugaci sulle labbra dell’altro, in un invito reciproco e inespresso che però esitarono entrambi ad assecondare, lasciandolo a perdersi a metà strada tra loro. Tony recuperò distanza per primo e si schiarì piano la gola, le mani strette sulle pellicole.
«Allora, vogliamo svelare il mistero?» proferì poi, rompendo il silenzio elettrico che si era instaurato tra loro.
«Direi di sì,» concordò subito lei, imitandolo con lieve e, immaginò, mutuo rammarico.
Tony recuperò il bastone e si alzò rapido in piedi, e, prima che Pepper potesse aggiungere altro, si era già allontanato alla ricerca di un proiettore.


***


Nel giro di mezz'ora, dopo aver recuperato e rimesso in sesto un antiquato proiettore e aver spostato il divanetto in laboratorio di fronte a una parete libera, riuscirono a far partire il primo filmato. Tony smise di trafficare con la pellicola, che per ora era muta e stava mostrando quelle che sembravano delle riprese paesaggistiche: campagna assolata, una strada costiera, una scogliera rossastra a picco sul mare...
«Sembra...» esordì Pepper, assottigliando gli occhi dalla sua postazione accoccolata contro il bracciolo.
«… Malibu Point,» completò Tony, con l’entusiasmo che gli scendeva sotto i tacchi. «Prima della villa. Ci aspettano circa venti minuti di emozionanti sopralluoghi edili,» sospirò deluso, e si scostò dall'apparecchio in funzione, pur continuando a seguire il video con scarso interesse. 
Ovviamente si sentiva legato a quel luogo, ma rimaneva comunque un progetto di suo padre. Quando era in vita, la villa era arredata in modo ben più sobrio e gli spazi erano molto più contenuti e opprimenti, simili alla loro vecchia magione a Long Island nonostante fosse la loro casa estiva. Era come se suo padre non fosse riuscito a staccarsi dall'epoca del dopoguerra: ne risultava un'atmosfera antiquata e stantia che stonava con l'architettura ultramoderna degli esterni. Dopo l'incidente del '91, una delle prime cose che aveva fatto era stato vendere la vecchia casa e stravolgere la planimetria di Villa Stark, eliminando qualsiasi traccia dei suoi e mantenendo solo quel famoso studiolo, rimasto cristallizzato agli anni '60.
Fissò le immagini che si susseguivano di fronte a lui, a tratti ondeggianti e sfocate, probabilmente riprese da suo padre stesso. Cacciò la mano meccanica in tasca, tirando le labbra e sentendo un improvviso e sordo pulsare al petto, in controtempo col proprio cuore, come un mantice che gli comprimeva ritmicamente la cassa toracica. Erano ondate di rabbia, realizzò dopo qualche istante, una rabbia densa e inconcludente che gli rubava il respiro. 
Si sentiva raggirato. Da suo padre, dallo SHIELD, dalla fievole speranza che aveva ingenuamente coltivato nel vedersi davanti una strada ancora inesplorata che avrebbe potuto salvarlo. Gli appunti di suo padre, che aveva cercato così a lungo nel suo studio, non erano altro che carta straccia, quel filmato era assolutamente inutile e l’album e le foto ritrovati non avrebbero arrestato l’avanzata del palladio. Aveva preso atto della propria morte quasi certa mesi prima, ma ogni volta il pensiero gli causava un senso di vertigine, e ad ogni riconferma si sentiva sempre più inadeguato, come se tutte le conoscenze acquisite in una vita intera gli fossero venute meno, o fossero diventate superflue.
«Tony?»
La voce di Pepper fu un’ancora per i suoi pensieri. La accolse con sollievo, lasciando che la paura gli scorresse addosso senza annegarlo.
«Tutto bene?» continuò la donna, e nel voltarsi Tony prese subito atto della linea preoccupata che le solcava la fronte, unita alle mani strette tra loro a frenarsi.
Meditò se mentirle, come sempre, e come sempre represse la tentazione.
«Più o meno,» bofonchiò, scuotendo appena il capo. «Non era quel che mi aspettavo,» aggiunse, puntando il bastone verso il proiettore.
«Che ti aspettavi?» indagò lei, leggermente confusa.
«Una soluzione,» rispose di getto lui, fissando il pavimento.
Intravide il suo sguardo intristirsi e si sentì colpevole d’aver rovinato una giornata partita nel migliore dei modi.
Sospirò con un tremito nelle spalle, osservando quelle noiose immagini che si rincorrevano sulla parete. In fin dei conti, anche dei filmati imbarazzanti di suo padre gli sarebbero andati bene, se non altro per farsi due risate e vedere Pepper tramutarsi in un vero e proprio peperone, soprattutto in un momento in cui stava quasi riuscendo a dimenticarsi del proprio corpo e di quanto lo detestasse. In realtà si era trovato a voler superare quelle barriere tra loro più di una volta da quando aveva rimesso piede a casa, ma temeva che un cambio d’atteggiamento così repentino potesse metterla in difficoltà, o apparire strano, o inspiegabile. Non riusciva a spiegarselo davvero nemmeno lui, ma dalla sera prima si sentiva più leggero di qualche tonnellata, e dopo la visita al cimitero gli sembrava di aver messo a tacere un bisbiglio fastidioso che non si era mai accorto di avere costantemente nell’orecchio. Sapeva che probabilmente avrebbe solo dovuto lasciarsi andare, ma temeva dove sarebbero potuti arrivare se l’avesse fatto davvero. E non era assolutamente sicuro se ciò che voleva coincidesse con ciò che voleva il suo corpo, e soprattutto con ciò che voleva Pepper. Era di certo in grado di fermarsi e capirlo al momento, ma dubitava che poi avrebbe mai più avuto il coraggio di guardarla negli occhi. Ma ciò che più lo terrorizzava, troncando sul nascere ogni suo gesto, era che lei lo accettasse spinta dalla mera paura di perderlo; ed era per quella stessa paura che anche lui temeva di accelerare involontariamente i tempi.
La guardò di sottecchi, seduta sul divano con le gambe raccolte sotto di lei, intenta a seguire pigramente il filmato e osservandolo in realtà a sua volta, e si sentì battere il cuore nello stomaco. Il braccio meccanico sembrò farsi più pesante, quasi ad ancorarlo a terra per prevenire gesti avventati, ma si costrinse comunque a raggiungerla, diviso tra il desiderio di starle vicino, di lei, e di starle allo stesso tempo lontano.
Nel passare accanto allo scatolone ne pescò fuori il quaderno più voluminoso, per poi sprofondare nel divano e prendere a sfogliarlo, del tutto disinteressato alle immagini sgranate che scorrevano sulla parete e fingendo di esserlo altrettanto nei confronti di Pepper. Anche lei guardava un po' distrattamente il filmato e si accorse che lanciava occhiate incuriosite al quaderno. Senza dir nulla scivolò vicino a lei, assecondando discretamente quell’impulso e inclinando le pagine in modo che potesse vederle. Colse la sua espressione smarrita quando si trovò davanti le miriadi di formule, schemi e complessi grafici che riempivano le pagine e le rivolse un sorrisetto.
«Ti assicuro che non è così difficile come sembra,» disse, tentando di ricomporsi e allo stesso tempo di recuperare il suo buonumore.
«Ti credo sulla parola,» mormorò lei, poggiando il mento sulla sua spalla.
Lui si irrigidì appena di riflesso, ma quando lei fece per ritrarsi la trattenne sfiorandole la guancia con le dita, senza guardarla direttamente e affondando invece lo sguardo nelle linee d’inchiostro davanti a lui. Due paure gli paralizzavano i pensieri, ma una era ben più potente, ed era la stessa che l’aveva spinto ad affrontare e vincere quelle più piccole. L’aveva già provata in Afghanistan: era la paura di morire che lo spingeva a vivere con ogni mezzo possibile, che fosse un’armatura per liberarsi o un bacio rincorso per anni. Si rilassò con la testa poggiata contro la sua, respirando il profumo dei suoi capelli e desiderando inconsciamente che fossero sciolti, invece che raccolti nel solito chignon.
«La cosa più difficile è capire la sua grafia,» continuò a voce più bassa, a vincere il lieve imbarazzo di entrambi. «Sto andando a intuito.»
«È uguale alla tua,» gli fece notare sottovoce lei, senza traccia di malizia e accostandosi di nuovo a lui, il naso affondato nella sua spalla; Tony adesso avvertiva il suo respiro, e represse un brivido a quel lieve calore che gli solleticava la pelle.
«Per questo mi irrita,» sbuffò, con voce appena contratta, prima di sprofondare in un silenzio concentrato solo apparentemente sugli appunti e intimamente su di lei.
Sorrise appena, godendosi quel contatto così spontaneo che per una volta non gli provocò alcuna ansia. Sentì solo un altro piccolo vuoto allo stomaco, piacevole e discreto, ben diverso da quello angoscioso a cui si era abituato. Il fatto che Pepper fosse a contatto con il suo lato sano e che lui indossasse la benda erano un grosso aiuto e incentivo, ma si trovò a pensare, o forse a sperare, che a lei non avrebbe comunque fatto alcuna differenza.
La guardò di sottecchi e la vide a sua volta tranquilla, rilassata contro il suo corpo e come lui in quieta attesa, adesso con la fronte contro il suo collo e il respiro che continuava ad accarezzargli la pelle. Lasciò scivolare la mano a cingerle i fianchi, in una lieve carezza che lei assecondò, portando a sua volta le dita a sfiorargli l’addome, facendovi poi aderire il palmo. Si scambiarono un’occhiata fugace che diventò subito uno sguardo prolungato, consapevoli di non essere mai stati così vicini, o almeno non in
quel modo. Quello era un preludio, un cercarsi esitante che prima o poi li avrebbe inevitabilmente portati a trovarsi. Per ora trovò le sue labbra, dolci e schiuse contro le sue, un invito a rincorrerle con impeto per fondersi con loro. Si scostò appena per poterla guardare un istante e lei fece lo stesso, entrambi rapiti, per poi perdersi in un nuovo bacio più lento e delicato, metodico, come a rivendicare per loro quel tempo che sentivano di non avere.
S’interruppero con un lieve sobbalzo nell’udire il sonoro scatto del proiettore che cambiava bobina, preparandosi a proiettare la seconda; Tony si accigliò appena, con un sospiro un po’ seccato, ma si rasserenò nel vedere il sorriso di Pepper, messo ancor più in evidenza dalle guance leggermente arrossate.
«Elimino il disturbo,» annunciò quindi scherzoso, con un cenno verso l’apparecchio molesto e una sicurezza che era ben più instabile di quanto ostentasse.
Stava per fare leva sul bastone per alzarsi e colse Pepper che cercava di anticiparlo per evitargli il tragitto, ma si paralizzò sul posto nel vedere il primo fotogramma della nuova pellicola, con la netta impressione del proprio respiro che si congelava nel petto; il quaderno cadde a terra con un tonfo.
Un modellino del vecchio reattore arc spiccava in primo piano.
«Aspetta!» fermò Pepper, che era riuscita a mettersi in piedi prima di lui, e si rese a malapena conto della nota stridula che si era insinuata nella sua voce.
Lei inchiodò sul posto, fissandolo allarmata e portando poi gli occhi alla proiezione. L’irritazione di Tony per quel momento interrotto fu soppiantata da un cardiopalma che sembrava volergli far uscire il cuore dal petto assieme al cilindro del reattore, e si sentì la bocca secca nel veder emergere, appena dietro il modellino, la figura di suo padre appoggiato al plastico della Expo.
«Ogni cosa si può ottenere con la tecnologia,» recitò, con la sua voce resa più squillante dalla registrazione, e Tony riconobbe le prime parole del discorso per la Expo.
Fissò i suoi occhi scuri impressi sula pellicola granulosa, con l’impressione fasulla che ricambiassero il suo sguardo ora imperfetto. Pepper tornò sui propri passi, sedendosi di nuovo accanto a lui, prendendolo discretamente sottobraccio. Tony era così frastornato da notarlo appena, ma le fu grato per volerlo aspettare, ancora una volta, e per aver capito la potenziale importanza di quel che stavano guardando, offrendogli al contempo il proprio supporto.
Il filmato s’interruppe più volte, con suo padre che s’ingarbugliava nelle sue stesse parole o modificava il discorso sul momento, a volte seccato, a volte con un fare spiritoso che gli ricordò suo malgrado il proprio. Si accigliò profondamente nel vederlo sorseggiare un bicchiere di liquore in una pausa, e trattenne una smorfia quando le riprese si fecero più frammentarie, confermando il fatto che quelli fossero semplici dietro le quinte privi di alcuna logica o utilità. Puntò lo sguardo a terra, sulla copertina color sabbia del quaderno rivolto a faccia in giù, la mascella contratta come il suo petto. Percepì Pepper stringergli appena il braccio, quasi invitandolo a rialzare lo sguardo, ma non si mosse, sentendosi improvvisamente troppo pesante per compiere qualsiasi gesto.
«Tony!» sollevò d'istinto la testa, trasalendo appena, e incontrò gli occhi scuri e severi di suo padre nonostante lui gli desse le spalle. «Che cosa stai facendo?»
L’eco di quelle parole sembrò propagarsi sulla superficie di una laguna onirica, sfiorata dalle ultime luci crepuscolari e tinta da riflessi azzurrini.
«Che cos’è quello? Rimettilo a posto!»
Tornò presente a se stesso e si vide bambino, con in mano un pezzo del plastico e un sorriso furbetto stampato in faccia che suscitò il cipiglio irritato di suo padre. Nel giro di pochi secondi, Jarvis entrò nell'inquadratura e lo prese in braccio per allontanarlo, suo padre chiamò sua madre e senza rendersene conto lui, lo stesso bambino quasi trent'anni dopo, cercò alla cieca la mano di Pepper e la strinse, sentendosi sopraffare da quella breve serie di eventi, immagini e suoni che offrivano uno spaccato doloroso della sua vita di allora. Gli ci volle qualche istante per realizzare di aver usato la destra. Abbassò lo sguardo sulle loro dita intrecciate, pelle contro metallo, e, invece di ritrarre le proprie come avrebbe voluto fare con tutto se stesso, le strinse con tutta la delicatezza di cui fu capace. Pepper lo imitò con più decisione, quasi con forza, a volerlo trattenere contro ogni sua paura. Tony le sorrise appena, ma non incrociò il suo sguardo, puntandolo di nuovo sulla parete, su cui si susseguivano altri spezzoni tagliati del discorso, prove e papere inaspettate di suo padre.
Lanciò un’occhiata alla bobina: mancava forse un minuto e mezzo alla fine. Un sospiro gli morì sulle labbra, e desiderò solo di poterle posare di nuovo su quelle di Pepper. Stava per assecondare quell’impulso, quando si sentì chiamare una seconda volta da quella voce distante nel tempo:
«Tony.»
La voce di suo padre era grave, seria, priva di quella traccia di rimprovero o insoddisfazione che gli aveva sempre riservato. Guardò la proiezione e stavolta ebbe la certezza che stesse guardando lui, a distanza di tutti quegli anni.
«Ora sei troppo piccolo per capire, così ho pensato di lasciarti questo filmato.»
Strinse di riflesso la mano di Pepper, senza distogliere l’occhio da quello che sembrava un fantasma riemerso dal suo passato.
«L’ho costruita per te,» proferì, con un gesto verso il plastico della Città del Futuro. «E un giorno ti renderai conto che rappresenta molto più che una semplice invenzione. Rappresenta tutta la mia vita.»
Tony, per la prima volta in tutti quegli anni, lo ascoltò. Perché stava parlando con lui, suo figlio, non con la proiezione ideale di chi avrebbe voluto vedere in quelle vesti. Lo ascoltò perché in quelle parole riecheggiava l’eco di quelle che aveva pronunciato riguardo a lui, minate dal sospetto che non fossero vere, o che stesse cercando di leggere più del dovuto in quello che in fin dei conti era stato solo un altro progetto.
«Questa è la chiave del futuro,» recitò con decisione, mentre uno zoom sull’Unisfera riempiva l’inquadratura, seguita subito dopo da una del vecchio reattore arc in scala. «Io sono limitato dalla tecnologia dei miei tempi… ma un giorno tu risolverai questo rompicapo. E quando lo farai, potrai cambiare il mondo.»
Pronunciò quelle parole con la stessa, immutata fermezza con cui aveva iniziato a parlare, e Tony avvertì un vuoto esattamente sotto il reattore, il principio un sentimento che gli era estraneo, o che almeno suo padre non gli aveva mai suscitato da quando avesse memoria.
«Quella che ora è, e resterà sempre la mia più grande creazione… sei
tu
Il vuoto si allargò assieme all’accenno di sorriso impacciato che inclinò le labbra di suo padre, e gli colmò il petto dandogli l’impressione di poter fluttuare a un palmo da terra.
Il video si sgranò di colpo, e rimase solo il grigio lampeggiante della pellicola terminata, accompagnato dal sottofondo graffiante dello statico. Tony rimase immobile, quasi temendo che qualsiasi gesto avrebbe potuto far scoppiare il palloncino d’elio che gli si era gonfiato nei polmoni.
«Ok. Anche questo era inaspettato,» mormorò infine, senza sapere bene come reagire a ciò che aveva appena sentito.
Pepper non rispose, la mano ancora stretta tra la sua, probabilmente altrettanto stupita e incerta sul da farsi.
«Non l’ho immaginato, vero?» chiese in fretta, più per riscuoterla che per avviare una vera e propria conversazione su quanto successo.
«No,» lo rassicurò lei, per poi corrugare appena le sopracciglia quasi mettesse in dubbio quella stessa affermazione.
«Ti giuro che il gelato era a posto,» affermò poi, nel debole tentativo di mostrarsi perfettamente padrone di sé, nonostante fosse del tutto consapevole del velo che gli appannava l’occhio.
Pepper sorrise con titubanza, senza rompere il contatto con lui, che d’altronde si era quasi dimenticato di stringerle la mano con quella meccanica. Non seppe se fosse un fatto positivo o meno, ma forse non era il momento giusto per rifletterci.
«Sono… confuso,» asserì dopo un po’, controvoglia.
«Sì, immaginavo,» alzò le spalle Pepper, in un invito a continuare.
«Insomma, ha sempre detto che ero
irrecuperabile…» quella parola rallentò le successive, troppo pesante da pronunciare. «Da dove… da dove salta fuori questa roba?» sbottò, con un secco cenno verso il proiettore.
Non capiva neanche lui se fosse felice per aver ottenuto finalmente una sorta di riconoscimento da parte di suo padre – forse anche di affetto, forse anche un “ti voglio bene” nascosto tra termini tecnici e perifrasi – o se infuriarsi per non averlo sentito da lui stesso quando era ancora in vita.
«Forse era ubriaco. Non sarebbe una novità,» sentenziò poi, brusco, anticipando la replica probabilmente sensata di Pepper.
«Mi sembrava perfettamente sobrio,» ribatté lei, con dolcezza.
Tony si abbandonò a un lungo sospiro, stringendosi la radice del naso tra le dita.
«Anche a me,» ammise, di nuovo con riluttanza.
Tamburellò brevemente sul reattore, senza riuscire a trattenersi, nonostante di solito la presenza di Pepper lo frenasse nel timore di rievocare ricordi spiacevoli. Se fino a cinque minuti prima si era sentito libero, adesso si sentiva quasi un cappio al collo che lo obbligava a guardarsi alle spalle, verso qualcosa che era convinto di aver chiuso definitivamente proprio quella mattina.
«Pep, ti dispiace se… se…» s’interruppe, gesticolando nervoso e sentendosi in colpa a doverle chiedere ancora tempo, perché di tempo non ne aveva e gli sembrava che qualcuno si divertisse anche a sottrarglielo.
Lei sospirò, intuendo il seguito e sembrando quasi offesa, con preoccupazione di Tony.
«Tony, è
normale che tu voglia avere un po’ di tempo per… metabolizzare il tutto,» asserì con suo sollievo, accennando vaga al proiettore. «Vuoi stare da solo?» chiese poi, e Tony si accorse che ancora, per tutto quel tempo, la sua mano aveva continuato a stringere la protesi.
«No,» rispose subito, con fermezza, e prima di continuare cercò i suoi occhi.
Di nuovo, una di quelle parole che non pronunciava mai al momento giusto gli era rimasta incastrata in gola, lottando per rimanere inespressa.
«Rimani,» mormorò poi, vincendo la tentazione di rimanere in silenzio.
Non ebbe bisogno di aggiungere altro, perché gli fu chiaro dagli occhi ora radiosi di Pepper che lei aveva capito tutto ciò che non aveva detto ad alta voce. Come sempre. 
Si districò con delicatezza dalla sua stretta, chinandosi per recuperare il quaderno caduto, giusto per avere qualcosa da guardare mentre rimuginava tra sé. Si lasciò sprofondare nello schienale del divano e Pepper fece lo stesso, leggermente più distante di prima – e se da una parte avrebbe voluto averla più vicina, dall’altra si rendeva conto di aver bisogno dei suoi spazi.
Sfogliò con un misto di forzato distacco e istintiva curiosità il quaderno, cercando di dare un senso al tornado in corso nella sua testa. Leggeva distrattamente, concentrato più sulla grafia, sul modo di scrivere e organizzare le idee, piuttosto che sul significato delle parole e delle formule. Il messaggio di suo padre gli rimbombava in testa, quasi avesse il suo personale proiettore a riprodurlo in loop.
Cosa gli aveva appena voluto dire? Parlava di chiavi per il futuro, ma non gliene aveva lasciata neanche una, se non quella arrugginita dello studiolo.
La sua più grande creazione...
Emise un sospiro scettico e girò quasi con rabbia una pagina, rischiando di strapparla. Si soffermò sul disegno ben curato di un tesseratto, affiancato da formule sconosciute. Aggrottò le sopracciglia e voltò pagina, trovando quelle della fusione a freddo accanto a uno schema semplificato di un reattore. Tornò alla pagina precedente, schiudendo appena la bocca in un moto di sconcerto, per poi raddrizzarsi di scatto, poggiando i gomiti sulle ginocchia e facendo sobbalzare Pepper. Lo chiamò, ma la sua voce gli giunse ovattata e la stanza stessa sembrò perdere i propri contorni.
Si ripensò sul palco della Expo, mentre fissava l’Unisfera, un enorme sole illuminato d’azzurro, cuore della fiera e simbolo del futuro che suo padre aveva agognato senza poter mai raggiungere. Rivide il plastico della Città del Futuro davanti ai suoi occhi, nitido in ogni suo dettaglio. Preciso in ogni suo edificio, parco, sentiero, in ogni albero piantato con studiata intenzionalità.

Come il progetto...”
Il suo sguardo corse allo schema del reattore arc e la sua mano a stringere quello infisso nel suo petto, mentre il respiro gli si fermava in gola.

... di un
altro progetto.”
Click.




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Note Dell'Autrice:

Ma buonasera!
Non avete idea da quanto io aspettassi di scrivere questo capitolo, davvero :')
Ma bando alle ciance: ho fatto un minestrone di full&angst che peggio di così non si poteva, ma spero abbiate gradito, e spero anche che non siate delusi dall'introduzione del filmato di IM2. In realtà era previsto sin dalle origini della storia e, come molte altre "tappe" fissate nell'alba dei tempi con la mia collega MoonRay, ho voluto mantenerla, in quanto mi sembrava fuori luogo scadere in tecnicismi a questo punto della storia. Ho preferito per una soluzione magari banale, ma diritta al punto che mi permettesse di concentrarmi su Tony. E comunque, ne vedremo delle belle...

Ringrazio tantissimo _Atlas_. T612, Emyclarinet e 50ShadesOfLOTSAlways per aver recensito, e tutti coloro che hanno recentemente inserito la storia tra le preferite/ricordate/seguite <3
Grazie di cuore <3

Spero di riuscire ad aggiornare presto... anche se considerando gli avvenimenti del prossimo capitolo infarterò probabilmente durante la stesura... spero di sorprendervi :')
E a proposito di infarti... -3, sappiatelo.
Un caro saluto e a presto,

-Light-

P.S. 
Il finale è una ripresa diretta del Capitolo 2: In Dream, come spero abbiate notato ;)
P.P.S. @Atlas: hai visto che cicisbei, quei due? :'D

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Capitolo 50
*** Stand by me ***



49


Stand by me





"When the night has come, and the land is dark
And the moon is the only light we'll see
No, I won't be afraid, oh, I won't be afraid
Just as long as you stand, stand by me
So darling, darling, stand by me"

[Stand By Me – Ben E. King]




"I'm dancing in the dark with you between my arms
Barefoot on the grass, listening to our favorite song
When you said you looked a mess, I whispered underneath my breath
But you heard it, darling, you look perfect tonight"

[Perfect – Ed Sheeran]




13 Maggio, Villa Stark, 19:30

Suo padre aveva inglobato il suo mondo da quando aveva memoria. 
Era una cupola opprimente, alle volte, altre invece sembrava dargli uno sprone a romperla per arrivare più in alto. La maggior parte del tempo la percepiva come fredda, o meglio, di una temperatura indefinibile: né gradevole né spiacevole, di quelle giornate di mezza stagione in cui non si sa se uscire a maniche corte o col giacchetto e non fa poi molta differenza –
indifferente. Era indifferente, e questo Tony l’aveva sempre intuito con chiarezza scientifica, con la stessa linearità con cui scriveva il risultato di un’equazione o recitava a memoria un teorema comprovato. L’ indifferenza era una costante della sua vita come tante altre, come sua madre che suonava il pianoforte quando sapeva che c’era solo lui ad ascoltarla, come Jarvis che ignorava le sue lamentele e spalancava le finestre della sua camera la domenica mattina per fare le pulizie, come Rhodey che riusciva sempre a convincerlo a uscire ogni sabato sera, o che si lasciava convincere da lui a rimanere a casa – sbronzandosi in ogni caso, ed era per quello che il giorno dopo imprecava contro Jarvis e le sue pulizie alle nove di mattina.
Suo padre, però, non era mai stato davvero costante. A dispetto dei suoi completi tutti uguali e del volto impassibile, non era lineare. Anche quello, l’aveva sempre saputo. 
C’erano quelle variabili inaspettate che lo trasformavano in un’altra persona – i loro libri commentati di Verne, la foto ricordo con DUM-E, i buffetti sulla nuca che gli rifilava di tanto in tanto e che non capiva mai se fossero di rimprovero o di apprezzamento, ma che accettava con un sorriso incerto, forse speranzoso. Istantanee frettolose, rare e sbiadite nella sua memoria, ma che esistevano appaiate ai suoi aspri richiami, agli sguardi delusi, alla percepibile assenza e ai suoi motti impersonali che, chissà come, riuscivano sempre ad aprire ferite sensibili e a plasmare il mondo attorno a lui. 
Il tutto in quella cornice di odiosa, protratta indifferenza – fino all’ultimo, fino ad attaccargliela addosso inducendolo a salutare i suoi genitori in una sera di dicembre senza neanche guardarli, con un distratto scrollare di dita sopra la spalla e i pensieri già rivolti al toga-party imminente.
Quel giorno di quasi vent’anni dopo scopriva l’ennesima variabile – o forse più d’una – perché era impensabile che Howard Anthony Stark girasse un filmato per suo figlio, ed era anche impensabile che avesse conservato così tanto di quello che lui chiamava
ciarpame – foto, album, souvenir, ricordi, frammenti di vita – e ancor di più che l’avesse tenuto sottochiave nel suo ufficio allo SHIELD.
Tony voleva convincersi che fosse quello, il motivo per cui gli stava schizzando via il cuore dal petto mentre si precipitava nello studio; quello e solo quello, e forse anche l’affanno causato delle falcate troppo precipitose per il suo corpo indebolito. Si concentrava a tunnel su quei due motivi, perché anche solo sfiorare l’idea di avere tra le mani uno straccio di soluzione per salvarsi avrebbe rischiato di farlo impazzire per il sollievo. E a quel punto il cuore avrebbe finito per scoppiargli come un palloncino sotto pressione, come prima con Pepper e –
no, non era davvero il caso. 
Così diresse i suoi passi e i suoi pensieri in linea retta e metodica verso lo studio e verso la lampadina azzurra che gli stava illuminando a giorno il cervello, consapevole che Pepper lo stesse chiamando e seguendo allarmata, ma col timore che se avesse aperto bocca per risponderle ne sarebbero usciti solo suoni incomprensibili. Si catapultò all’interno della stanzetta col cuore che, dopo aver fatto un giretto nello stomaco e avergli poi ostruito la gola, adesso gli martellava assordante tra le orecchie. Scostò con forza il telo che copriva il plastico della Città del Futuro, prendendo a fissarlo a corto di fiato, con la pupilla che seguiva frenetica le linee delle strutture e degli edifici, donandogli nuovo senso e congiungendole tra loro con una logica nascosta che, maledizione, era sempre stata esattamente davanti a lui.
«Tony!»
La voce di Pepper gli squillò proprio vicino all’orecchio, e si rese conto solo allora della sua mano poggiata sulla sua spalla sana, da chissà quanto. Sobbalzò con lieve ritardo, voltandosi a guardarla e consapevole di sembrare del tutto fuori di testa – non che fosse una novità.
«Pepper!» replicò d’istinto, voltandosi, e come volevasi dimostrare la sua voce risuonò più stridula del dovuto.
Non vi fece caso, concentrandosi piuttosto sugli occhi preoccupati della donna, ma tinti anche di un pizzico di titubante aspettativa. Scollò la lingua dal palato, obbligandola ad articolare parole di senso compiuto, anche se sentiva i pensieri sfrecciare al triplo della velocità a cui era in grado di tramutarli in suoni:
«Prima di tutto: no, non sono impazzito. Almeno non credo e comunque non del tutto,» la anticipò, coi palmi alzati, concedendosi il beneficio del dubbio e faticando a concentrarsi su ciò che stava dicendo, oltre che a reprimere l’impulso di girarsi di nuovo a guardare il plastico nel timore che svanisse in uno sbuffo di fumo.
Pepper interruppe la prima frase prima di iniziarla, la mano ancora poggiata sopra la sua spalla e le sopracciglia involontariamente corrugate in un moto di perplessità, ad oscurarle appena gli occhi limpidi.
«Che succede?» chiese invece, assottigliando le labbra e mordendosele appena con nervosismo.
Stavolta Tony dovette frenare l’imprevisto impulso di baciarle, il che gli fece chiedere se non stesse per avere un breakdown completo. Tutta quella situazione in verità gli era familiare, ed era un pensiero intrinsecamente rassicurante, perché l’ultima volta che si era sentito così scollegato dalla realtà aveva davvero trovato la soluzione per ricostruirsi una vita. Adesso, forse, avrebbe potuto salvarla, ma voleva astenersi dal formulare del tutto quel pensiero.
«Non… non sono sicuro,» esordì quindi, senza scostarsi dalla sua presa, perché aveva l’impressione che fosse l’unica cosa a tenerlo ancorato a terra.
Le pieghe confuse sul volto di Pepper si approfondirono, ma non intervenne.
«Io credo– penso di… di–» prese fiato, ossigenando il cervello a corto di carburante. «Ho un’idea,» buttò fuori infine, semplificando il tutto nel concetto più basilare che la sua bocca fosse in grado di esprimere.
Vide gli occhi di Pepper illuminarsi per un istante fugace, in uno sprazzo di speranza che non fu in grado di mascherare. Sentì la sua mano stringergli nervosamente la stoffa della maglietta, come se anche lei avesse bisogno di ancorarsi da qualche parte.
«Un’idea per…» esitò e lo sguardo di Pepper sfiorò il reattore nel suo petto.
Tony, che in un’altra situazione avrebbe odiato quel gesto, annuì invece quasi con entusiasmo, portando poi la mano a stringere il polso di Pepper per rafforzare quella conferma.
«Per questo, sì,» disse, premendo il palmo metallico sul congegno. «E non so… non so se è giusta, o
cosa sia esattamente, non so neanche se sarà– possibile, in termini tecnici,» tartagliò, bloccandosi su quelle parole quasi fossero di per sé ostacoli fisici. «Papà pensava…» s’interruppe nel realizzare come lo aveva chiamato, poi scrollò la testa e continuò. «Pensava che io potessi portare a termine il suo progetto, coi miei mezzi,» proseguì, più misurato nonostante il suo cuore non accennasse a rallentare, deciso a infrangere ogni record di tachicardia. «Il progetto è là dentro,» continuò, scostandosi un poco e indicando il plastico dietro di loro. «E io… io so cosa fare,» disse ancora, e sentì la propria voce rompersi in un sorriso, che trovò un tenue, incerto riflesso sul volto di Pepper.
Tony si soffermò ad osservarla, a catturare con lo sguardo quelle fossette apparse sulle sue guance, il lieve rossore che le oscurava le efelidi, le iridi chiare e lucide, schermate dalle ciglia lunghe e da qualche capello ramato, la linea incurvata delle sue labbra fini. Si perse per un istante in quei dettagli come se li vedesse per la prima volta, e forse Pepper stava facendo lo stesso, perché si sentì quasi accarezzare dal suo sguardo, finché non si scostò un poco da lui, con un brillio vivo negli occhi.

«Allora, da dove cominciamo?» ruppe il silenzio, con voce inaspettatamente ferma, e Tony si riscosse, coi battiti del cuore più rallentati e il respiro di nuovo leggero.
Poi comprese quello che aveva detto e batté la palpebra, scostandosi un poco e inarcando poi un sopracciglio.
«Noi?» chiese conferma, picchiettando a terra col bastone a esternare la sua perplessità.
Pepper incrociò le braccia sottili, raddrizzando la schiena e sfoggiando un’espressione caparbia, col mento alzato come in una sfida già accettata.
«L’ultima volta che hai avuto un’idea di questa portata, hai trovato una soluzione,» dichiarò con fermezza, facendo seriamente interrogare Tony sulle sue doti telepatiche. «E io ero lì. Ed ero lì anche quando sei tornato dall’Afghanistan, quando sei diventato Iron Man, quando hai perso tutto, quando hai iniziato a ricostruire la tua vita e quando l’hai quasi distrutta,» tentennò per un istante, riprendendo il controllo della sua voce adesso friabile, e Tony abbassò fugacemente lo sguardo. «Ero lì quando sei tornato da me sulle tue gambe, e quando hai deciso di non voler affrontare tutto questo da solo, e alla Expo, e per il Progetto Phoenix, e per tutto il resto, per dieci anni,» continuò, accalorandosi, e i suoi occhi si fecero più liquidi, in contrasto con la sua voce ferma anche se venata dall’emozione. «E voglio esserci anche adesso,» concluse, con un sorriso sottile ma sicuro di sé, irremovibile in quel proposito.
Tony inclinò il capo, preso alla sprovvista, poi sbuffò una mezza risata, sentendosi di nuovo scaldare da quel calore improvviso e incontrollabile, e seppe che qualunque tentativo di mostrarsi disinvolto sarebbe stato vanificato dal modo in cui la stava guardando, fin troppo intenso, come se quelle parole avessero alimentato un piccolo fuoco dentro di sé.
«Come se fossi mai riuscito a farle cambiare idea su qualcosa, signorina Potts,» osservò Tony con un sorrisetto, suscitandole un lampo compiaciuto sul volto.
«Potrei dire lo stesso di lei, signor Stark,» ribatté prontamente.
Tony alzò le spalle, cedendole quel punto, per poi schiarirsi la voce e fare un gesto deciso verso il plastico dietro di sé.
«Cominciamo da quello.»


***


13 Maggio, Villa Stark, 23:00

Il laboratorio si era fatto silenzioso da un paio d’ore, ovvero da quando Pepper si era inavvertitamente seduta sul divano per “fare una breve pausa”: si era bellamente addormentata nel giro di cinque minuti mentre lui aveva continuato ad esporre ad alta voce i suoi ragionamenti e deduzioni al vuoto, trafficando al contempo con gli ologrammi di JARVIS. Progettava di fingersi eternamente offeso per quella piccola mancanza non appena si fosse svegliata… ma per ora non poteva fare a meno di sorridere appena ogni volta che rivolgeva lo sguardo verso di lei, trovandola placidamente ad occhi chiusi, raggomitolata sotto la coperta che le aveva adagiato sulle spalle. Aveva l’insistente tentazione di raggiungerla e coricarsi discretamente accanto a lei, cedendo anche lui al sonno, ma non poteva concedersi distrazioni, e non era sicuro che in quel frangente fosse in grado di gestire una vicinanza del genere senza incorrere in qualche errore stupido e avventato.
Riportò lo sguardo al progetto virtuale a cui stava lavorando al momento. O meglio, alle cinque schermate che tentava di guardare contemporaneamente con un occhio solo, sfidando anche il suo allenato multitasking: un rendering dettagliato della Expo del ’74 sovraimpresso a una struttura atomica, l’abbozzo di un progetto per un acceleratore di particelle in formato casalingo, il modello di un reattore arc modificato, e un grafico che metteva a confronto le onde elettromagnetiche dei micro-reattori con quelle per ora solo teorizzate del nuovo elemento.
Aveva di nuovo quasi infartato per la gioia quando aveva avuto la conferma che il plastico della Expo era
fisicamente la chiave per il futuro, mettendogli di conseguenza tra le mani un elemento fino ad allora sconosciuto, ma si era subito dovuto scontrare con la difficoltà di ricostruirlo in modo coerente e, soprattutto, del problema della sua sintetizzazione. Oltre a tutti quelli che si sarebbero presentati in seguito, a cui cercava di non pensare troppo intensamente, continuando a ripetersi il suo mantra di “un passo alla volta”.
In effetti i passi avanti erano stati notevoli, anche se frammentari, visto che lui era troppo su di giri per pensare in modo lineare o efficiente. Era caduto più volte in errori da principianti e sviste che avevano mandato in fumo ore di ragionamenti. Il plastico era ovviamente solo una traccia, lo scheletro semplificato di un progetto molto più complesso che doveva integrare con le proprie conoscenze.
Certo, nel momento in cui aveva ricostruito la struttura atomica di quel nuovo elemento si era sentito come Galileo che scopriva l’eliocentrismo. Ed era stato immensamente felice di avere Pepper accanto a sé, visto che così aveva avuto una validissima scusa per stringerla in un abbraccio improvviso e commosso che forse si sarebbe meritato anche qualcun altro, ormai perduto nel passato.
Poi erano subentrate le difficoltà tecniche, e dall’euforia iniziale era scivolato nell’atteggiamento intento e concentrato che sapeva essere odioso per chi lo circondava, e che lo spingeva a passare da lunghissime dissertazioni scientifiche condite da commenti sagaci a interi minuti di mutismo assoluto, perso nei suoi calcoli spesso frenetici ed errati. 
Pepper era stata un conforto indispensabile per tenere a bada il carosello di emozioni e idee che gli roteava in testa, rendendolo estremamente volatile, ed era intervenuta puntualmente quando era stato sul punto di perdere la calma o la pazienza. Dal suo punto di vista assolutamente estraneo a quel mondo di formule, progetti ed elucubrazioni, aveva buttato lì un paio di consigli estremamente umani e sensati, riferiti più al modo in cui lui tendeva ad osservare quello stesso mondo, che a quest’ultimo. Dei semplici cambi di prospettiva che gli avevano fatto aggirare almeno alcuni dei molti scogli che gli sbarravano la rotta. Per esempio, il non fissarsi sulle interferenze tra reattori con nucleo diverso prima di averne un prototipo funzionante davanti, e il sottolineare, con perfetto tempismo di fronte a un suo imminente crollo, che Mendeleev non aveva costruito la tavola periodica in un giorno, né Einstein aveva formulato la teoria della relatività in una settimana. Il tutto rimanendogli accanto, sveglia e attenta nonostante il sonno e la preoccupazione, da lui condivisa, di stare alimentando una speranza vana.
Tony sospirò, scacciando quei pensieri confusionari, e si impose di non divagare ulteriormente almeno per la successiva mezz’ora. Afferrò il nucleo azzurrino dell’Unisfera proiettato a mezz’aria, ingrandendo l’atomo e la sua struttura per tentare di colmare le falle e imperfezioni della stessa, di pari passo con il progetto dell’apposito acceleratore di particelle. Il suo cervello affaticato riprese a lavorare a pieno ritmo, estraniandolo dal mondo attorno a lui mentre borbottava a mezza voce con JARVIS, avendo cura di non svegliare Pepper coi suoi traffici.
Si concesse un sospiro soddisfatto quando infine ultimò la struttura atomica dello… s’interruppe, a corto di un nome, mancanza a cui decise di rimediare in un momento meno frenetico. Diede una schicchera al nucleo, e l’atomo si allargò attorno a lui, in una cupola di elettroni che lo avvolse completamente nella sua rassicurante luce azzurrina, come a proteggerlo. Si trovò a sorridere pienamente, col pensiero rivolto al contempo al futuro e al passato, in un doppio anelito che gli fece singhiozzare piacevolmente il cuore. Ricompattò l’atomo nel palmo della mano, come a custodirlo, e gli parve quasi di avvertirne il calore sia sulla pelle che sul metallo. Il suo sorriso si affievolì un poco nel lasciar scorrere lo sguardo sulla protesi, venendo poi calamitato dalla sagoma dormiente di Pepper.
Lasciò disgregare quella particella luminosa, e prese a passare distrattamente un dito sulle linee di giunzione del rivestimento della protesi. Seguì il contorno dei vari componenti, riconoscendoli a colpo sicuro coi polpastrelli anche senza guardare, nonostante la mancanza di tatto sul braccio. Si distolse dalla chioma ramata di Pepper per concentrarsi sulla placcatura antracite, accarezzandola con lo sguardo e muovendo appena le dita della mano meccanica; come sempre vi fu un lieve ritardo nella risposta, e il movimento fu spigoloso, robotico. Fissò con intensità il nuovo atomo che si era ricomposto a un palmo dal suo volto, chiedendosi se non avrebbe risolto anche quell’imperfezione secondaria, oltre a donargli un nuovo cuore che non rischiasse di ucciderlo.
Poggiò i gomiti sulle ginocchia e giunse i palmi davanti a sé, sentendo la pelle aderire perfettamente alla superficie fredda. Avere due arti meccanici era diventato in un certo senso quasi naturale, e aveva iniziato già da tempo a non fare più caso al sibilo delle giunture meccaniche quando si muoveva e al rumore metallico che producevano le sue dita contro gli oggetti. A volte aveva persino l'impressione di poter percepire qualcosa; sapeva che erano solo fugaci strascichi della sindrome dell'arto fantasma, ma assaporava quegli attimi con irrazionale esultanza, tornando col pensiero al tempo irreale in cui progettava di riacquistare il tatto e aveva addirittura avuto un braccio tiepido e non gelido come adesso.
Avrebbe solo dovuto essere grato di poterle avere, di poter camminare e muoversi quasi normalmente anche con le fitte sempre più frequenti che lo debilitavano. Avrebbe dovuto essere grato, e lo era, quando era solo. Ma bastava uno sguardo estraneo a fargli desiderare di non avere affatto quei surrogati meccanici, o di poterli rendere invisibili. In quei casi la percezione delle protesi non era fisica; gli sembrava di sentirle incunearsi nella propria mente, mettendo a nudo anche tutto ciò che di sbagliato si celava sotto la sua superficie.
Riportò lo sguardo a Pepper, accigliandosi. Prima o poi anche lei avrebbe dovuto vedere la sua imperfezione; un formicolio di aspettativa gli solleticò il basso ventre solo al pensiero, offuscato poi dalla consapevolezza di quanto fosse terrorizzato dal mostrarsi in quello stato ai suoi occhi, e di quanto allo stesso tempo volesse farlo. Sapeva, nel profondo, che quello era l’unico modo per scacciare i demoni, assieme a quella vocina beffarda e derisoria che sembrava amplificarsi e sghignazzare ogni volta che incrociava il proprio sguardo in uno specchio, nudo o meno che fosse.
Le protesi erano funzionali ma sgraziate, e i punti di giunzione spiccavano ancora rossi sulla sua pelle, assieme alle cicatrici ormai bianche che lo segnavano dall'Afghanistan. E il palladio. Come poteva mostrarsi agli occhi di Pepper – di chiunque – con quel mostro avviluppato sul petto, che sembrava mettere ancor più in evidenza la sua debolezza? Portò le dita alle costole, trovandole in malsano rilievo sotto la maglietta che indossava, e gli sembrarono troppo fragili anche solo per contenere il battito affaticato del proprio cuore. Non era ancora scheletrico – lo sarebbe di sicuro diventato, se fosse vissuto abbastanza – ma la sua magrezza era evidente, innegabile, e stentava a riconoscersi nelle copertine patinate di Playboy per cui aveva posato in quella che sembrava un’altra vita. Ora si sentiva difettoso come un soldatino di stagno scartato, con anche la stessa determinazione nel non lasciar trasparire quella sua fragilità intrinseca, standosene impettito sulla sua unica gamba.
Prese un respiro profondo, ripensando con forza a tutte le volte che Pepper l’aveva stretto a sé, del tutto incurante di come apparisse, e avvicinandosi anzi ogni giorno di più con carezze più lunghe e sguardi più intensi. Come poco prima, quando erano stati entrambi sul punto di sconfinare in un territorio inesplorato e agognato da più tempo di quanto riuscisse a quantificare.
Prese un altro respiro profondo, sapendo di dover scacciare quelle elucubrazioni, nella consapevolezza che fossero fantasticherie da tenere a bada finché sarebbe stato bloccato in quel limbo di incertezza con quell’unica luce azzurrina a brillare all’orizzonte, troppo lontana per rappresentare una salvezza. Saperlo era un conto, metterlo in pratica tutt’altro, ed era altrettanto consapevole – con un misto di paura e aspettativa – che la determinazione di entrambi in quel senso si stava allentando sempre più, senza che nessuno dei due volesse davvero frenarsi. Anzi, ormai premevano assieme contro quel limite, logorati dall'attesa e sempre più incuranti di cosa li aspettasse al di là.
Si passò le mani tra i capelli, arruffandoli nervoso, come a ripristinare i fili sfrangiati dei propri pensieri erratici.
Era stanco, esausto, e si sentiva come se non avesse dormito per un milione di anni; il che, sommato al senso d’indolenzimento costante che gli attanagliava i muscoli, gli faceva desiderare unicamente di collassare a faccia in giù sul materasso dormendo fino al mattino dopo – altro che notti movimentate con Pepper. 
Scrollò la testa a quel pensiero che lo disorientava, e si concentrò invece sulle schermate attorno a lui. Mancava così poco… sperava. Lo sperava con così tanta intensità che probabilmente stava consumando gran parte delle sue energie in quel semplice atto, bruciando neuroni in mute preghiere rivolte a niente e nessuno.
Si costrinse a tenere aperta la palpebra, e oltre il velo di stanchezza e febbrile impazienza si sforzò di leggere le formule azzurrine proiettate da JARVIS, in cerca di errori e possibili modifiche. La teoria era più o meno collaudata, adesso doveva passare alla pratica. Sapeva come costruire un acceleratore di particelle… ma avrebbe funzionato? Avrebbe sintetizzato il nuovo elemento o rischiava di far saltare in aria la villa? E se ci fosse riuscito, lo avrebbe davvero salvato, oppure l’avrebbe solo ucciso più in fretta?
E se non fosse stato compatibile con le protesi? Magari gli avrebbe salvato la vita, ma cosa ne avrebbe fatto, se le avesse rese inutilizzabili riportandolo al punto di partenza? Le odiava abbastanza da non volerle vedere, ma non così tanto da potervi rinunciare, e quella dei malfunzionamenti era una deriva che non voleva prendere in considerazione. Perché allora avrebbe dovuto operarsi di nuovo per sostituire i vecchi micro-reattori, e quella consapevolezza latente lo sprofondava in una terrorizzata prostrazione. Ne aveva abbastanza di farsi aprire e ricucire e di porre la propria vita sul filo di un bisturi, fosse anche quello fidato di Ian.
Si prese le tempie tra pollice e indice, massaggiandole appena per alleviare un principio di emicrania, e sospirò cercando di smuovere quel peso sul petto che si era fatto più pesante nel corso delle ultime ore. Quello tremò, ma rimase piantato dov’era.
Non aveva altre possibilità. Quella era l’ultima,
l’ultima, e proprio adesso che era così vicina sentiva crescere una paura martellante che rallentava i suoi gesti, che gli pulsava nello stomaco come un’ulcera dolorosa. Non voleva illudersi così tanto per un altro nulla di fatto. Per un’altra notte insonne passata a rovinarsi la vista sugli schermi e a farsi venire i crampi a forza di stare chino sul bancone per poi rimanere a mani vuote, frustrato, deluso, con un altro giorno in meno davanti e buttato al vento. Con la consapevolezza che ciò che doveva accadere in caso di sconfitta sarebbe accaduto davanti a Pepper, perché lei sarebbe rimasta. E forse sarebbe rimasta anche dopo, e quel pensiero gli raschiava l’anima, facendola sanguinare dall'interno.
Sentì con chiarezza l’attacco di panico che bussava alla porta, attirato da quelle riflessioni concentriche, come onde attorno a un macigno appena affondato. Poteva ancora sbarrarla e respingerlo, fare un lento respiro e tornare a riempirsi la mente con calcoli e schemi a fargli da scudo. Sentì poi la folle tentazione di spalancarla, di aprire almeno uno spiraglio, ma la soppresse appena in tempo, premendosi con forza il palmo metallico contro la bocca per tenere a bada un singulto. Serrò quella porta alla quale era fin troppo facile cedere e trasse un respiro profondo e tremolante, che aleggiò troppo sonoro nel laboratorio.
Udì un fruscio provenire dal divanetto su cui si era assopita Pepper, e si affrettò a sfregarsi l’occhio lucido e a rilassare il volto mascherando gli strascichi d’ansia che lo segnavano, anche se gli tremavano appena le mani. Lei l’avrebbe comunque letto come un libro aperto, ma valeva sempre la pena tentare. Riprese ad armeggiare coi suoi ologrammi, mentre la sentiva alzarsi barcollante e avvicinarsi alla sua postazione, attraversando la penombra luminescente del laboratorio, silenziosa. Ebbe un improvviso, terribile senso di
déjà-vu che gli strizzò le viscere.
«Come va?» gli chiese, con voce un po’ appesantita dal sonno ma tranquilla, segnata unicamente da una tenue curiosità.
«Uh,
va,» rispose vago lui, in modo più roco e traballante di quanto avesse previsto.
Si schiarì la gola, sentendola contratta, e non ebbe bisogno di guardare Pepper per vedere il suo cipiglio sospettoso. Non disse nulla, ma la sentì fermarsi dietro la sua sedia, posandogli poi una mano delicata sulla spalla sana. Una decina di pensieri contrastanti si agitarono nella sua testa, con una parte sollevata per il fatto che non avesse toccato la protesi, un’altra che avrebbe voluto lo facesse, un’altra ancora che gli urlava quanto lei ne fosse disgustata e le altre che strepitavano altre variazioni degli stessi, logoranti concetti. Emise d’istinto un sospiro snervato e avvertì Pepper stringere la presa, per poi spostare il palmo sulla zona di pelle lasciata scoperta dal colletto, facendogli percepire il suo calore. Tony le fu grato: quelle piccole accortezze gli davano ossigeno, mettendo a tacere i demoni.
Si rilassò in modo impercettibile, reclinando la nuca contro lo schienale con la palpebra socchiusa, godendosi semplicemente quel contatto come se qualcuno gli avesse riattaccato la spina per permettergli di ricaricarsi. Si accorse di essersi quasi assopito solo quando lei lo riscosse appena, con una particella d’allarme nella voce.
«Tony?»
Lui realizzò in un lampo colpevole la situazione, e colse l’ombra di preoccupazione appena trattenuta sul volto di Pepper, che lo fece pentire in parte di averla fatta scendere di nuovo in laboratorio, anche se l’aveva voluto lei.
«Sì, sì, ci sono,» disse in fretta, scattando in avanti e sottraendosi involontariamente al suo tocco. «Più o meno,» aggiunse poi, stropicciandosi l’occhio.
Un breve silenzio li avvolse. Tony sentì le parole successive aleggiare nell’aria, anche se Pepper non le pronunciò, come se temesse di recitare un brutto copione già scritto e recitato un anno prima. Poteva percepirla in piedi dietro a lui, in attesa, forse anche lei bloccata da quella stessa consapevolezza.
«Dovrei dormire, lo so,» sbottò infine Tony, un po’ troppo duramente, chiedendosi se non avesse appena innescato un qualcosa di irreparabile.
Non voltò la sedia verso di lei, né lei la aggirò per guardarlo in faccia.
«E hai intenzione di farlo?» gli chiese, in modo talmente sibillino che Tony non fu certo se fosse un rimprovero, una provocazione o una semplice domanda speranzosa.
Si chinò in avanti con i gomiti sulle ginocchia, sentendosi schiacciare dal sonno, dalla paura, dalla rabbia, da quella sensazione di minaccia incombente che lo fiaccava nel profondo, cosciente che finiva sempre per commettere gli stessi errori. Durò un istante, in cui si sentì come se avesse addosso un’armatura rotta e pesante che rallentava i suoi movimenti. Poi si riscosse, immettendo a forza una boccata d’aria nei polmoni, e la morsa d’ansia lasciò un poco la presa, lasciando posto a una stretta diversa, mossa da altri fili a cui finora aveva impedito di prendere il controllo.
Si alzò in piedi. Un po’ instabile, certo, ma si alzò in piedi, perché adesso
poteva farlo. Si voltò verso Pepper, coprendo la distanza tra loro prima di poter esitare. La strinse in un lieve abbraccio senza incrociare il suo sguardo, prendendola forse di sorpresa, ma la sentì ricambiare avvolgendogli le spalle, entrambe, come quella volta lontana. Tony poggiò il mento sulla sua clavicola, respirando appena nel suo odore conosciuto. Era quello che avrebbe voluto e dovuto fare anche un anno prima, ma non ne aveva avuto né il coraggio né la possibilità, se non troppo tardi. Sentì mille nodi di tensione stringergli i muscoli, rendendolo estremamente cosciente delle protesi, ma li ignorò. 
Non era ancora troppo tardi. Forse lo sarebbe stato domani, o tra due mesi, ma non oggi.

«Sì, dovrei dormire,» rispose semplicemente, e la sentì rilassarsi come se fosse rimasta sulle spine in attesa della sua reazione. «Andiamo?» le propose poi in un sussurro, rompendo del tutto copione.
Formulò di proposito la frase in quel modo, con quella traccia di ambiguità a delineare i contorni di una domanda implicita che non necessitava di una risposta diretta. Ma voleva sentirla accanto a sé, percepire il suo calore nel buio, cullarsi a occhi chiusi nel suo profumo, cercarla e lasciarsi cercare, perché oggi non sarebbe ancora stato troppo tardi. Sentì il cuore che procedeva a sobbalzi nel petto, temendo di aver posto la domanda in modo troppo pressante, ma Pepper affondò solo un po’ di più il volto nella sua spalla, inspirando a fondo.
«Va bene,» la sentì rispondere, altrettanto piano, altrettanto vaga, con una carezza che gli attraversò la schiena prima di scostarsi da lui.
Tony si distanziò di un passo, sentendosi attraversare da un fremito che sperò non fosse evidente, e le voltò le spalle accingendosi a chiudere la sessione, salvare i progressi e riporre il quaderno di suo padre nel cassetto della scrivania. Come se in vita sua si fosse mai preoccupato di lasciare il caos dietro di sé quando usciva dal laboratorio; ma con quei gesti inusuali gli sembrò di riordinare al contempo i propri pensieri sconvolti ad ogni colpo del tamburo che gli risuonava nel petto, mentre sentiva lo sguardo di Pepper che lo osservava dalla porta. Non gli riuscì di decifrarla, notò solo come ancora una volta indossasse i suoi vestiti da casa come pigiama, e come fosse poggiata allo stipite con un piede scalzo sopra l’altro a limitare il contatto col pavimento freddo, riuscendo comunque a mantenere intatta la sua eleganza.
La raggiunse senza incrociare il suo sguardo, con un ultimo cenno della mano per spegnere le luci dietro di sé. Le tenne aperta la porta, posandole poi una mano delicata alla base della schiena a guidarla sulle scale.
Quel breve percorso sembrò eterno e fu cadenzato dal suo cuore che aveva deciso di battere in controtempo ai propri passi, minando il suo già precario equilibrio. Gli sembrava che delle spirali formicolanti avessero preso ad arricciarsi nel suo stomaco, causandogli una vaga sensazione di solletico che non sapeva se fosse nuova o provata talmente tanto tempo prima da essere quasi scomparsa dalla sua memoria, associata a un vestito blu cobalto. 
Appena messo piede nell’atrio scostò la mano dalla schiena di Pepper, lasciandole completa libertà di movimento Non riuscì però a impedirsi di accorciare i propri passi, a prendere tempo, a lasciarle quel pizzico di vantaggio che gli avrebbe permesso di capire dove fosse diretta così da evitare una figuraccia o un fraintendimento. Notò in lei lo stesso istante di esitazione, in sincrono con un suo battito mancato perché adesso avevano entrambi superato le scale, un passo dopo l’altro, senza ben sapere chi stesse guidando chi, finché non si trovarono di nuovo vicini, a un passo dalla sua camera e coi volti a un soffio di distanza.
Le portò con delicatezza la sua ciocca ribelle dietro l’orecchio, sfiorandole col pollice la guancia punteggiata di efelidi, e sentì la mano di lei posarsi sul suo braccio mentre le scioglieva lo chignon. Gli scostò di rimando i capelli dalla fronte, tirandoglieli indietro con dolcezza, in un gesto così semplice e spontaneo che Tony si sentì sciogliere sotto il suo tocco. Avvertì i propri sensi annebbiarsi e acuirsi al contempo, facendogli registrare appena i suoni e l’ambiente circostanti e amplificando quel contatto di pelle contro pelle, a cui si unì ben presto quello più profondo delle loro labbra. Non si rese quasi conto di essersi proteso per primo verso di lei, catturandola in un bacio che aveva sempre immaginato ma che non aveva mai avuto il coraggio di trasporre nella realtà, troppo frenato dai suoi stessi limiti, dai suoi fardelli. Adesso però la sua unica àncora era davanti a lui, in quegli occhi cerulei che l’avevano aspettato fino ad ora, e lo tratteneva a sé con le braccia sul suo petto e le dita a cingergli il collo, intrecciate dietro la nuca. Il clangore del suo bastone da passeggio che cadeva a terra risuonò nel salone, ma nessuno dei due ci fece caso, e Pepper fu pronta a sorreggerlo quando si adagiò appena contro di lei.
Si separarono il tempo necessario per incamerare una boccata d’ossigeno, entrambi inebriati e coi respiri accelerati che ancora si mescolavano, gli occhi liquidi e accesi. La guidò piano verso la propria porta col braccio attorno alla vita, incapace di rompere quel contatto, e lei assecondò il movimento ancora stretta a lui, per poi spingersi sulle punte dei piedi e cercargli di nuovo le labbra. In quel momento, Tony sentì il cervello scollegarsi di netto, lasciando spazio a gesti non più repressi, finalmente sordo alla vocina che cercava sempre di sopraffarlo e rinchiuderlo nella sua gabbia. La strinse a sé, ricambiando il bacio con tutto l’impeto che aveva trattenuto finora, e lei fece lo stesso, senza più alcuna timidezza o freno a interporsi tra le loro bocche.
La schiena di Pepper incontrò infine la porta della stanza, e Tony riuscì a recuperare quel briciolo di razionalità che gli permise di scostarsi appena da lei, anche se con sguardo annebbiato. Le sue mani rimasero a stringerle i fianchi morbidi, con tutta la delicatezza di cui era capace, limitandosi a sfiorarla appena con quella meccanica. Trovò i suoi occhi, rischiando di affogarvi, e poggiò la fronte contro la sua percependo il suo respiro contro le labbra umide.
«Pepper…?» cominciò incerto, con voce più roca di quanto intendesse, ma prima di poter continuare lei lo anticipò, con un tono altrettanto intenso che gli suscitò un fremito d’eccitazione.
«Sì, Tony,» sussurrò semplicemente, anche lei affannata, capendolo come sempre con un solo sguardo.
La sentì aumentare appena la stretta sulle sue spalle, e Tony intravide la sua espressione intensa ed emozionata nella penombra, in un’ulteriore conferma che aumentò il suo desiderio. Trattenne l'impeto e le inclinò il mento con due dita per lasciarle un lungo bacio sulla guancia, tracciando poi il profilo del suo volto fino a lambirle le labbra, per arrivare infine al collo. Sentì le sue mani accarezzargli la schiena e scendere fino al bacino per attirarlo a sé, strappandogli un sospiro contro la sua pelle. Poi abbassò la maniglia e la sospinse oltre la soglia.


***


Pepper percepì la porta schiudersi dietro di lei e scivolò nella penombra della camera con un piccolo vuoto allo stomaco nel sentire le mani di Tony posarsi con più fermezza sui suoi fianchi, in un misto di freddo e calore che le provocò un piacevole brivido. Una parte di lei non credeva che stesse succedendo davvero, e si aspettava di riaprire gli occhi sul divano del laboratorio da un momento all’altro, trovandosi a fissare la schiena di Tony immerso nei suoi progetti. Ma l’altra era totalmente inebriata dal suo profumo, dalla sensazione del suo corpo esigente contro il proprio, dalla mano meccanica che la sfiorava appena per guidarla e da quella sana che invece seguiva languida le sue curve imprimendole sul proprio palmo, dalle proprie dita che non riuscivano a districarsi dai suoi capelli scuri quasi potesse sfuggirle, dalle sue labbra che quasi le rubavano il respiro – e sapeva che tutti quei dettagli e sensazioni che le stavano facendo girare la testa erano reali nonostante la loro consistenza quasi onirica, forse proprio perché attesi tanto a lungo.
Come poco prima, non capì chi dei due avesse spinto l’altro sul letto, sentì solo di essere stesa improvvisamente sul materasso, con Tony che esitava, chino su di lei in modo da non pesarle addosso. Quando Pepper incrociò il suo sguardo nella penombra sopra di lei, le sembrò quasi smarrito. Comprese che, probabilmente, neanche lui riusciva a credere davvero a ciò che stava accadendo, e sembrava temere che svanisse sotto le sue dita da un momento all’altro. Si sollevò di nuovo per cingergli il collo e attirarlo a sé, rompendo la sua esitazione e facendolo adagiare accanto a lei. Tony si riscosse e
incontrò di nuovo le sue labbra, catturandole in un lungo bacio, lento e metodico, che avvicinò i loro corpi fino ad annullare nuovamente le distanze. Poi i suoi gesti si fecero più cauti e meno intraprendenti, come se avesse bisogno di studiare la situazione perché impreparato ad affrontarla. Pepper assecondò quel rallentamento, con la testa leggera anche solo nel percepire il calore e le labbra dell’uomo contro la pelle, mentre lei iniziava ad esplorare il suo corpo con gesti quasi impalpabili. Era consapevole di quanto fosse delicato quel momento per lui, ed era disposta a prolungarlo anche tutta la notte, se necessario.
Tony prese a giocherellare con l'orlo della sua maglietta, approfondendo il contatto e sfiorandola appena a fior di pelle, per poi esplorare la sua schiena nuda in una lenta carezza in punta di dita che le lasciò la pelle d'oca e accelerò il suo respiro quando indugiò tra le scapole, stuzzicando il gancetto del reggiseno. Gli cinse la vita con un braccio, e sentì le sue mani posarsi di riflesso sui suoi glutei e premerla contro di sé, sempre delicate ma con una punta di decisione più marcata. Interruppero il bacio per guardarsi, entrambi affannati e in cerca dell’altro. Pepper vide il suo sguardo esitare per una frazione di secondo, per poi scurirsi di passione e riprendere a baciarla con più foga, prendendola quasi di sorpresa quando la sospinse di lato, portandosi sopra di lei e incastonando infine il proprio corpo al suo. Entrambi si lasciarono sfuggire un sospiro per quella vicinanza, e Pepper sentì la sua mano fattasi più ferma risalirle l’addome, seguendo la curva dei seni e spogliandola della maglietta, per poi rimanere su di lei, cristallizzato in un istante di contemplazione che la fece avvampare. Tony si chinò piano sulle sue labbra, stavolta sfiorandole più volte come ad assicurarsi che fossero tangibili, e Pepper gli accarezzò le braccia, studiando i suoi muscoli e risalendo fino alle spalle. Seguì con lentezza il profilo di entrambe, evitando con accortezza di indugiare troppo sul bordo metallico della protesi, e scese lungo la schiena fino a insinuarsi sotto la sua maglietta, mentre lui cominciava a tracciare la linea del suo collo in un sentiero di baci.
Fu quando arrivò a lambirgli gli addominali che lo sentì sobbalzare e irrigidirsi contro di lei, frenandole allo stesso tempo la mano che aveva iniziato a sollevargli la stoffa sull’addome. Si rialzò di colpo sulle ginocchia, soffocando un gemito, col respiro corto e un'espressione contrita stampata in faccia.
Pepper quasi boccheggiò, presa in contropiede da quella reazione inaspettata, ma dopo il primo secondo di spaesamento, intervallato dal battito convulso del proprio cuore, si sollevò sui gomiti cercando di intercettare il suo sguardo sfuggente. Non dovette aspettare che le spiegasse nulla: l'aveva già intuito dal modo in cui si stringeva la protesi del braccio, col palmo della stessa premuto contro il reattore e il viso voltato dalla parte sana, quasi a volerle nascondere tutto in un solo movimento. Pepper si alzò a sua volta sulle ginocchia, accostandosi a lui e aspettando qualche secondo prima di stringerlo di nuovo a sé con gentilezza. Lo sentì tendersi a quel contatto, ma non si ritrasse, tenendo a bada l’ansia che aveva preso il sopravvento su di lui.
«Magari dovrei...» cominciò, con voce arrochita e titubante, e fece cenno come a voler rimuovere il braccio meccanico, poi si coprì nuovamente il reattore, quasi frenetico, al che Pepper lo fermò, posando una mano sulla sua.
«… fare con più calma,» completò, cercando il suo sguardo e trovandolo in bilico tra la vergogna e il sollievo.
Si lasciò scostare la mano, facendo trapelare di nuovo la luce azzurrina dal suo petto, a rischiarare flebilmente il buio della stanza.
«Sì, è solo che…» riprese lui, sempre a voce bassa, ma si interruppe, e Pepper si chiese se anche lui in quel momento udisse solo il battito profondo del proprio cuore. «Non vorrei rovinare tutto come al solito,» mormorò poi, con un sorrisetto nervoso e quasi di scuse.
A quel punto Pepper, oltre al desiderio di avvinghiarsi di nuovo a lui, provò quello di buttarlo giù dal letto, e sentì anche un improvviso pizzicore agli occhi nel sentirlo pronunciare quelle parole.
Gli prese il volto tra le mani, sapendo di star valicando una sorta di regola non scritta, e prevedibilmente lui sussultò. Non lo trattenne, ma lui non si ritrasse, osando però a malapena respirare. Seguì con la punta delle dita il contorno del suo viso, dalla parte integra, per poi passare all’altra e lambire il bordo della benda che ancora indossava. La scollò con delicatezza, sentendolo trattenere bruscamente il fiato a quel gesto. Prima che potesse reagire, sfiorò con le labbra la cicatrice che gli attraversava il volto, dal sopracciglio allo zigomo, seguendone il profilo frastagliato senza esitare, spinta solo dalla duplice volontà di conoscere appieno anche quella sua imperfezione, e di rassicurarlo. Non sarebbe mai stato un marchio così superficiale a definire lui, e tantomeno a far ritrarre lei. Quel segno non voluto faceva parte di Tony, così come le protesi, così come il reattore, così come tutto ciò che era oltre a tutto questo. E non offuscavano neanche lontanamente il desiderio che le pervadeva il petto in quel momento, né tutti i motivi che l’aveva spinta a rimanere al suo fianco fino ad allora. Cercò di trasmetterlo anche a Tony attraverso quel gesto per lei semplice, spontaneo, ma che probabilmente per lui non era affatto scontato. Tony si abbandonò contro le sue labbra, respirando a fior di labbra e sfiorandole i fianchi in un anelito trattenuto. Lasciò che lei gli sfilasse anche la maglietta e baciasse anche il punto di giunzione tra la protesi e il suo corpo, arrivando dalla spalla fino alle nocche, percependo il sapore acuto del metallo misto a quello più dolce della sua pelle. Accettò anche quella parte di lui, facendolo rilassare e avvicinare sempre più ad ogni contatto, vero o immaginato, e spezzandogli allo stesso tempo il respiro per l’emozione. Pepper si scostò infine da lui per guardarlo in volto, incontrando la sua pupilla lucida e di nuovo adorante, e fu quel singolo sguardo a darle il coraggio di fare il gesto che aveva rimandato ormai da molto tempo: posò entrambe le mani sul suo reattore, avvertendone la superficie liscia e tiepida, col lieve ronzio che le riverberava nei palmi. La paura che si era aspettata di provare non arrivò, soppiantata da un brivido di piacere quando sentì la presa di Tony farsi più salda sulla sua schiena. La luce che li illuminava si affievolì, ma Pepper intravide distintamente il lampo di incredulità che balenò sul volto di Tony, che adesso la fissava intento con le labbra schiuse, come se non riuscisse a capacitarsi di ciò che era appena avvenuto.
Quell’
istante sospeso durò il tempo di un battito di ciglia, in cui Tony si sentì disorientato nel percepire il suo stesso corpo, come se fosse in qualche modo cambiato dopo il tocco di Pepper. Come se fosse semplicemente il suo corpo, e non un altro fardello. Durò un attimo, il tempo di scrollarsi di dosso i ceppi che lo trattenevano, trovandosi finalmente libero: si slanciò sulle labbra di Pepper, catturandola in un bacio impetuoso e stringendola a sé quasi con smania; lei lo assecondò col medesimo ardore, cingendogli la vita con le gambe e trovandosi di nuovo sotto di lui, tempestata dalle sue labbra e dalla nuova, vibrante energia che le trasmetteva ad ogni tocco non più inibito. Le loro mani corsero insieme a sganciare il ferretto del reggiseno e il bottone dei jeans, portandoli più vicini e rendendoli più sensibili ad ogni sospiro e contatto di pelle contro pelle, ritardando ancora quello completo.
Tony si sentiva sospeso tra una stupefatta euforia e un desiderio bruciante che gli rimescolava il sangue nelle vene, una sensazione diversa da qualunque altra avesse mai provato in quei contesti; perché Pepper, l’aveva sempre saputo, non era una qualunque donna e non era mai stata solo un’altra. Non ricordava di aver mai voluto nessuno con la stessa intensità che guidava ora i suoi gesti, né di aver mai usato così tanta accortezza nel dosarli per darle piacere.
Esplorò ogni nicchia e curva del suo corpo, imparando a conoscerlo, ad amarlo con ogni bacio e carezza che le lasciava sulla pelle, contando le lentiggini che le costellavano le spalle, per poi diradarsi a lambirle appena il seno latteo e le areole rosee. Si perse nel seguire la sua linea alba, e deviò più volte dal suo percorso per risalire a cercarle le labbra, catturando i suoi sospiri e il suo stesso nome con le proprie; sentì i suoi tremiti riverberargli nelle ossa quando la liberò senza fretta dei pantaloni e degli slip, facendola poi sussultare ad ogni tocco più intimo e deciso, con le sue mani aggrappate ai capelli, al collo, alle spalle nella ricerca di un appiglio saldo, perché ora Pepper si sentiva sul punto di cadere da un momento all’altro. Gli accarezzò il profilo forte del collo, scoprendo che baciare la conchetta tra la spalla e la clavicola gli strappava più di un gemito mentre la stringeva di nuovo a sé, trovando le sue fossette di Venere. Vi incuneò le dita, stringendola e facendola inarcare contro di lui mentre lei gli tracciava la linea della schiena, percorrendo con lentezza quel lieve avvallamento, soffermandosi sulla sua pelle increspata, sulla curva spigolosa dei fianchi stretti, sui tenui rilievi di qualche vecchia cicatrice. Gli sfiorò il torace, con una stretta al cuore nel percepire i segni del palladio e le costole troppo pronunciate, proseguendo quindi sull'addome e trovando i due solchi virili che scomparivano oltre l'orlo dei boxer. Li scostò appena, facendogli trattenere bruscamente il respiro mentre si tendeva contro di lei a quel contatto più intenso, che ricercò a sua volta sfiorandole un seno con le labbra. Sentì le sue mani che lo liberavano del tutto, in una carezza languida che lo fece tremare.
Le linee dei loro corpi si sovrapposero, finalmente prive di barriere, e si trovarono avvinti in un abbraccio che cercava di stabilizzarli senza riuscirvi, esaltando solo la percezione dell’uno contro l’altro mentre si guidavano a vicenda verso il limite.
I loro occhi si cercarono, ora impazienti, e si incontrarono in una tacita intesa. Tony le lasciò un ultimo bacio sulle labbra, prima di immergersi in un solo, lento movimento nel suo calore; quell’unione strappò un sospiro estatico a entrambi, rimasti sopraffatti per un istante dal piacere prima di ricercarlo con più veemenza, verso quel limite, sempre più vicino ad ogni contatto più profondo.
Pepper lo valicò per prima, avvinghiandosi con forza a lui, e Tony rallentò appena, incatenandosi a lei, ai suoi occhi, alle sue dita, come a trattenere quell’attimo che fuggiva via e imprimerselo nel corpo; voleva prolungare quel momento, sentirlo in ogni dettaglio prima di cadere anche lui insieme a lei, congiunto a quella parte di sé che non gli apparteneva, ma che gli era indispensabile.
Per quel singolo istante di attesa in bilico, cessò di essere carne e metallo, di essere lui, in uno scavalcamento di campo che lo annullò e allo stesso tempo lo fece sentire completo, finché un nugolo di vertigini lo invase da capo a piedi, spingendolo di colpo oltre il bordo e nelle sue braccia pronte ad accoglierlo.


***


Rimasero abbracciati nella penombra, ansanti e con le gambe ancora intrecciate, donandosi carezze morbide e stremate. Tony si scostò appena di lato per non pesarle addosso, e lei seguì quel movimento, stringendogli il busto per rimanere pelle contro pelle con lui.
Tony deglutì, cercando di recuperare il fiato che gli rimaneva sospeso tra gola e polmoni, e sentì le mani di Pepper adagiarsi sul suo petto, come ad aiutarlo.
Non sapeva esattamente come sentirsi, se non frastornato ed esausto, oltre che colto da un leggero imbarazzo nel non sapere come comportarsi adesso. Arrivare fin qui era stato – più o meno – semplice, naturale, ma adesso si sentì cogliere da una lieve, impacciata inquietudine. Le protesi gli inviarono una stilettata pungente, a ricordargli che erano ancora là, e decisamente seccate per lo sforzo fisico, ma le ignorò, assieme al carico di ombre che cercavano di sospingere nella sua direzione. Si era ripromesso di non pensare al domani, ed era intenzionato a mantenere quel proposito almeno fino al mattino.
Non riusciva comunque a parlare, e forse non ce n’era bisogno, ma man mano che recuperava il controllo di sé e dei propri pensieri, sentì disegnarsi sul volto quel sorriso scanzonato che le rivolgeva spesso, che fu ricambiato dallo sguardo di vago, affettuoso rimprovero che lei gli indirizzava quando intuiva una delle sue battutine impertinenti in arrivo.
«Allora, è stato strano?» chiese infatti Tony, come riprendendo un discorso interrotto.
Pepper acuì il suo sguardo inquisitore, per poi sospirare tra sé e distendersi in un sorriso. Allungò una mano ad accarezzargli il volto, seguendo la linea del pizzetto, e Tony si chiese per quanto tempo si fosse astenuta da quel gesto.
«No, per niente,» rispose poi a bassa voce, sfiorandogli di nuovo le labbra in un bacio leggero.
«Bene,» rispose lui, scostandosi un poco per evitare di sprofondare completamente in quel contatto. «Certo, possiamo sempre migliorare,» commentò poi, con un sorrisetto scaltro, e Pepper alzò prevedibilmente gli occhi al cielo.
«Tony…» cominciò con fare ammonitore, e lui sbuffò divertito, stringendola a sé, sentendosi profondamente felice per il semplice fatto di stare parlando con lei come sempre, nonostante la situazione completamente estranea, e vinse senza difficoltà l’immotivato imbarazzo di poco prima.
«Che ci sarebbe di male?» chiese ironico, prendendo a giocherellare con le sue ciocche ramate e trovando di nuovo i suoi occhi. «Dopotutto, abbiamo aspettato solo dieci anni,» continuò, abbassando un poco la voce e posandole un bacio appena sotto l’orecchio.
«Un po’ meno di dieci,» replicò sottovoce lei, col sorriso nelle parole.
«Quanti allora? Nove?» la provocò lui, con un sogghigno sicuro di sé.
Lei sorrise un po’ perfida, sfiorandogli il naso in un gesto giocoso.
«Direi… quattro?» propose infine, e Tony sentì la propria espressione tronfia cadere di schianto.
«Quattro,» ripeté, serissimo, vedendo fin troppo bene il modo in cui lei si stava trattenendo per non scoppiargli a ridere in faccia. «Wow. Quattro,» ripeté ancora, come un disco rotto, e si sollevò un poco sul gomito, rimangiandosi il sorriso che stava premendo anche sul suo volto. «Ok, da che punto stiamo contando?» chiese poi, alzando un sopracciglio e Pepper finse di pensarci su.
«Ha importanza?» scrollò poi le spalle.
«Assolutamente, ci tengo ad essere sempre preciso nelle mie analisi,» dichiarò lui, e stavolta il sorriso gli sfuggì tra le labbra.
«Allora prima dovrei sapere di
cosa stiamo parlando,» lo stuzzicò lei, con un pizzico di curiosità ben palpabile.
Tony percepì che adesso la discussione stava per sconfinare in territori
decisamente imbarazzanti, per qualcuno che non si era mai trovato nella posizione di dover definire un rapporto di quel tipo.
«È comunque troppo tempo,» svicolò quindi, strappandole una risatina nel vedere tutta quella goffa reticenza da parte sua, che però gli guadagnò anche un altro bacio.
La trattenne a sé, cingendola di nuovo con le braccia, e lei fece lo stesso, a confermare le sue parole e il desiderio che riprendeva già a consumare entrambi, nella consapevolezza condivisa di aver davvero aspettato troppo.
La sentì sciogliersi contro il suo corpo, intrecciando le mani dietro le sue spalle, e lui si girò piano sulla schiena, portandola sopra di lui col braccio a stringerle la vita. Rimase muto ad ammirarla, illuminata solo dalla fievole luce del reattore che giocava sui suoi capelli, disegnandole ogni curva in altorilievo, e vide con un misto di sollievo e ardore che anche i suoi occhi indugiavano rapiti sul suo corpo imperfetto.
Il “sei bellissima” che gli era salito spontaneo alle labbra si scontrò su quelle di Pepper quando si chinò a baciarlo con impeto. La seguì in quell’invito e si intrecciò subito a lei senza esitare, sentendosi desiderato almeno quanto lui desiderava lei ad ogni sospiro unisono, mentre si cercavano e trovavano nel buio.
Poi si persero di nuovo, entrambi.




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Note Dell'Autrice:

Ah-ehm, salve?
A parte il fatto che quest' aggiornamento è fuori tempo massimo e con pessimo tempismo, considerando il periodo e in tenore del fandom... sì, ho visto Endgame e no, non farò spoiler, ma chi l'ha visto penso possa immaginare il mio stato d'animo. E credo abbia colto anche un velato riferimento al film verso la fine del capitolo ;)

A parte tutto, questa è la primissima volta che mi cimento nello scrivere una scena simile, e forse mi sono dilungata un po' troppo... ma un po' sentivo di "doverlo" a chi legge, considerando l'attesta infinita di 50 (!) capitoli. Spero di non aver fatto troppi casini, e non abbiate timore di lanciarmi pomodori in caso non doveste gradire :') (Tony mi fa sapere dalla regia che, , dopo sei anni di sofferenza ha gradito molto, e anche Pepper concorda).
La scelta di farli "cedere" prima di aver trovato una soluzione, a dispetto di tutto ciò che si sono detti e ripromessi in proposito, è voluta, a sottolineare il fatto che rimangano due esseri umani, e come tali soggetti ache debolezze, ripensamenti e decisioni impulsive ;)

Come sempre, il testo in blu è di Tony e quello in arancione di Pepper. E sì, questo titolo collegato a questo momento esiste dalla prima menzione di Stand By Me nella storia, dieci capitoli fa, e a tal proposito vi sarà un piccolo spin-off in futuro :D A parte ciò, il richiamo spero più evidente è a Hysteria, uno dei miei capitoli preferiti, e mi auguro che vi sia piaciuto <3

Ringrazio immensamente _Atlas_, T612 ed Emyclarinet per aver recensito lo scorso capitolo, oltre a tutti quelli che continuano a leggere e seguire aggiungendo la storia alle loro liste <3 Confesso di essere particolarmente curiosa delle vostre opinioni su questi ultimi capitoli, considerando che il prossimo è quello finale. Ci sarà un breve (?) epilogo, ma diciamo che la storia in sé si conclude nel prossimo e, no, non so affatto come gestire lo stress emotivo di fronte alla fine del MCU (per ora) e di Phoenix.

Spero di pubblicare in tempi brevi il prossimo capitolo, che, vi avviso, sarà mastodontico :')
Un caro saluto e alla prossima,

-Light-

[AVVISO]: in vista della conclusione della storia mi accingo all'ultima fatica: sto effettuando la sua revisione finale, correggendo sviste, errori di battitura e la punteggiatura dei dialoghi, oltre a operare qualche miglioramento dal punto di vista formale. I capitoli non subiranno cambiamenti sostanziali, eccezion fatta per il prologo e il primo capitolo, che in seguito al ritrovamento di un vecchio appunto cartaceo sono stati modificati. Tutto ciò non influenzerà ovviamente la trama, né gli eventi.
Soprattutto, è probabile che alcuni capitoli della prima parte cambieranno titolo e canzone introduttiva: inizialmente eravamo molto pigre nella loro scelta, e so quali sono stati buttati lì per mancanza d'inventiva/voglia. Quelli passabili di cambiamento sono indicati con 
* e ove è stata cambiata la canzone è presente 

Pubblicherò l'ultimo capitolo solo a revisione ultimata, e ho deciso di inserire su questo una sorta di countdown per tenervi aggiornati: segnerò mano mano i capitoli corretti, segnalando quelli che potrebbero essere stati soggetti a revisioni più pesanti. Chiudo il papiro, e vi lascio al "Phoenix-Bingo", con un paio di micro-sneak peek finali ;)

[Edit]: Presa dall'estro creativo (?) mi sono tolta lo sfizio di fare delle grafiche per il titolo della storia e per quelli delle tre parti, oltre che qualche illustrazione. Le trovate ai capitoli con ! :D
 
Prologo - Let the flames begin ✔ ! Rilettura consigliata
Capitolo 1 - It could've been worse ✔ ! Rilettura consigliata 
Capitolo 2 - In dream 
Capitolo 3 - One way road  [titolo cambiato] 
Capitolo 4 - As always ✔ 
Capitolo 5 - Get off my cloud ✔ [titolo cambiato]
Capitolo 6 - Heart of steel ✔ 
Capitolo 7 - Another brick in the wall 
Capitolo 8 - Time is running out 
Capitolo 9 - Stumbling 
Capitolo 10 - Falling Correzioni&aggiunte marginali
Capitolo 11 - Sinking ✔ Rilettura consigliata
Capitolo 12 - Psychosocial? 
Capitolo 13 - Hysteria 
Capitolo 14 - Scar tissue  
Capitolo 15 - Twist and shout ✔ ♪ [titolo cambiato] Correzioni&aggiunte marginali
Capitolo 16 - High hopes  [titolo cambiato]
Capitolo 17 - Another family reunion ✔ 
Capitolo 18 - It's gonna be OK, someday 
Capitolo 19 - Close to the bottom 
Capitolo 20 - Tiptoe higher  [titolo cambiato] ♪
Capitolo 21 - Rage against the machine 
Capitolo 22 - Unsustainable 
Capitolo 23 - The hangover  [titolo cambiato]
Capitolo 24 - Your bridges are burning down 
Capitolo 25 - Hycarus  [titolo cambiato]
Capitolo 26 - Apocalypse, please 

Capitolo 27 - Of storms, shells and shattered dreams 
Capitolo 28 - Innervision 
Capitolo 29 - In noctem !
Capitolo 30 - Iron and bones 
Capitolo 31 - Chasing cars 
Capitolo 32 - It can only get better 
Capitolo 33 - Stay hungry 
Capitolo 34 - Stay foolish ✔ !
Capitolo 35 - Friends will be friends 
Capitolo 36 - Show and tell 
Capitolo 37 - No man is an island 
Capitolo 38 - Smoke and mirrors 
Capitolo 39 - Kintsugi 
Capitolo 40 - Dancing in the dark ✔ Correzioni&aggiunte marginali
Capitolo 41 - Showbiz  !
Capitolo 42 - Legacy 

Capitolo 43 - Supernova  !
Capitolo 44 - Neutron star 
Capitolo 45 - Highway to Hell 
Capitolo 46 - Knockin' on Heaven's door 
Capitolo 47 - The show must go on 
Capitolo 48 - Sometimes you can't do it on your own 
Capitolo 49 - Stand by me 
Capitolo 50 - W. [Completo]
Epilogo - P. [Work in progress]


 
L'aggiornamento sarà tra l'8 e il 9 luglio!

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Capitolo 51
*** Walk of life ***


50

Walk of life

 

 

 

“Someday you will find me
Caught beneath the landslide
In a champagne supernova
A champagne supernova in the sky
Wake up the dawn and ask her why
A dreamer dreams she never dies
Wipe that tear away now from your eye”

[Champagne Supernova – Oasis]

 

 

Il silenzio preme gravoso sui suoi timpani e lo induce a strizzare un poco gli occhi, ancora ciechi nel buio circostante. Il reattore gli riluce fiocamente nel petto, ma la sua luminescenza non è sufficiente a rischiarare i dintorni.
All’improvviso, emette un lieve sibilo e si spegne con uno sfarfallio, calandogli una cortina oscura davanti al volto e privandolo del tutto della vista. Sente le pulsazioni del suo cuore incepparsi per un istante con un boato di grancassa, e le schegge acuminate che fremono nella sua carne, pronte a dilaniarla. Ma l’acuto dolore che si era aspettato recede, e i battiti riprendono dopo un istante, regolari, riverberando nel cilindro metallico infisso nel suo sterno.
Ruota rigidamente sui talloni, muovendo esitante le mani attorno a sé senza incontrare alcun ostacolo, se non la fredda resistenza dell’aria che gli preme addosso in un velo gelido. Lo avverte su entrambi i palmi. Sussulta nel realizzarlo e congiunge le mani, sfregandole appena tra loro e percependone la ruvidezza e il calore, i calletti e le cicatrici che punteggiano sia la sinistra che la destra. Fa poi scorrere le dita lungo il braccio destro e ne distingue la struttura viva di carne e ossa e tendini, il gomito mobile, la spalla agile e tonica che ruota senza sforzo in un’orchestra di tensioni, leve e snodi. Riconosce con un moto di perplessità una scia di rilievi regolari, più sensibili e caldi al tatto, e conta uno ad uno dei punti di sutura, mentre le rughe sul suo volto che si fanno via via più pronunciate. Affonda leggermente le unghie nella pelle, sulla curva tra collo e clavicola, e i nervi registrano quella pressione, inviandogli una nota di fastidio quando inizia a premere con troppa forza. Lascia la presa, col respiro irregolare, e si sfiora il volto incontrando con un sussulto l’occhio sinistro, e le ciglia che gli sfiorano i polpastrelli, e la palpebra socchiusa a proteggere il bulbo. Percepisce anche il segno liscio di una cicatrice a solcargli l’orbita, intaccandogli l’arco del sopracciglio. Non avrebbe bisogno di verificare anche la gamba: già dall’assenza di dolore e dalla facilità con cui riesce a rimanere in piedi sa che la destra è viva e reale e non un surrogato meccanico. Si china comunque a cingere il punto poco sopra al ginocchio, trovando anche lì la trincea dei punti di sutura, e nessuna differenza tra le due parti che separa.
Si raddrizza e si copre la bocca, espirando piano, col calore del proprio fiato che segna l’aria fredda e rimbalza contro il palmo della mano sana – che non dovrebbe essere tale.
Una spirale di vertigini gli avvita la bocca dello stomaco, e lui pianta i piedi per terra a ripristinare l’equilibrio, mentre i propri organi continuano ad agitarsi come scossi da un sisma lieve, ma continuo.
Quale versione dell’incubo è, questa?
Sta per essere assorbito dalla sua armatura? Sta per annegare – di nuovo, ancora? Sta per venire stritolato dalla morsa di Iron Monger? O magari si trasformerà in un androide, o vedrà crescersi addosso le protesi e l’illusione di un occhio – come la prima volta?
Rimane in attesa, con quegli scenari che continuano a scorrere, dibattersi e accavallarsi tra di loro, alimentando le scosse che lo scuotono dall’interno. Il silenzio rimane intonso, se non per il suo respiro discontinuo e per il fragore del sangue che gli scorre a velocità doppia nelle vene, seguendo un percorso serpeggiante di rapide e cascate che manda in tilt il suo cuore ormai fuori tempo.
Una stilla di paura si riversa nel suo corpo, con un retrogusto acido di bile che gli strappa una smorfia. Porta entrambi i palmi al reattore spento in un moto istintivo, col corpo teso fino a tremare e gli occhi sbarrati nell’oscurità. Si aspetta di veder comparire da un momento all’altro uno specchio, o un vetro, un qualsiasi tipo di barriera che lo separi da una versione più perfetta e completa di se stesso; ma attorno a lui vi è solo buio siderale privo di stelle, un grembo freddo ma non ancora ostile che avvolge il suo corpo nudo.
Il suo timpano vibra all’improvviso, registrando un suono che la sua mente non identifica subito, ma che il suo cuore accoglie con uno spasmo di sollievo che quasi fa male. Sente la testa svuotarsi, con quel suono singolo che si raddoppia, e poi triplica, fino a diventare una successione infinita e regolare che si sincronizza ai suoi battiti, e poi ai suoi passi quando si incammina verso di esso.
Avanza a tentoni nel buio, seguendo il familiare clangore metallico di un martello sull’incudine.

***

Febbraio 2008, Afghanistan

La grotta lo accolse con le sue pareti fredde e irregolari, densa di fumo acre e pulviscolo sospeso che catturava la fioca luce delle lampade a olio, ammiccando in brillii dorati.
Batté le palpebre, mettendo a fuoco il frammento scheggiato di uno specchio davanti a sé, e l’iride scura che ricambiava il suo sguardo. Ruotò appena la testa, e anche l’occhio sinistro si rifletté illeso sulla superficie sporca. Si vide aggrottare le sopracciglia con fare critico, e abbassò lo sguardo sulla mano destra, sana e intenta a stringere un rasoio consunto, il che spiegava il suo volto insaponato per metà. Si chinò a sciacquarlo nella ciotola d’acqua di fianco a lui, e realizzò in quel momento di non avere controllo sui propri movimenti, pur avvertendo ogni input sensoriale che registrava il suo corpo. Sentì le contusioni alle costole protestare, il gelo umido della caverna che penetrava sotto i vestiti leggeri, la cappa di fumo che gli irritava la gola. Il magnete premeva contro le ossa, nella carne, rendendo ogni respiro superficiale un’agonia, e sentiva i fili collegati alla batteria per auto tendersi ad ogni piccolo spostamento, dandogli l’impressione che fosse sempre sul punto di venir strappato via dal suo corpo come il tappo di un lavandino. Sussultò a una fitta più intensa, e non seppe se fosse stato lui a reagire o il Tony del sogno, o forse del ricordo. Era come essere bloccato in una visuale in terza persona molto ravvicinata. Per amore della sua sanità mentale, si adeguò a considerarsi parte integrante del proprio corpo, e non una sorta di entità ectoplasmatica sospesa a mezz’aria sopra la propria spalla.
Si deterse il volto nella bacinella, sfregandosi via lo sporco e il sapone dalle guance, e quando tornò a fissarsi c’era la parvenza di un pizzetto ancora troppo folto a incorniciargli il mento. Sembrò considerarlo un risultato passabile e si tamponò con un panno il viso grondante e arrossato dall’acqua gelida.
«Stark, che stai combinando?»
Tony sobbalzò tra sé e sentì il cuore bloccarsi in gola, spigoloso, ma la sua controparte si girò tranquilla in direzione di Yinsen, semisdraiato sulla sua brandina, le mani intrecciate sulla nuca e l’acuto sguardo azzurro puntato su di lui. Tutte le parole che avrebbe voluto dirgli gli si incunearono sotto la lingua, si impigliarono nelle corde vocali, sfuggirono in aria silenziosa dagli angoli della bocca, impossibili da pronunciare, perché quel Tony ancora non sapeva a chi avrebbe dovuto la propria vita di lì a poco. Non poteva ancora essergli grato, ed era comunque troppo intento a mostrarsi arrogante e sicuro di sé nonostante avesse una bomba a orologeria nel petto. Forse sotto quel punto di vista non era poi cambiato molto.
«Mi sto rendendo presentabile,» replicò infatti, senza scomporsi. «È un crimine?» aggiunse poi, senza sforzarsi di scherzare davvero.
«Certo che no. Non mi dispiace vedere un po’ di civiltà, ogni tanto,» replicò l’altro, serafico come sempre e con quell’accento un po’ cantilenante che sembrava sempre celare un filo d’ironia.
Si vide alzare le spalle in modo brusco, senza degnarlo di un’occhiata, e si riconobbe in quell’atteggiamento scostante, di quando si sentiva preso in giro e non voleva concedere la soddisfazione di darlo a vedere. In effetti ci aveva messo un po’ a decifrare il proprio compagno di prigionia, e aveva comunque finito per fraintenderlo spesso, solitamente quando esprimeva opinioni o commenti sensati. All’epoca era abituato a considerarsi la persona più sagace nella stanza, e ricordava bene quante volte si fosse ritrovato senza parole di fronte a Yinsen, e quanto ciò lo avesse frustrato. Si era sentito in bilico, precariamente in equilibrio sulle poche convinzioni che gli erano rimaste e che franavano inesorabili sotto i suoi passi malfermi, mentre continuava imperterrito ad avanzare.
Un’inattesa fitta di vergogna lo investì: paradossalmente, aveva conservato più dignità in quella grotta buia che nel letto di un ospedale. Era certo che lo sguardo di Yinsen potesse vederlo, vedere lui adesso, assieme a tutti gli errori che aveva commesso prima di rialzarsi, e fu sollevato quando il suo alter ego abbassò gli occhi, intento a sistemarsi un cavo fastidioso impigliato nella stoffa lacera della canottiera.

Sentì un istintivo moto di panico nel non vedere alcuna luce azzurrina, nonostante sapesse di avere ancora il vecchio magnete, spento e precario. Quasi gli venne da sorridere amaramente della sfrontata ironia del caso, che a due anni di distanza l’aveva precipitato in una situazione terribilmente simile; ma quando si sentì parlare di nuovo, con la voce bassa amplificata dalle pareti rocciose, la sensazione di déjà-vu lo colpì alla bocca dello stomaco come un pugno a tradimento:
«Quanto tempo mi dai?»
Yinsen sollevò le sopracciglia in un moto di sorpresa, ma non si scompose, limitandosi a raddrizzarsi un poco sulla brandina.
«Se non ti sbrighi a finire il Jericho, molto poco,» fu la piatta risposta.
«Intendevo fisicamente,» replicò lui, puntandosi un dito quasi distratto sul magnete. «Ho fatto i miei calcoli, e questo coso non è abbastanza potente: prima o poi le schegge mi ostruiranno un’arteria, o mi spaccheranno il miocardio. Morire così non rientra nei piani,» sciorinò, con calma apparente.

Tony riusciva a sentire il tremito dei suoi pensieri di allora in sincrono con quelli che gli si agitavano in testa adesso, in un ronzio acuto e disturbante. Solo che due anni fa aveva molto meno da perdere. Pepper era solo una voce lontana che gli intimava di non arrendersi, in coro dissonante con quella di suo padre che gli ripeteva brusco che gli Stark erano fatti di ferro. Iron Man era ancora un bozzolo informe sepolto nel suo inconscio, un semplice mezzo d’evasione e riscatto. La volontà di fare qualcosa di buono in vita sua non era ancora emersa, soverchiata da quella nuda e cruda di liberarsi o morire nel tentativo, perché Tony Stark era troppo orgoglioso per lasciare il palcoscenico prima di aver lasciato il segno.
Vedendosi a distanza, sembrava un uomo molto più rotto di adesso, con molte più crepe a solcargli l’anima, da sempre celate da un involucro che aveva appena incominciato a scheggiarsi e che necessitava di un’altra corazza per non cadere a pezzi.
«E che piani avresti?» lo interrogò Yinsen, ancora flemmatico ma con un’onda d’interesse a modulare la sua voce.
«Quanto tempo ho?» insistette ancora lui, accennando alla batteria per auto col mento e ignorando la domanda.
Yinsen rifletté qualche secondo e nel mentre si alzò, si lisciò le falde della giacca consunta e si piazzò a un paio di passi da lui, le spalle leggermente curvate.
«Un paio di settimane,» decretò poi, con occhio clinico. «Il magnete è una misura provvisoria. Non è stato pensato per tenere lontane le schegge per sempre.»
«Non ho mai pensato di poter vivere per sempre,» replicò asciutto lui, inutilmente caustico. «Due settimane. È più di quanto mi aspettassi,» ragionò quindi tra sé.
«Cosa hai in mente?» chiese ancora Yinsen, scrutandolo con curiosità trattenuta.
Forse anche con un pizzico di speranza, che si conficcò rovente nel cuore di Tony, carica dell’eco di parole pesanti e promesse silenziose che si propagava al contrario, scaturito da un futuro troppo prossimo.
«Prima i dettagli tecnici,» replicò lui, incrociando le braccia sotto al magnete con apparente sicurezza, anche se continuava a spostare il peso da un piede all’altro. «Puoi togliermi il magnete?»
Yinsen sbarrò appena gli occhi dietro le lenti rotonde, scoccando un’occhiata confusa prima a lui, poi al congegno che lo teneva in vita, infine alla batteria.
«Stark, non sono un medico e non ho un giuramento d’Ippocrate, ma non ti aiuterò a…»
L’altro sospirò irritato, interrompendolo con un gesto brusco della mano.
«Intendo dire: si può rimuovere senza uccidermi?»

Tony sentì un retrogusto di bile in bocca, e un vuoto familiare al centro del petto, ma si sforzò di non farci caso.
«Teoricamente no,» rispose Yinsen, ancora perplesso. «Senza magnete moriresti nel giro di qualche ora e…»
«Qualche ora,» ripeté lui, passandosi una mano dietro al collo con fare meditabondo mentre annuiva tra sé. «Sì, può bastare.»
«Stark, se non mi spieghi cosa vuoi fare non posso…»
Lui si riscosse e, inaspettatamente, trattenne un mezzo sorriso, uno di quelli che affiorava spesso sul suo volto con un pizzico di spavalderia: tirò fuori dalla tasca un foglietto spiegazzato e lo aprì di fronte agli occhi acuti di Yinsen, rivelando le linee intricate di un progetto conosciuto.
«Ho qualche idea per quell’ “ultimo atto di sfida”,» annunciò quindi, inarcando con aria di sfida un sopracciglio nell’osservare la reazione del suo compagno, intento a studiare dubbioso il progetto. «Ma prima mi serve un cuore nuovo, Dottor Ho.»
Yinsen distese il volto in quell’espressione a metà tra il saggio e il furbetto che gli rivolgeva quando riusciva a sorprenderlo in modo positivo, per poi scrutarlo da sopra il bordo dei fogli con complicità.
«Da Tony Stark, non mi sarei aspettato niente di meno,» sorrise, con un cenno di riconoscimento.
A Tony si annebbiò la vista, e sentì a sua volta lo specchio di quel sorriso che gli inclinava le labbra.

***

14 Maggio 2010, Villa Stark, 07:15

Il mormorio dell’oceano filtrava ovattato dalla vetrata, con la risacca calma e regolare che accompagnava il suo respiro in onde morbide.
Era sveglio da un po’, forse anche più di un’ora, ma quel suono rassicurante, la carezza delle lenzuola e il tepore di Pepper lo avevano convinto a non abbandonare quell’alcova cosciente tra il sonno e la veglia in cui era adagiato. Era emerso dal sogno senza scossoni, con solo un fugace fremito della palpebra e un piccolo brivido dovuto all’aria fresca del mattino sulla spalla scoperta. Tra le scapole aveva percepito il respiro lieve di Pepper, discosta dal cuscino e raggomitolata contro di lui, con un braccio a cingergli mollemente i fianchi.
Non si era ancora mosso di un millimetro per timore di svegliarla, anche se, dai suoi piccoli movimenti e dal modo in cui aumentava di tanto in tanto la stretta su di lui, sembrava anche lei nel dormiveglia. In quel momento, sentì le sue labbra premergli contro la pelle, a pochi centimetri dal bordo metallico della protesi, e si lasciò sfuggire un respiro più sonoro, per poi cercarle la mano e lasciarsi stringere più forte, con l’impronta morbida del suo corpo contro la schiena. Si mosse un poco, anche se riluttante a sfuggire al sonno non del tutto dissipato, ma non si voltò, mentre Pepper riprendeva a respirare profondamente con le dita ora intrecciate alle sue, pelle contro metallo.
Tony si riscosse del tutto, trattenendo uno sbadiglio e allungando cautamente le gambe per stiracchiarsi senza svegliarla. Avvertì delle fitte moleste ai moncherini e allo sterno, unite all
indolenzimento invece gradito che gli attraversava il resto del corpo. Aveva perso il conto di quante volte avessero fatto l’amore quella notte. Erano passati dall’assaporare con metodica lentezza quell’attimo fuggente a scontrarsi insieme quasi con rabbia contro il tempo perso, cercando di recuperarlo ad ogni bacio, carezza e affondo che aveva piacevolmente rubato loro il sonno. Si erano addormentati del tutto solo un paio d’ore prima, sfiniti e appagati, col primo chiarore bigio dell’alba a rischiarare la vetrata e le loro membra ancora strettamente annodate.
Tony non ricordava l’ultima volta in cui fosse rimasto a letto con qualcuno dopo essersi svegliato. Di solito si svegliava per primo, scivolava via dalle braccia della donna di turno e si avviava in laboratorio senza voltarsi indietro, spesso con un mal di testa da dopo sbornia a tormentarlo. La maggior parte di coloro che si lasciava alle spalle si accontentava di quella notte di eccessi e di potersi vantare di essere andata a letto con Tony Stark; qualcuna gli aveva rivolto sguardi delusi, perché forse, in fondo, ci avevano creduto; un paio di volte ci aveva forse creduto lui stesso, senza poi prendersi sul serio.
Non sapeva in cosa stesse credendo adesso, né se fosse razionale o meno, ma si sentiva avvolto da una nube soffice e voluminosa che gli alleggeriva i pensieri, offuscando qualunque sua volontà di lasciare quella nicchia tiepida. La sola idea gli sembrava assurda, anche se quella piccola parte di lui che ancora gli bisbigliava suggerimenti infondati all’orecchio lo pungolava malignamente, dicendogli di alzarsi e andare via di lì come aveva sempre fatto, e che questa volta non sarebbe stata diversa dalle altre. Si concentrò sulla stretta di Pepper attorno alla vita, una cima di sicurezza fissata all’ancora della sua mano, che gli impediva di sprofondare in quei ragionamenti. Soffocò del tutto quelle parole illogiche, le annegò in quel contatto vivo che si insinuava sottopelle irrorandolo di nuova fiducia; in se stesso, in lei, in un futuro che non era meno minaccioso, ma che non avrebbe dovuto affrontare da solo.
Trovò infine il coraggio di voltarsi verso di lei, rimanendo nell’intreccio delle sue braccia. La vide schiudere appena gli occhi, fissarlo da sotto le ciglia chiare per metterlo a fuoco, e inclinare appena le labbra in un sorriso ancora assonnato che Tony ricambiò, anche se in modo molto più esitante di quanto avrebbe voluto.
Come gli succedeva spesso con lei, la lingua gli si incollò al palato, e forse non era un fatto del tutto negativo, visto che nel suo cervello non aleggiava un solo pensiero coerente e la sua banca dati mentale non era d’aiuto in una situazione a lui del tutto estranea. Abbassò lo sguardo, vacillando ora di fronte al suo, con un’improvvisa e spiacevole consapevolezza di se stesso e del proprio corpo che lo indusse a scostarsi un poco da lei, senza però ritrarsi completamente. Era del tutto irrazionale, lo sapeva, ma alla luce del giorno si sentiva più vulnerabile e con ogni difetto impresso nero su bianco sulla pelle, come il reticolo plumbeo che spiccava attorno al reattore. Pepper non lo trattenne, ma fece risalire la mano lungo il suo fianco e gli sfiorò il volto con la punta delle dita, adesso del tutto sveglia e anche lei muta, intenta come lui ad assorbire e interpretare ciò che era e sarebbe successo. Colse un breve sprazzo d’incredulità sul suo volto, probabilmente la stessa che stava pervadendo lui.
Non era esatto dire che si sentisse a disagio, ma avvertiva chiaramente l’euforia e la complicità della notte appena trascorsa che si affievolivano, lasciando il posto a strascichi di una realtà sempre più tangibili e opprimenti, concentrati in noduli plumbei stringenti al centro del suo petto. Erano impossibili da ignorare, anche se alleviati da una tenue serenità di fondo che non percepiva ormai da più di due anni.
Gli occhi di Pepper scivolarono sul reattore, e non si curò di nasconderlo. Tony percepiva come stessero seguendo corrucciati le linee violacee e contorte che si diramavano da quel dischetto azzurro e metallico, accentuate dalla sua tenue luminescenza e dai raggi del sole che filtravano sempre più intensi nella stanza. Lui si immerse invece in un altro azzurro, più vivo e sereno, nelle nebulose cangianti attorniate da costellazioni di efelidi davanti a lui. Quando i loro sguardi si incrociarono di nuovo, si sentì in grado di risintonizzare i suoi pensieri, aggirando il segnale distorto della paura che iniziava ad agitare entrambi, trasmesso dalla medesima consapevolezza.
Per mesi avevano raccolto i pezzi e li avevano ricomposti uno ad uno, con pazienza e dedizione, a volte anche sbagliando, fino a colmare i vuoti e arrivare a un soffio dalla soluzione. E poi avevano ceduto. Adesso sperava soltanto che così non avessero rotto tutto, di nuovo, con quel momento di debolezza o coraggio che li aveva ghermiti entrambi per una notte.
Ormai si trovavano ben oltre il confine di una terra ignota, senza sapere quanto ancora vi si sarebbero potuti addentrare. Non si pentiva di averla voluta né di volerla ancora, qui ed ora e nella sua vita, ma la sua mente andava ad urtare dei cocci aguzzi finora nascosti nella sabbia: come si guarda al futuro, se non si sa neanche quanto durerà? Come si porta avanti un progetto senza conoscerne le variabili e con troppe incognite a punteggiarlo?
L’incudine nel suo petto era pesante quanto la sera prima, nonostante lui sentisse elio leggero che gli riempiva i polmoni, comunque troppo debole per permettergli di decollare.
Si sollevò sui gomiti, irrequieto, e Pepper seguì quel movimento con gli occhi, senza rompere il contatto fisico e visivo che li univa. Tony schiuse le labbra, ma di nuovo non riuscì a trarne alcun suono. Le posò quindi su quelle di Pepper e vi indugiò a lungo, fluttuando sulla superficie di quel calore quasi potesse trarne ossigeno, e lei gli cinse il collo, sostenendolo. Si scostò per prima, attirandolo poi a sé con dolcezza, e Tony adagiò la testa sul suo seno, con l’orecchio premuto all’altezza del cuore e il naso inebriato dal suo profumo. Lei prese a districargli le ciocche di capelli sulla nuca, mentre lui le accarezzava il braccio con la punta delle dita, con una naturalezza che sembrava dettata da anni, piuttosto che da una sola notte d’intimità.
Si lasciarono cullare da quei gesti per molti minuti, sprofondando le angosce nel silenzio, finché non tornarono a guardarsi quasi in sincrono. La cosa strappò loro un sorriso più spontaneo, anche se Tony notò che gli occhi di Pepper erano lucidi. Prima che potesse dar voce a qualunque domanda, per quanto scontata, lei lo anticipò:
«Devo essere alle Industries tra un’ora,» mormorò con disinvoltura, accorciando le vedute di entrambi al presente ed escludendo ancora una volta l’orizzonte del futuro.
«Io dovrei già essere in laboratorio,» replicò Tony, imitando il suo esempio, sebbene con sottintesi più cupi.
Nessuno dei due si mosse, se non per stringersi ancora un po’ in quell’abbraccio caldo, consapevoli che avrebbero solo voluto prolungarlo per il resto della giornata. Ma così sarebbe stato come darla vinta al tempo e rimanere davvero immobili, vanificando tutti i passi avanti per semplice paura.
«Quando torni?» le chiese, scostandosi infine da lei per permetterle di alzarsi.
Mascherò a stento una smorfia per i muscoli doloranti, e Pepper si girò sulla pancia, seguendo con velata circospezione i suoi movimenti. Tony notò che i suoi occhi indugiarono sul suo torso scoperto fino all’inguine, e lui si perse a sua volta a seguire la curva della sua schiena interrotta dal lenzuolo. Quel gioco di sguardi fu interrotto da lei, che riprese prontamente in mano le redini della situazione prima che potessero finire a spendere la mattinata in modi più dinamici.
«Forse più tardi del solito…» rispose, schiarendosi appena la voce. «Ho procrastinato un po’ di impegni, ultimamente,» aggiunse poi, con un sorriso sottile.
«Non è da lei, signorina Potts,» la rimproverò Tony, aggrottando giocosamente le sopracciglia.
«Ha una pessima influenza su di me, signor Stark,» ribatté lei senza scomporsi.
«Lo prendo come un complimento,» commentò lui, con uno sbuffo divertito. «Mi troverai sveglio, come sempre… ma non credo avrai più problemi a portarmi a letto,» aggiunse, aprendosi in uno dei suoi sorrisetti maliziosi.
«Per ora l’obbiettivo è farti alzare,» lo rimbeccò lei, sospingendolo scherzosa a sottolineare il suo intento e a troncare qualsiasi ulteriore deriva dei loro piani.
Tony la assecondò brontolando tra sé e si tirò su a sedere sulla sponda del letto, trascinandosi dietro un lembo del lenzuolo a coprirsi, mentre Pepper si alzò rapida per poi sparire subito nel bagno adiacente, concedendogli solo un fugace scorcio della sua figura nuda e sottile lambita dalla luce dorata del mattino.
Lui si mise in piedi con più calma, dopo aver recuperato i boxer dispersi tra le lenzuola ed essersi imposto di non intraprendere anche la ricerca della benda. Testò con una smorfia la stabilità delle proprie gambe: precaria, come previsto, e decisamente dolorosa da mantenere. Accantonò l’idea di raggiungere Pepper nella doccia, per quanto invitante, e decise di aspettare il suo turno facendo colazione: forse dopo il suo mix di antidolorifici e clorofilla sarebbe stato in grado di non collassare sotto il getto d’acqua calda. Uscì zoppicando in salotto, riuscendo persino a raccogliere il bastone abbandonato lì per terra senza rompersi l’osso del collo nel chinarsi. Raccattò poi una felpa dallo schienale del divano, e nonostante tutto si sentì meglio non appena la stoffa spessa andò a coprire il reattore e la sua cornice plumbea. Si sfregò il petto indolenzito: adesso che si era alzato, sentiva il respiro corto e un principio di nausea che gli premeva contro il diaframma contratto, nonostante avesse assunto il dilitio appena il giorno prima. Storse contrariato la bocca, ricacciandola indietro e detestando che il suo corpo gli stesse facendo scontare amaramente la decisione avventata della sera prima.
Scosse la testa, rimescolando quei pensieri senza riuscire a cacciarli via, e si concentrò nel preparare un caffè per lui e un tè per Pepper, dosando i propri movimenti doloranti e sempre più difficili da controllare, tanto che quasi ruppe la macchinetta e si lasciò cadere di mano una tazza. Adocchiò il rilevatore di tossicità sul bancone della cucina e lo lasciò dov’era, poggiandosi a braccia incrociate sul piano cottura, in attesa che la sua dose di caffeina si riversasse gorgogliando nella tazza. Inclinò il mento verso il basso per fissare la luce del reattore che trapelava dalla stoffa. Contrasse di riflesso le mani, avvertendo la stretta più salda della destra, e si umettò le labbra secche.
A tratti, gli sembrava di percepire ancora il calore delle mani di Pepper sul petto, e la morbidezza delle sue labbra sul volto ferito e sensibile; ogni volta si sentiva ondeggiare, instabile, come se quelle sensazioni potessero strabordare e inglobarlo del tutto, in un abbraccio vellutato che leniva le piaghe più dolorose. Si lasciò avvolgere da quell’illusione, e l’azzurro del suo nucleo sembrò farsi meno freddo.
Riuscì a distogliere lo sguardo dal reattore, riprendendo a respirare.

***

Pepper accolse la solitudine della doccia con un misto di sollievo e rammarico a cui non seppe dare un nome, ma che le rimase addosso, come il profumo e il sapore di Tony sulla pelle e sulle labbra.
Si era trattenuta dal proporglielo ad alta voce, ma non avrebbe avuto nulla in contrario se lui avesse deciso di farle compagnia nella doccia. Da una parte, però, sentiva che avevano bisogno entrambi di un momento per se stessi, così da schiarire i pensieri dopo una notte passata a non pensare, o a cercare di farlo il meno possibile.
Anche adesso, un vuoto insolito le riempiva la testa, animandola unicamente di stralci fugaci della notte appena trascorsa che ancora le avvitavano piacevolmente lo stomaco, dandole però anche un senso di vertigine nel rievocare le mani di Tony sul suo corpo. Non una volta, neanche nei momenti di trasporto più intenso, aveva perso il controllo delle protesi, e l’unico marchio visibile sulla propria pelle era il soffuso segno rosso lasciato da un bacio più passionale degli altri appena sotto la clavicola. Lo sfiorò come in trance, quasi credendo di vederlo dissolversi sotto le dita, riassorbito dalla sua pelle come un desiderio espresso ma non esaudito. Quello rimase lì, muto testimone di un qualcosa che ancora non aveva nome, e che forse non l’avrebbe mai avuto, ma che era innegabilmente reale. Per quanto ancora, non avrebbe saputo dirlo. Provò l’improvviso, illogico impulso di cancellarselo di dosso, come se così potesse cancellare anche tutto il resto, incluso il ricordo di quella notte.
Quella concatenazione di pensieri la turbò, inaspettata, e la spinse a chiudere di colpo il getto d’acqua, uscendo quasi a tentoni dalla doccia. Si accorse di non avere lì i suoi vestiti, né gli accessori da bagno, e non seppe perché si sentì così irritata nel dover indossare l’accappatoio di Tony; d’altronde, non riusciva neanche a capire il perché della metà dei pensieri che le scorrevano in testa alla velocità della luce, troppo fugaci per essere messi a fuoco, ma abbastanza definiti da premerle fastidiosamente tra le tempie come frecce acuminate.
Uscì nella stanza e poi in salone in modo quasi precipitoso, legandosi strettamente l’accappatoio in vita e cogliendo la figura di Tony intento a bere una tazza di caffè oltre la penisola della cucina. Sollevò la testa con un mezzo sorriso nel vederla, ma questo si spense rapidamente; Pepper divenne improvvisamente consapevole di quanto dovesse apparire turbata rispetto ad appena venti minuti prima, e ogni tentativo di camuffare quel cambiamento le morì sul volto. Si immobilizzò un passo dopo la soglia, con le braccia a cingerle il corpo e una marea che le montava nel petto offuscandole sempre più la vista, dandole l’impressione di essere sul punto di annegare con le parole incastrate in gola come bolle d’aria pronte a sfuggirle.
«Pepper?»
La voce di Tony le arrivò ovattata, e si costrinse a riscuotersi. Si guardò brevemente intorno, come cercando le proprie parole disperse nell’atrio della villa, ma non riuscì a muovere un passo, pur vedendo con la coda dell’occhio Tony che posava la tazza e si alzava per avvicinarsi cautamente. Quando rialzò lo sguardo era davanti a lei, con pieghe preoccupate a incorniciargli il volto; un fiotto di sollievo la scosse nel vedere che il reattore era coperto, per poi tramutarsi in una tensione opprimente che sembrava volerle rubare il respiro. Tony notò il suo sguardo ed esalò un sospiro muto.
«Vieni qui,» la incitò poi, tendendole con dolcezza la mano.
Lei esitò appena, prima di accettare l’invito e stringersi a lui. Sentì le sue labbra che le sfioravano la tempia, solleticandola col pizzetto, e socchiuse gli occhi nel tentativo di mettere ordine tra le sue emozioni.
«Come ti senti?» riuscì a mormorare, senza guardarlo.
Sentì il sussulto di una risatina inaspettata scuotere il suo petto.
«Stanco, ma non lo riterrei un fatto negativo,» rispose poi, e Pepper si trovò a sorridere oltre le lacrime che le erano salite di nuovo agli occhi, per ora invisibili a lui. «Tu, invece?» continuò poi, più serio.
Anche senza guardarlo, poté immaginare le sue sopracciglia aggrottate.
«Confusa,» si risolse a rispondere sinceramente, dopo un istante di esitazione.
Tony a quel punto la scostò un poco da sé per guardarla in volto, con un’espressione a metà tra il contrariato e l’interdetto.
«Avevamo deciso che non fosse… strano, giusto?» chiese conferma con una traballante nota di dubbio, facendo scattare ripetutamente l’indice meccanico tra loro due con fare un po’ agitato.

Pepper scosse la testa, scacciando quell’interrogativo dallo sguardo di lui, e il velo umido diluiva il proprio.
«No, non è strano,» lo rassicurò, aumentando un poco la stretta su di lui a sottolineare quelle parole e, assieme ad esse, la propria scelta, ancora immutata. «Ma se possibile ho ancora più paura di prima, e non sono sicura di… di riuscire a gestirla,» si costrinse a confessare infine, tornando a posare la fronte contro il suo collo e fissando di sfuggita il brillio azzurrino e ai suoi occhi minaccioso oltre il suo colletto.
Le paure che li avevano spinti a rimandare quel momento si stavano concretizzando davanti ai loro occhi, e Pepper non seppe dire quale decisione sarebbe stata migliore: se aspettare ancora o non aspettare affatto, sin dal principio. Quell'interrogativo grattò sgradevole alla sua porta, come se l'avesse chiuso fuori troppo a lungo.
Sentì Tony che le cingeva i fianchi in silenzio. Nonostante la breve esitazione iniziale, lo fece saldamente e con entrambe le braccia, scacciando le molte paure che Pepper ancora intuiva dietro ogni gesto. Lo sentì vacillare appena, forse scosso da una fitta, e lo sorresse prontamente, offrendogli un appoggio per recuperare l’equilibrio.
«Pepper Potts,» esordì poi lui, inclinando la testa per catturare il suo sguardo. ««Tu sei la persona più forte che conosca, e conosco super-soldati, dèi asgardiani e mostri verdi rabbiosi,» specificò, strappandole una smorfia imbarazzata. «E io ti ho fatto una promessa,» aggiunse, più serio, racchiudendole una guancia nel palmo sano.
Pepper notò la mano artificiale ferma a mezz’aria, titubante a un centimetro dal suo volto, e la accompagnò contro l’altra guancia, suscitando nello sguardo di Tony quel misto di confusione e incredulità che gli tingeva l’iride di sfumature più dense. Pepper socchiuse gli occhi e si adagiò nella sua stretta, sentendo la cortina liquida che le appannava la vista dissolversi a poco a poco, mentre le parole di Tony sembravano raddrizzare i suoi pensieri uno ad uno, impedendo loro di annodarsi in grovigli cupi.
«C’è un’unica cosa che mi fa davvero paura…» riprese d’un tratto lui, interrompendosi, e Pepper si irrigidì, fissandolo con rinnovata preoccupazione. «Ovvero: cosa dovrei fare adesso? Nel senso… per ora ti ho fatto un tè, ma come ci si… Dovrei comprarti dei cioccolatini? O un mazzo di fiori? Oppure ti preparo una cena coi fiocchi, ma conoscendo la mia discutibile abilità culinaria non… insomma, non voglio risultare banale, ma neanche esagerare e… sono impreparato a…»

«Tony.»
Pepper sollevò lo sguardo e lo mise a tacere con due dita sulle labbra, che si curvarono in una linea vagamente impacciata mettendo fine al suo flusso inarrestabile, ed ebbe l’onore di vederlo arrossire per forse la terza volta in dieci anni.

«Te la stai cavando bene, finora,» stabilì poi scherzosa, facendo scivolare la mano sulla nuca e affondandola nei suoi capelli, lieta che fosse riuscito a dirottare il discorso.
«Imparo in fretta,» si vantò lui, per poi ammiccare compiaciuto. «E a te piacciono proprio i miei vestiti,» la canzonò poi, tendendo con un dito la cinta del suo accappatoio, allentandola un poco senza però scioglierla.
Pepper nascose un sorriso, senza contraddirlo, ma la strinse di nuovo, suscitando uno sbuffo di finto rammarico da parte sua.
«Sono già in ritardo,» gli disse, in tono non troppo convincente.
«In teoria lavori per me,» osservò lui, assottigliando lo sguardo con aria furba.

«In teoria adesso sono io il tuo capo,» lo rimbeccò lei, puntandogli un dito contro il petto, poco sopra il reattore.
Tony schiuse la bocca a metà tra il sorpreso e l’indignato, in un’espressione decisamente comica.
«Questo fatto ha delle potenziali e interessanti implicazioni che ci impegneremo ad esplorare insieme nel dettaglio stasera,» stabilì infine con fare malizioso, pur mantenendo una facciata offesa.

Pepper sbuffò trattenendo al contempo una risata, e riuscì a strapparla anche a lui con un ultimo bacio, facendola risuonare sulle labbra di entrambi.

***

18 Maggio, Villa Stark

Nonostante l’allenamento decennale a cui aveva sottoposto i propri timpani, Tony era sicuro che, al prossimo riff esplosivo degli AC/DC, avrebbe corso il serio rischio di farsi venire un cardiopalma da infarto per il nervoso. Data la natura del progetto a cui stava lavorando, la cosa sarebbe stata quantomeno ironica.
Così mise in pausa Whole Lotta Rosie e avviò una più calma, almeno per i suoi standard, Rock The Casbah, tornando poi a concentrarsi sul lavoro di saldatura che stava lentamente portando a termine a dispetto del braccio meccanico poco collaborativo e martoriato dalle fitte. Soffiò sul saldatore, disperdendo i filamenti fumosi che lo avvolgevano, e controllò che il prisma davanti a lui fosse ben fissato alla propria base girevole. Gli rimase impressa sul volto un’espressione critica e non del tutto soddisfatta, e fu tentato dallo smantellare anche quel terzo modello. Soppresse il suo lato pignolo e perfezionista e decise di rimandare a dopo il giudizio definitivo, quando avrebbe avuto almeno più di un decimo dell’acceleratore di particelle pronto. Aveva una certa fretta, a detta del 70% riportato dal rilevatore e dai sintomi spiacevoli in vertiginoso aumento… ma ormai era a un passo dalla verità, anche se doveva spronarsi costantemente per non rimandare ulteriormente il momento in cui avrebbe saputo se sarebbe stata anche una soluzione.

Un groppo amaro gli si bloccò in gola nel ripensare a tutto ciò che lui e Pepper avevano affrontato in quegli ultimi giorni, ai momenti di quotidianità che riempivano le loro giornate di una spensieratezza nuova, e dei discorsi più cupi che invece trovavano sbocco solo nel cuore della notte, sussurrati a mezze parole tra le lenzuola, con solo la luce fioca e sinistra del reattore a dissipare il buio. Discorsi costellati di “se” e di “ma”, di affermazioni certe fatte poche ore prima che diventavano ipotesi, di “non lo so” e “non ancora”, di dubbi che finivano spesso per venir soffocati nei sospiri, che per ora erano una soluzione sufficiente.
Tony deglutì a fatica e sollevò bruscamente gli occhiali protettivi, strappandosi a quei pensieri dolceamari e lanciò un’occhiata all’ologramma sospeso dello…
“Starkium,” ribadì tra sé, dopo aver passato le ultime due ore a rimuginare in sottofondo sul nome del nuovo elemento ed essersi infine deciso a scartare il decisamente discutibile “Howardium”.
«JARVIS, hai ricontrollato quei calcoli?» chiese poi, sfregandosi il mento pensieroso e prendendo a sorseggiare con poca convinzione un po' di clorofilla.
«Sì, signore. La lunghezza ottimale dell’acceleratore è 87,4 metri,» gli confermò, come temeva, anche se in effetti ne aveva già avuto la certezza la prima volta.
Seguì con lo sguardo il perimetro del laboratorio, fissandosi poi su una parete mentre tamburellava le dita sui bicipiti. Emise un sonoro sospiro, per poi rivolgersi di nuovo al computer:
«JARVIS, avvisa Pepper di non… allarmarsi quando tornerà,» elaborò, mordendosi impensierito le labbra.

Si decise finalmente a mettersi in piedi un po’ barcollante, calandosi di nuovo gli occhiali sul volto, e si avviò con decisione verso le cassette degli attrezzi pesanti.
Dopotutto, non era la prima volta che buttava giù una parete a Villa Stark.

***

23 Maggio, Villa Stark

Pepper sollevò di scatto il capo dalle pratiche che stava visionando sul tavolo del salotto, in un soffuso stato d’agitazione di cui non riuscì a identificare subito l’origine.
Capì dopo qualche secondo che era stato l’improvviso silenzio ad allertarla, visto che le sue orecchie si erano abituate da giorni al continuo fracasso proveniente dal piano inferiore, che passava dallo stridio assordante della sega circolare, al battere incessante delle martellate, a un indefinito tramestio di metallo e calcinacci. Il tutto inframezzato da qualche occasionale e colorita imprecazione da parte di Tony. L’insonorizzazione del laboratorio era stata decisamente compromessa, da quando il proprietario aveva realizzato un cratere di circa due metri di diametro nel bel mezzo dell’atrio, e Pepper scoccò un’occhiata verso il groviglio di fili, tubi e cavi che emergevano dai suoi bordi come serpenti stanchi sparsi sul marmo impolverato.
Stava giusto per affacciarsi al piano di sotto – visto che, l’ultima volta che si era creato quel silenzio sospetto, era seguita una piccola esplosione che aveva provocato qualche scottatura a Tony e un infarto del miocardio a lei – ma il suono di un qualcosa di pesante e metallico che veniva trascinato per terra, seguito dallo sfrigolare della saldatrice, la convinse a desistere.
Tornò ad occuparsi del bilancio della Expo, che la attorniava in pile di documenti pronti a collassare, ma la sua mente rimase impigliata sul sottofondo di traffici e armeggi che Tony stava portando avanti da giorni, a dispetto del fatto che a detta di Ian avrebbe dovuto osservare un riposo quasi assoluto.
Avevano vissuto una settimana di pace irreale, da quando Tony aveva svelato l’enigma lasciatogli da suo padre, e da quando avevano deciso di lasciar crollare del tutto le loro difese. Quello slancio ottimistico aveva causato a entrambi un vuoto allo stomaco, consapevoli di avanzare su una sottile lastra di vetro pronta a cedere, ma avevano continuato a guardare avanti, e non dove mettevano i piedi. Si erano trovati a seguire una routine scaturita in modo spontaneo, come se l’unico effettivo cambiamento rispetto a prima fosse la possibilità e libertà di cercarsi a vicenda senza timori, che fosse per un bacio fugace tra un impegno o l’altro o per una notte intera.
Tony, che aveva continuato ad oscillare per mesi in un limbo di tensione e rigetto verso il proprio corpo, sembrava aver finalmente ritrovato un equilibrio, seppur precario. Esitava ancora nel mostrarsi nudo, si impensieriva quando lei era a contatto con le protesi e sembrava combattere a giorni alterni con la necessità della benda sull’occhio, ma aveva smesso di fuggire. Le faceva capire tra le righe come ciò fosse merito suo, anche se Pepper era convinta che quel cambiamento non sarebbe potuto partire che da lui: era orgogliosa nel vederlo più sicuro di sé, e nel realizzare che stava disperdendo uno ad uno i demoni che l’avevano assillato per più di un anno – tranne quello più pressante ancorato al suo petto e indipendente dalla sua volontà. Si sentiva riempire di felicità nel rivedere il vecchio Tony, coi suoi sorrisi scanzonati e le sue battute impertinenti, unite a una serietà e dedizione di fondo che le erano invece nuove.
Poi, tre giorni prima, l'idillio si era incrinato. Tony si era svegliato con un’emicrania devastante che l’aveva costretto a letto per mezza giornata; si era poi messo in piedi a forza per riprendere il lavoro sull’acceleratore di particelle, cercando di minimizzare la cosa. La sera stessa aveva avuto un accesso di tosse preoccupante che l’aveva lasciato senza fiato, e prima che Pepper potesse chiedergli come stesse, lui aveva sgranato l’occhio fissandosi il palmo con cui si era coperto la bocca. L’aveva poi inclinato muto verso di lei, a rivelare le inequivocabili tracce di sangue che lo macchiavano. Erano rimasti in silenzio a lungo, come se quel marchio rosso avesse messo a tacere i loro pensieri.
Non era nulla di inaspettato, ma avevano sentito la cupola di falsa serenità che li avvolgeva disintegrarsi in un coro di cristalli infranti attorno a loro.
Ian li aveva avvertiti già da tempo che, quando la situazione avrebbe cominciato a degenerare, l’avrebbe fatto rapidamente, ma Pepper non credeva di vederla precipitare a quel modo. Tony era visibilmente più debilitato con ogni giorno che passava, e quella notte l’aveva sentito alzarsi per dare di stomaco. Aveva concentrato ogni energia nel trattenere l’impulso di seguirlo per stargli accanto, sapendo quanto ciò lo facesse sentire umiliato, pronta però a scattare in piedi al minimo accenno di vera necessità. Quando era tornato a letto un’ora dopo, spossato, si era accorto di averla svegliata, ma non era neanche riuscito a stemperare la situazione con una battuta, come faceva di solito. Si era limitato a coricarsi di peso rivolgendole la schiena, senza proferir parola, ripiegato su se stesso quasi ad occupare meno spazio possibile. Pepper aveva taciuto a sua volta, ma l’aveva stretto a sé con delicatezza, posandogli un bacio rassicurante dietro al collo. L’aveva sentito tremare, non sapeva se per il dolore, la stanchezza o la paura. Gli aveva poggiato una mano sul reattore tiepido come a infondergli forza, a scacciargli dal petto il veleno che lo infestava. Lui si era rannicchiato ancor di più contro di lei, cercando le sue mani alla cieca e rifiutando di mostrarle il volto.
Pepper si obbligò a concentrarsi di nuovo su ciò che stava leggendo – che non le interessava minimamente, e le cui lettere stampate sembravano galleggiare in una distesa acquosa – mordendosi con forza le labbra per non lasciarsi sopraffare.
Tony non era l’unico ad avere una promessa da mantenere. Si rifiutava di cedere di nuovo al dolore come si era trovata a fare più volte nell’ultimo periodo. Ma era riuscita a trovare proprio in lui la forza per non lasciarsi crollare a terra; lui che ormai faceva fatica anche a stare in piedi o a respirare, e che passava le giornate in laboratorio a combattere contro un’ingiustizia beffarda, per evitare che tutti i traguardi raggiunti venissero vanificati.
Doveva solo raggiungere l’ultimo e, qualunque fosse stato, Pepper giurò a se stessa che sarebbe rimasta al suo fianco.

***

23 Maggio, Villa Stark

L’ennesimo silenzio prolungato e sospetto che avvolse il salone la fece rimanere col cuore in gola, in un riflesso condizionato. Sperò che Tony non avesse di nuovo rischiato di tagliare a metà il laboratorio per un fascio di particelle indirizzato male, e sussultò nel sentire una sonora esclamazione che riecheggiò fin lì, inquietantemente ambigua. Subito dopo, dei passi pesanti risuonarono sulle scale, convincendola ad alzarsi in piedi.
«Signorina Potts!» esordì Tony, non appena mise piede nell’atrio, e già quel preambolo la mise sul chi vive.
Si arrestò affannato sul primo gradino, evidentemente stremato per lo sforzo, ma si raddrizzò subito, avanzando con passo un po’ sbilenco, ma deciso.
«Posso chiederle un favore che le farà quasi sicuramente dare di matto?» continuò, sempre in quel finto tono formale.
Pepper batté le palpebre e prese atto di come Tony, contrariamente alle sue aspettative dopo l'ennesima notte travagliata che aveva trascorso, sembrava sprizzare energia da tutti i pori, e poco mancava che iniziasse a fare il giocoliere col bastone da passeggio, che faceva volteggiare qua e là mentre teneva l’altra mano dietro la schiena.
«Non è una… premessa incoraggiante,» si forzò a dire, sentendo una contrazione più violenta del cuore che quasi le fermò il respiro.
Guardò Tony negli occhi e vide, dopo giorni di sguardi spenti e opachi, quel brillio vivace che portava alla luce le pagliuzze dorate nella sua iride, e che la rendeva specchio di ogni singola variazione d’umore che lo sfiorava. E in quel momento era raggiante, anche se si sforzava di mascherarlo.
«Tony?» riuscì a dire soltanto, e il suo cuore si contrasse per la seconda volta in modo doloroso, quasi se volesse trattenere qualunque emozione positiva tentasse di farlo battere più forte.
Lui sorrise senza più remore, fermandosi di fronte a lei.
«Mi servirebbe una mano con questo,» proferì infine, con la voce che traballò appena, scossa da emozioni che neanche lui riusciva del tutto a contenere.
Tolse la mano da dietro la schiena e a Pepper quasi cedettero le gambe nel cogliere la sfumatura azzurrina di ciò che stringeva nel palmo. Un reattore, poco più piccolo di quello incastonato nel suo petto, con la forma di un triangolo incastonato nel nucleo ancora spento. Pepper porto le mani a coprirsi la bocca e dovette ordinare ai propri polmoni di riprendere a respirare, o sarebbe svenuta per l’asfissia. Tony continuava ad osservarla sornione, godendosi ogni singolo mutamento che attraversò il suo volto, dalla perplessità, alla meraviglia, allo sconcerto più totale, fino al sorriso di pura gioia che la illuminò quando realizzò ciò che stava guardando.
«È… insomma... vuol dire...» cercò di formulare, senza successo.
«Sì,» rispose semplicemente lui. «È la soluzione,» completò poi, con voce di nuovo malferma.
Prima che potesse aggiungere altro, Pepper lo avvolse abbraccio impetuoso, tanto stretto da togliere il fiato a entrambi, e a quel punto il cuore di Pepper volle recuperare tutti i battiti persi e ne mandò uno che sembrò assordarla completamente, lasciandola con gli occhi lucidi. Tony la invitò ad alzare il viso, sciogliendo la propria espressione un po’ accigliata solo nel vederla sorridere commossa. Lei si asciugò gli angoli degli occhi, scacciando le lacrime che vi erano salite, e tornò ad affondare il volto nella sua spalla.
«Cosa dovevi chiedermi?» realizzò poi, sollevando lo sguardo.
L’espressione di Tony si tese in una smorfia che rasentava il colpevole.
«Ecco, dovrei sostituire il reattore vecchio e… ho bisogno del suo aiuto,» disse in fretta, scrutando a fondo la sua reazione.
Pepper rimase interdetta per un istante, col pensiero che corse alle implicazioni di quella richiesta prima che potesse fermarlo, gli occhi fissi sul circoletto azzurrino in mezzo al petto di Tony.
Avrebbe dovuto togliersi il reattore. Più precisamente, avrebbe dovuto rimuoverlo lei.

L’aria che la circondava sembrò solidificarsi, diventando impossibile da respirare, e strinse di riflesso la stoffa della maglietta di Tony, che di rimando serrò la mascella, incupendosi. Non disse nulla, e Pepper percepì la rigidità dei suoi muscoli: sapeva che la mente di entrambi era corsa allo stesso giorno, quello di cui si impegnavano a ignorare l’esistenza, spesso fallendo.
«Sei sicuro che…»
«Al 95% circa,» la anticipò lui, e la mancanza di una certezza assoluta si materializzò, così imponente da schiacciarla. «È più di quanto potessi sperare. Molto di più,» sottolineò nel vedere la sua dubbiosità, stringendole le braccia a dare ancor più forza a quel concetto.
Pepper prese un respiro, che fu più un’immissione forzata di qualche particella d’aria nei polmoni. Le sembrò di aver inalato degli spilli.
«Avevi detto che non mi avresti più obbligata a compiere operazioni chirurgiche poco ortodosse,» disse, costruendo un tono disinvolto minato dalla sua gola costretta.
Tony soffiò aria dal naso fissandola combattuto, con le labbra compresse in una linea bianca e sottile. Rimase serio, senza cavalcare la flebile onda d’ironia che gli aveva offerto.
«Non te lo chiederei mai, se potessi chiederlo a qualcun altro,» disse poi, sfuggendo il suo sguardo.

«Ian è sicuramente più qualificato per…»
«Pepper, vorrei che fossi tu a farlo,» la interruppe Tony, agitandosi d’un tratto, e lei avvertì il fugace tremito delle sue mani.

Attese un continuo sapendo che sarebbe arrivato, seppur coi suoi tempi, e Tony sembrò cambiare idea tre o quattro volte circa alle parole da pronunciare, prima di dar loro voce.
«È molto probabile…» la frase scemò nel vuoto, e ricominciò: «Potrei avere un… un attacco di panico quando…» fece un gesto verso il reattore incastonato nel suo petto, per poi premersi il palmo sull’occhio come se gli fosse venuto mal di testa, nascondendosi al contempo.
Pepper gli scostò la mano, stringendola e vincendo la sua lieve resistenza, così da guardarlo di nuovo direttamente.
«Che succede se non funziona?» chiese, domando l’instabilità della propria voce.
Lui scosse appena la testa. Per un momento sembrò sul punto di non rispondere, per poi scrollare le spalle:
«Nulla,» esalò, stirando di nuovo la bocca. «Assolutamente nulla. Mi rimetti il reattore vecchio prima che io vada in fibrillazione… e siamo punto e a capo,» concluse, più piano, quasi a non voler concretizzare quella possibilità.
Pepper lo osservò, cercando di determinare se quella fosse o meno una bugia, per poi realizzare che, a quel punto, non era più importante: non c’erano altre strade da percorrere. E lo sguardo di Tony era sincero, fedele alla promessa di non mentirle.
Si portò la sua mano alle labbra, sfiorando la sua pelle segnata da piccole cicatrici e inspirandone il tenue sentore di ferro bruciato. Poi annuì, stringendo le palpebre.
«D’accordo,» esalò contro le sue nocche, prendendogli in un guizzo di coraggio il reattore di mano.
Era più leggero di quanto si aspettasse, e freddo contro il suo palmo, in contrasto con il tepore che aveva imparato ad associarvi. Tony la fissò per un lungo istante da sotto le ciglia scure, in modo indecifrabile, per poi scostarsi da lei e farle strada senza una parola verso le scale del laboratorio. Pepper scollegò il cervello, lasciandolo a galleggiare nel buio nel tentativo di estraniarsi almeno per quel breve tragitto ancora doloroso, reso meno arduo dalla guida di Tony.
Non appena furono entrati, lui si sedette cautamente sulla sua solita sedia, iniziando a trafficare con alcune schermate. Pepper tenne gli occhi appuntati sul nuovo reattore stretto tra le sue mani – il cuore di Tony, che gliel’aveva affidato di nuovo – e cercando di escludere dal proprio campo visivo il laboratorio e il vecchio reattore. Riusciva a sentire la tensione che le pizzicava la pelle, come se volesse strappargliela di dosso, e aumentò la presa sul cilindro metallico tra le sue mani.
Si accostò a Tony mentre si toglieva la maglietta, rivelando il torace invaso di viticci gonfi e violacei e ormai impossibili da contrastare, anche con la clorofilla e il dilitio; lo aiutò ad assicurare gli elettrodi sul petto, proiettando il suo battito cardiaco su uno schermo olografico. Anche ai suoi occhi inesperti sembrava irregolare, e più debole di quanto avrebbe dovuto, ma forse era solo suggestione.
«Ok, stavolta sarà più facile,» esordì Tony, guardando ovunque tranne che nei suoi occhi. «Niente allegro chirurgo, è più come… come Tetris: io lo tolgo, tu lo incastri, ed è fatta,» spiegò, sforzandosi di mantenere un atteggiamento spigliato a dispetto della pupilla dilatata nella quale si scorgeva chiaramente la sua profonda apprensione.
Pepper annuì appena, incapace di elaborare una risposta che potesse essere rassicurante. Tony si umettò le labbra, sfregandosi nervoso il pizzetto, e fece presa sul bordo del reattore nel suo petto con la punta delle dita, congelandosi nel gesto di sbloccarlo. Lasciò ricadere la mano, inspirando a fondo dal naso in un moto frustrato, e Pepper gli sfiorò la spalla, non seppe se per dare sostegno a lui o per trovarlo lei. Realizzò in quel momento, ripensando alla spiegazione di Tony, che avrebbe potuto sostituirlo anche da solo. Eppure, l’aveva voluta lì, come sempre. E anche lei voleva esserci, a dispetto di tutte le proprie paure.
«Sei… sei pronta?» le chiese in quel mentre, accennando al nuovo reattore nella sua mano e cercando di spacciare quell’esitazione come qualcosa di voluto.
Pepper si riscosse e incrociò il suo sguardo, sentendosi colma di una determinazione nuova che quasi la fece tremare.
«Sì,» rispose, con una voce chiara e salda che sembrò cogliere di sorpresa Tony.
Era pronta davvero, qualunque sarebbe stato l’esito. Non a perdere lui, quello mai – le mozzava il respiro il solo pensiero – ma era pronta a rimanere, così come lui era pronto a non arrendersi.
Un po’ di quel vigore sembrò trasmettersi a Tony, che annuì con un unico cenno del capo e afferrò di nuovo il reattore, più saldamente stavolta. Lo ruotò fino a udire un lieve click, per poi tentennare una singola frazione di secondo prima di estrarlo con delicatezza dal suo alloggio. Lo vide trattenere il fiato come se fosse in apnea. Il suo volto si fece subito cereo e la cavità vuota sembrava occhieggiare maligna, quasi volesse risucchiare entrambi, rievocandole ricordi vividi che era riuscita a seppellire quasi del tutto. Ma quello non era un ricordo, e quella non era una fine; non adesso, non stavolta.

Posò con mani molli ma ferme la base del nuovo reattore sul bordo metallico dell’alloggio, allineando le scanalature di aggancio; la mano di Tony si posò allora sulla sua, accompagnandola nel movimento e inserendo insieme il nuovo cuore al suo posto. Vi fu un ultimo click metallico che echeggiò definitivo nel laboratorio.
Tony riprese a respirare appena, stringendo ancora la sua mano poggiata sul reattore spento. Aveva funzionato? La domanda aleggiava inespressa tra loro, entrambi con gli occhi puntati sul dischetto metallico inerte che racchiudeva le loro speranze.
Un flebile guizzo azzurrino lo attraversò, per poi spegnarsi con un sibilo.
Tony quasi boccheggiò e sembrò mancare un colpo, ma i monitor non mandarono alcun segnale d’allarme, mostrando solo il suo battito innaturalmente accelerato.
Poi, un lumicino stabile si accese nel nucleo, espandendosi pian piano come un sole in miniatura, andando a riempire l’intera circonferenza del reattore e illuminandola di un azzurro vivo e limpido, pulsante di energia.
Tony, a quel punto, le stava quasi stritolando la mano. Alzò di scatto lo sguardo su di lei, con un sorriso che titubava agli angoli delle sue labbra, incerto se realizzarsi o meno, esattamente come quello che Pepper sentiva sulle sue.
Lanciarono in sincrono un’occhiata agli schermi olografici, leggendo con rapidità i dati in cerca di un’anomalia, di una discrepanza, in attesa di un annuncio negativo di JARVIS o di una reazione inaspettata del corpo di Tony. Non accadde nulla. L’unico movimento era il 100% di un verde brillante che lampeggiò infine in un angolo, a indicare la compatibilità completa del reattore e del nuovo elemento.
Tony si coprì la bocca con la mano metallica, le sopracciglia strettamentecontratte in un’espressione incredula, e cercò il suo sguardo, rivelando l’iride lucida e vinta dall’emozione.
«Funziona,» riuscì a esalare, con un filo di voce.
Pepper percepì quella parola scrosciare come acqua nel deserto, salvifica, fonte di sollievo e a lungo attesa, come le lacrime che le sgorgarono all’istante lungo le guance, frenate solo dal sorriso che si aprì sul suo volto. Tony liberò una risata leggera e commossa, soffocata dal suo palmo che trattenne forse anche un singulto, e le sfiorò la guancia bagnata.
«Queste sono di nuovo lacrime di gioia?» le fece notare, con dolce ironia.
«Direi di sì,» rispose lei, chinandosi per abbracciarlo e trovando rifugio contro il suo petto irrorato di un azzurro di nuovo accogliente. «Le tue?» lo stuzzicò poi, strappandogli uno sbuffo.
«Può darsi,» le concesse con un sorriso un po’ umido, prima di baciarla con inaspettata tenerezza.
«E adesso?» mormorò Pepper non appena si furono separati, accarezzandogli il dorso della mano col pollice.
Quella domanda riecheggiò tra loro, come molto tempo prima, e stavolta spalancò la porta sul futuro che aveva tenuto chiusa fino ad allora.
«Adesso ricominciamo,» replicò Tony, con un sorrisetto scaltro e un brillio nuovo nello sguardo.
Pepper poggiò la fronte contro la sua, annuendo tra le lacrime, con la luce azzurrina e rassicurante del reattore che danzava sui loro volti e sulle loro dita intrecciate.




 

 

 

"If I fall, get knocked out
Pick myself right off the ground
When they turn down the lights
I hear my battle symphony
All the world in front of me
If my armor breaks
I'll fuse it back together"

 [Battle Symphony – Linkin Park]

 

 

 

27 Maggio, Stark Industries, Los Angeles

«Quindi rifiuta?»
«Rifiuto?»
«Lo chiede a me?»

«E a chi, sennò?»
«Si decida.»
«Uh, ok… sì.»
«Sì, accetta, o sì, rifiuta?»
«No, io non… rifiuto! Rifiuto.»
Tony alzò le mani in un gesto perentorio, a sottolineare le sue parole definitive.
«Ok,» replicò Ian, annuendo meditabondo. «Posso… chiederle perché?»
Tony si grattò la nuca, sfuggendo il suo sguardo per puntarlo al di fuori della vetrata, concentrandosi sul viavai metodico delle macchine sulla vicina tangenziale. Quello era esattamente il tipo di discussione che avrebbe voluto evitare. Non aveva resistito alla tentazione di presentarsi senza preavviso al dipartimento di Ian alle Industries, e si era compiaciuto della sua reazione di stupefatta meraviglia del medico nel vederlo lì, in condizioni fisiche decisamente migliori del previsto – anche se il bastone era un appoggio ancora irrinunciabile. Era sicuro di aver colto un brillio lucido negli occhi di Ian, che prima ancora di chiedere lumi sul perché e il percome fosse ora in ottima forma, gli aveva stretto la mano con raro calore, del tipo che Tony avrebbe giurato di poter sentire anche con l’arto metallico.
Dopo le dovute spiegazioni, non sapeva bene come, erano finiti a parlare di occhi e congegni oculari; un argomento che, con sua stessa sorpresa, avrebbe preferito liquidare al più presto.
«Ormai non mi sembra… così necessario,» sbuffò infine, sempre senza guardarlo.

Ian incrociò le braccia, inclinando il mento per scrutarlo da oltre le lenti degli occhiali, con le iridi acquamarina che lo stavano probabilmente scannerizzando dall’interno.
«È buffo,» commentò infine, con un verso indecifrabile a coronare quell’affermazione.
Tony alzò un sopracciglio mentre sprofondava un po’ di più nella poltroncina.
«Io sarei buffo?» nel dirlo si puntò un indice sul petto, senza sapere se dovesse sentirsi offeso o meno. «Questa mi mancava.»

«La sua risposta è buffa, perché è esattamente quella che mi ha dato lui,» aggiunse quindi il medico, scrollando le spalle. «Dice che ormai non è più necessario, che ha trovato un suo equilibrio
«Il suo amico è veramente strambo,» commentò Tony, circospetto.
«Non immagina quanto,» sorrise Ian. «Ma è sicuramente più sincero di lei,» osservò pungente.
Tony incassò la stoccata, facendo schioccare nervoso la lingua.
«La verità, Doc?» esordì retorico, inclinando appena la testa di lato. «Non so se ho davvero trovato un equilibrio, anche perché mi sento ancora un funambolo in un circo, ma… non voglio rischiare,» proferì infine, sbuffando aria dal naso. «Potrei provarci, ideare qualcosa – i progetti ci sono – operarmi…» esitò, tamburellando con le dita sul reattore. «E se poi qualcosa andasse storto?»
Scosse la testa, a sottolineare la sua reticenza, e Ian annuì di rimando, accettando in silenzio quella decisione.
«Stephen ha detto che, andando lì, potrebbe sistemare anche i difetti “residui”, e non si aspetta nulla in cambio,» aggiunse, spostando gli occhi sulla sua gamba.
Tony abbassò a sua volta lo sguardo, fissandolo sulle giunture meccaniche della caviglia che facevano capolino sotto l’orlo dei pantaloni.
«Non so, Doc,» tentennò, arricciando le labbra. «Sono un uomo di scienza, non mi ci vedo a fare il guru della montagna. A ciascuno il suo,» concluse in tono deciso.
«Come vuole, ma ci pensi. E glielo dico da scettico,» specificò Ian, trattenendosi visibilmente dall’aggiungere altro.
«Kathmandu non va da nessuna parte,» commentò Tony, in cuor suo piacevolmente sorpreso dalla premura del medico, che appariva più allegro di quanto l’avesse mai visto. «Comunque, c’è un certo pirata di mia conoscenza che potrebbe darmi una mano a reperire almeno un occhio del colore giusto. Me lo deve,» continuò, scrocchiandosi con indolenza le dita e godendosi il sibilo delle giunture ben funzionanti.
«E per il resto?» continuò Ian, facendo un cenno al suo volto.
Tony alzò le spalle, sfiorando di riflesso la benda e percependo i bordi spessi e conosciuti della cicatrice sottostante.
«Gliel’ho detto, Doc: il sinistro è sempre stato il mio profilo peggiore,» concluse dopo una pausa studiata, sollevando l’angolo delle labbra in un sorrisetto.
Ian scosse la testa, ma il suo sbuffo esasperato sfumò in una risata.

 

***

 

 

29 Maggio, Villa Stark

L’oceano scintillava vivace, irrorato dalla luce di un intenso tramonto, e i riflessi parevano ammiccare dalla cresta delle onde verso la terrazza a picco sulla scogliera e addobbata a festa, con una lunga tavolata a occuparla.
Tony, da sotto il ridicolo cappellino dorato con un “40” rosso-fluo che gli era stato calcato in testa a forza da Rhodey, esibiva un cipiglio contrariato e ben poco in accordo col clima goliardico che lo circondava.
«Questo è tradimento,» sibilò per la terza volta all’orecchio di Pepper, seduta accanto a lui a capotavola.
Lei per la terza volta alzò gli occhi al cielo, che adesso iniziava a scurirsi lasciando intravedere le prime stelle, per poi fissarlo col mento poggiato sulla mano e un sorrisetto saputo a distenderle le labbra.
«Ti ha fatto piacere, adesso puoi ammetterlo,» sentenziò, battendo le ciglia con deliberata lentezza a sottintendere quella sua affermazione.
Tony non rispose, s’impegnò a non lasciar ricadere la mandibola nel vederla ammiccare in quel modo languido, e addentò la sua pizza con espressione un po’ imbronciata, minata però dal lieve assottigliarsi del suo sguardo, che gli mise in risalto le rughe del sorriso.
«È la seconda?» gli chiese vagamente minaccioso Ian, due posti più in là, con un cenno al cartone vuoto.

«La prima,» mentì bofonchiando Tony, mandando giù l’ultimo boccone della sua terza fetta di pizza con un’espressione angelica non molto convincente.
Ian assottigliò lo sguardo, rendendolo abbastanza appuntito da perforare il titanio, ma non commentò, e Tony accolse di buon grado il richiamo provvidenziale di Bruce, che, dopo essersi trattenuto fino ad allora, si sporse infine verso di lui chiedendogli con fare noncurante i dettagli tecnici dello Starkium. Tony sfoggiò un sogghigno tronfio e gli fece cenno di spostarsi vicino a lui, così da non dover gridare formule e teoremi da una parte all’altra del tavolo affollato.
Doveva ammettere che, in fondo, molto in fondo, la serata non gli stava dispiacendo. Si era quasi dato alla fuga quando, di ritorno da Los Angeles dopo aver sistemato con Kyle i suoi ultimi inconvenienti legali, si era ritrovato mezzo quartier generale dei Vendicatori in casa – oltre a una quantità esagerata di festoni rosso-oro, una mole di cibo in grado di sfamare un esercito, e una pioggia di coriandoli che l’aveva investito non appena varcata la porta della villa.
Pepper l’aveva riagguantato tempestivamente per un orecchio, Happy aveva chiuso a chiave la macchina, e Rhodey gli aveva tagliato ogni via di fuga. Tony si era lasciato trascinare docilmente a capotavola solo perché era rimasto imbambolato nel vedere il vestito verde che indossava Pepper, che aveva il potere mistico di inibirgli la facoltà decisionale.
Ma, dopotutto, non gli stava dispiacendo così tanto, nonostante l’astio malcelato per il proprio compleanno – o forse proprio perché per una volta sentiva di aver più di un valido motivo per festeggiarlo. Per esempio, la possibilità di poterlo festeggiare.

E tra un brindisi, un applauso, un finto singolar tenzone con Nat, una gara di bevuta – persa – con Thor, un letterale braccio di ferro – in pareggio – con Cap, un bacio sovrappensiero a Pepper che aveva scatenato un’ovazione collettiva, e un quasi-infarto nel ritrovarsi persino Fury e Coulson alla porta, il pomeriggio era trascorso rapido, accompagnato dalla parabola variopinta del sole calante che si tuffava nell’oceano.
Adesso, anche se teneva per principio il broncio con Pepper, avrebbe voluto prolungare quei momenti, col timore nascosto che potessero sfuggirgli, o che fossero solo un sogno un po' troppo vivido; erano dubbi che gli covavano nel cuore, ma che per quella sera tenne a bada, soffocandoli nelle loro braci.
Rischiò seriamente di perdere la sua dignità superstite quando, verso le undici, gli fu piazzata sotto il naso una torta panna e fragole di dimensioni mastodontiche – con gioia sua e disperazione completa di Pepper – sommersa di candeline e accompagnata da un pacchetto rosso-oro sospetto, consegnato da Nataša “da parte della boy-band”. Cercò di rimandare il momento di scartarlo, meditando di farlo in privato, ma lo sguardo intimidatorio della donna lo convinse a cedere per evitare gravi contusioni. Mascherare l’emozione che gli avviluppò la gola nell’aprirlo si rivelò uno dei compiti più ardui che avesse mai dovuto affrontare, ma mantenne un aplomb impeccabile nel rivelare una cornice dello stesso rosso dell’armatura, firmata con un pennarello dorato dai Vendicatori. Racchiudeva la foto che aveva mandato allo SHIELD, quella che sembrava ormai una vita fa, quando si era messo in piedi per la prima volta, sorridente e vittorioso. Era riuscito a ringraziare solo con un cenno del capo, rimanendo immobile per quasi un minuto intero, per poi decidersi a stringere la mano a Steve e Clint, dare una vigorosa pacca sulla schiena a Bruce e rifilare un abbraccio a tradimento a Nat, per poi negare strenuamente ogni suo coinvolgimento emotivo.

Fu verso mezzanotte che si decise infine a mettere in atto il piano incompleto che aveva provveduto ad architettare in quei giorni, spronato anche da quel regalo imprevisto.
Reclamò l’attenzione di tutti battendo una forchetta contro il proprio bicchiere e tutti rivolsero la testa verso di lui, in un misto di curiosità e sorpresa. L'euforia ormai quasi dimenticata di trovarsi sotto i riflettori lo investì di nuovo, piacevolmente. Si esibì in un sorriso placido, attendendo che il chiacchiericcio sfumasse, per poi schiarirsi la voce e iniziare a parlare:
«Dunque, tenendo conto del fatto che mi avete sequestrato contro la mia volontà, e che avete occupato illegalmente la mia villa…»
Un coro di proteste indignate si levò dai suoi ospiti, e si affrettò a continuare:
«… ritengo doveroso dirvi che tutto ciò è uh… dirvi che è stato… inaspettato e sorprendentemente piacevole,» disse in fretta, decidendosi a togliersi quel ridicolo cappellino sotto lo sguardo truce di Rhodey.
«Bastava un grazie, Stark!» gli gridò Steve dal fondo del tavolo.
«Non è un “grazie”!» protestò lui, sentendosi d’un tratto accaldato. «È un… un semplice riconoscimento per…»
Tony s’interruppe in un secco sospiro, rimediandosi qualche occhiata divertita, e notando quelle pungenti di Pepper che sembravano pungolarlo metaforicamente.
«È un grazie,» disse infine, con un sorriso incerto.
Fu un bene che la maggior parte dei presenti avesse un udito superiore alla norma, o quella frase pronunciata a mezza voce si sarebbe potuta perdere nello scroscio della risacca.
«Dobbiamo segnarlo sul calendario come “il giorno in cui Tony Stark disse grazie”?» ironizzò Nat, impassibile se non per l’angolo delle labbra inclinato furbescamente.
Tony alzò l’occhio al cielo, mangiandosi una decina di risposte sagaci e allargando le braccia con fare sconfitto, a dire di procedere come meglio credevano, per poi riprendere:
«Comunque… tutto ciò è stato piuttosto… inaspettato, e non mi piace molto dover rivedere i miei piani, ma in questo caso farò un’eccezione, visto che sono bravo a improvvisare,» sogghignò, attivando uno dei proiettori olografici esterni tramite JARVIS. «Chi si offre volontario?» li invitò poi, godendosi le loro espressioni perplesse, in particolare quella di Pepper, anche lei all’oscuro di tutto. «Nessuno? Bene, allora scelgo io,» dichiarò fermamente. «Partiamo da lei, Agente.»
Si alzò in piedi e indicò col bastone da passeggio Coulson, che quasi sbarrò gli occhi.
«Io?»
«Visto che ho il sospetto che Audrey ce l’abbia ancora con me per la faccenda delle uh… vacanze interrotte, ho pensato che magari potevate aver voglia di farvene una… che so, alle Bahamas?» buttò lì, suscitando un’espressione basita sul suo volto quando il file digitale di due biglietti aerei si materializzò nell’ologramma.

Prima che lui potesse replicare, e vedendo che lampi di comprensione iniziavano a balenare sui volti dei presenti, si affrettò a continuare, stavolta sorridendo apertamente:
«Miss Russia,» chiamò, indicando Nat, «per te ho qualcosa di più pratico. Non ho avuto il tempo di ultimarla fisicamente, ma…» l’ologramma cambiò, mostrando il modello di una tuta stealth su misura, completa di accessori letali, e la spia rimase a metà tra un’esternazione di stupore e una di vivo interesse per quel regalo che incontrava decisamente i suoi gusti.
«Carina, ha anche lo spray al peperoncino incorporato?» commentò infine, sorridendo maligna.
«Possiamo aggiungerlo,» le accordò Tony con un occhiolino, spostando poi il bastone in direzione di Barton. «Guglielmo Tell, ti ho rifatto il corredo, prego, non c’è di che,» annunciò, mostrando un altro progetto, stavolta di un arco hi-tech con frecce abbinate, e quasi poté vedere gli occhi di Clint che sbrilluccicavano, con un cenno d’assenso soddisfatto e grato nella sua direzione.
A quel punto, la cosa sembrava essersi trasformata in uno spettacolo di varietà, con Tony che faceva da conduttore e loro che attendevano trepidanti il proprio turno in quel gioco a premi improvvisato.
«Brucie,» continuò Tony con voce più acuta del normale, pescando il “partecipante” successivo, che quasi rimpicciolì nel sentirsi chiamare. «Devi sapere che sono rimasto traumatizzato dalla tua totale mancanza di pudore quando il tuo amichetto verde decide di arrabbiarsi, quindi…» L’ologramma sfarfallò, e mostrò quello che a prima vista sembrava un normalissimo paio di pantaloni. «Sono in fibra di titanio elastica, e dovrebbero resistere a Hulk e preservare la tua dignità in ogni circostanza,» lo punzecchiò, mentre lui assumeva un colorito fortunatamente porpora e non verdastro, poi sbottare in una risatina imbarazzata.

«Tony, sei il peggiore,» commentò infine, con un sospirò bonario, mentre lui già proseguiva con un ghigno:
«Point Break, non ho idea di cosa si regali a un dio asgardiano,» esordì, e il dio in questione lo scrutò interessato, per poi accigliarsi profondamente nello scorgere la proiezione di quella che sembrava, e indubbiamente era, una tavola da surf. «Quindi… uh, mi perdonerai la poca fantasia,» concluse, trattenendo l’ilarità nel vedere il cipiglio perplesso di Thor, che come sospettava non aveva ben colto l’utilizzo di quell’aggeggio midgardiano.
«Grazie, Stark, farò buon uso di questa nobile arma!» dichiarò poi, con voce roboante e senza esitazione, e stavolta anche gli altri soppressero una risata.
«Rhodey,» riprese Tony, voltandosi verso l’amico senza celare del tutto l’affetto che gli illuminò lo sguardo, e lui incrociò le braccia in attesa, sforzandosi di mantenersi impassibile. «Il tuo non è un vero e proprio regalo,» esordì, facendogli aggrottare le sopracciglia. «E diciamo che non c’è più bisogno di sostituire Iron Man, perché, beh...» Tentennò appena e tamburellò soddisfatto le dita sul nuovo reattore. «Perché sono un genio e ho risolto il problema. Ma, magari, non ti dispiacerà tenere War Machine e farmi da stuntman mentre mi rimetto in sesto,» concluse in fretta, lasciandolo a bocca aperta, esterrefatto.
Tony gli rivolse un sorriso raggiante, prima di rivolgersi verso il successivo "vincitore":
«Happy, non mi sono dimenticato: per te c'è quella Rolls Royce d'epoca che mi chiedi di poter guidare da circa quindici anni, fanne ciò che vuoi,» lo invitò, lanciandogli le chiavi dall'altra parte del tavolo.
Il suo autista le agguantò al volo per un pelo, con un sorriso estasiato a illuminargli il volto arrossato da un paio di bicchieri di troppo.
«E tu, Barbanera,
» Tony girò sui tacchi, piantando l'indice verso di lui con fare minaccioso. «Ce l’hai davanti, il tuo regalo!» esclamò poi, indicandosi con un sogghigno compiaciuto e suscitando l’ilarità generale.
Fury alzò l’occhio al cielo, ma soffocò un accenno di sorriso che distese il suo volto costantemente corrucciato.
«E con questo, direi che abbiamo… oh,un momento!» Tony s’interruppe, frugando nella tasca interna della giacca ed estraendo ciò che aveva recuperato di soppiatto assieme alle chiavi, in uno dei rari attimi in cui era riuscito a svicolare via.
Si avvicinò a Rogers, che lo fissò perplesso, evidentemente non aspettandosi di venire incluso nei ringraziamenti. Quando fu a portata di braccio, gli tese la foto con suo padre e Peggy che aveva trovato nello scatolone dello SHIELD. Vide i suoi occhi chiari dilatarsi per lo stupore, e poi farsi un po’ lucidi mentre prendeva con delicatezza la foto tra pollice e indice, quasi avesse potuto sgretolarsi sotto il suo tocco.
«Ce ne sono altre, circa una ventina… magari uno di questi giorni vieni a darci un’occhiata,» buttò lì Tony con un sorriso gentile, tentando di trarlo d’impaccio.
Steve annuì, deglutendo un po’ rumorosamente.
«Grazie, Stark,» gracchiò, incontrando brevemente il suo sguardo per poi fissarlo di nuovo, annebbiato, sulla foto.
Tony gli rivolse un cenno del capo, poi si discostò da lui tornando a capotavola, ma rimase in piedi, imbastendo un’aria pensosa.
«Dicevo che adesso abbiamo finito coi ringraziamenti…» Fece una pausa a effetto. «Quindi, direi di passare ai ringraziamenti speciali,» concluse, guardando in successione Ian, Kyle e infine Pepper, che prevedibilmente arrossì nel sentirsi tirare in causa.

«Dottor Ian Mitchell,» iniziò, con fare un po’ pomposo stemperato da un timbro faceto.
Questi si raddrizzò sulla sua sedia, quasi sull’attenti.
«Per la dedizione, la professionalità e l’impegno che ha avuto come mio medico, per l’umanità, la disponibilità e la pazienza dimostrati come amico, e per essersi impegnato attivamente nell’impedirmi di fare stronzate per più di un anno e mezzo…» Ian scosse la testa con fare imbarazzato, agitandosi sul posto, «… le comunico personalmente la sua promozione a consulente generale del dipartimento biomedico delle Stark Industries e a capo ricercatore del Progetto Phoenix,» concluse, avviando lui stesso l’applauso, che risuonò subito corposo sulla terrazza illuminata, riecheggiando sulle onde festose dell'oceano.
Osservò l’espressione basita del medico, che si stava sforzando inutilmente di elaborare una risposta sensata, finendo solo per boccheggiare a vuoto, vinto dall’emozione che lo costrinse a togliersi gli occhiali appannati mentre Kyle gli dava una vigorose pacche di congratulazioni sulla spalla.
«Oh, la smetta con la pantomima,» lo riprese bonario Tony, quando lo vide addirittura voltare le spalle agli altri per ricomporsi.
«Lo sanno tutti che, sotto sotto, ha un cuore d'oro,» concluse ammiccando.
«Non lo dica troppo in giro,» replicò Ian, burbero come sempre, ma con occhi luminosi e caldi.
Tony spostò il peso da un piede all’altro, picchiettando a terra col bastone e tirando un grosso respiro per prepararsi all’annuncio successivo, che gli avrebbe probabilmente fatto perdere il poco contegno che era ancora riuscito a mantenere.
«Avvocato Kyle Andrews,» lo richiamò, con voce piena, e lui lasciò perdere Ian voltandosi di scatto, con un respiro visibilmente bloccato in gola.
Tony fece un sorriso scaltro, passandosi il bastone da una mano all’altra ad aumentare la suspense, e prima ancora di iniziare a parlare, lo vide sgranare gli occhi in un moto di comprensione.
«So che ci ho messo più tempo del previsto…»
«Oddio,» esalò subito Kyle, portandosi le mani a coprire bocca e naso, e Tony sorrise, avvicinandosi di un paio di passi.
«… e che ci sono stati un paio di imprevisti strada facendo…» continuò, con fare vago.
«Oddio,» ripeté Kyle, stavolta con voce udibilmente spezzata.
«… ma una promessa è una promessa,» concluse Tony, mentre l’ologramma dietro di lui cambiava a un suo cenno.
Kyle liberò un’acuta esclamazione di pura felicità che quasi lo assordò nel vedere il progetto completo dei suoi tutori galleggiare a mezz’aria, accompagnati dalla foto del prototipo che Tony aveva testato in quella settimana, quando era finalmente riuscito a sfruttare le potenzialità dello Starkium a lavorare a mente libera su quel progetto.
«Stark,» singhiozzò Kyle, tra le lacrime di gioia che non si stava neanche curando di trattenere o nascondere. «Vieni subito qua,» gli intimò, facendogli un cenno con la mano e riuscendo a formare un sorriso sbilenco con le labbra tremanti.

Tony eseguì, mentre attorno a loro partiva un altro applauso avviato da Ian, che a questo punto aveva a sua volta due scie umide a solcargli le guance e si stava di nuovo stropicciando gli occhi da sotto le lenti, mandando all'aria ogni presunto tentativo di compostezza. Non appena si accostò a Kyle, Tony fu inglobato in un abbraccio spaccaossa, con un’energia impensabile per un corpo così gracile.
«Grazie, Stark,» disse il ragazzo, con un altro singhiozzo. «Grazie, grazie, grazie,» continuò a ripetere, aumentando ancora la stretta, e Tony ricambiò, lieto che stesse dando le spalle agli altri così da camuffare la propria emozione.
«Grazie a te, K,» replicò, dandogli una lieve pacca sulla schiena.

Si separarono con fare impacciato, Kyle paonazzo come non mai e Tony con una maschera molto poco convincente stampata in faccia. Incontrò di sfuggita lo sguardo di Pepper, anch'esso luminoso e irradiato di gioia come quello dei presenti, ma le parole che per una volta si era preparato si rifiutarono di uscire, troppo intime e sentite per essere pronunciate in pubblico come aveva programmato. Le rivolse un sorrisetto di scuse, e lei si limitò ad annuire discretamente, capendo come sempre senza bisogno di parole.
«Direi che un brindisi è d’obbligo!» esclamò invece, riempiendo il silenzio, e si allungò a recuperare il proprio bicchiere, indirizzandolo verso Kyle, Ian, e poi il resto degli ospiti, senza però staccare gli occhi da Pepper.

Prima di poter dire altro, fu Thor ad alzare il proprio bicchiere, rivolgendolo verso di lui con un gesto solenne.
«All’uomo di ferro!» tuonò, subito imitato dagli altri, e Tony sussultò sul posto, guardandosi attorno quasi spaesato, con quel calore appena sbocciato nel petto che prendeva a fiorire, più intenso, nel vedere i bicchieri di tutti che si levavano verso di lui.
Si ancorò agli occhi di Pepper, in cerca di un punto fermo che permettesse ai suoi pensieri in tumulto di ritrovare un ormeggio e un ordine logico, per poi scoprire di non volerlo fare, di volersi abbandonare a quella giostra di emozioni che lo rintronava piacevolmente, a quelle ondate di gioia ed esaltazione che gli si abbattevano nel petto mozzandogli il respiro e donandogli poi ossigeno, soffocando del tutto le voci maligne e deboli in sottofondo.
Non si riconosceva quasi più, ma allo stesso tempo non si era mai sentito così puramente se stesso da più anni di quanti riuscisse a contare. Era cambiato, o forse era solo riuscito a dare risposta alle mille domande che avevano continuato ad affollarsi nella sua testa e che aveva sempre scelto di ignorare.
Portò una mano al reattore; un’ancora salda, conosciuta, tiepida sotto le sue dita.
“Hai una famiglia?”
Con una traccia di malinconia a inclinargli le labbra, considerò uno ad uno i presenti, lasciando che i suoi occhi includessero ognuno di loro, venuti a festeggiarlo mentre sorridevano a lui, per lui.
Sorrise loro di rimando e alzò a sua volta il bicchiere, accettando il brindisi, accettando la vittoria, accettando se stesso.
Mentre beveva, spostò fugacemente lo sguardo al cielo ormai indaco, punteggiato dalle prime, timide stelle affacciate sul mare, e sorrise. 
Forse ci aveva messo un po’ più del previsto, ma aveva finalmente una risposta a quella domanda.

 

***

 

30 Maggio, Villa Stark

Era l’una e mezza passata quando anche Nataša, Steve e Bruce si congedarono dalla villa, dopo aver aiutato lui e Pepper aiutati a rimettere un po’ d’ordine e aver strappato loro la promessa di farsi rivedere presto al quartier generale.
Tony rimase ancora in terrazza, godendosi l’aria fresca della sera e il mormorio quieto delle onde. Aspettava Pepper poggiato di schiena sul parapetto, sapendo che lei non avrebbe tardato a raggiungerlo; e infatti, dopo pochi minuti uscì a sua volta, ancora col vestito verde addosso. Lui non disse nulla, lasciando che fosse il suo sguardo ammaliato a parlare, offuscato da ricordi onirici, e suscitò in lei un sorriso timido e una sfumatura rossa che le oscurò le lentiggini.
Si avvicinò a lui, cingendogli poi la vita, e gli posò un bacio sulla guancia.
«Ammetto che un po’ mi è piaciuta,» disse lui, con un piccolo sogghigno.
«Non l’avrei mai detto,» replicò Pepper, con aria saputa e chiaro compiacimento.
«Non montarti la testa,» la riprese lui, con uno sbuffo divertito.
«Da che pulpito…» lo mise a tacere lei, alzando gli occhi al cielo e poggiandosi contro di lui. «Alla fine, sei stato tu a sorprendere noi,» commentò dopo qualche secondo, con voce serena.
«Sì, di solito ci riesco bene,» replicò lui, sornione, chiedendosi se ci sarebbe riuscito anche con lei.
Si lasciò stringere ancora un poco, cercando di ripescare ancora una volta le parole che prima non erano arrivate, e ancora quelle sembrarono ritrarsi, schive come animali impauriti. Infine, la scostò appena da sé, senza però guardarla direttamente.
«Girati,» le disse, a bassa voce.
Lei corrugò le sopracciglia, con gli occhi accesi di curiosità, ma eseguì, porgendogli le spalle lasciate scoperte dal vestito e punteggiate di delicate efelidi. Tony si affrettò a frugare nella tasca interna della giacca, riuscendo ad afferrare la sottile catenina argentata sul fondo; sistemò al centro il ciondolo, le scostò con dolcezza i capelli sciolti e le fece passare il gioiello attorno al collo esile, agganciandolo con qualche difficoltà. 
Lei trasalì appena nel sentire il metallo freddo contro la pelle. Voltò appena il capo con fare sorpreso, per poi puntare lo sguardo sul ciondolo, una piccola goccia azzurrina adagiata tra le sue clavicole, e sfiorarlo con la punta delle dita.
Tony le si accostò, poggiando il mento sulla sua spalla e sollevando a sua volta il ciondolo tenendolo tra pollice e indice.
«Quello al centro,» spiegò, a un soffio dal suo orecchio, indicando la parte centrale della goccia, di un blu profondo e cangiante che ricordava un cielo stellato. «È vibranio grezzo. Era nello studio di mio padre e… beh, ho pensato che, simbolicamente parlando, sarebbe stato più elegante di… di una semplice chiave,» concluse, ringraziando il fatto che Pepper non potesse vederlo in faccia. «Quello attorno,» continuò, stringendola un poco a sé e passando il dito sulla cornice più chiara, dello stesso colore del reattore arc, «è Starkium e… sarebbe...insomma, non te lo devo spiegare,» concluse, in fretta e chiedendosi se non avesse esagerato coi simbolismi.
Pepper rimase in silenzio, accarezzando la superficie del ciondolo che aveva modellato di nascosto in quei giorni, sfruttando la sua scarsa abilità di orefice riuscendo a trarne qualcosa di almeno esteticamente gradevole. Non era comunque quella la parte più importante, e rimase col fiato sospeso ad attendere la reazione di Pepper.
Lei si girò piano, quasi con cautela, e lo guardò con occhi liquidi, messi in risalto dal colore della collana. Gli posò una mano sul petto e incontrò infine e sue labbra in una carezza lenta, coinvolgendolo in un bacio delicato ma intenso in ogni movimento congiunto delle loro labbra, tanto che quando si separarono erano entrambi senza fiato.
«È bellissimo,» sussurrò lei, con un filo di voce e un sorriso pieno che le illuminò gli occhi.
Tony sorrise, mostrandosi compiaciuto e tirando internamente un sospiro di sollievo, osservando Pepper che stringeva di nuovo il ciondolo con dita quasi tremanti.
«E non è finita qui,» mormorò lui, sollevando un sopracciglio con fare impertinente e attirando di nuovo la sua attenzione. «Il Cipriani ci aspetta,» rivelò poi, suscitando un’espressione scioccata sul volto di Pepper.
«Sul serio?» riuscì a dire, incredula. «A…»
«… a Venezia, sì. Ho pensato che, per una volta, me lo sono meritato,» scherzò poi, scostandole una ciocca dal volto senza volersi addentrare in discussioni troppo cupe.
Lei però non lasciò correre e gli prese il viso tra le mani, a sottolineare la sua assoluta serietà con quel gesto che compiva ancora di rado.
«Ti sei meritato tutto ciò che hai adesso, Tony,» dichiarò perentoria, senza distogliere gli occhi dai suoi. «E non voglio più tornare sulla questione,» concluse, a metà tra il serio e il faceto, lasciando intendere che, se mai avesse voluta, sarebbe sembra stata pronta ad ascoltarlo.

Lui annuì appena, scoprendo che quelle parole non gli causavano più un rifiuto viscerale ma, anzi, un senso di soffusa contentezza, come di un lavoro portato a termine dopo molto tempo e molti sforzi. Abbassò lo sguardo, confuso da quella sensazione e dallo sguardo che gli stava rivolgendo Pepper.
Pensò che era grazie a lei se era lì, ma che era per lei che voleva esserci, e la confusione che gli aleggiava in testa prese contorni più morbidi e piacevoli, conosciuti, legati a doppio filo a quel punto tra il reattore e il cuore che adesso lo scaldava più che mai. Forse, da qualche parte tra l’accettare di essere amato e il lasciarsi amare, aveva imparato ad amare lui stesso.
«Stai bene?» mormorò Pepper nel vederlo pensoso, accarezzandogli le spalle.
Tony posò le labbra sulla sua guancia, sfiorandole le ciglia, e inspirò a fondo contro la sua pelle inalando il suo profumo. Lasciò che gli solleticasse i polmoni: brezza marina, un sentore primaverile, una nota floreale di giglio. Sapeva di casa, già da molti anni. 
Le scostò la frangia dal volto con un dito metallico, sorridendo a fior di labbra nei suoi occhi.
«Sì.»

 

***

 

 

Tre mesi dopo, Malibu Beach

Il mare era calmo, e si trascinava pigramente sulla spiaggia dorata di Malibu, dipingendola di effimere pennellate più scure in un moto continuo di spuma. Soffiava un vento leggero, fresco e carico di salsedine che pizzicava i polmoni.
Tony si stiracchiò, allungando le mani verso il cielo terso, appena tinteggiato dalle dita rosate dell’alba, e si sollevò sulle punte dei piedi sentendo i muscoli che si contraevano piacevolmente nell’aria frizzante del primo mattino. Si rilassò di colpo, affondando coi talloni nella sabbia e prendendo a trafficare con lo smartwatch al polso, impostando una sveglia da lì a un’ora, quando sarebbe rientrato alla villa per fare colazione con Pepper. Lanciò un’occhiata all’edificio, sbirciando verso la vetrata della camera da letto, ma da quell’angolazione non riuscì a scorgere l’interno; un sorriso andò comunque a distendergli le labbra al pensiero di come stesse ancora dormendo placidamente quando era uscito.
Riportò lo sguardo alla distesa di piccole dune dorata di fronte a lui, individuando in lontananza i piccoli dolmen di rocce che aveva eretto nei giorni precedenti, a segnare il traguardo raggiunto di volta in volta in quell’esercizio mattutino. Puntò l’ultimo, con le mani piantate sui fianchi mentre prendeva un respiro profondo, molleggiò un paio di volte sulle gambe e mosse il primo passo, dandosi la spinta per spiccare in una corsa leggera.
Si sforzò di non pesare troppo sul lato destro, cercando di equilibrare il movimento più rigido della protesi con quello naturale dei muscoli veri, e dopo qualche decina di metri riuscì a renderlo più fluido, sebbene non perfetto. Ma la protesi rispondeva con prontezza, priva dei difetti che l’avevano tormentato fino a poco tempo prima, e lui riusciva a correre. All’inizio era stato solo per qualche metro, in palestra e sotto lo sguardo attento di Nataša, e via via in modo sempre più sciolto sul tapis roulant, fino al giorno in cui aveva deciso che, perché no, poteva anche correre in spiaggia, e aveva raggiunto il traguardo di un chilometro. Era allora che gli era venuta l’idea dei dolmen: una sorta di mèta fisica che lo spingeva a fare sempre meglio, con l’obiettivo finale di Iron Man che sembrava attenderlo a braccia aperte alla fine di quella gara contro se stesso.

Sentì il solito indolenzimento che lo coglieva al moncherino, spia di quanto a lungo poteva correre prima di risentirne, e lo tenne sotto controllo senza lasciarsi fermare, cadenzando il respiro e lasciando che il proprio corpo si abituasse a poco a poco allo sforzo prolungato. Superò il primo dolmen e accelerò un poco il ritmo, coi piedi che affondavano saldamente nella sabbia, lasciando una chiara scia dietro di sé.
Aumentò ancora la velocità e continuò a correre, col vento in faccia, l’oceano che gli lambiva le caviglie e lo sguardo puntato all’orizzonte. 
E anche senza armatura, sentì di poter spiccare il volo da un momento all'altro.

 

~ Fine ~




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Note Dell'Autrice:

Cari Lettori,
stento a credere che questo giorno sia davvero arrivato, e che io stia davvero pubblicando l'ultimo capitolo di questa storia, dopo sette anni dalla sua pubblicazione.
Non penso che riuscirò a elaborare dei pensieri coerenti rispetto a quest'ultimo capitolo, né credo di volerlo davvero fare. È imperfetto, è sicuramente troppo lungo, è la summa di tutto ciò che è successo nella storia e ho voluto fosse così. Forse, in realtà non lo so, è un lieto fine inatteso, visto l'angst dilagante che ci ha sempre accompagnati... ma credo sia il finale giusto, per questa storia, ma tutto ciò che ha portato fin qui verrà esplicato nell'epilogo. Ora sono troppo occupata a piangere :')

E a questo proposito, l'epilogo è una semplice appendice, uno sfizio personale e un mezzo per tirare qualche filo rimasto in sospeso... oltre che un modo traverso per inserire delle note più esaustive e molto, molto corpose.
Ma Phoenix di fatto finisce qui, con Tony che si slancia verso un futuro che può finalmente guardare e raggiungere.

Ringrazio dal profondo del cuore _Atlas_ (sperando che non venga colta da infarto nel vedere l'aggiornamento), T612, FFDisk e Calipso19 per aver commentato lo scorso capitolo, e tutti, ma proprio TUTTI coloro che hanno commentato la storia e l'hanno aggiunta tra i preferiti/ricordate/seguite, o hanno semplicemente letto in silenzio. Che seguiate da anni o da ieri, questo è il momento per farmi sapere cosa ne pensate: del capitolo in sé, della storia, del finale, se la lettura vi ha trasmesso o meno qualcosa... e in fondo l'aspetto che ritengo più importante è proprio quest'ultimo. Fatevi avanti, non importa come <3

Vi aspetto prossimamente con l'epilogo, che credo sarà più strappalacrime nelle note che nella storia in sé :')
Un abbraccio enorme a tutti voi che avete seguito fin qui. Grazie di cuore <3

-Light-

P.S. 
C'è molto, forse troppo simbolismo sparso nel testo, e numerosi richiami ai capitoli precedenti, alcuni, me ne rendo conto, non immediati. Quindi se doveste avere dubbi chiedete pure :)
 

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Capitolo 52
*** Epilogo - Phoenix ***


 

“There’s a crack
A crack in everything
That’s how the light gets in”

Anthem – Leonard Cohen

 

 

 

Epilogo

 

Phoenix

 

 

 

"I've been too long, I'm glad to be back
Yes, I am let loose from the noose
That's kept me hanging about
I kept looking at the sky cause it's gettin' me high
Forget the hearse ‘cause I'll never die!"

 [Back In Black – AC/DC]

 

 

 

 

 

Marzo 2012, Stark Tower, New York
«Ehi! Così non vale!»
«E chi lo dice?»
«Le regole!»
«Uh, non sono mai stato un asso a seguirle, dovresti saperl–»
«Ah! Preso!»
Tony barcollò all’indietro, sbalzato dal colpo attutito che l’aveva raggiunto sulla mascella, e abbassò la guardia dei guantoni con un mezzo sorrisetto.
«Ok, ok, Ali, questa la vinci tu,» concesse a Happy, che stava esibendo un ghigno trionfante al centro del ring mentre si liberava del casco imbottito e del paradenti, ansimando come un mantice.
Tony si spostò al suo angolo,  togliendosi i guantoni e attaccandosi poi con gusto alla borraccia d’acqua fredda ignorando il rischio di una congestione. Si tamponò la fronte madida con un panno, mentre recuperava il telefono dal borsone, e vide la spia di una notifica lampeggiare con insistenza. Sbloccò lo schermo, indovinando senza troppe difficoltà i mittenti dei due messaggi ancor prima di leggerli: 

Stark, la Bronx Expressway è un inferno, arrivo con un’ora di ritardo. K.

Appuntamento confermato per martedì prossimo. Si ricordi di testare gli ammortizzatori nuovi. E MI CHIAMI se ci sono problemi. Doc. 

Tony represse una risatina al tono minaccioso dell’ultimo messaggio, e invece di chiamarlo si limitò a inviargli un selfie in tenuta da boxe, mettendo bene in mostra la protesi anteriore nuova, illesa e perfettamente funzionante. Il silenzio dall’altro capo gli sembrò una risposta sufficiente, e fu contento di aver sedato le ansie del suo medico di fiducia. Inviò poi una breve replica a Kyle dicendogli di non preoccuparsi, e che al massimo si sarebbero visti direttamente al ritorno dalla sua missione.
Spense lo schermo e cacciò il telefono nella tasca dei pantaloncini, districandosi poi oltre le corde del ring dopo aver lanciato un cenno di saluto a Happy, ancora troppo intento a riprendere il fiato per continuare il discorso sulla differenza tra boxe e kickboxing, e quanto fosse regolare sfruttare la protesi come perno snodabile per rifilargli una ginocchiata.

Dopo una rapida doccia, sfruttò il breve tragitto in ascensore per verificare, grazie ai sensori di JARVIS, se le protesi avessero subìto qualche danno durante l’allenamento un po’ movimentato, ma la scansione non rilevò nulla di preoccupante. Arrivato nell’attico, si trovò a sorridere nel vedere la chioma ramata di Pepper spuntare da dietro lo schienale del divano.
«Happy è ancora vivo?» gli chiese, sentendo il trillo dell’ascensore.
«Lo sapremo tra qualche ora,» rispose Tony, vago, e rimediandosi un’occhiataccia. «Sta bene, sta bene, abbiamo solo delle divergenze d’opinioni sulla boxe,» scherzò poi, avvicinandosi al divano per poggiarle le mani sulle spalle.
Accettò il bacio sulla guancia, ma si accigliò un poco, facendo aderire meglio i palmi alla sua pelle.
«Hai la febbre?» chiese, perplesso.
«No, non direi,» replicò lei, alzando le sopracciglia, e Tony sospirò.
«Allora si è sballato di nuovo il sensore termico,» concluse, ritraendo la mano artificiale. «Sarà stata colpa dei pugni. Devo ancora calibrarlo,» spiegò poi, con una scrollata di spalle.
Pepper sorrise, posandogli un altro bacio sul mento.
«Però mi sembra che tu stia facendo progressi,» lo incoraggiò, guardandolo dal basso.
«Almeno non prendo più la scossa,» ridacchiò lui, rimanendo poggiato allo schienale con gli avambracci.
Pepper si voltò del tutto verso di lui, stringendogli i polsi.
«Tra quanto parti?»
«Mezz’ora, più o meno, il tempo di sistemare e mettere l’armatura,» replicò lui con leggerezza, ignorando la stilla di preoccupazione che tingeva la voce di Pepper in quelle occasioni e impegnandosi per dissiparla. «Oh, Kyle è bloccato sulla tangenziale. Così dice, almeno, ma secondo me ha di nuovo rotto il freno,» non si trattenne dall’aggiungere, rimediandosi un prevedibile scappellotto. «Su, anch’io ho avuto qualche difficoltà a dosare la potenza, all’inizio,» si difese, sogghignando e strappando anche a lei un sorrisetto.
«Vai a prepararti, piuttosto, non ho intenzione di sentire un’altra delle sfuriate di Fury,» lo incitò invece, cercando di adottare un tono indifferente.
«Sissignora,» cedette lui, lasciandole un bacio sulle labbra.
Si avviò verso la piattaforma d’atterraggio esterno e batté due volte le mani, facendo subito sbucare la Mark VII da una pedana nascosta. Staccò i bracciali dai polsi dell’armatura per assicurarli i suoi, e ne percepì il lieve ronzio quando si attivarono, confermando il loro funzionamento. Tra il vento sostenuto che spazzava le cime dei grattacieli e il trambusto del traffico cittadino, non si accorse di Pepper finché non gli arrivò accanto, visto che si era avvicinata dal lato cieco; sobbalzò appena quando gli posò una mano sulla schiena. La rassicurò con un mezzo sorriso e prese a revisionare rapidamente l’armatura, assicurandosi che soprattutto il braccio e la gamba destra fossero in perfette condizioni.
«Quindi? Cosa dovete fare?» si decise a chiede Pepper, probabilmente dopo aver soppresso quella domanda per giorni interi.
Tony si prese un momento per rispondere, dando una schicchera distratta sulla placca frontale dell’elmo.
«In realtà non sono stati molto chiari, ma dovrebbe essere ordinaria amministrazione,» confessò, con una scrollata di spalle noncurante. «Sembra che il fratellino di Thor abbia dato di matto rubando il giocattolo alieno preferito di Fury per conquistare il mondo… lo sai come sono gli dèi: volubili, delle dive con manie di grandezza…»
«Sicuramente tu lo sai meglio di me.»
«Io non sono...»
«Prima di dire qualunque cosa, ricordati che sotto di noi c'è un'insegna di sei metri col tuo nome sopra.»

Tony scosse la testa, cedendole il punto con uno sbuffo prima di riprendere il discorso:
«
Sarà come un pigiama party tra amici, probabilmente finiremo per annoiarci a morte e guardare qualche film strappalacrime suggerito da Cap mentre aspettiamo che i miei sistemi di sicurezza facciano il loro dovere.»
«Prendi il tuo incarico molto sul serio.»
«Non si vede?» sogghignò lui, facendo scattare i flap posteriori della Mark, che reagirono all’istante.
Concluse che fosse tutto in ordine; avrebbe solo dovuto compiere un breve volo di verifica prima di fare rotta verso la posizione attuale dell’Helicarrier – e rassegnarsi a sorbirsi le escandescenze di Fury per un nonnulla.
«Ti senti bene?» chiese a quel punto Pepper, senza preavviso e strappandolo ai suoi pensieri.
Tony tirò su col naso, prendendo tempo controllando un deflettore che non aveva alcun bisogno di essere controllato.
«
Le protesi funzionano così bene che potrei tenere testa a Nat in combattimento, non ho nessun tatuaggio al palladio addosso, non sono in tachicardia e se ce la fa Nick a seguire gli schermi con un occhio solo, ce la posso fare anch'io…» concluse, staccando poi un congegno dall’interno dell’elmo e equilibrandolo sull’orecchio, posizionando la lente di fronte all’occhio sano, «… con qualche aiutino.»
Premette un tasto sulla stanghetta del “monocolo” – così l’aveva soprannominato Nataša – e il suo senso della profondità e la visione periferica si ripristinarono, facendolo barcollare appena per quella sensazione che richiedeva sempre un periodo d’adattamento. L’occhio sinistro era irrecuperabile, senza operazioni azzardate, e quello era il modo migliore che aveva trovato per avere un minimo di destrezza quando era fuori dall’armatura. Non che contasse di starci parecchio, ma dopo una missione in cui si era ritrovato ad avanzare senza protezioni, con troppi bernoccoli in testa a forza di calcolare male le distanze, non aveva più intenzione di correre rischi.
«E ci sei tu,» concluse infine, in fretta e senza guardarla. «Non ho bisogno d’altro.»
Stavolta captò il suo sorriso anche se era parzialmente voltato; miracoli della tecnologia.
«Non sei il tipo che si accontenta,» lo punzecchiò lei.
«Magari non mi sto accontentando,» ribatté lui, con un pensiero fugace all’anello sprofondato nella tasca di Happy. «Magari sto… aspettando,» disse, sibillino.
«Non sei neanche un tipo paziente,» lo provocò ancora Pepper, trattenendo un sorriso.
A quel punto Tony si voltò con espressione falsamente offesa.
«Ho aspettato... quanto? Dieci anni? Se non è pazienza questa!» scoppiò a ridere, posandole le mani sui fianchi.
«Quella non si chiama proprio pazienza...»
Pepper si stava ancora sforzando di rimanere seria, ma i suoi occhi ridevano per lei. Tony però storse appena la bocca, un po' contrariato, con un peso aggiuntivo nelle protesi.
«Ho aspettato un po' troppo, eh?»
«Tony, non era un rimprovero.»
Pepper sospirò per la sua permalosità, scrutandolo con occhi limpidi.
«Sono sicuro che un paio d'anni in più di notti insonni insieme non ti sarebbero disp...- Pep! Ahia!» esclamò Tony, massaggiandosi offeso il bicipite dove la compagna l'aveva pizzicato. «Tratta bene il mio braccio superstite,» protestò.

«Neanche un paio d'anni in meno di spazzatura,» continuò lei, con un cipiglio trionfante e vagamente accusatorio.
«Touché sospirò Tony con un sorriso colpevole, e non trovando altre parole la strinse in un abbraccio.
Si concentrò sulla sensazione del suo corpo vicino, e sulla sensazione ancora estranea e bizzarra del suo calore contro il braccio artificiale. Solo un’impronta calda; per il tatto doveva affidarsi ancora alla mano sana, con cui accarezzò una ciocca dei suoi capelli setosi, portandogliela poi dietro l’orecchio mentre affondava il naso nell’incavo del suo collo. Respirò Malibu, nonostante fosse a migliaia di chilometri di distanza, e il traffico sottostante si trasformò per un istante in un moto ondoso che gli cullò i pensieri.
«Mi hai perdonato di peggio,» mormorò poi, muovendo appena la bocca contro la sua spalla.

Pepper si limitò a stringerlo a sé senza contraddirlo, posando le labbra sulla sua clavicola, tra pelle e ferro, e non ebbe bisogno di sensori per percepirle.
«A volte mi chiedo come hai fatto,» si lasciò sfuggire ancora, per poi ammutolire.
Non era preoccupato per la missione; al contrario, non vedeva l’ora di decollare, ma quei momenti sospesi che precedevano la partenza lo lasciavano fragile, facendogli dire più di quanto avrebbe voluto. Un’ombra gli passò nella mente, quella che gli stringeva a volte i moncherini nel cuore della notte e quella che intravedeva ancora a volte nello specchio, sul proprio corpo. Si strinse di più a Pepper, nel tentativo di scacciarla.
«Come sempre,» alzò le spalle lei, inclinando il capo per guardarlo negli occhi, offrendogli la sua àncora con i palmi posati sul suo reattore. «Non te ne approfittare, genio,» lo ammonì quindi con voce gentile, passandogli una mano sulla nuca in una carezza che gli solleticò i capelli.
«Per chi mi prende, signorina Potts?» ridacchiò lui, di nuovo sereno e scostandosi per fissarla in volto.
«Esattamente per quello che è, signor Stark,» ribatté prontamente lei, catturandolo in un bacio che divenne ben presto più profondo, accompagnato dal vento fresco dell’Hudson.
Fu lei a staccarsi per prima, seppur riluttante.
«Tony, devi andare,» dichiarò, in tono affatto convinto.
«Sicura?» la stuzzicò lui, con un mezzo sorrisetto provocante.
«No,» ammise Pepper, e di nuovo la sua voce tradì una punta d’apprensione.
«Ehi, non è la prima volta,» cercò di rassicurarla lui, prendendo un atteggiamento spigliato. «Volo, vinco e torno, e ci saranno Happy, K e il Doc a tenerti compagnia. E poi, anche tu hai una missione,» le ricordò all’improvviso, adesso con un sogghigno e l’indice meccanico sollevato tra i loro nasi.
«Tony, K è adulto e perfettamente in grado…» cominciò lei, alzando gli occhi al cielo.
«Ti ricordo che l’ex di K è Knight,» la interruppe Tony. «Quindi assicurati che questa volta non si sia messo con un narcisista ossessionato dalle camicie hawaiane. L’ultima seduta del Doc è stata più sul tipo nuovo che su di me,» ragionò poi, accigliandosi, e Pepper liberò un sorriso, scuotendo la testa.

«Va bene, indagherò,» gli concesse, lasciandogli un ultimo bacio sulle labbra.
Tony si scostò da lei, si tolse il congegno oculare e salì sulla pedana, lasciandosi avvolgere dall’abbraccio metallico dell’armatura. Saltò giù con una mossa sicura, in un coro di cuscinetti a sfera, sibili e cigolii, e lasciò la placca frontale alzata per guardare Pepper con un sorriso fermo.
«Andrà bene, Pep,» disse, addolcendo lo sguardo e perdendosi in quello fiducioso di lei. «Dopotutto, sono Iron Man,» concluse, con sfrontata sicurezza, e chiuse l’elmo con uno scatto metallico.
Attivò i propulsori, decollando con uno sbuffo di fumo e fiamme, verso il cielo notturno sopra di lui, e si inebriò come sempre della sensazione del volo, così familiare eppure così spiazzante, ogni volta, come se fosse sempre la prima, o l’ultima. La forza del vento sembrò scacciar via i pensieri superflui, scoprendo quelli più reconditi, avvolti sempre in un bozzolo di quotidianità, calore e fiducia, ma non erano più così spaventosi come un tempo.

A volte non riusciva a capacitarsi di come fosse potuto arrivare lì. O di come tutto ciò fosse potuto capitare proprio a lui. Di come tutti quei tasselli si fossero finalmente incastrati al posto giusto; un po' storti, un po' incrinati, ma a formare un'immagine ben distinguibile. A volte aveva paura di sprecare tutto, di gettarlo al vento, di commettere qualche errore stupido o una disattenzione, di vanificare in un battito di ciglia tutto ciò che aveva realizzato e di vederli di nuovo cadere ai suoi piedi, sparpagliati e in disordine, persi.
Temeva di sprecare quella seconda possibilità che gli era stata concessa. A pensarci bene, forse non era esattamente la seconda. C’erano già quelle donategli da Yinsen e Pepper, che aveva sfruttato al meglio, rialzandosi ogni volta più alto, con o senza armatura. E forse anche suo padre, a modo suo, gli aveva aperto un’altra strada. Una non meno in salita, certo, ma già parzialmente battuta, ad agevolare i suoi passi per il primo tratto per poi lasciargli il compito di continuare a tracciarla verso il futuro.
Suo padre diceva sempre che gli Stark erano fatti di ferro. Uno dei suoi detti, ripetuti allo sfinimento, acquisiti e mai compresi. Si rendeva conto adesso di aver sempre mal interpretato quell’espressione: il ferro grezzo, prima poi, finiva per spezzarsi. La sua vera qualità non stava nella pura resistenza, ma nel fatto di essere duttile e malleabile proprio nel momento in cui era più fragile, acquisendo nuove forme per poi essere temprato. E poi forgiato di nuovo, e ancora, e ancora, senza mai raggiungere una forma definitiva, evolvendosi e adattandosi ad ogni cambiamento. Adesso l’aveva finalmente capito.
Aumentò la spinta dei propulsori, slanciandosi verso cielo notturno e lasciando dietro di sé una scia bruciante che si rifletté sulle cromature rosso-oro, animandole come le fiamme guizzanti di una fenice in volo.
S'impennò ancora più in alto e l'adrenalina prese a scorrergli nelle vene, mentre la velocità accelerava anche i battiti del suo cuore nel tracciare un arco di fuoco trionfante sopra le luci di New York.
Guardò verso l’orizzonte a portata di mano e un sorriso affiorò spontaneo sul suo volto: aveva sempre fatto un ottimo uso delle sue seconde possibilità.

 

*






Note finali:
 
Cari Lettori,
un po’ mi tremano le mani, a scrivere queste note. Non credevo possibile di poter arrivare fin qui, forse in cuor mio quasi non lo speravo, perché mettere un punto fermo a Phoenix vuol dire metterlo anche nella mia vita. Riguardandola, non è la mia storia migliore, ma è sicuramente quella a cui sono più affezionata e che raccoglie molto di quello che mi sono frenata dal riversare in altre storie o ambiti. Non è mia, non nel senso stretto del termine, ma la sento tale, e costituisce una parte di me non trascurabile. E sì, saranno delle note molto lunghe, perché credo ci sia molto da dire, e dopotutto ho creato un capitolo aggiuntivo anche per questo.
 
Se qualcuno, sette anni fa, mi avesse chiesto di cosa parlasse Phoenix o quale fosse il suo messaggio fondamentale, il tema portante, la me quindicenne avrebbe risposto senz'ombra di dubbio con un banale eppure vero "non arrendersi mai". Ed è così, in parte. La resilienza è una delle basi fondanti della storia, questo è innegabile. Ma per forza di cosa oggi, dopo sette anni e da ventitreenne, la mia risposta è diversa.
Adesso direi che Phoenix è una storia di accettazione, intesa in molti modi e con molte sfumature differenti.

È accettare se stessi, i propri difetti e pregi, ciò si è in grado di sostenere o meno. È accettare il proprio corpo e la propria mente, il fatto che entrambi possano essere feriti in egual modo e che entrambi possano guarire; che un disagio psicologico può essere invalidante quanto uno fisico e presentare ostacoli che sembrano egualmente insormontabili. È accettare i propri limiti e allo stesso tempo la propria capacità o meno di superarli, perché non sempre si può: ci ripetono fin da bambini che possiamo fare tutto ciò che vogliamo, ma nella realtà questo non è sempre vero e accettarlo richiede tempo, sforzo e maturità. È accettare il fatto che non sempre si può cambiare se stessi o la propria vita, e che ogni nuovo passo è un salto nel buio, ma che rimanere fermi e rifiutarsi di provare non può mai essere la soluzione. È accettare che a volte è invece necessario fermarsi, aspettare, riflettere, darsi tempo anche quando si è certi di non averlo. È accettare che il passato non si può mai del tutto lasciare alle spalle, che influisce su di noi anche quando riusciamo a vederlo in un'ottica più serena, e che non per questo bisogna rinnegarlo. È accettare il fatto che pur non avendo ottenuto tutto ciò che si desiderava, si può ancora essere felici e vivere una vita piena, riconoscendo di meritarsela.
 
L'accettazione implica un successo non totale. Nel lieto fine di questa storia è racchiusa quindi una punta di fallimento, che sia per la paura che frena Tony da un’operazione di troppo, dai demoni che a volte ancora tornano a galla, o dall’aver bisogno di un sostegno psicologico costante. Sono “fallimenti” positivi, è un riconoscere i propri limiti che ha richiesto l’intera durata della storia. Limiti di cui non ci si deve vergognare nel modo più assoluto e che non intaccano la propria identità.
Qui mi permetto di dire che quella di Tony è stata un’evoluzione, se non ben riuscita, almeno naturale, perché è un cambiamento che ha colpito me, prima di trasferirsi su Tony: quindici anni non sono ventitré, dopotutto, ed è il motivo per cui le revisioni non hanno intaccato l’anima della prima parte, per quanto fallata, e per cui ho accentuato ancor di più la tripartizione della storia:
 
Flames parla della non-accettazione, del rifiuto categorico di integrare un cambiamento nella propria vita volendolo sopraffare. È stata scritta in piena adolescenza, quando opporsi a tutto e tutti sembrava essere l'unica soluzione, pur nella consapevolezza delle conseguenze. È stato un periodo di rabbia, sia per me che per MoonRay, di esclusione, di incredulità per il modo in cui girava il mondo, e l’interruzione repentina della storia è coincisa con eventi personali che richiedevano a gran voce quella pausa.
 
Ashes è una continuazione in singolo necessaria, perché in un certo senso non riuscivo ad accettare di aver lasciato Tony e di aver lasciato me stessa a un passo dal "risalire". È collegata a un periodo altrettanto complesso della mia vita, e oltre a segnare la scissione definitiva tra me e la mia collega (almeno qui), parla di un'accettazione mentale che inizialmente io neanche riuscivo a concepire, ma solo a vagheggiare, del riuscire a convivere col cambiamento e con gli ostacoli che continuano a frapporsi tra noi e un benessere a lungo atteso.
 
Rebirth, nella sua oggettiva imperfezione, cerca di rappresentare come ci si senta a dover affrontare un male che entra all’improvviso nella nostra vita; un malessere interno, nel caso di Tony, o esterno, nel caso di Pepper. C’è molto di personale, in quei PoV Pepper, e in un certo senso è stato liberatorio scriverli, oltre che necessario. E il tutto culmina con un'accettazione mentale e al contempo affettiva di se stessi, qui indissolubilmente intrecciate. Accettare se stessi vuol dire accettare di essere amati per ciò che si è e a prescindere da ciò che si è.
 
Ma qualunque cosa vi abbiate letto, comunque la vogliate interpretare, ciò che conta è che Phoenix non pone come fulcro le vittorie, ma le sconfitte che le hanno precedute, senza le quali le vittorie stesse non sarebbero mai esistite o avrebbero avuto meno importanza. Non si rinnega mai il fondo, né le cadute, anche quando si è arrivati in cima – ed è proprio a questo che si ricollega la citazione iniziale. È un messaggio in sé molto semplice, magari scontato, persino banale, ma che credo interessi la vita di ognuno nel momento in cui ci troviamo di fronte a ostacoli, scelte o limiti quotidiani e non. Phoenix, sin dal titolo stesso, si fa metafora di quei cambiamenti radicali resi necessari da eventi improvvisi, cambiamenti poi portati avanti coscientemente e completati con l'aiuto di chi ci sta vicino.
 
Questa è solo una delle chiavi di lettura tra quelle che ho voluto inserire, ed è probabile che ve ne possano essere molte più di quante intendessi: sono sempre stata dell'idea che ogni interpretazione, per quanto divergente od opinabile, sia egualmente valida fintantoché avvicina il lettore a ciò che viene narrato. Non esistono veri fraintendimenti in questo senso, quanto modi diversi in cui ognuno si sente toccato dalla medesima parola scritta. Spero solo che ognuno di voi abbia trovato la propria chiave, e che la custodirà almeno per un po' assieme al ricordo di questa storia.
 
 
Ringraziamenti:
 
C’è una lunga lista di persone da ringraziare, in riferimento a questa storia. Prima di tutto, grazia a coloro che hanno letto, tantissimi, a coloro che hanno commentato e aggiunto la storia tra le seguite, ricordate o preferite, facendomi ogni volta sorridere. Un ringraziamento speciale a EmyclarinetT612 e 50shadesofLOTS_Always, che hanno seguito fedelmente questa storia da quando l’ho ripresa <3
 
Grazie a MoonRay, che nonostante separazioni e divergenze e periodi di distanza, rimane presente nella mia vita, paradossalmente avendomi dimostrato proprio oggi che lei c'è, sempre, in qualsiasi circostanza. E incarna ancora quella parte spensierata della mia adolescenza che non vorrò mai dimenticare a dispetto degli anni, e che mi fa rivivere ogni volta. Perché non importa quanto tempo passerà: avrò sempre in testa quelle sere di brainstorming, risate, Guitar Hero, Resident Evil e scrittura con in mano una tazzina da caffè piena fino all’orlo di Nutella. E forse te lo scrivo qui perché so che non leggerai e sono parole che dovrei dirti a voce, o forse perché una parte di me spera che tu legga <3
 
Grazie ad _Atlas_, il motivo per cui ho ripreso questa storia a distanza di anni. In realtà ti ho già ringraziata in varie sedi e circostanze, ma non perderò mai occasione per ripetermi: grazie per il supporto, per la fiducia e per avermi spronata a riavvicinarmi a un progetto che, oltre a darmi grande soddisfazione come autrice, è riuscito a modo suo a farmi ritrovare un po' di serenità in un momento complesso. Hai contribuito non poco tu stessa a quest'ultimo fatto coi tuoi splendidi commenti, con le tue storie, con le chiacchierate estemporanee, con le chiare dimostrazioni di telepatia reciproca e con i post e le chiacchierate sceme che ci scambiamo – e che rendono molto chiaro quanto siamo sceme noi stesse. E oltre a ciò, grazie anche per tutto il supporto morale e psicologico, spero reciproco, in ambito universitario e personale. Non scherzo quando dico che sarei probabilmente molto più “indietro” di così, se non fosse stato per quel messaggio datato gennaio 2018 che, oltre alla voglia di rimettermi in gioco, mi ha fatto trovare un’amica <3
 
Un ultimo grazie di cuore a tutti voi per esservi imbarcati in questo lunghissimo viaggio, che ha finalmente trovato la propria conclusione. Perché, per citare Tony, “la fine è parte del viaggio”.
 
Con affetto, a tutti voi che avete letto e seguito nel corso di questi anni,
 
-Light-

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