Allora… ehm… dunque… err…
Non so bene da dove iniziare, o meglio, non so neanche io cosa o quale discorso cominciare, perché non ho la più pallida idea di che dire, ma è una cosa bella, eh! È una cosa molto buona nel mio caso; tu non puoi saperlo, ma credimi: è una cosa bella. Va bene, ricomincio daccapo.
Dunque: bonsoir, Ruta.
Ora, ti prego d’armarti d’infinita pazienza, ma al momento ho serissimissime difficoltà a mettere in fila due pensieri in croce, o almeno, ho più difficoltà del solito. Mia dislessia permettendo, però, tu con questa… questa… cavolo, come la chiamo? Ehm, “meraviglia” (può andare?) mi hai tolto tutte le parole. Anzi, pure di più, mi hai tolto un po’ tutto: mi hai scombussolato per bene, sai? Come quando scivoli o manchi un gradino e due secondi dopo ti ritrovi per terra, senza capire cosa sia capitato e perché tu abbia male un po’ dappertutto. Ecco, più o meno è quello che è successo a me (e tralascia io abbia la stessa atleticità di Homer Simpson) e non stavo leggendo dall’iPhone (che tra l’altro non ho; ho un Samsung rosa che non mi regge neanche Wazzup!, d’oh): ero seduta alla scrivania, ma ci sono rimasta lì, secca come uno stoccafisso. A parte quest’affascinante immagine, davvero, mi hai lasciato interdetta fino alla fine.
Dunque, potrei iniziare a parlare d’idea, spunti, trama, IC, plausibilità e chissà cos’altro, ma mi parrebbe di trattare argomenti tutti, sì, presenti e ponderati con stile, senza però riuscire a centrare quella che è la potenza autentica della storia; perché c’è tutto questo eppure non è questo ad avermi scombussolato, ma altro. Scusami se non faccio un discorso sensato, ma vado molto a sensazioni, a impressioni, perché a mio avviso sono queste la vera forza del tuo scritto: che colpisce e colpisce con un’eleganza e una discrezione tali da farmi tuttora storcere il naso a parlare di semplice “forza”. C’è un impatto devastante dopo e durante la lettura, tipo un costante senso di disagio, che non riesco però a ricondurre a nulla di preciso: saranno le immagini evocative, le descrizioni splendide – più di sentimenti, di emozioni che di realtà oggettive –, sarà questo clima un po’ onirico – tipo del dormiveglia, quando vedi cose stranissime e non riesci bene a capire se sei sveglio o stai ancora dormendo –, sarà questa commozione per un lutto, un dramma muto, che serpeggia lungo tutto il racconto, e sicuramente dipende anche dalla tua abilità scrittoria (che mi pare incontestabile); forse è per tutte queste ragioni o forse è per altro ancora, ma il risultato è un acutissimo senso di malessere (ho provato quasi un disturbo fisico, sai? – si stacca una mano –). E voluto o non voluto che fosse, a te vanno tutti i complimenti per essere riuscita a rendere in parola, in immagini, la devastazione della perdita: perdita di persone amate e con esse di obiettivi, di senso della realtà; c’è proprio un male di vivere che ti paralizza sul posto. La cosa terribile (in senso positivo), però, è che non esplode mai: il dramma resta muto, silenzioso per tutta la lettura, un po’ come negli incubi, quando vorresti correre, ma non ce la fai, o in cui vorresti gridare e ti svegli con l’urlo ancora incastrato in gola. Ed è proprio lì la forza, la potenza devastante: che non esplode, non c’è la catarsi, non c’è il boom liberatorio, ma rimane sempre lì, non se ne va, e alla fine sfuma; si sgonfia ma senza botto e penso derivi da questo il male (male inteso come dolore); è così sottile che s’incastra sotto pelle dove non riesci più a toglierlo.
Guarda, la caratterizzazione, la reazione e il realismo di Sakura e Hinata sono meravigliose, devastanti ma meravigliose: due ragazze che perdono tutto e si ritrovano vive ma senza niente, né una ragione né un domani per cui andare a vanti; procedono quasi per inerzia ciascuna sul proprio percorso, finendo poi per convergere – o ritornare, come dicevi tu – dove tutto è partito. E poi c’è quel memoriale, quel cimitero dove si ritrovano, che le unisce e – involontariamente forse – riconcilia alla fine. C’è proprio una vertigine del domani, un senso di barcollamento, come due funamboli su una fune, tanto da non riuscire a capire cosa sia meglio: se cadere e liberarsi o continuare a ondeggiare.
Tutto questo dramma è poi amplificato dallo stile, dalla narrazione, che è di una potenza descrittiva impressionante: ci sono davvero delle immagini, delle suggestioni, di una bellezza da lasciarti di sasso, come la descrizione di Hinata, le riflessioni di Sakura, lo stesso ambiente fisico, il cielo, gli alberi, tutto; sono bellissimi, eleganti, solenni quasi, ma di una raffinatezza e di una sensibilità allucinanti. E la scrittura non è solo molto ricercata, che impressiona per la naturale soggezione dovuta a un linguaggio “alto”; ma è comunicativa, potente. Potente perché non è virtuosismo fine a se stesso, non si ferma lì, ma va oltre lo schermo, oltre la parola stessa o il termine ricercato: trapassa, tipo una freccia. Guarda, non saprei come altro esprimermi e per cercare di farmi capire ti riporto alcuni dei tantissimi passaggi (per non dire tuuutto lo scritto) che mi hanno lasciato con l’occhio allampanato:
Non si era sposata, ma era come se lo fosse, dicevano alcuni. Si comportava come una sposa vedova che avesse perso il marito il giorno del matrimonio. […] Il suo volto però non conservava nulla della placidità che l’aveva caratterizzata in un passato remotissimo. Era un volto spigoloso e appuntito, fatto di frammenti ricongiunti, mansueto come poteva esserlo quello di una fiera in gabbia dietro sbarre d’oro. L’aspetto che era appartenuto a Naruto prima che facesse pace col mostro dentro di sé.
Il futuro che mille sacrifici erano serviti a costruire e rendere possibile era lì, sotto e sopra di loro. Le soverchiava come il cielo di un blu-nero lontanissimo e inavvicinabile. Era un futuro che non avevano scelto, ma con cui si erano ritrovate a fare i conti dopo. Sconfitte da una debolezza che neppure la costanza più ostinata era riuscita ad estirpare. Soccombevano a quel futuro, tormentate e perseguitate dal rancore che tacitavano sotto il nome bugiardo di nostalgia.
Rammarico, amarezza, fastidio. La contrarietà della disillusione giunta troppo tardi per scrollarsela di dosso.
Sotto la lapide che il temporale aveva ricoperto di strisce livide e sporche, Sakura aveva trovato un fiore azzurro. Come i sogni e i fiordalisi, i nontiscordardime, dell’esatta sfumatura che avevano avuto i suoi occhi l’ultima volta che li aveva incrociati, quando cadendo giù dal cielo simile a un miracolo e atterrando con un pugno su un nemico, le aveva sorriso e le aveva chiesto se fosse ferita, l’aria sicura di chi conosce giù la risposta e domanda non per essere rassicurato, ma per rassicurare, perché così ci si aspetta che faccia.
Eppure era un conforto, sì. Strano e inaspettato, ma rappresentava per Sakura davvero un conforto, adesso, sapere che come lei ci fosse qualcun altro incapace di dimenticare, di andare avanti, voltare pagina. Era un sollievo perché nella sua disperazione vivida e violenta, feroce, Sakura si era resa conto di riuscire a malapena a piangere per uno solo di quei fantasmi. Le sue lacrime non bastavano, non erano abbastanza. Le lacrime di due persone per due persone da piangere. Era un compromesso perfetto.
– Mi hai preceduto, – mormorò Sakura in tono stranamente mite, – ma non fa niente. Ti perdono. -
Hinata non pareva sentirla, non avrebbe mai più.
- Salutali e dì loro… – guardò il cielo limpido che la sovrastava, non più peso gravante, ma distesa limpida e aperta. Era a portata di mano, una porta da socchiudere con un pugno ben piazzato. – Dì a quegli idioti di aspettarmi. –
Sorrise ancora, in modo più ampio e il vento le soffiò dolcemente in faccia parole di conforto e rassicurazione.
Perché io verrò di sicuro. Verrò e allora…
Allora l’incertezza sarebbe scomparsa e il domani avrebbe smesso di perseguitarla.
Ecco, queste sono solo alcune strisce, che fuori contesto perdono trentordicimila volte la forza originariamente posseduta e riportate così paiono pure sconnesse, ma è solo per farti capire dove e cosa mi ha stretto lo stomaco. Il passaggio su Hinata poi (già vedova eppure ancora nubile) è di una bellezza quasi straziante: bellissimo e proprio per questo straziante. Mamma mia, hanno tutta la forza di un incubo e il fascino del suo ricordo al risveglio. Bellissime davvero. Sinceramente, sei stata di una bravura, di una sensibilità e insieme di una potenza che lasciano di stucco.
Non starò a dirti che scrivi in maniera meravigliosa e con uno stile sublime perché mi sembra il tuo lavoro parli e si qualifichi da sé, ma vabbè, lo dico lo stesso: scrivi in maniera meravigliosa e con uno stile sublime, ecco. Mi ripeterò, ma adoro ripetermi e poi se uno è bravo, mi pare giusto ribadirlo e mettere i cartelloni. Ma al di là di tutto… mi hai fatto male e “male” nel senso migliore del termine, negli effetti (evviva il masochismo), perché mia hai cavato via qualcosa; tipo santone da B-movie che infila la zampa nel petto e cava via il cuore. Ecco, mi hai tolto un pezzetto di cuore (e di appendice, che ce l’ho ancora; ho pure ancora le tonsille a dirla tutta. Ehilà, ho ancora tutti i pezzi, grandioso! – peritonite fulminante –); però è stranissimo perché mi hai dato e tolto insieme (ehi, che ti sei presa? Non il fegato, spero, che è di un malandato dopo la “Festa della birra” di ieri sera).
Ti supplico comunque di sorvolare sullo spiccato nonsense di questo messaggio, ma verso nelle stesse condizioni di lucidità mentale di un maschio eterosessuale davanti a Megan Fox: momentaneamente assente e con filo di bavetta colante perché è tutto troppo bello. C’ho il deserto dei Tartari in testa (non che di solito sia abitata, eh) e non saprei che altro aggiungere, anche perché nulla di quanto potrei dire riuscirebbe a rendere merito a questa meraviglia. Solo… mi hai fatto male, ecco. Mi hai fatto male e spero possa farmene ancora (uh, sto mutando in un emo – si tira la frangia sugli occhi – Sas’ke, vieni qua a farmi compagnia!).
Davvero, ancora tutti i miei complimenti all’autrice perché è riuscita a realizzare qualcosa di un impatto straordinario: bellissimo e potentissimo. A lei tutte le mie congratulazioni (ma si fanno le congratulazioni in questi casi? – tira il riso allo schermo e prende il bouquet –), un lavoro stupefacente; bravissima, davvero ma davvero bravissima, in tutti i sensi.
E sappi che ho apprezzato tanto la citazione iniziale: è bello constatare come il buon vecchio Enrico (eh già, è amico mio, lui) non abbia perso la mano anche a distanza di anni da “Il mare d’inverno”.
Domando ancora perdono per il delirio del commento, ma mi hai tolto le parole e quel briciolo di cervello rimastomi dopo gli esami (insieme a un frammento di pancreas) e poi tutto quello che c’era da dire l’hai detto tu, per cui… niente… vado a riprendermi fissando il vuoto e ti lascio (si mette il camice da ospedale). Mi scuso enormemente anche per aver recensito così in ritardo (due o tre mesi dall’averla inserita nelle ricordate, niente di che – sbatte la testa contro lo schermo – numi del cielo, che lumaca che sono); scusa davvero, spero di non averti infastidito e per quello che vale, non posso che approvare il tuo “nuovo regime di regolamentazione”. Approvo, eccome se approvo, altroché (agita i pugnetti).
Ancora bravissima e complimenti (da me e dal mio pancreas): complimenti, complimenti e complimenti.
Una meraviglia, dall’inizio alla fine e anche dopo.
Grazie mille per questo splendore, sul serio.
Grazie tantissimissimo.
SuperTeleGattone
(Miseria, è abbastanza ridicolo firmarsi così… senti, fai finta io abbia un nick un po’ men idiota, okay? Ancora saluti e ancora complimenti! – Sviene contro il portatile –)
(Recensione modificata il 15/10/2012 - 09:23 pm)
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