(Segnalazione indirizzata all'amministrazione per l'inserimento della storia tra le scelte) Prima classificata al contest "La Caduta dell'Inverno Boreale".
Il non detto è una strabiliante arma a doppio taglio. Diventa perfetta, a mio parere, se usata per i particolari, per il contorno, e lo rende misterioso, arcaico, leggendario, irraggiungibile per il lettore, che impotente non ha in mano l'altro frammento di chissà quale perduto manoscritto dove vengono raccontate quelle storie di cui, il sapiente scrittore, dà solo un assaggio. Ed allora si crea uno squisito senso di spaesamento, e il mondo in cui si viene proiettati diventa vivo e vero, diventa simile al mondo reale, dove sono tante le cose che non sappiamo, e dove non abbiamo a disposizione un narratore onnisciente pronto pronto a spiegarcele filo per segno.
Ebbene, questo senso di spaesamento c'è senz'altro in questa tua storia, addirittura troppo, a volte. Il non-detto non rimane confinato al contesto, al contorno, ma occupa una parte importante del dialogo tra Abigal e la viandante nella pioggia: la tua è una scelta molto coraggiosa, e qui mi riferisco al "battibecco religioso" tra i due, anche se fortunatamente la tua bravura narrativa non si è smentita nemmeno stavolta, e verso la fine la storia riprende in mano tutte le fila e acquista senso, e oltre che senso maggior chiarezza.
Con una seconda rilettura le cose divengono comunque più chiare. Rileggendo poi fino a una terza o quarta volta, mi sono accorta che, in effetti, gli elementi per capire la trama nella sua interezza ci sono tutti nel testo, anche se sono nascosti e messi in disordine, per questo non è immediato collegarli.
Passiamo a parlare dell’aspetto stilistico.
La tua è una scrittura ampiamente maturata, si vede che sai quello che stai scrivendo (sembrerebbe di dire una banalità, ma non è così).
Quei tranci di cantilene sono bellissimi, è stato un immenso piacere leggerli, e cercare di immaginare quale melodia accompagnasse quelle tristi parole. Dunque prendo atto che è proprio una peculiarità del tuo stile, non ho dimenticato ne “Ma i figli dei suoi figli hanno il trono” quella filastrocca che percorreva tutto il racconto, nella quale alla fine il verso risolutivo si rivelava essere il titolo. Fu una scelta che mi affascinò oltremisura, e spero di averti dato il premio per il miglior titolo perché era ampiamente meritato. Ma torniamo al presente.
Anche qui la cantilena di Sofrien, oltre ad essere bellissima, e oltre ad offrire legna abbondante al fuoco della "lugubrezza" generale, tenta di chiudere in circolarità il racconto, anche se non con la stessa efficacia del colpo di genio che avevi usato per l'altra storia, anche perché qui (per il solito motivo che ormai ti sarai stancata di sentire), ho faticato a inquadrare nel racconto l'esatto ruolo fantasma di Sofrien. E di nuovo, so che è lasciato volutamente implicito, però in questo modo il legame tra la nenia della megera e il racconto stesso è nascosto, non deducibile. Invece sono stupende quelle poche parole in rima con cui Abigal ripesca dai suoi ricordi la canzone sulle vaganti nella pioggia.
E adesso, trascorsi gli sterili e antipatici punti tecnici, posso finalmente iniziare a esprimere il mio amore per questa storia?
Mi inchino alla dettagliatezza con cui imposti lo scenario. Se questa voce riguardasse solo le descrizioni, ti avrei dato punteggio pieno più lode ad occhi chiusi. Ho deciso di non darti punteggio pieno perché so che era una tua consapevolissima scelta, ma ahimè, manca un po' di contestualizzazione generale. E questo mi porta a ribadire ancora una volta che questa è una storia bellissima, ma sarebbe una storia perfetta se inserita nel proprio ciclo (cosa che tu hai fatto, ma purtroppo in un contest mi devo limitare a giudicare questa finestrella, fine a sé stessa, facendo finta di non avere neppure letto “Ma i figli dei suoi figli hanno il trono”), in tal modo il lettore può mettere assieme i pezzi per proprio conto, senza che il narratore gli spieghi ogni volta dove siamo, in quale mondo ci troviamo. Di nuovo mi trovo a dover elogiare e al tempo stesso incolpare l'effetto di spaesamento per la sua doppia faccia: da un lato, venire catapultati con tale violenza in questa storia, senza preamboli, senza indicazioni spaziali o temporali, ci smarrisce e ci mette in soggezione, ed è una sensazione bellissima (da parte mia) da provare quando si è immersi nella lettura. Dall'altro, leggere questo racconto è come aprire una finestra sul mondo, vediamo solo un rettangolo di quello scenario, e non ne capiamo poi tanto al di fuori della vicenda che si svolge sotto il nostro davanzale. Infine la finestra viene richiusa, e quella vicenda cui abbiamo assistito diventa una bella (una bellissima) storia da schedare, ma sentiamo che averla letta insieme alle altre l'avrebbe impreziosita ed elevata al massimo grado.
Ma si parlava delle descrizioni. Immagino che sia inutile dirti che le sai impostare e scrivere a regola d’arte, e sebbene questo sia un discorso che va a ricadere nello stile, ti devo lodare oltre al resto per la tua originalità. Perché il tuo modo di raccontare e descrivere le cose non è mai canonico, spesso usi dei bei termini che non sono complicati, piuttosto sono… inusuali, ma rendono comunque l’idea che vuoi trasmettere, forse anche più di altre parole e altri accostamenti di parole più comuni. Per fare pochi esempi, il verbo “eradicare”, oppure caratteristiche che riferisci alla vecchia, come “predatoria”, “saputa”.
Sulla figura della megera avrei poco da dire, perché non posso immaginare un modo migliore per costruire un personaggio attorno a questo nome. Megera insomma è un nome che il tuo personaggio indossa senza alcuno sforzo, come fosse una seconda pelle. E inoltre è un personaggio che si comporta come tale (come una vecchia e inquietante strega) non solo per le sue parole: è anche approfondita tantissimo dal punto di vista visivo. Le dedichi molti spazi descrittivi all’interno del testo, e sono scritti uno meglio dell’altro. La vecchia, oltre ad essere un intreccio di colori (il sorriso rosso, gli occhi grigi, il bianco dei denti e dei capelli), non è resa al cospetto del nostro "occhio interiore" come sfumata, come vista attraverso gli occhi lucidi di un Abigal che ha appena scoperto la durissima verità, ma è invece ad altissima definizione. Le rughe, i denti piccoli, il bastone, la lanterna spenta, il mantello scuro, i passi malfermi... potrei continuare ma mi fermo qua: volevo solo farti capire quanto abbia apprezzato l’abbondanza di particolari e di dettagli che inserisci tra un dialogo e l’altro.
Non che i dialoghi siano da meno, anzi direi che siano proprio quest'ultimi ad essere il piatto forte del racconto.
Ci sono alcune frasi che paiono così semplici, ma che messe nel contesto dove le hai messe, e fatte pronunciare dal dignitosissimo personaggio che è la viandante, fanno correre un brivido giù per la schiena:
«Ti vedo, Inquisitore.»
E la bellezza inquietante di questa frase dipende anche, come ho detto, dal contesto. Perché una frase del genere non ci parrebbe poi così tanto strana, se la vecchia l’avesse pronunciata subito dopo essere entrata in scena, ma messa qui, dopo che il dialogo tra i due è già iniziato (ed è anche a buon punto), porta il lettore a ricercarne il senso, a ricercare il significato che si nasconde dietro queste tre parole messe in fila, apparentemente così canoniche e immediate da capire, se non fosse che Abigal e la viandante non stanno affatto giocando a nascondino.
A proposito, tornando ancora una volta a parlare di dettagli, è bellissimo e originale anche il particolare della lampada spenta, che la vecchia tiene davanti a sé come se potesse far luce. È un’altra raffinata pennellata che contribuisce a donare nitidezza e originalità al personaggio della megera: è un particolare che esce dagli stereotipi, e per questo le conferisce forza vitale. È inoltre una problematica, un paradosso, e stimola tantissimo le mie fantasticherie: sono rimasta parecchio a pensare a quale funzione magica potesse avere, questa lanterna spenta, quale significato.
Sprecherei anche due parole sul piangente, anche se non si può chiamare “dettaglio”, semmai è una figura costante, cieca e silente, e il lettore lo sente pendere sulla propria testa per tutto il racconto, anche senza che ci sia bisogno, da parte tua, di ricordarci continuamente la sua presenza. Ancora una volta, ho apprezzato la raffinatezza del rovescio finale: se dapprima Abigal beffeggiava la sua impossibilità di parlare e di vedere, in ultimo è come se il narratore passasse il punto di vista al piangente, e ritorcesse i crudeli beffeggi di Abigal contro lo stesso Inquisitore:
il Piangente lapidato avrebbe interpretato quello spettacolo desolato come un pianto celeste, manifestazione terrena delle eterne lacrime di Dio; i suoi occhi mangiati dai corvi, tuttavia, non potevano vedere e la sua lingua, strappata da una tenaglia ardente, non poteva proferire parola […]
Il piangente avrebbe potuto dirgli di non dare le spalle ad una strega e di non ascoltare le viandanti nella pioggia […] ; la sua lingua strappata, tuttavia, non poteva proferire parola e i suoi occhi mangiati dai corvi non potevano vedere, così nessuno scorse la vecchia sollevarsi senza appoggiarsi al proprio bastone […]
Non so come dirlo, ma questo denota un’altissima attenzione ad ogni particolare che inserisci nel testo, e che non abbandoni mai e poi mai a sé stesso. E questo riprendere in chiave rovesciata ciò che si è detto all’inizio, conferisce una circolarità alla sempre-presente figura del piangente, una beffa nella beffa: non solo è la viandante a farsi gioco di Abigal, ma in questo caso è come se Abigal si facesse gioco di sé stesso.
Ma il punteggio massimo che ti ho dato nella caratterizzazione va tutto quanto attribuito al nostro protagonista, al quale finora ho dato poco spazio in questo giudizio. Cercherò di rimediare ora.
Abigal è uno di quei personaggi misti tra vittima e carnefice che ci affascinano e ci attirano come un magnete, ma per i quali non riusciamo mai a simpatizzare interamente, dall’inizio alla fine. In particolare mi ha spiazzato la crudeltà, la spietata freddezza con cui ricalca con la memoria le torture e le atrocità inflitte al piangente, senza un minimo di pietà, senza un minimo di dubbio, o di rimorso, continuando anzi a beffeggiare il suo cadavere. Anche per merito (o per colpa) di questo suo aspetto crudele e impietoso (sembra quasi che voglia scaricare sugli eretici la propria frustrazione per essere stato costretto ad indossare quella maschera nera) per gran parte della storia mi sono sentita molto più affine con la vecchia, ho supportato a piene mani i suoi discorsi, brevi ma incisivi, ma che si ergono come montagne di fronte al prolisso e artificioso proclama di Daenior, che Abigal usa come debole scudo.
Le frasi della vecchia sono semplici e dirette, ma sono come sassolini in grado di provocare valanghe. E le valanghe le vediamo molto bene, negli sconvolgimenti interiori che investono Abigal con sempre maggiore forza, man mano che ci si avvicina alla fine del racconto.
Infine, non ho alcun dubbio a dire che questa è una delle storie più belle e meglio scritte e realizzate tra quelle in gara, nonché una di quelle che ho amato maggiormente. Andando oltre alle descrizioni, allo stile, è proprio la maturità e la consapevolezza che hai nello scrivere, nel presentare la storia al lettore, a colpirmi. E su questo stesso orizzonte fa capolino anche la dignità che conferisci ai personaggi: sono personaggi vivi, indipendenti, reali, che sono già usciti dal foglio: esistono di per sé.
Non sei titubante nello scrivere, non hai paura di scrivere ciò che devi scrivere, non hai paura di dire la cosa che devi dire al momento opportuno, ed è per merito di questa scrittura già maturata, che già ha messo le ali, che ci troviamo di fronte a dialoghi del tutto inattesi e spiazzanti. È per merito di questa scrittura provocatoria che ad ogni passo ci troviamo di fronte a un problema, a un macigno, a un colpo duro da assorbire.
Il racconto è tutto un cadere e un rialzarsi, un cadere sotto i colpi della strega, e ogni volta il rialzarsi di Abigal, che dopo ogni colpo devia sempre più percorso, fino a trovarsi su una strada inaspettata, che prima non avrebbe mai preso in considerazione.
Ed è così che la profezia della viandante nella pioggia, una volta ascoltata, si avvera da sola.
In fondo, non è anche quello che fa la megera, in un bellissimo colpo di scena finale? Cadere, per poi rialzarsi? |