No, non mi sono commossa; è che ha iniziato a piovere dalla nuvoletta rosa e marziale.
Quante emozioni. Da dove poter partire, per descrivere in pienezza la meraviglia di quest'ultimo capitolo? Si ha solo l'imbarazzo della scelta, perché ogni scena merita il suo peso e scalpita per essere la prima.
Ehrenold che si rialza, quasi ormai in uno stato di incoscienza, per ammazzare il generale nemico e i suoi uomini, è quanto di più stoico si possa trovare in sul campo di battaglia. Al di là della capacità del fisico, la sua è pura volontà temprata, il senso del dovere che lo muove oltre la sua razionalità, lo obbliga a rialzarsi e a finire il suo compito. La scena colossale della sua caduta, anticipata dalla spada, ricorda il trapasso degli eroi norreni, morti in piedi sul campo di battaglia e abbattutisi al suolo soltanto dopo aver esalato l'ultimo respiro.
Per fortuna, qui l'esito non è la morte dell'eroe.
Lo sapevo che ci avresti tenuto col fiato sospeso fino alla fine, e ammetto di aver patito assieme a Iasay. Ma Ehrenold non poteva morire così, nel silenzio del letto di un ospedale da campo. Sarebbe stato troppo ingiusto. E difatti, sei stato generoso e ci hai regalato quella scena a cui tanto speravamo di giungere. Quel momento così pieno di gioia che, in piena ottemperanza del comportamento di Kjarr, è privo di emotività palesate, ma si passa tutto tramite poche parole e uno sguardo che cementa un sodalizio intimo e potente. Quanto rende l'idea, quella carezza tramite gli occhi, dell'intensità dell'affetto che si sono scambiati. E poi quel breve scambio di riconoscimenti, che chi parla la lingua di Kjarr sa bene essere la punta dell'iceberg di tutto quel che in realtà implicano. Ehrenold gli riconosce di essere stato coraggioso, di avergli salvato la vita, e già lì ero al settimo cielo. Ma che anche Iasay gli riconosca, a sua volta, di avergli salvato la vita è importantissimo. Ricordiamo infatti che Sedgius avrebbe lo stesso dato l'ordine di non ucciderlo. Per come la vedo io, dunque, la salvezza a cui si riferisce Iasay non è quella tra il semplicistico binomio di vita o di morte, ma è l'avergli donato la forza per prendere finalmente in mano la sua esistenza e farne qualcosa di cui poter essere fiero. Qualcosa da poter chiamare "vita" a tutto tondo, proprio perché ambita e conquistata, e non trascorsa passivamente nel torpore di una fragilità glorificata.
Tanto che, a fronte di questa realizzazione e al riconoscimento di essere stato in grado di affrontare la sua prima battaglia, unito al coraggio di aver ucciso per salvarlo, Ehrenold gli conferisce l'immenso onore di un tatuaggio di guerra. Anche qui sarei tentata di mettere alla prova le mie doti amatoriali di traduttrice dall'idioma di Kjarr, ma siamo sinceri: servirebbe davvero? Certi gesti si ammirano per come sono e basta, certe cose restano intraducibili quale che sia la lingua che possediamo.
E va bene, solo io vorrei uno scorcio sul momento esatto in cui Iasay ha chiesto ad Ehrenold se poteva tatuarsi l'aquila del Regno? Perché mi immagino le espressioni di entrambi e sorrido tra me e me (l'espressione di Ehrenold sarebbe, presumo, pressocché immutata. E sorrido proprio per questo). Poi non ti dico il tripudio scaturito dall'apprendere che sia verosimile -o almeno, in questo caso lo è- che mentori e allievi si tramandino i tatuaggi. Volevo già chiederti se nel Regno fosse diffusa una simile usanza, ma mi pareva di averti sommerso di troppe domande, quindi avevo semplicemente azzardato la cosa; e invece ecco che, sempre germanicamente efficiente pure in anticipo di anni, mi hai fatto pervenire la risposta. E' un concetto che adoro, *adoro* per tutta una serie di implicazioni che comporta. Avere tatuaggi simili -o rimandi ad essi- equivale all'imprimersi addosso il nucleo degli insegnamenti ricevuti; è un tributo, un riconoscimento e la forma più sincera di stima, nonché un immenso orgoglio per il maestro che vede riconosciuto il valore di ciò che ha passato al giovane tramite i suoi sforzi.
Considerato il pregio intrinseco dei tatuaggi di guerra di Kjarr, poi, tutto questo viene ulteriormente amplificato. E in questo caso, è una splendida iniziazione rituale alla virilità solare che dipingi con tanta maestria.
Passiamo ai Luogotententi, perché ti pareva che potessi lasciarli così alla chetichella? Su Threwe mi riserbo il dubbio, ma ho il presagio che dal suo titolo di Apprendista di Vatur potrà rifilarmi un'amara sorpresa sulle sfumature dei soldati di Kjarr. Hithaigh, invece, ha avuto modo di ricredersi, e si corregge con tutta la naturale fermezza del caso. Dall'aver tentato di scotennare Iasay, la prima interazione che ha con lui da quell'inseguimento è stata quella di aiutarlo a rimettersi in piedi dopo la battaglia e controllare burberamente che non fosse ferito. Hithaigh è un veterano dai tanti anni, e il suo orgoglio potrà anche essere sofferente e suscettibile di dover obbedire a un giovane come Ehrenold; ma proprio in virtù di questa saggezza accumulata con l'esperienza, sa riconoscere subito gli eventi che contano nel definire persone e situazioni, e ha imparato a riscrivere i propri errori come chi ha appreso che correggersi è meglio che convincersi di avere ragione.
E su Rowden, beh. Ti ho già scartavetrato le gonadi abbastanza nelle recensioni precedenti, quindi non credo sia opportuno proseguire oltr- ha! Ci stavi cascando? Come se potessi mai rinunciare all'occasione di tessere le lodi del nostro beniamino. La farò breve, questo almeno te lo posso garantire: ma posso dirti con sicurezza che è stato il personaggio per cui più ho provato affetto. E questo è, in sostanza, il pregio di Rowden: per gli ufficiali, i generali e i militari tutti di Kjarr, sei portato a provare una vasta scala di sentimenti; dal rispetto, all'ammirazione, al terrore, all'orgoglio. Ehrenold, nella sua massiccia caratterizzazione, mi ha fatto provare tantissime emozioni. Ma trovare qualcuno in grado di esprimere tanta cristallina umanità, pur restando alto nei valori di fortitudine e potenza del Regno, è raro e toccante, e Rowden possiede questo privilegio.
La famiglia di Iasay, l'emblema della sua vecchia vita, è svanita nottetempo senza lasciare null'altro che pareti in cui risuona il silenzio. La villa è un esoscheletro vuoto a cui Iasay si prende il suo tempo per donare il suo addio, conscio che il momento in cui avrà varcato per l'ultima volta i portoni di quella casa per lasciarsela alle spalle, avrà sancito la fine del suo vecchio Io. Non è un addio doloroso, eppure è complicato e agro, necessario, come ne capitano nella vita: sono consapevolezze che destabilizzano con tutta la malinconia che si portano dietro, ma a cui bisogna andare incontro per poterle chiudere e progredire oltre. Un nido d'infanzia non è mai eterno.
Vogliamo pensare che Iorweth, Diorle, Alayna e tutti gli altri abbiano trovato la loro felicità da qualche parte a Nord, ma quella, soprattutto quella è la vita da cui Ehrenold ha salvato Iasay. Un'esistenza cieca e svigorita, scandita dal contare le proprie ricchezze e le gioie effimere, l'affetto accondiscendente di una famiglia e la commiserazione dietro ai loro sguardi, a tremare di paura come una banderuola segnavento al primo innalzarsi della brezza di una minaccia.
I nobili di Kadya hanno distrutto quel che mai si sono premurati di proteggere, primo fra tutti il Duca Jenevin, e la loro epoca dell'oro è ormai giunta a un sanguinoso tramonto sulle rovine della città. L'esercito di Deres, invece, ha semplicemente giocato all'azzardo della guerra ed ha perso; non per scarsità di mezzi o capacità, anzi, si è rivelato un nemico ben ostico per i nostri soldati. Ma quando decidi di approfittare di un'opportunità, per quanto vantaggiosa essa appaia, sai che devi sempre considerare persino i casi peggiori. Sedgius, abbagliato dalle luci della gloria dallo stesso colore d'oro dei suoi monili, si è lasciato andare alla baldanza proprio all'ultimo, e ne ha pagato la vita. Spero che Rador sia sopravvissuto alla battaglia, ancora una volta, di modo che possa avere un'altra storia triste da narrare per, forse, infondere un po' di buonsenso ai nuovi condottieri. Chissà che non facciano come Ekkonwen, e scelgano di dare ascolto all'esperienza di un vecchio veterano.
Il finale, potente e senza fronzoli in perfetto stile Kjarr, è così ampio e pieno di significato. Davanti a loro, Ehrenold e Iasay hanno tutto il mondo; un mondo da combattere sul quel campo di battaglia, un mondo da affrontare per ogni giorno che Hengrist vorrà loro concedere, un mondo da vivere in un'ottica rinnovata e forte.
E sì, Siwald immagino che lo stessero trattenendo in tre nelle Aule di Vopnir, ma direi che ora possa darsi pace. La sua spada sembra aver trovato infine un possessore degno di brandirla di nuovo, e di onorarla col sangue.
Ora, giunta alla fine, sono a metà tra un meringhino pieno di sentimenti e carica di un'ardente gioia marziale.
Ognuno darà a La Scelta la definizione che meglio ritiene calzante, e io la descrivo così: una storia di coraggio e resilienza.
Il suo messaggio è riassumibile nello splendido insegnamento di Ehrenold: "Se vuoi una cosa, devi combattere per averla." In questa storia, sono tanti quelli che hanno combattuto; con onore, o nell'ombra, con le armi, a parole, coi silenzi. C'è chi ha dato fiducia, chi l'ha tradita. E il bellissimo messaggio che lascia alla fine, è che se hai il coraggio di affrontare di petto le conseguenze delle tue azioni, di riconoscere le tue debolezze per poterle sconfiggere, di sacrificare qualcosa per raggiungerne un'altra, troverai la forza di essere la persona di cui essere davvero orgoglioso.
Questi capitoli racchiudono l'importantissimo messaggio che la vita non è giusta, che le tragedie non guardano in faccia nessuno, e che non basta disperarsi per far sì che le cose girino nella direzione che vogliamo noi. Scontato? Di sicuro, per molti è scontato intonare il pianto greco sulle proprie miserie e affibbiare colpe a chiunque non intervenga per risolvere la loro situazione, sia esso la società, o la divinità di turno, o chi dovrebbe consegnargli la soluzione servita sull'argenteria buona; perché certa gente finisce per trovarsi grottescamente a proprio agio nel crogiolarsi nel proprio vittimismo, ed ad appioppare colpe a chiunque tranne che ai propri difetti.
Invece questa è la storia di due protagonisti che hanno trovato il coraggio -e le palle, per non dar troppa aria ai violini-, di ergersi in piedi ed affrontare le loro bestie nere, faccia a faccia. Ehrenold ha trovato la forza di trascinarsi fuori, sui gomiti e sulle ginocchia, da quella spirale di lutto che lo aveva reso la peggiore versione di se stesso e che stava ormai per reclamarlo. E' venuto a patti col proprio dolore, lo ha domato e accolto come un compagno sempre presente nella propria vita, ma ora sotto al proprio controllo. Ha ritrovato quello che lo rendeva umano, e si è concesso di elaborare emozioni che, forse al contrario di quel che temeva, non l'hanno reso più debole, ma più conscio di sé. Sempre per il principio secondo cui una lama ha bisogno di passare tra fuoco, incudine e martello per essere forgiata e migliorata, l'assedio di Kadya è stato il culmine di quella prova. Ne sarebbe potuto uscire o spezzato, o temprato, ed Ehrenold ha avuto l'immensa robustezza morale e fisica di uscirne più forte; una lama di Thrygg fatta carne e sangue.
Lo stesso ha fatto Iasay, e non solo: ha compiuto l'incredibile impresa di ribaltare il suo mondo. Ha messo in discussione i suoi valori, ha addirittura messo in discussione se stesso. Ha toccato con mano la persona che era, ed ha vissuto sulla propria pelle un nuovo punto di vista del mondo che prima, nella sua utopica teca di cristallo, ignorava e temeva. Ha comparato i valori che possedeva e quelli che Kjarr gli ha insegnato: una dignità non regalata da fattori esterni, labili e manipolabili come le persone che li definivano, ma conquistata tramite nient'altro che le proprie mani. Da ragazzetto frignone ed egocentrico, prono a farsi angariare da chiunque gli usasse contro un po' di forza, è diventato a sua volta un guerriero orgoglioso, un giovane uomo fiero e responsabile delle proprie azioni, parte stessa di quell'entità a cui un tempo fuggiva con terrore: i soldati di Kjarr.
Non esiste niente e nessuno che possa tirarci fuori dalle nostre miserie, se non siamo noi i primi a rimboccarci le maniche, stringere i denti e trascinarci fuori da lì. Possiamo avere, tutt'al più, qualcosa che ci dia lo sprone di farlo. E in un certo senso, questa storia è uno sprone anch'essa. Un messaggio che ti impone di smetterla di piangerti addosso, e che se vuoi qualcosa, devi alzarti in piedi e avere il coraggio di prendertela tu stesso. Nulla si ottiene senza dei sacrifici, così come è normale che faccia paura affrontarli, anzi: è proprio passare attraverso queste sfide che ci da la forza di migliorarci, proprio come il metallo.
Non sapevo cosa aspettarmi quando ho iniziato a leggere di Kjarr. Cioè, un po' sì, perché avevo già l'infarinatura del tuo stupendo modo di scrivere, ma questo è stato un approccio che ha portato le cose decisamente su un altro livello. Mi sono trovata a sfogliare figurativamente tra le mani dei valori che amo e che sento familiari, e che non credevo fosse possibile trovare così abilmente intrecciati tra loro tra i capitoli di un fantasy.
Non sai quanto sia contenta di aver scoperto Kjarr; o forse un po' lo sai, dal momento che ti sei passato tutte le mie digressioni, i miei scarabocchi -a proposito, ne ho un altro già in mente-, e le mie infinite curiosità a riguardo. E sappi che sono ben lungi dall'essere terminate. Ma per ora mi fermo qui, per lasciare a questo stupendo finale la conclusione che merita.
Kjarr è proprio come la lama di Siwald; se lo si guarda con occhio sbrigativo, è facile attribuirgli tutti i valori negativi di un'arma severa, invisa, "brutta". Ma se ci si prende il tempo per osservarlo, per calibrare la mano e bilanciarne il peso, allora potrai comprendere fino in fondo la sua potenza e la bellezza di quel che è capace di fare, il suo vero valore che supera di gran lunga quello di altre spade cesellate da orpelli e metalli preziosi. Ognuno poi decide di farne quel che vuole, con le decisioni che reputa sia giusto trarne.
Vorrei ringraziarti del viaggio, per averci condotto attraverso un mondo così meraviglioso che ho imparato a conoscere ed apprezzare a fondo; diciotto capitoli sono stati, al contempo, tanti e pochissimi. Ma d'altra parte, ho già lo zaino e il destriero pronto per avventurarmi nei prossimi. Kjarr ha ancora tanto da raccontarmi, in quelle tre storie che non vedo l'ora di cominciare, e spero che al pari di com'è accaduto qui, lo vorrai rendere ancora più vivo e delineato nelle tue risposte. Quindi non sono troppo triste.
Grazie, carissimo, come al solito e una volta in più.
Possa Hengrist concederci ancora tanti capitoli di questa splendida saga! |