C’era una volta una favola, una Storia che sembrava impossibile; una vicenda leggera e spassosa, un’alternanza agonica di gioie e dolori. Uomini, macchiette surreali e trascurabili tra le pagine di una Storia che avanza, tra le vivaci pennellate di un mondo che evolve e che sboccia nella sua era più primordiale -il tempo in cui le armi sono state deposte, infranti gli scudi, spezzati i legami e perse le speranze. L’era in cui l’errore è stato eliminato, il Sistema rivelato impeccabile.
C’era una volta una fiaba, con i suoi principi e le sue principesse arroccate in castelli di cristallo, splendenti, ascendenti, morenti all’alba di un nuovo giorno; una fiaba in cui potenti signori lottavano, in cui uomini e donne cadevano, falciati il Giorno del Giudizio. Una fiaba di cui l’antagonista aveva guastato l’epilogo, di cui aveva osservato eroi e comparse perire aprendo il finale a una nuova strada -inaspettata, non calcolata, non desiderata. Perfetta, ecpirosi e lieto fine al quale un mondo come il nostro ormai da tanto anelava.
C’erano una volta uomini e donne, un’umanità indomita che aveva combattuto per sopravvivere, che aveva tenuto alla propria vita come mai prima d’allora. Che aveva scoperto l’importanza di vivere quando era giunta l’ora di morire, che aveva protetto quanto di più prezioso, incanalato la sua furia in cuori di metallo e nuclei in fissione, erta irriducibile contro il suo peccato più grande -contro l’Arbitro giunto solo per loro a riequilibrare i piatti della bilancia. La legge era stata uguale per tutti e l’umanità aveva perso; l’uomo, progetto mancato, infine ricondotto al suo stadio originale.
Uroboros, una natura finalmente incontaminata, un unico paese libero e pulito.
C’erano una volta padri, che erano morti custodendo il ricordo a loro più caro; c’erano una volta madri, che avevano urlato e pianto la morte di ciò che avrebbero voluto proteggere. C’erano una volta ragazzi e ragazze, fuggiti in preda al panico, bambini dimenticati, i loro mondi abbandonati senza vita. Divorati dall’anima nera di uno come loro, sbranati senza grazia da una bestia che li avevi colti nel sonno, al lavoro, al ridente pranzo di Natale, alla prima notte di nozze: chi aveva avuto fortuna non si era accorto di nulla, chi aveva incontrato un parassita infastidito e affamato aveva conosciuto la morte lenta e dolorosa. C’era chi aveva cercato di difendersi, e aveva vinto come chi si era arreso; c’era chi aveva tentato di sopravvivere, ed era stato straziato come chi aveva ceduto alla disperazione. C’erano stati padri e madri, ragazzi e ragazze, bambini: ora non ci sono più, spazzati via da chi non li aveva mai considerati, da chi li aveva odiati e disprezzati fino in fondo. Un uomo come loro -padre, ragazzo, bambino- tenacemente legato alla vita, alle convinzioni, alla sua contorta idea di Evoluzione, in un processo di selezione che infine aveva scartato anche lui: squartato, macellato, rimasuglio di un’umanità che aveva miserabilmente fallito, che aveva perso ciò per cui valeva la pena esistere -imperfetti. Per cui valeva la pena combattere, resistere e vivere.
C’era una volta un uomo, l’ultimo
(primo, ultimo, quale la differenza in una Storia senza capo né coda, il cui capo e la cui coda coesistono come unica entità)
che in un tranquillo giorno di Natale si era ritrovato solo.
(Cosa ad accompagnarlo, cosa a vessarlo, cosa a ucciderlo?)
Un uomo che era sopravvissuto fin dove Nessuno aveva osato, depositario di una cultura di errori e sbagli che lo avevano condotto a quel punto: solo chi lavorava sbagliava, e sbagliando s’imparava. Ma c’erano state volte in cui non si sarebbe dovuto sbagliare.
C’era una volta un uomo che aveva commesso l’errore più grande, che aveva avuto e tenuto nulla, che avrebbe potuto avere tutto ma non si era accontentato di nulla. Che aveva calpestato il suo povero cuore, ignorato l’istinto più antico, forzato e ucciso l’anima che lo aveva tenuto in vita. C’era una volta un uomo che si chiamava Albert Wesker, uno come tanti, voce a fine capitolo nel necrologio più lungo della storia. Creatore di una Nuova Genesi, Gentiluomo, Fratello, Capitano, Albert, Wesker: maschere per la solita, stessa faccia. L’unico dio che gli uomini si erano rifiutati di adorare, la cui falsità era stata immediatamente smascherata. Non era uno stronzo, un idiota, un bastardo: era mediocre. Un uomo piccolo e meschino, ridicolo nella sua pomposità, stupidità, figlio di una lupa che lo aveva condotto al podio dei Non Degni: perché solo i Perfetti avevano il permesso di sopravvivere, solo a chi faceva del potere il proprio motore e di necessità virtù era concesso riaprire gli occhi nel Nuovo Mondo. Chi era debole, incompreso, chi non parlava, tremava, chi era insicuro; chi era felice, chi gioiva, chi aveva il coraggio di dichiararsi, chi trovava la propria forza in un fiore o in un abbraccio, chi amava solo l'insignificante feccia, putrida fanghiglia, inutili in un’era che chiedeva un nuovo inizio. Wesker, il grande liberatore, la Ruota del movimento evolutivo: Padre della Genesi, Figlio della Fine, da lui l’Uroboros era nato e da lui era stato l’ultimo a tornare.
C’era una volta una donna, un’anima in pena nella stanza più buia della Torre più alta. L’Autore ne aveva riportato il nome a caratteri mobili, in carminio bianco dorato: c’era una volta la storia di Alexandra Wesker (una tra le tante -punto a capo in una Storia che finisce), pagina anonima in un tomo assai scritto, facciata bianca in un quaderno vergato da mille sbavature e cicatrici. C’era una volta una donna che amava, che voleva vivere in pace, incidere quei fogli troppo immacolati, intonsi, privi di frasi o delle semplici parole che avrebbe voluto intercalare in quel vuoto così grande. Le avevano detto che non c’era vita per lei lì, che il suo tempo stava finendo; Alexandra credeva ancora nella sua fiaba e si sforzava di resistere, esistere per quell’amore che portava nel cuore e che le dava calore, fiducia nell’uomo che l’umanità voleva schiacciare. Alexandra era una donna fragile e incline a spezzarsi, a vedere il male oltre il bene, a giudicare gli altri -se stessa- insensati origami esposti alla pazza marea; Alexandra era anche una donna che aveva provato a salvarsi, ribellarsi, che aveva implorato alla Storia di smettere. Era una donna che era stata ignorata, derisa, accantonata -il suo uomo la Storia, il suo uomo che voleva salvarla: Albert Wesker voleva essere la Storia che salva, ma l’aveva solo attaccata. L’aveva solo uccisa.
L’Autore narrava che c’erano una volta Alex e Albert, una dea e un dio che il Giorno del Giudizio avevano conosciuto la loro più grande mancanza. Aveva raccontato di come lei non volesse fuggire, come avesse lasciato un pezzo del suo cuore sull’isola, insieme a quel povero umano che più della vita stessa le aveva dedicato; aveva spiegato come fosse stato un viaggio terribile, una fuga disperata, vana, da una verità che nel rombo e nel fetore dell’aria li aveva inseguiti per afferrarli, picchiarli, pugnalarli, scaraventarli, costringerli l’uno sull’altra a guardarsi negli occhi e accettarla pienamente, per mettere a posto le cose una volta e per sempre.
L’Autore della Storia aveva poi inserito un asterisco, qualcosa che voleva fosse chiaro a qualsiasi lettore: che non era stato un percorso facile, ma doloroso, travagliato, agonico, una terribile sceneggiata alla quale due mere comparse erano state costrette a prendere parte.
Alexandra era stanca -lo era sempre stata-, troppo perché le fosse concesso l’onore della sopravvivenza -Alexandra alla fine era morta: perché lo aveva voluto, perché aveva chiesto una buona grazia al quel dio che a lei si era inchinato, perché in vece dell’Uroboros aveva deciso di chiudere una vita che non aveva mai nemmeno chiesto le fosse donata, per concedere un po’ di riposo a un corpo senza più forza di continuare. Eppure Albert non voleva lasciarla: era egoista, crudele, cattivo, mediocre nell’alta considerazione che aveva di se stesso, nell’ambizione di conquistare il mondo e a lei consegnarlo al cominciare di ogni notte -quando diceva di fottere per piacere, quando credeva di fotterla e poterla ignorare. Albert era un uomo immeritevole di Alex, una donna forte, in fondo. Incrollabile, indistruttibile, infinita nell’eterno amore che provava verso una vita che con ogni mezzo aveva tentato di strappare al destino.
Peccato solo fosse lui al suo fianco, che sia stato proprio il suo innamorato a infliggerle il colpo di grazia -di nome e di fatto, Alexandra era una donna che in questa Storia era stata il centro di tutto, alla quale doveva esserne attribuito l’Inizio e un pensiero immortale nel vuoto della Fine, l’unico corpo che nemmeno il Serpente Nero era stato capace di intaccare.
C’era una volta una Storia piuttosto lunga, articolata, che richiedeva uno svolgimento in più capitoli. Una Storia che dava da pensare per tutti i chiaroscuri che nascondeva, che viveva di se e di ma, di se solo, se solo, se solo… se solo i suoi teatranti avessero… fatto cosa? Fatto cosa, contro una marea nera che attaccava e divorava nel sonno; fatto cosa, quando vermi deformi inglobavano case, palazzi, grattacieli come fossero maledettissimi dolcetti. Fatto cosa, fatto cosa quando la rabbia e la cecità di un uomo erano evoluti in follia per lasciare il segno sulla linea cronologica?
Wesker, Albert Wesker: sempre lui. Che altro avrebbe potuto dire l’Autore oltre a tutte le note, le parole, i pensieri, gli atti che nei suoi capitoli gli aveva messo nelle mani e sulla bocca? Sarebbe bastato, servito, dire che Wesker era stato uno stupido? Che era stato un imbecille? Un fesso, un cretino, un deficiente, un mentecatto, scemo, sciocco, stolto? Sarebbe bastato? Sarebbe davvero cambiato qualcosa? Avrebbe ripagato di tutte le lacrime che erano state versate?
La Storia aveva riso e risposto di no, era andata avanti comunque sentenziando che di tutti i rimpianti e le parole non dette non se n’era mai fatta nulla, che chi voleva parlare doveva averlo fatto quando ancora ne aveva l’occasione perché niente era mai stato più effimero della vita umana, di un’esistenza che Albert riteneva imperitura a capo di un mondo che a lui prima o poi si sarebbe dovuto inchinare.
La verità è che non sarebbe variato nulla nella sorte di Alex, non sarebbe mai cambiato quel C’era una volta in un lieto C’è ancora. Non sarebbe mai cambiato come Albert non fosse stato in grado mai una volta di fare la cosa giusta -perché aveva sempre sbagliato. Perché la vita con la quale aveva giocato non era mai stata la sua.
C’era una volta una Storia in cui era sempre stata Alexandra a pagarne lo scotto, in cui aveva sempre cercato di espellere quel groppone che le si bloccava in gola ogni volta che aggressivamente reclamava il corpo di Albert contro il suo. Ma non ci era mai riuscita.
C’era una volta una dannatissima Storia che ti prendeva per il cuore e per la gola, che spingeva a chiederti il perché di tanto dolore, il motivo di tante punizioni regalate e autoinflitte, che ti spingeva a imprecare e a chiederti come diavolo fosse stato possibile, per mano di quale cervello, di quale dio non si fosse potuta per una volta aprire la bocca e parlare, sussurrare, urlare, ringhiare, gemere, implorare, ammettere un sentimento che avrebbe salvato tutti: Alex, Albert, l’umanità intera. Una fiaba che ti spingeva a sondare menti insondabili e a implorare il perché, il per come, il perché di come fosse stato possibile che guardandosi negli occhi, toccandosi, baciandosi fosse stato così difficile pronunciare un ti amo. Se solo, se solo ci fosse stata la forza, il coraggio di dire la verità quanto di tutta la Storia sarebbe stato risparmiato; quanto, quanti futuri che c’erano una volta ci sarebbero ancora stati? Tanti, troppi per pensarci. Troppi per Alex da contare, da sopportare per una donna che nemmeno il suo era stata in grado di salvare; troppi per un uomo che si era accorto di avere la cosa
-la cosa, la cosa, una cosa Albert Wesker, un irrilevante cazzo di oggetto è per te Alex Wesker-
più bella tra le braccia solo quando era stato il momento di perderla.
C’era una volta un Autore che aveva messo le mani in una Storia difficile, nata da basi semplici per anime semplici, cresciuta cattiva e marcita prematuramente. Una Storia che chiedeva di essere scritta per essere compresa, cullata, consolata. Una Storia dai risvolti terribili e incerti, dalle tematiche che mai avrebbero voluto essere concepite, tantomeno scritte. Una Storia iniziata proprio quel Giorno su quell’isola, con quella donna che aveva attaccato quell’uomo per colpirlo, ferirlo, per chiedergli dove lei avesse sbagliato, dove non avesse dato abbastanza, dove non fosse stata meritevole della fiducia che non lui le aveva mai concesso. Alexandra era un angelo che si era legato al peggiore dei diavoli, che a lui aveva dato tutto
-Rispetto, Fiducia, Amore-
per ricevere in cambio niente. Niente. Ignoranza, tutt’al più. Non considerazione. E la Storia aveva parlato chiaro: il confine era stato varcato, Alexandra delusa, umiliata, oltraggiata. Si era chiusa in se stessa, per la prima volta nella sua vita aveva davvero preso una posizione: imbracciato lo scudo, aveva eretto una fortezza intorno a sé, era divenuta intollerabilmente irraggiungibile per quel demonio che l’aveva sempre facilmente ottenuta, sprecata, posseduta. Alex Wesker aveva continuato a morire, ma aveva deciso di farlo da sola: aveva scelto di punire Albert, di farlo soffrire, di offrirgli in ritorno tutto ciò che lui aveva offerto a lei. Non per crudeltà, non per vendetta: solo l’ennesimo atto d’amore dell’ultima donna all’ultimo uomo. Voleva insegnargli, Alexandra, fargli capire una volta per tutte l’entità del suo terribile sbaglio, e aveva scelto la strada peggiore. Gli aveva negato la parola, il contatto, la sua presenza stessa, tutte quelle cose che lui aveva dato per scontate, che non aveva mai degnato davvero di un pensiero, che gli avevano restituito quell’alito di vita senza che lui nemmeno se ne accorgesse.
Ingrato, indegno: nessuna sorpresa leggere di come la Storia abbia unicamente condannato.
C’era una volta una Storia infinita, anni di solitudine e anni di sofferenze. C’era una volta una Storia che stava completamente deragliando, un uomo allo sbando senza più la sua donna, un uomo finito senza più il tocco di colei che amava. Una consapevolezza troppo grande in realtà perché quel povero Albert Wesker potesse accorgersene, onnipotente dio ridotto alla scadente imitazione di ciò che era destinato a divenire di diritto -che la debolezza di quella creatura che aveva al fianco aveva disgraziatamente corroso. Ed era qui che si era sentita la Storia tremare, crollare sotto i colpi di una minaccia sempre crescente -sempre terribile, sempre terrificante. La rabbia di Albert Wesker era aumentata a dismisura, il suo orgoglio lo aveva divorato vivo, la colpa la metastasi peggiore. Albert, uomo immaturo, non era mai stato capace di accettare le proprie responsabilità, non aveva mai avuto bisogno di incolpare se stesso -gli altri gli incapaci, gli stupidi imperfetti e fallaci. E’ proprio in questa Storia che la mancanza, la perdita lo avevano trascinato talmente in basso da fulminare l’apatica Alex, da digrignare i denti e pensare che sì, era stata tutta colpa sua -
(Lei era la maledetta incapace, l’inutile piaga che aveva rovinato la sua vita, l’ingranaggio che aveva inceppato la ruota di un meraviglioso destino. Sudicia stracciona, lei non era più nemmeno la donna che aveva conosciuto, che l’aveva abbandonato nel momento del bisogno. Dov’era, dov’era Alexandra quando le sue abilità erano richieste? Dov’era Alexandra quando aveva bisogno del suo supporto? Dov’era Alexandra quando aveva bisogno di sfogare le sue tensioni, i suoi problemi, dov’erano le sue cosce da puttana quando aveva bisogno di fare sesso per ritrovare almeno una cosa bella in quella vita di merda, dov’era quella troia quando…)
Ma dov’era Albert, quando Alex le aveva chiesto di fidarsi di lei? Di avere rispetto, un’ultima volta, per una vita che si stava spegnendo? Non c’era. L’Autore era stato chiaro, ineccepibile nell’esporre la Storia attraverso le sue sofferte righe: Albert non c’era mai stato. Era talmente impegnato a scrivere la sua Storia che aveva cercato di scavallare perfino il ruolo dello Scrittore stesso per imporre la propria autorità.
Era però rimasta almeno una nota a fondo pagina, deboli scarabocchi che rivelavano come Albert credesse davvero di farlo per Alex, come alla fine purtroppo se ne fosse dimenticato, come l’avesse lasciata involontariamente indietro. Per questo la Storia era giunta fino a lì: a un Albert rabbioso e cattivo, malevolo verso una povera creatura che nel suo silenzio stava morendo -ancora una volta, per lui. Il suo amato Albert Wesker, che aveva perso completamente la testa -un Progenitore urlante, forzato a qualcosa di orribile e inaccettabile, intollerabile, insopportabile- e la minacciava, la guardava come mai aveva fatto, le intimava, ordinava di consegnarsi a lui per perpetrare la violenza più meschina, più tremenda. Ed era allora che Alex era morta definitivamente -quando tutte le sue mani erano su di lei e il suo corpo la schiacciava contro il muro, quando la baciava con la sgraziataggine di una bestia che voleva sbranarla da capo a piedi. Quando per l’ultima volta le sue parole erano state ignorate, Alexandra era morta -aveva smesso di agitarsi, di combattere, i suoi occhi si erano spenti. E solo allora Albert si era fermato -aveva compreso. Si era risvegliato, visto nell’atto più lurido che avesse mai commesso e non vi si era riconosciuto. Mai era caduto così in basso, mai era stato così insulso da usare la violenza -nemmeno su coloro che aveva marchiato Non Degni.
Mai aveva osato alzare le mani su di Alex, mai e poi mai su di lei. Mai sulla donna che amava.
Albert si era ritratto, contrito, disperato nel vedere Alexandra ridotta a uno straccio, il suo corpo risparmiato dall’ultimo grido straziato del Progenitore, la sua speranza -la sua fiducia, ormai violentata a morte.
C’era una volta Albert Wesker, un uomo sbagliato, ingrato, pazzo, arrogante, superbo ma mai, mai violento contro di Alex. Mai contro l’unica luce che avesse scorto nella sua vita. C’era una volta Albert Wesker, ma in questa Storia solo Albert era rimasto: un uomo che non era stato capace di salvare né Alex, né se stesso, che nella sua schifosa viltà aveva pensato di abusare di una creatura ormai sfiancata e sfinita, incapace di vivere, incapace di morire. Si era fermato in tempo, ma non esistevano più giustificazioni per lui, più nessuna attenuante: Albert aveva ucciso Alex un’ultima volta, quella peggiore, aveva cercato un primitivo e bestiale contatto fisico per sentirsi di nuovo vivo, sacrificando la vita della sua compagna. Non si sarebbe fermato se non ci fosse stato il Progenitore, perché non era mai stato nessuno senza di lui -senza di lei-, solo la più servile delle bestie. Non dio, non uomo: animale. Che aveva compreso finalmente quando irrimediabile fosse stata la perdita che si era personalmente inflitto.
C’era una volta una Storia che non aveva mai avuto la pretesa di firmare un lieto fine, una di quelle che si preferiva non leggere ed esorcizzare, affrontare alla luce del giorno perché i suoi demoni facessero meno paura. C’era una volta una Storia che era iniziata male per chiudersi male, in cui un uomo ormai perso e spaccato si era trovato fianco a fianco a una donna il cui ruolo era quello di morire. Un ruolo che infine era stato compiuto, perché proprio Albert aveva ucciso Alex. Eppure l’Autore, certosino, in un angolino nascosto dell’ultima pagina si era assicurato di annotare qualche riga, niente di veramente importante s’intende, ai fini di una Storia che, stanca, si apprestava a concludere l’agonia dei suoi protagonisti. Poche righe che parlavano di una notte in cui Alexandra, poco prima della fine, non ce l’aveva più fatta da sola nel suo silenzio e aveva mostrato ad Albert tutto il suo sfinimento, la disperazione, la delusione e la sua paura -la notte in cui era uscita da un guscio indurito dagli anni, scalfito da una croce mai svanita e dal gesto supplicante di un uomo che aveva ammesso la sua piccolezza e implorava solo il suo perdono.
C’era una volta una donna, no, Alexandra Wesker, che la Storia non ricorderà perché non sarà diventata nient’altro che polvere il giorno in cui il mondo si risveglierà felice, immacolato, purificato dopo un sonno lungo sei milioni di anni. Ma non importa. L’Autore era stato chiaro quando aveva vergato la parola fine al concludersi della sua Storia: Alexandra era stato il motore di tutto, aveva sofferto ed era morta per quello che amava e in cui credeva, in cui aveva creduto fino alla fine quella notte in cui per la prima volta aveva avuto la forza e il coraggio di piangere, di mostrare a un novello Albert Wesker che sì, lui era diventato dio nel momento stesso in cui aveva riconosciuto e accettato di amarla, nel momento in cui aveva compreso quanto grande fosse la cosa -la persona che teneva tra le braccia e che per l’ultima volta aveva avuto la bontà di perdonarlo, consolarlo, di concedersi a lui e farlo finalmente sentire vivo per un’ultima, rassegnata, felice volta. La volta finale in cui Albert Wesker aveva strappato le sue catene, in cui aveva riconosciuto quanto il mondo non avesse bisogno di alcun Uroboros perché a lui fosse concessa la perfezione, in cui aveva capito quanto sarebbe stato tutto incredibilmente diverso se solo avesse avuto più cura di Alexandra, se solo avesse avuto il valore di riconoscere davanti a lei tutte le sue colpe. Se solo.
C’era una volta un Autore, che aveva scritto la Storia e aveva parlato per loro, che aveva annesso a fine pagina ogni nota, ogni asterisco necessario perché una fiaba come questa non fosse mai dimenticata. Che aveva spiegato come Alexandra non avesse mai smesso un secondo di amare il suo uomo, come avesse intrapreso la via più dura per regalargli il dono della comprensione: per lei, il dono era stato la morte.
C’era una volta un Autore, che aveva afferrato Albert e gli aveva gridato contro tutti gli insulti, gli improperi, che lo aveva messo alla prova per farlo crollare, fargli capire quanto nel torto fosse la sua concezione. Ma gli aveva donato anche la soluzione, la via di fuga, la possibilità di redimersi che per anni aveva ignorato: la possibilità di capire, prima della fine, quale fosse il vero nodo della sua esistenza. Albert Wesker aveva faticato, sbagliato, deviato, cambiato strada mille e mille volte ancora, ma alla fine si era ritrovato sempre lì.
Sempre accanto ad Alex.
Lei l’aveva perdonato per tutto quel tempo in cui l’aveva lasciata sola, e lui aveva finalmente capito. L’aveva amata, dolcemente, teneramente, veramente, come la vera prima volta per loro; l’aveva conosciuta, giù le maschere, persa mille volte e ritrovata per sempre la più importante -l’ultima. L’aveva amata davvero per la prima e l’ultima volta, si era consegnato a lei pienamente, incondizionatamente, una tacita dichiarazione -era morto, vedendola ridotta ad accasciato ricordo di quello che erano stati. Ma l’aveva amata comunque, accettando tutte le sue colpe e un destino anch’esso da troppo tempo evitato.
C’era una volta Alex, che nel silenzio di occhi morenti -sempre presenti-, aveva compreso tutto prima del tempo, lo aveva sentito -aveva resistito, perché l’ultima vetta fosse scalata e la montagna conquistata. Per questo aveva accolto Albert Wesker, timorosa, per questo l’aveva scusato. Perché in quell’ultima notte c’era una volta una donna che era stata ignorata, sfruttata, giustiziata, ma che aveva deciso come il suo amore non dovesse essere secondo a niente, come non dovesse seguire mai nessuno.
In una nota a fondo pagina, dunque, in un asterisco insignificante e ignorato, giace il cuore della Storia degli uomini, di un uomo e di una donna destinati a morire dal principio, addolorati, disperati, scempiati. In pace, liberi, insieme, cullati da un sentimento immortale e ben oltre i confini di una Terra nativa. (Recensione modificata il 19/03/2017 - 06:28 pm) |