Recensioni per
Scorre la Senna, scorre lenta.
di _Agrifoglio_

Questa storia ha ottenuto 353 recensioni.
Positive : 352
Neutre o critiche: 1 (guarda)


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Nuovo recensore
30/07/23, ore 01:30

Ciao! Leggo questo capitolo solo ora, e mi spiace di non averlo trovato prima... Beh... Posso solo complimentarmi con te per lo splendido ritratto di Victor, personaggio che ho sempre adorato! Apprezzo moltissimo la tua gentilezza nel delineare le sfumature dei suoi sentimenti, e del suo immutato affetto per Oscar, donna che non gli sarebbe mai stata valida compagna... Non solo perché innamorata di un altro, ma (nell'ipotesi in cui avessero potuto conoscersi meglio) perché troppo dura ed impetuosa, "diretta" e, a tratti, crudele. Victor, seppure integro ed adamantino, sa "piegarsi", e, spesso "dubitare", pur mantenendosi e non venendo mai meno a sé stesso. Ha dato tutto, per lei, eppure non ha perso niente. La sua carriera è finita, è stato imprigionato, è finito esule... Eppure, non ha perso. È veramente il simbolo perfetto della nobiltà, della cavalleria e dell'altruismo. Grazie! Mi sono salvata il pezzo, per rileggermelo altre mille volte. Ah... Complimenti anche per il capitolo in cui descrivi come abbia disobbedito "solo per lei"!
(Recensione modificata il 30/07/2023 - 01:32 am)

Recensore Junior
19/06/23, ore 02:54

E’ davvero amareggiata la povera marchesa de Boulainvilliers e come darle torto? Jeanne si comportò in modo abominevole con quella che fu la più indifesa e la più imperdonabile delle sue vittime.
La marchesa si rivolge ai vivi ed è piuttosto ironica nel descriverne gli atteggiamenti. Li definisce vivi padroni del mondo, intenti a calcare con passo sicuro e con sguardo fiero la terra che diede loro i natali. E’ evidente l’amara ironia, se non il sarcasmo, insiti in queste parole visto che i vivi non sono padroni di nulla tanto meno del mondo e l’unica libertà di cui godono è quella di farsi gabbare dai loro simili.
La marchesa de Boulainvilliers sembra totalmente cambiata. Non sappiamo se a parlare per lei è il dolore e la delusione o se in lei si è attuata una radicale metamorfosi. La povera donna invita chi è in ascolto a chiudere i dettami religiosi nei libri sacri, a sprangare la propria anima, a sradicare ogni sentimento di empatia verso i propri simili, perenne fonte di dolore e di disinganno.
E se proprio non riuscisse il malcapitato di turno a seguire questi brevi, ma saggi consigli, che almeno riservasse le sue attenzioni ad un animale abbandonato che mostrerà semplicemente la sua gratitudine leccando la mano ed agitando la coda mentre l’essere umano è per sua natura traditore, pronto a rivoltarsi con disprezzo e furore ed a ricambiare l’amore con l’odio. Il riferimento a Jeanne che la marchesa amava come una figlia è più che chiaro.
La marchesa de Boulainvilliers conclude la sua arringa esortando i vivi a diffidare dei loro simili, a chiudersi a loro ed a dedicare ad essi la buona educazione ed altri atteggiamenti di facciata, ma umanamente poco impegnativi.
E’ davvero triste constatare l’amarezza che, dopo due secoli, pervade ancora questo personaggio. Una donna di cuore piena di buoni sentimenti si è tramutata irrimediabilmente in un’ombra sarcastica ed arrabbiata. Per lei non ci furono soccorsi perché il settimo cavalleggeri non era nei paraggi. Oscar vide l’incendio, ma non arrivò in tempo e tutto si consumò nel terrore e nell’indifferenza più totali.
Essere traditi da colei che considerava una figlia per denaro ed ambizione deve essere stato tremendo e l’ultima cosa che vide prima di morire fu il ghigno satanico della sua protetta. Ce n’è abbastanza per fare uscire di testa chiunque.
Trovo questo ritratto molto verosimile e la reazione della marchesa più che naturale. Chiunque con quel trattamento sarebbe diventato un fantasma inquieto ed amareggiato. Sono tutti molto belli questi pezzi, ma questo mi ha dato i brividi. Alla prossima lettura!

Recensore Junior
19/06/23, ore 02:53

Superbo questo ritratto di Jeanne de Valois che si manifesta a noi con tutta la sua anima ardente, sempre in tensione, magnificamente in bilico tra sogni di gloria e pragmatismo, tra smania di emergere, desiderio di vendetta, rabbia e frustrazione.
Subito ci si presenta per quello che è, la figlia bastarda di un nobile e di una serva che proprio perché bastarda non ha diritto a niente, a partire dal nome, ma che invece vuole tutto perché lei vuole vivere e non sopravvivere.
Ci sbatte subito in faccia la sua voglia di emergere e di vivere, ma le possibilità per farlo erano poche per una persona emarginata come lei, nata sotto una cattiva stella per dirla con le sue parole.
E così in cerca di fortuna e di riscatto, questa gatta selvaggia scappa di casa e vive di espedienti (quali siano ci sono risparmiati per carità di patria). Da allora sarà una perfetta arrampicatrice sociale e non ci sarà misfatto che le resterà estraneo. La mente corre subito alla povera Marchesa di Boulainvilliers che fece una fine orrenda, rea soltanto di troppa ingenuità e di poca avvedutezza.
Confessa tutto senza ritegno, senza falsi pudori, senza pentimenti perché il suo tempo sulla terra è finito da secoli.
In tutta questa smania di ascesa sociale ed economica, Jeanne de Valois mostra il suo disincanto ed il suo cinismo perché disonestà e delitto, secondo il suo pensiero, aprono la via sia alla vittoria che alla sconfitta, solo che nel primo caso non sono scoperte restando un silenzioso viatico, mentre nel secondo si sentono e come fino a diventare un roboante marchio d’infamia. Tutto sta a cadere dalla parte giusta perché nello Jeanne – pensiero non sembrano esserci differenze sostanziali né sul lato comportamentale né su quello etico tra onesti e disonesti.
Esplode quindi la rabbia di questa donna ambiziosa che ha sempre sognato in grande di avere un posto tra i nobili del regno e l’unico posto che invece ha ottenuto è quello su un patibolo nel cortile della prigione, per essere marchiata come un animale.
Brucia ancora a Jeanne quel marchio rovente sulle sue carni e le brucia l’umiliazione che ha provato. Per affievolire questi sentimenti molesti sente il bisogno di rammentare all’uditorio le sue “prodezze” e la sua vendetta, perché ciò che è stata non si perda sotto le volte di una prigione oscura.
Ricorda la truffa del secolo che lei ha ideato, per ordire la quale ci volle ingegno e lo testimonia il fatto che ancora se ne parli. Ricorda la fuga rocambolesca dalla prigione e l’illusione di tornare libera, scanzonata e ribelle come e più di prima.
Ricorda la vendetta che si prese, scrivendo le sue memorie e con queste umiliando sia la regina straniera che il superbo comandante dall’incerta sessualità. Maria Antonietta l’aveva sdegnata ed aveva insistito per un processo pubblico, decretando così la sua pubblica rovina e dando prova di stoltezza. Oscar invece aveva rifiutato le monete d’oro e la corruzione, mortificandola, rimproverandola con aspre parole e sbattendole in faccia la sua meschinità. Con il suo memoriale al vetriolo Jeanne de Valois pareggia i conti o così almeno crede, spargendo veleno e facendo in modo che la gente creda alle sue menzogne.
Tutto quello che voleva, conclude, era un posto al sole ed allora non si capacita del perché il suo futuro eterno è all’ombra con una lapide annerita e ricoperta di muschio, di sterpi e di erbacce, collocata in un luogo umido e nascosto, che nessun ammiratore curioso si prende la briga di andare a visitare.
Di questo ritratto sincero e senza ammortizzatori colpisce la determinazione ed addirittura la ferocia con cui Jeanne de Valois persegue la gloria, la ricchezza e la realizzazione che non saranno mai abbastanza per lei e che le sfuggiranno sempre di mano fino ad abbandonarla completamente nel suo destino eterno ed a consegnarla a quella tomba oscura e nascosta che giganteggia alla fine del ritratto. Jeanne voleva tutto e rimase senza niente, ma il suo accanimento crebbe a misura degli schiaffi in pieno volto che prendeva uno dopo l’altro.
Colpisce anche che in questa fulminea retrospettiva, impietosa e sconcertante nella sua brutale sincerità, manchi qualsiasi accenno al marito Nicolas de la Motte (la stessa Rosalie compare in un fugace accenno seppure come esempio da non imitare). Neanche mezza riga di affetto o di semplice ricordo la moglie gli dedica, dimostrando che in quella forsennata ed un po’ insana scalata verso il successo lei correva sola e che nessun legame di cuore la teneva stretta al resto dell’umanità. Scartata la possibilità che questo silenzio sia dovuto ad un’esigenza di riserbo, al pudore da dedicare ad un sentimento profondo (non ce la vedo Jeanne così discreta ed innamorata), occorre concludere che questo silenzio sia dovuto ad un oblio inconscio o volontario o, volendo rilanciare, ad uno strisciante rancore perché il marito non ha condiviso con lei il processo, la prigione, le frustate e la marchiatura a fuoco.
I tuoi ritratti sono sempre efficaci e questo è uno dei migliori perché restituisce la determinazione, la sfrontatezza, la ribellione profonda ed il non essere mai doma della voce narrante. Complimenti sinceri ed a presto!

Recensore Junior
26/05/23, ore 03:37

Trovo molto affascinante questo ritratto di Rosalie ed in vari punti assai condivisibile.
Rosalie si presenta come una donna comune, più fragile di tante altre e peggiore di quasi tutti coloro che ha conosciuto nel corso della sua lunga e travagliata esistenza. Eppure lei è vissuta a lungo mentre tutti i suoi amici sono morti anzitempo oppure sono vissuti molti anni, ma devastati da un tarlo corrosivo che ha loro guastato la vita come avvenne al marito Bernard ed al generale de Jarjayes.
Tutte le persone conosciute da Rosalie erano munite di grandi doni che le rendevano speciali, socialmente notevoli e sicuramente superiori ad una ragazza qualsiasi come lei eppure non hanno resistito agli urti della vita semplicemente perché hanno mal gestito questi doni. Questo perché non hanno avuto il coraggio di affrontare il nodo principale delle loro esistenze, ma sono vissute in una continua fuga da se stesse come Oscar e Maria Antonietta oppure perché sono state sopraffatte da un pensiero dominante che le ha sfiancate, prosciugate e condotte sull’orlo della pazzia come André ed il generale de Jarjayes. Altre persone avevano molto, ma si concentravano su ciò che non avevano anziché su quello che possedevano come il conte di Fersen che voleva l’unica cosa che non poteva avere o come la madre adottiva da giovane che perse tutto per una leggerezza o come Jeanne che, pur essendo bellissima, intelligente e ben posizionata dopo essere stata accolta dalla marchesa de Boulainvilliers, voleva sempre di più in modo quasi ossessivo compulsivo. Altri erano divorati dal demone dell’ambizione al punto di passare sopra a chiunque come la contessa di Polignac o dal senso d’inadeguatezza e dall’abbandono affettivo come Charlotte. Bernard rimase vittima dei suoi ideali mal riposti ai quali sacrificò anche il benessere della sua stessa famiglia, fino a subire un’atroce delusione.
Abbiamo visto cosa ha Rosalie meno degli altri: bellezza, cultura, intelligenza, nobiltà, ricchezza, intraprendenza, carisma.
Ma cos’ha Rosalie più degli altri, al punto di consentirle di sopravvivere a tutti i suoi amici, ad una delle rivoluzioni più sanguinose della storia, ad un mondo in disfacimento ed a drammi familiari e personali di ogni tipo?
Prima di tutto una grande umiltà che l’ha spinta a puntare poco su se stessa e sulle proprie aspirazioni e molto sulla pietà e sui rapporti umani. Rosalie si sente inferiore a tutti, impossibilitata a competere con chiunque eppure rispetto agli altri ha un dono, un’aurea mediocritas che le fa condurre quella vita da mediano che la rende adatta ad affrontare gli urti della vita.
Poi la capacità di perdonare, di compatire e di comprendere, esercizi difficili che però l’hanno salvata dalla morte o dalla pazzia.
Una grande capacità di capire l’animo umano e di interpretarlo laicamente senza pregiudizi e mistificazioni, accettando le persone per come erano, coi loro limiti e coi loro difetti, con un sorriso e con tanta accoglienza, ma senza cadere nella trappola di vedere soltanto il lato positivo della gente perché una visione laica richiede di prendere in considerazione soprattutto i difetti, in quanto “la meschinità va riconosciuta e studiata, tenuta nella giusta considerazione e sottoposta a costante controllo, per poterla relegare nel posto che merita: sotto i piedi”.
Ha un grande spirito di adattamento e la capacità di perdonare se stessa, accettandosi con i propri limiti e senza coltivare vane speranze.
Rosalie è pragmatica, sa quando dire basta, sa cosa può avere e cosa non può avere. Chiuso l’impossibile capitolo di Oscar si sposa con un uomo che è il quasi sosia di André, giusto per conservare e portare con sé qualcosa di palazzo Jarjayes.
Rosalie è normale, non ha grilli per la testa o pensieri dominanti che prendano il sopravvento, ne sminuiscano la lucidità e ne alterino le priorità.
Mi è anche piaciuto come Rosalie si è presentata. Filo conduttore di una storia di dolore, senza riscatto e senza redenzione di cui divenne depositaria finale tramite la consegna di una rosa bianca di stoffa. Rosalie infatti conosce quasi tutti i personaggi della storia, dal più potente al più umile, accetta tutti, non giudica ed alla fine la regina le consegna la rosa bianca di stoffa da depositare sulla tomba di Oscar. A lei è affidato l’ultimo compito, l’ultima missione che non è nulla di trascendentale, è un’azione semplicissima che però è l’ultimo pensiero di un’amica per l’altra, un gesto di pace, un modo per dire “non ce l’ho con te, ti ho capita e perdonata”. Rosalie, con le sue doti umane e con le sue capacità relazionali, fa da ponte, da tramite e quasi da paciere tra Maria Antonietta ed Oscar, consentendo loro di riunirsi metaforicamente anche se soltanto dopo la morte.
Questo ritratto è stupefacente perché trovo che Rosalie vi sia colta con precisione e sensibilità. E’ facile vedere in lei una piagnona o meglio un salice piangente come molti dicono. Ciò però non spiega la capacità di questa donna di uscire indenne o addirittura fortificata da tante dure prove. Soprattutto questa visione si arresta alla superficie del problema senza coglierne la vera essenza. Rosalie secondo me è una roccia, più forte di Oscar e di André messi insieme perché lei vede la vita così com’è e la sa affrontare senza farsi sopraffare. Cresciuta nella povertà e nella privazione sa cogliere il succo del problema senza sfiorare le grandi altezze, ma senza cadere negli abissi. Non si fa fuorviare dagli stati d’animo e dalle favole auto raccontate, ma è concreta e, come i rami di un salice piangente, si flette docilmente ai colpi della sventura per poi ritrovare serenità col ritorno della normalità.
Bene, che dire, niente male per una sciocca piagnona!

Recensore Junior
26/05/23, ore 03:29

Trovo che questo ritratto di Bernard sia psicologicamente molto veritiero.
Mi hanno colpito alcune cose.
Innanzitutto Bernard parla quasi sempre della sua causa che è sua moglie, sua madre e la sua amante. Rosalie viene nominata un paio di volte anche se in ambedue i casi ha un’importanza fondamentale nella vita di Bernard ed André fa capolino alla fine anche se in modo altrettanto rilevante.
Mi ha anche colpito che Bernard tenti spesso di giustificarsi o di minimizzare o di dare la colpa agli altri. Quando parla della sua vita da ladro lo fa in termini tutto sommato nobili ed avventurosi. L’epoca era oscura, la giustizia latitava, la gente soffriva e lui voleva imitare le gesta dell’eroe di Sherwood. La causa poteva anche essere giusta ma era il mezzo ad essere sbagliato e Bernard non fa una vera autocritica sul punto. La colpa è sempre degli altri, a cominciare dal protettore sbagliato che si era scelto, il duca d’Orléans che si rivelò un volgare avventuriero.
Dicevo che Bernard non fa mai una vera autocritica sul punto perché non rinnega mai la sua scelta di mettersi fuori dalla legge né la sua esistenza di ladro. Se lascia quella vita è solo per una promessa fatta e perché la moglie avrebbe disapprovato. La moglie, non lui. Soltanto en passant dice che la realtà è ben diversa dalla fantasia e che finisce che ci va di mezzo chi non dovrebbe.
Inizia perciò la seconda vita di Bernard quella di giornalista, di agitatore e di rivoluzionario.
I successi all’inizio sembrarono arrivare, ma fu una gioia di breve durata. I rivoluzionari si rivelarono inadeguati: o inesperti o avidi e disonesti e tutti molto vendicativi. Vinto dalla delusione e per evitare guai peggiori Bernard si ritira dalla vita politica e si salva ed anche dietro questa seconda svolta troviamo la mano invisibile di Rosalie.
Malgrado l’abbandono della politica attiva Bernard non può che soffrire per la situazione che si è creata nella quale ha sempre giocato il ruolo di idealista fanatico, ma con il paraocchi e la vista a breve raggio. La rivoluzione finisce in dittatura e la dittatura in un turbine di violenza e di fuoco che divora tutti. Dalle ceneri di tanta rovina sorse un secondo avventuriero molto più pericoloso del primo che uccise ciò che rimaneva della loro infelice repubblica.
In tanta desolazione l’unica immagine rigenerante è quella di André, in apparenza un uomo vinto ed imbelle che però ebbe il grande merito di mostrare a Bernard che non tutti i punti di vista sono uguali e che si possono ricevere delle gravi offese senza per questo provare rancore e tentare di vendicarsi. Bernard lo dice senza mezzi termini che André era l’unica persona che avrebbe avuto dei validi motivi per avercela con lui e per desiderare la vendetta e che tuttavia non indulse mai a questo poco nobile sentimento. André gli mostrò sempre una sincera e disinteressata amicizia ed il suo perdono lo rese una persona migliore. Alla forza salvatrice e protettiva di Rosalie si unisce la funzione catartica di André.
Quello che doveva essere un vinto si spense con dignità e compostezza, strappando al suo ex carnefice le uniche parole poetiche del brano.
Il vero vinto qui è Bernard che non mostra mai un autentico pentimento né tanto meno un sincero ravvedimento, ma che fa tutt’al più delle scelte di opportunità, cavalcando da personaggio secondario un periodo storico di primaria importanza, senza quasi mai essere determinante o capirci veramente qualcosa. Il linguaggio usato dal personaggio è quasi sempre distaccato, a volte superbo e sprezzante quasi sempre malinconico e deluso.
Anche in questo caso le descrizioni degli stati d’animo sono perfette, la concatenazione degli eventi è incalzante, l’approfondimento psicologico è eccezionale. Corro a leggere un altro ritratto che mi auguro sia bello!

Recensore Junior
04/05/23, ore 02:09

Troviamo di nuovo Saint Just questa volta visto con gli occhi di un’altra persona, il suo mancato suocero.
Subito ci si accorge che l’io narrante è dominato da un sentimento: l’estrema felicità per lo scampato pericolo. Nelle righe che seguono troviamo la spiegazione di questo senso di liberazione e l’esplicitazione di una vera e propria esecrazione per questo corteggiatore della figlia che proprio non gli andava a genio.
Saint Just viene visto come un giovane scapestrato e perdigiorno. Queste sono accuse molto gravi ma non sufficienti a definire una persona in quanto non esplicitano la causa, ma soltanto l’effetto. Saint Just era scapestrato e perdigiorno per una sua malsana inclinazione o lo era per demotivazione, magari dovuta alla difficoltà di trovare una propria strada? Il prosieguo del discorso sembrerebbe far propendere per la prima soluzione.
Saint Just è privo di talento, non riscuote successo e la conseguenza di tutto ciò è che è frustrato. Siccome è anche privo di moderazione, si innesca un cocktail micidiale che porta alla violenza, allo spirito di rivalsa ed a sfogare la frustrazione su chi è reputato più fortunato.
Saint Just è anche un contestatore in perenne conflitto con l’autorità e con il mondo che lo circonda, tanto è vero che inizia la sua carriera di disadattato rubando l’argenteria alla sua stessa madre. L’esito finale sarà la trasformazione della Francia in un mattatoio.
Oltre che mediocre e disadattato, per il mancato suocero, l’angelo della morte è anche inadatto al lavoro, essendo privo di due caratteristiche indispensabili per un lavoratore: l’umiltà e la costanza. Se non sei costante non ti applichi e non perseveri, se non sei umile non impari e non vai d’accordo con gli altri, se non sei nulla di tutto ciò non lavori.
Come conseguenza di tante deficienze, Saint Just sceglie in via residuale di dedicarsi alla politica, vista qui come refugium peccatorum degli inetti. Ben magra considerazione ha di questa disciplina il narratore! Si può anche dire che c’è modo e modo di fare politica e che essere un agitatore ed un capopopolo è la maniera peggiore di dedicarsi al bene comune. L’idea che si dedichino alla politica soltanto gli svogliati ed i privi di talento però c’è e permane!
Dulcis in fundo, Saint Just fu un fabbricatore di orfani e di vedove e trasformò la Francia in un mattatoio. Come non complimentarsi con se stessi per avere salvato la propria figlia da un simile partito?
Sarebbe però stato interessante udire anche altre campane come la madre di Saint Just e la stessa Thérèse. A mammina cara si sarebbe potuto chiedere con quale faccia e con quale cuore si manda in galera un figlio per qualche pezzo di argenteria mentre con la ex fidanzata sarebbe stato interessante appurare cosa aveva visto di buono in lui perché o gli inetti, livorosi, inadatti al lavoro, fabbricatori di orfani e di vedove erano due e si sono trovati in questa vita oppure lei deve pur averci visto qualcosa in lui, tertium non datur ed allora Saint Just non era poi così male e si è perso strada facendo? Non lo sapremo mai!
Grazie anche di questo tuo pezzo, molto curato ed interessante come tutti gli altri!

Recensore Junior
04/05/23, ore 02:08

Che caratterino il tuo Saint Just! Non la manda certo a dire! Ne ha praticamente per tutti!
Ma procediamo con ordine.
Per prima cosa se la prende con il re sulla base di un assunto astratto che poi era il suo reale pensiero: non si può regnare senza usurpare ed i re sono dei barbari invasori che non hanno sottoscritto nessun patto sociale col popolo invaso e che come tali non godono della protezione del diritto delle genti. Non si può regnare senza colpe ed il solo fatto di essere re è un crimine punibile con la morte senza se e senza ma. Un po’ spinto come pensiero ed è del tutto inaccettabile che tale assunto che potrebbe al limite trovare posto in un manuale di filosofia, di sociologia o di politologia possa condurre alla condanna a morte concreta di un essere umano vero, senza alcun approfondimento sulle sue attitudini e sui suoi comportamenti.
Poi viene il turno della regina e qui il pregiudizio si fonda sull’immagine di lei proveniente dai libelli e dalla vulgata. Maria Antonietta era una donna dissoluta che si intratteneva con donne e uomini, una madre incestuosa, una pedofila molestatrice di bambini, vergogna della Francia e del genere femminile. Anche qui si rimane in superficie senza alcuno sforzo di approfondimento e senza nessuna volontà di farlo.
Arriviamo a Madame Elisabeth e qui siamo nel vortice dell’incompatibilità pura. Tanto era religiosa, devota e monarchica lei, quanto era ateo, spregiatore della religione e repubblicano lui e la cosa non poteva che finire a schifio. Definire i dissidi con il rasoio nazionale però è un tantino antidemocratico oltre che esagerato…..
Poi da punire c’erano i preti che essendo sacerdoti dell’entità secondo lui bugiarda davano il loro contributo a che la menzogna si auto perpetrasse. Fra stato e religione il legame è stato sempre profondo, tanto è vero che i re venivano unti con l’olio santo, ricevendo da Dio il compito di regnare che diventava una sacra missione. Se si vuole abbattere un sistema fondato sul monarca consacrato da Dio, occorre anche abbattere la religione, è tutto consequenziale.
In via residuale ci sono tutti i nobili che sono indifferentemente avari, alteri e dissanguatori delle folle. Anche qui se si vuole condannare a morte qualcuno non sarebbe male ragionare in termini di Tizio, Caio e Sempronio e di ciò che ognuno di loro ha fatto anziché prendersela con una massa indifferenziata.
Un coacervo di superficialità!
Arriviamo all’exploit finale in cui Saint Just diventa il protagonista di un horror di serie B che vuole strangolare i nobili con le loro stesse budella e fare affogare i ricchi nelle tasse. In questo secondo caso, per una volta, parla in senso figurato, ma considerato cosa sono le tasse affogarci anche se solo metaforicamente resta sempre un film dell’orrore…… di serie A.
E poi morti, morti, sempre più morti, il sangue versato non basta mai!
Mi è piaciuto il richiamo all’anime in cui Saint Just dà quel giudizio tranchant su Robespierre, dicendo che, al di là delle pose da intellettuale, era come lui. Una cosa purtroppo vera visto che il terrore lo portarono avanti in due.
E veniamo al punctum dolens in cui Saint Just si lamenta della sua morte. Come Robespierre, accusa di ingratitudine chi lo mandò sulla ghigliottina disconoscendogli il ruolo di padre della repubblica e della rivoluzione. E’ un altro punto però quello che, secondo me, caratterizza Saint Just e che gli dispiace più della morte stessa: essere accomunato nel momento supremo a coloro che più odiava e disprezzava ed in cauda oltre al veleno si vede anche il motivo basilare di tanto astio e cioè l’esclusione dai privilegi e da quel paradiso terrestre nel quale lui pensava di non avere diritto di cittadinanza.
Una psiche livorosa, violenta, vendicativa, paranoica e portata all’astrazione nel senso peggiore del termine che purtroppo per la storia e per i suoi connazionali giocò un ruolo chiave in un periodo particolarmente delicato per l’umanità.
Come sempre apprezzo molto la tua capacità di leggere i personaggi e nei personaggi, il tuo andare oltre la superficie e le apparenze e la tua abilità di ricostruire l’anima, sana o malata, di tante figure così diverse fra loro! Dare voce a personaggi sanguinari non deve essere facile perché entrare nella loro mente non è reso possibile dall’empatia. Bisogna allora tentare di capire anche chi è estremamente ostico e tu ci riesci alla perfezione!

Recensore Junior
14/03/23, ore 01:43

Questo pezzo su Robespierre descrive l’incorruttibile oltre le parole da lui usate. Dico questo perché da quanto scritto nella prima parte del brano emergono non soltanto i fatti da lui narrati, ma anche la puntigliosità del suo carattere ed una sorta di freddo e chirurgico distacco che ne accompagna le parole:

Nacqui nella città di Arras,
capoluogo della Contea dell’Artois,
da una famiglia di giuristi,
appartenente alla piccola nobiltà di toga.
Dotato di un’intelligenza notevole,
di una spiccata propensione allo studio
ed afflitto dalla scarsa empatia
e dalla tendenza all’isolamento
di chi non ha sperimentato l’affetto in tenera età,
crebbi nell’ammirazione degli Illuministi
e nel culto della Dea Ragione.

In poche righe l’incorruttibile mostra tutto quello cui ho accennato perché esordisce con delle informazioni geografiche precise che molto hanno del puntiglioso e poco dicono su di lui e prosegue accennando alle sofferenze che ne caratterizzarono l’infanzia ed alla privazione dell’affetto senza che da queste righe traspaia qualche emozione del narratore. Io almeno lo percepisco freddo, lucido e monocorde anche quando parla degli aspetti più intimi di sé.
Anche la sua scelta di vita, quella di votarsi all’illuminismo, è descritta senza slancio, come la scelta del meno peggio:

il mio non era il secolo dei prodi eroi o delle epiche gesta,
ma dei sentimentalismi e delle leziosità
e, allora, meglio il razionalismo

Pure quando parla dei suoi sentimenti egualitari, della necessità di superare la superstizione, la disuguaglianza del sangue e lo strapotere feudale, lo fa senza passione ed in modo incolore.
Soltanto nella seconda metà del pezzo sembra accalorarsi, ma non dietro le passioni e gli ideali, bensì prodigandosi in una sorta di excusatio non petita. In un lungo monologo Robespierre diventa accusatore ed accusato, ipotizza le accuse che gli si potrebbero lanciare e risponde a se stesso in una sorta di ping pong solitario dalla mano destra a quella sinistra, con un atteggiamento tipico dei paranoici e dei maniaci di persecuzione quale egli fu, perlomeno nell’ultimo periodo della sua vita.

Unendovi alle schiere dei detrattori, forse, anche voi affermerete
che la Rivoluzione non portò alcun utile effettivo alla gente comune,
ma servì unicamente la mia brama di potere ed il mio ego ipertrofico.
Direte che l’incorruttibile fu il primo a tradire i suoi ideali,
come il ripudio della pena di morte e di ogni forma di violenza.
Mi rinfaccerete di essermi trasformato,
da paladino dei deboli, in fanatico oppressore
e che la nobiltà, vessata e perseguitata,
fatta oggetto di pregiudizio e di cieco odio,
dismessi gli abiti sontuosi e le pose cicisbee,
andò a riempire le fila dei deboli da me trucidati.
Storcerete il naso ed obietterete che,
quando gli ideali non intercettano la concretezza,
la pietà non mitiga la giustizia
ed il buon senso non dialoga con l’utopia,
si fa presto a diventare Torquemada.
La ragione uccide se stessa,
la Rivoluzione divora i suoi figli,
sangue chiama sangue.

Addirittura in questo delirio di botta e risposta Robespierre argomenta anche contro le accuse che i romantici rivolsero agli illuministi ed a tutti i rivoluzionari e non a lui personalmente, quando era morto da un pezzo.
Cerca poi una giustificazione, dicendo che non è facile gestire il potere quando si è catapultati da una condizione di nerd un po’ asociali, tutti libri e niente esperienza del mondo, a quella di guida di una repubblica neonata che va difesa dagli attacchi. Ma che argomentazioni sono? Gliel’ha ordinato il medico di andare al timone dello stato?
Più il brano procede più Robespierre cerca il sostegno del lettore, dicendo di non essere un Saint Just (dal quale quindi si dissocia) né un invidioso sociale e cercando di generare compassione quale vittima di ingratitudine.
E’ nel punto in cui grida ‘Ingrati!’ che si lascia andare completamente, ma non al sentimento bensì alla nevrastenia.
Soltanto alla fine sembra ammettere in parte i suoi errori. Non gli diedero la possibilità di difendersi così come lui non la diede al re, alla regina ed alle altre vittime del terrore. Subito dopo però la colpa torna ad essere degli altri ‘una vera e propria conquista della democrazia’.
Un altro brano molto bello che dà la parola ad un personaggio difficile da descrivere e soprattutto da far digerire e che arricchisce ancora di più, se ce ne fosse stato bisogno, questa galleria di personaggi ormai morti, ma sempre incredibilmente vivi.

Recensore Junior
14/03/23, ore 01:42

E’ proprio bello questo pezzo, scritto molto bene, che presenta un rovesciamento della prospettiva, dove l’io narrante è la comparsa macchiatasi dell’uccisione di André mentre la protagonista è derubricata a spilungone biondo ed effeminato o a tizio allampanato ed André ad un altro soldato indietro nel mucchio.
Anche la controparte ha un’anima ed anche i “cattivi” sono buoni a casa loro.
Questo soldato amava molto la sua famiglia, la moglie ed i figli e per loro era disposto anche a fare un lavoro ingrato, quello del mercenario ‘soldato privo di patria, senza valori, voltagabbana, servo prezzolato dal migliore offerente’. Stare lontani da casa, da quella famiglia per cui si sacrifica tutto anche la rispettabilità e finire in terra straniera, inviso a tutti, indegno di fiducia, deve essere immensamente brutto.
Aggiungiamoci che faceva un caldo pazzesco in quel tredici luglio e che a Parigi c’era un clima di guerriglia dove era in atto un tutti contro tutti di dimensioni bibliche. Tutti, anche donne, bambini e vecchi decrepiti, purché in grado di brandire un’arma, potevano costituire un problema. Nascosti dietro un angolo, appostati sotto un ponte, protetti da un muro, potevano spuntare fuori all’improvviso e colpire. Distinguere il nemico dall’amico non era facile perché molti avevano disertato ed indossare una divisa di qualunque foggia o colore non era garanzia di appartenenza ad alcuna fazione.
In questa situazione di estremo disagio, si consuma la tragedia che tutti conosciamo. Sul fare del tramonto alcuni soldati della guardia metropolitana parigina sbucano dal sottopassaggio di un ponte. Sono visibilmente dei disertori da come si comportano e non rispondono all’altolà. Il protagonista del pezzo prende la mira, ma lo spilungone effeminato si sposta con gran destrezza così che la pallottola colpisce un altro soldato indietro nel mucchio. Immediata la risposta del tizio allampanato che causa la morte del mercenario.
Il pezzo è di una tristezza infinita perché mostra un’umanità fragile da una parte e dall’altra e svela le motivazioni ed i perché di tutti. Il soldato del Royal Allemand è il cattivo perché la storia lo colloca tra i cattivi, ma la morte di André fu determinata sia da lui che fece fuoco sia da Oscar che si scansò facendo sì che la pallottola destinata a lei raggiungesse André.
Oscar ed André avevano abbandonato la casa di origine per unirsi alla causa rivoluzionaria. Il mercenario del Royal Allemand aveva abbandonato la sua per mantenere la famiglia e la storia ci informa che questa, privata della sua fonte di reddito, cadde in miseria. Chi ha ragione e chi ha torto? Per Oscar e per gli spettatori il torto lo ha il mercenario per avere ucciso André. Per la famiglia del mercenario il torto è di Oscar che ha ucciso il loro marito e padre. Quell’uomo era davvero cattivo? In fin dei conti stava soltanto facendo il suo dovere, almeno dal suo punto di vista, così come Oscar ed André avevano sgominato tanti nemici del re prima di passare dall’altra parte.
Mi è piaciuto tantissimo questo pezzo che descrive bene la situazione della terzultima puntata della serie animata a partire dalla situazione della guerriglia urbana, dal caldo afoso e dalla situazione di costante allerta causata dall’imprevedibilità dei guerriglieri e dall’instabilità degli schieramenti. Chiunque può tradire e chiunque può essere un nemico camuffato da alleato.
E’ reso molto bene anche il clima crepuscolare del finale e lo stato d’animo di sorpresa dei vari personaggi che si fronteggiano sul calar del sole.
La tristezza trasuda da queste righe e culmina nella frase finale che ci informa del destino di miseria di una moglie e di alcuni figli a causa della morte del padre.
Ancora complimenti per questa Spoon River di Lady Oscar, una raccolta ispirata così particolare ed innovativa!

Recensore Junior
14/03/23, ore 01:42

Non si lesina di certo i complimenti questo duca d’Orléans! Sono bello, sono il più bello, sono meravigliosamente bello! Il mondo per lui si divide in due categorie, gli ebeti, stupidi frivoli ed intriganti da un lato e lui dall’altro.
Tutto questo pezzo non è che un panegirico che il duca fa di se stesso quale eroe positivo, condannato dal destino cinico e baro a far parte di un ramo secondario della famiglia reale e come logica conseguenza ad un cono d’ombra ed all’incomprensione generale.
La sua vita fu un continuo lavorio per impossessarsi della corona. Tutto quello che fece, tutte le amicizie che coltivò, tutte le scelte e finanche tutte le opere di bene furono finalizzate ad ascendere al trono, tanto che, quando quest’obiettivo sfumò definitivamente, si disse indifferente alla sua sorte perché è inutile conservare la testa se non vi è una corona da poggiarci sopra.
Nel suo linguaggio riconosco il modo di esprimersi di molti politici e politicanti attuali: governare il cambiamento, cavalcare la bestia, la crisi che porta grandi opportunità. Di fatti il duca d’Orléans, da come ragiona e si esprime, sembra essere un sostenitore ante litteram del liberismo selvaggio.
Dei politici o politicanti che dir si voglia ha anche il camaleontismo spinto che vede il suo culmine nel cambio di nome. Ora come allora ci si illude che cambiare il nome alle cose abbia il potere di risolvere i problemi.
Condanna le regole della primogenitura che assegnano la corona al maggiore e non al migliore, ma questo ragionamento ha delle falle: chi giudica chi è il migliore? Tolte le regole sulle quali si poggia la monarchia, chi gli dice che la corona sarebbe toccata a lui (infatti, instaurata la repubblica, il primo di cui si sbarazzarono fu proprio lui)? Non gli viene in mente che le regole della primogenitura furono fissate per dare ordine e tagliare le gambe al caos seminato da persone ambiziose come lui?
La sensazione è che il livore accumulato in tanti anni di cono d’ombra sfociarono in malvagità pura e che quel voto che fece pendere l’ago della bilancia per la condanna a morte di Luigi XVI descrivono un animo tanto ambizioso da risultare spietato.
Lo sdegno di Robespierre, che il duca d’Orléans giudica ipocrita, celava forse la stizza per un’occasione mancata? Se l’assemblea avesse votato per la vita del re, Robespierre sarebbe stato sollevato dal grande impiccio del regicidio? Oppure pensava che se Philippe Egalité avesse ascoltato la voce del sangue e avesse votato per la vita si sarebbe potuto liberare in un sol colpo di entrambi?
Alcune cose che il duca d’Orléans dice tutto sommato non sono sbagliate. Premiare il merito, promuovere il progresso, le scienze, le arti, sostenere i migliori, aiutare i giovani, aprirsi alla modernità sono doti e non difetti. In questo caso, però, è lo scopo a essere sbagliato. Tutto questo pezzo, inoltre, trasuda boria ed autoreferenzialità a sommi livelli con quel nessuno mi può giudicare finale o meglio giudicatemi pure che tanto non me ne cale. I filantropi si limitano a fare il bene e non se ne vantano in questi termini.
Un amante delle scienze e del progresso, raggiunto da un tragico destino, dovrebbe suscitare molta simpatia, ma non è questo il caso, perché qui qualcosa si è rotto. La simpatia che una persona più modesta o perlomeno meno presuntuosa avrebbe potuto suscitare sfuma completamente nel florilegio di autoreferenzialità che questo pezzo trasuda dalla prima all’ultima riga.
La simpatia non abita qui anche perché ciò che è successo al Duca d’Orléans l’interessato se lo è cercato perché fu proprio lui, finanziando le prime sommosse, dando protezione ai primi rivoluzionari ed adoperandosi per screditare il re ad aprire la strada alla rivoluzione francese. A cavalcare le bestie, si sa, c’è sempre il rischio che le redini sfuggano di mano e che il mostro ci divori.
All’esito di tutto questo parlarsi addosso anche quell’ultimo sprazzo di orgoglio paterno che avrebbe potuto suscitare un moto di simpatia lascia perplessi. Sembra un tie’, beccatevi questo!
Come sempre, sono molto interessanti i tuoi pezzi che ci presentano i personaggi nella loro nudità psicologica e nella loro complessa sfaccettatura. Eroi positivi e vilains, vittime e carnefici sembrano guardare l’obiettivo immaginario di una telecamera e rivolgersi direttamente al pubblico senza filtri.

Recensore Junior
01/06/22, ore 09:52

E’ fastidioso questo duca di Germaine che anche dall’inferno in cui si trova non riesce a fare a meno di sputare il suo veleno e di vomitare la sua follia.
Essendo nato in una delle famiglie più antiche e blasonate di Francia pensa che sia compito suo far pulizia della feccia e ristabilire l’ordine anche se non tutti possono concordare su chi sia la feccia e su quale sia l’ordine.
Ecco che il duca ricorda l’episodio di Pierre che secondo lui non era un bambino povero con dei problemi, ma della gramigna da estirpare, un delinquente nato che era compito suo spedire sotto due metri di terra per evitare che crescesse e facesse danni peggiori. Fossero stati eliminati tutti da piccoli quelli come lui, nessuna rivoluzione sarebbe scoppiata ed il mondo ne avrebbe tratto giovamento.
Arriva quindi il turno di Oscar che il duca reputa niente di più che uno scherzo di natura, un’arrogante con gli occhi da pazza che non sa stare al suo posto e che per questo neanche rispetta i nobili di rango superiore. Oscar è un altro degli errori che lui si sente in dovere di emendare per il bene dell’umanità e dell’ordine costituito. Avrebbe fatto bene a starsene rinchiusa in una prigione o in un manicomio ed invece se ne andava in giro ad infettare il mondo. In lei già si scorgeva lo stigma del tradimento, di quel difetto caratteriale innato che l’avrebbe portata a tradire il suo ceto d’origine in nome della causa abbracciata dai soggetti da estirpare.
Si riconosce nel delirio del duca di Germaine un filo rosso che parte dal bambino assassinato per giungere ad Oscar che ne prese le difese tanto da sfidarlo a duello. All’altro capo del filo rosso si colloca Maria Antonietta che il duca naturalmente disprezza. Vediamo quindi che questo uomo folle professa tanto il rispetto dei nobili di rango superiore e la tutela dell’ordine costituito, ma poi neanche riesce a rispettare la sua regina nella quale vede un’oca coronata nonché una persona che riuscì nella difficile impresa di essere decapitata senza mai avere posseduto una testa. Maria Antonietta non è una regina, ma una sciagurata, un elemento degenere che dà protezione a quello scherzo della natura di Oscar e quindi indirettamente anche a Pierre.
Chi sa cosa avrebbe detto questo individuo sprezzante ed in pieno delirio di onnipotenza, se avesse saputo di André! Avrebbe come minimo voluto rinchiuderlo nella Bastiglia o in un manicomio.
Neanche dall’inferno nel quale è stato giustamente precipitato e confinato il duca di Germaine riesce ad intravedere la verità e la portata dei suoi errori. La sua è una pervicacia senza limiti che in vita gli ha fatto commettere i peggiori delitti e le più atroci nefandezze e che ora ne fa un monumento grottesco di se stesso, l’incistamento persistente di una pustola di male. Come tutti i dannati è cristallizzato nel momento delle sue azioni e delle sue passioni peggiori dalle quali non riesce ad affrancarsi. Dalle tenebre della città di Dite non gli è più possibile percepire la luce della verità e provare un barlume di misericordia o almeno il senso della decenza. Voleva sbarazzarsi della gramigna, ma la creazione si è sbarazzata di lui.

Recensore Junior
09/05/22, ore 11:39
Cap. 4:

Prosegue questa carrellata post mortem così originale ed interessante dei personaggi di VNB. I personaggi finora presentati sono secondari nell’economia del racconto. Alcuni, come questo, sono addirittura delle comparse, ma tutti hanno una loro anima estremamente vivida e sono colti nel momento più doloroso o significativo della loro esistenza in vita, come se ci fosse tuttora un pungolo che continua a stimolarli ed a far loro del male.
Inconsueto e duro come una sassata in pieno viso è questo ritratto di Pierre che qui è rappresentato come un microcriminale, un delinquente in erba che da grande sarebbe sicuramente finito appeso ad una corda, figlio di un padre ubriacone e di una madre prostituta.
Certo, risulta un po’ difficile da credere che un bambino molto piccolo, ancora impacciato nei movimenti ed inesperto, avesse deciso di iniziare la sua carriera di ladro proprio dalla carrozza di un duca e che gli avesse sottratto una moneta dalla tasca con una destrezza che nemmeno Arsenio Lupin dopo anni di onorata carriera avrebbe avuto. Questa rivisitazione ha una sua credibilità e non minimizza assolutamente la responsabilità dell’assassino che dalla stessa vittima è visto come l’incarnazione plastica della morte, un uomo diabolico che si diverte ad uccidere dopo avere finto di perdonare.
Cosa spinge Pierre a delinquere, fino al punto di scassinare le cassette dell’elemosina in chiesa? Probabilmente la stanchezza, la rassegnazione, la convinzione che nulla mai potrà cambiare. Vivere in una suburra malsana dove le strade sono solcate dal rivolo delle acque putride non deve essere gratificante per nessuno specialmente per chi è in formazione. In questo sottobosco umano di anime dimenticate si svolge la parabola del giovane Pierre, attratto da una carrozza così splendida da abbacinare e così grande che a momenti ci sarebbe entrato dentro tutto il suo piccolissimo appartamento. Così Pierre si arrende al male, così come la sua famiglia fece molto prima di lui.
Sicuramente anche una certa assenza familiare ed affettiva ha inciso nella triste vicenda del ragazzino. Sentendo arrivare la morte il giovanissimo Pierre ha subito pensato che in famiglia ci sarebbe stata una bocca in meno da sfamare, ragionamento molto triste e duro per chiunque, figuriamoci per un bimbo.
Pierre è un falso bambino, uno che la vita ha messo alla prova troppo in fretta e che adesso non ha più innocenza né speranza né tanto meno occhi trasparenti. Questo simulacro di umano in miniatura sa che ad aspettarlo ci saranno soltanto vestiti tropo pesanti d’estate, troppo leggeri d’inverno e logori in ogni stagione. Stracci logori che stridono mostruosamente con quelli sfarzosi ed ostentati del duca di Germaine, un ceffo antipatico con tanta presunzione ed una faccia da lupo cattivo delle favole. Stupisce questo fraseggio che passa costantemente dalla durezza del disincanto al linguaggio infantile – lupo delle favole – a significazione del fatto che chi parla è sempre un piccolo adulto in miniatura e non un uomo consumato.
In questa situazione degradata e senza via d’uscita l’unica figura benevola e rischiarante è quella di Rosalie i cui buoni consigli però non sono da seguire, in quanto frutto di una visione troppo idealizzata della vita e lontana dalla realtà. Per il piccolo Pierre, che si sarebbe sentito un re con una pagnotta calda ogni giorno, anche l’onestà è un bene di lusso. In ciò egli ricorda uno dei ritratti precedenti, quello della contessa du Barry, una che invece del proprio degrado seppe fare l’arma del suo discutibile successo.

Recensore Junior
29/03/22, ore 14:01

E’ molto bello e molto poetico questo pezzo che non è un ritratto dell’oste di Arras, come a prima vista potrebbe sembrare, ma di Oscar e André osservati con gli occhi di un uomo semplice che li ha conosciuti magari superficialmente, ma fuori del contesto ufficiale di Versailles e dentro una città che li ha visti crescere.
Dal suo sepolcro nel vecchio cimitero di Arras, l’oste rimira le due tombe abbarbicate in cima alla collina e questa vista rievoca in lui sentimenti di profonda nostalgia e i ricordi dolci e tristi di chi vi è sepolto.
Oscar, per i nativi di Arras, era uno strano ossimoro, una nobildonna ed un soldato, il comandante delle guardie reali ed il capo dei rivoltosi che assaltarono la Bastiglia, ma era soprattutto una benefattrice, colei che salvò la vita ad un bambino malato e bisognoso e che fu munifica di doni con gli abitanti di quel luogo che ora la ricambia col suo eterno abbraccio.
André invece era l’attendente ed eterno amore di quella strana e nobile creatura che dimenticò la sua vita per donarla a lei e che per questo appariva a tutti un po’ folle anche se dolcemente e malinconicamente. Lei, sempre tesa come un arco, sembrava non avere tempo ed attenzione per lui, tanto da accoglierlo soltanto nell’ultimo giorno.
Dopo oltre due secoli, quelle due tombe parlano ancora di amore, di libertà e di speranza, ma anche di delusione perché la rivoluzione non portò quello che tutti si aspettavano, tanto che Oscar e André furono considerati fortunati ad essere morti prima che tutto degenerasse.
Le due tombe però contengono anche un invito a non arrendersi perché il bene è più forte del male e trionfa anche sugli orrori della rivoluzione. Riprova di tutto questo è che, dal fiore cucito dalla regina, macerato dalla pioggia, dalla neve e dai secoli e divenuto un tutt’uno con la natura, sono germinati dei cespugli di rose bianche autentiche perché la vita vince sempre. Una rosa di stoffa, fabbricata nelle lacrime ed annaffiata da secoli di intemperie, ha di nuovo portato con sé la vita.
Tutto termina con una benedizione. Che la terra sia lieve a quei due nobili cavalieri. Oscar e André, in effetti, sembravano due prodi cavalieri medievali fuori tempo più che due figli del diciottesimo secolo. Che il Signore li accolga nell’eternità perché alla fine le tombe accolgono soltanto i testi mortali mentre l’anima ha un destino eterno e non è confinata nei luoghi terreni anche se per lei particolarmente significativi in vita.

Recensore Junior
11/02/22, ore 12:32

Mi piace questo ritratto di madame du Barry che post mortem non risparmia scomode verità a se stessa ed agli altri.
E’ una figlia illegittima, di un monaco e di una donna di basso rango e per lei l’onestà muliebre è una faccenda per poche privilegiate. In una vita precaria e degradata, fatta di case di legno fatiscenti e marce, la virtù di una bambina diventa una merce di scambio, specialmente in un secolo che ha fatto della fornicazione una bandiera. Così il riserbo, il pudore e la verginità se ne vanno via in fretta, neppure si ricorda più di averli avuti e diventano materia di leggenda e di ricordo forse un po’ nostalgico e malinconico, come le gesta di quel meraviglioso e funambolico nonno che riuscì a farsi sposare da una nobildonna, salvo ritornare nella caligine e nella miseria dopo la morte di lei.
Intanto le prodezze erotiche della madre, una versione attenuata di ciò che diventerà la figlia, danno ad entrambe un po’ di benessere ed alla giovanissima Jeanne un abbozzo di futuro: nove anni di convento, buone maniere, un lavoro da commessa e da modista e porte aperte nel mondo delle escort di una volta, ragazze povere, bellissime e dalla moralità sufficientemente elastica.
La bellezza fuori del comune, la vasta esperienza da cortigiana ed un pizzico di fortuna fanno il resto. La ragazza non rimane una delle tante prostitute anonime, ma sposa un conte e col nuovo status di contessa arriva fino al re. Il resto, come dice sinteticamente ed efficacemente l’io narrante, è storia.
A questo punto però arriva il rigetto di questo organo estraneo e particolarissimo. La corte si divide, si creano le fazioni e la du Barry che, grazie anche ad un vuoto che si è creato da poco, essendo morte sia la regina che la Pompadour, è diventata la donna più potente e temuta di Francia, risulta anche la più chiacchierata ed odiata. Le principali nemiche sono le figlie del re, che non sopportano l’ascesa di una donna diversa dalla loro madre e dal passato così oscuro, nulla di più di una comune avventuriera.
Poi arriva la piccola austriaca ed il conflitto deflagra alla massima potenza. Nessuna delle due sopporta l’altra e le diaboliche zitelle fanno di tutto perché le cose peggiorino in modo da danneggiarle entrambe. Non vogliono esporsi in prima persona e mandano avanti la sprovveduta di turno che fanno sentire importante mentre la manovrano e le sparlano dietro.
Fa sorridere la descrizione a metà strada tra il livore e l’invidia che la contessa fa della delfina: non è una bellezza, come tutti coloro che nascono da unioni altolocate ed elitarie, ha il labbro sporgente degli Asburgo ed i capelli crespi ed arancioni che non hanno nulla di biondo, ma è anche molto aggraziata, di una delicatezza e di un’aristocrazia apprese sin dalla culla. Il risultato è che un solo gesto della delfina svilisce intere movenze della sua rivale che è stata ripulita e dirozzata soltanto quando era già grandicella.
L’ostinazione della principessa, che Oscar scambia per un tratto di dignità reale, portata al parossismo quasi scatena una guerra. Come efficacemente sintetizzi, “si mise in mezzo il re e vinsi io; morì il re e vinse lei”.
In fin dei conti, quello che chiedeva la du Barry era soltanto un po’ di umana comprensione. Non poteva insidiare il ruolo di una futura regina né poteva ambire ad essere ammessa tra le sue amiche e nei suoi salotti. Alla fine era l’amante del nonno acquisito e non del marito. Chiedeva soltanto di non essere esclusa così platealmente e sguaiatamente e che fossero serbate le apparenze, in modo da non essere umiliata pubblicamente.
Ricorda amaramente, ormai in disgrazia, che l’assenza di moralità che Maria Antonietta le aveva rimproverato le si ritorse contro e che la regina fu presto accusata delle peggiori oscenità, persino dal figlio, quasi fosse la prostituta di Francia. I libelli scandalistici si accanirono contro di lei e la fecero a pezzi mentre mai si erano indirizzati contro una figura che, come tutte le amanti, è una meteora oltre che un elemento passeggero che non va osteggiato perché fa il gioco dei detrattori. La favorita infatti non rappresenta come la regina le virtù della famiglia reale che gli oppositori vogliono scardinare ed infangare ma incarna i vizi del sistema reale intorno al quale gravitano anche le amanti ed avventuriere di dubbia fama.
Questa rivincita è però passeggera, come tutto nella vita di questa donna dall’esistenza precaria e velocemente mutevole e la du Barry neanche se ne vanta, perché sa che si tratta di una vittoria di Pirro che porterà tutti alla distruzione. La perdita di prestigio della monarchia è il prologo della rivoluzione che sarà la tomba di tutti, nobili e plebei, regine e favorite.
Anche la du Barry è condannata a morte per motivi pretestuosi e con prove raccogliticce. Fa pena perché malgrado le scelte discutibili e la totale assenza di moralità, la sua morte è stata assolutamente gratuita ed inutile. Non rappresentava alcun simbolo da svellere, fu soltanto il momentaneo passatempo di una folla impazzita. Non era andata in Inghilterra per fare da tramite con gli émigrés, ma per recuperare i diamanti che le erano stati rubati. Una serie di circostanze sfavorevoli, culminate in un peccato di leggerezza, a causa dell’eccessivo attaccamento alle cose materiali tipico di chi è nato senza niente, ne decretò la fine. Per non perdere il suo bel castello ha perso la sua vita.
L’ultima battaglia è stata vinta da Maria Antonietta la cui regalità la contessa non è riuscita ad uguagliare sul patibolo. Tanto fu stoica e tutta d’un pezzo la regina, tanto fu piangente e disperata l’ex favorita. Pare di vederla intenta a combattere per un ultimo istante di vita, a supplicare l’inflessibile boia che segue gli ordini del direttorio e non le preghiere dei condannati. Cosa si aspettava da quell’ultimo istante? Una grazia che le era stata promessa? Un improbabile aiuto? O soltanto le ultime boccate di quella vita che si era conquistata fino all’ultimo spasimo? Non lo sapremo mai, ma l’immagine di questa donna legata davanti alla ghigliottina che piange e supplica disperatamente come una bambina piccola lascia di sasso e ci ricorda che la storia non fu popolata soltanto da eroi o da membri di famiglie reali, ma anche da uomini e donne normali coi loro pregi e soprattutto coi loro difetti e le loro meschinità.
Un’altra prova notevole, i miei complimenti!

Recensore Junior
29/01/22, ore 12:09
Cap. 1:

Interessante il ritratto di Luigi XV che qui non è il gioviale ed un po’ collerico ciccione della serie animata, ma un uomo visto nelle sue umane debolezze ed anche nelle sue meschinità.
L’ormai anziano re non si fa specie di confessare la sua attrazione per le ragazzine e finanche per le bambine, compresa la neo sposa del nipote. L’epoca ed il rango glielo consentivano e lui non voleva farsi mancare nulla. Come dimenticare del resto il Parco dei Cervi e tutta la teoria di favorite ed amanti, alcune decisamente imbarazzanti, che si sono susseguite fra quelle mura?
Impudico negli occhi e nei pensieri, il vecchio re indugia a fantasticare sul labbro sensuale e sul fuoco nelle vene di quella nipote acquisita troppo pepata e caparbiamente ostinata per quell’imbelle del nipote di sangue. Si lascia andare ad atteggiamenti voyeuristici anche nei confronti di Oscar che, con la sua particolare situazione di adolescente vestita da uomo, stuzzica le fantasie di questo divoratore di vergini. In un contesto del genere, si attaglia perfettamente la definizione di vecchio pazzo affibbiata al generale de Jarjayes che non si è reso conto o che, pur rendendosene conto, si è del tutto disinteressato della curiosità pruriginosa alla quale avrebbe esposto la sua ultimogenita con le sue decisioni fuori dagli schemi.
Sincero fino ad essere scioccante, il re annovera tutte le sue pecche, i suoi vizi e le sue mancanze di umanità e di carità cristiana. Quasi benedice il vaiolo che, rendendo la sposa sfigurata ed inservibile, lo ha sollevato dal fastidio di un matrimonio combinatogli dalle figlie bigotte, ansiose di sottrarlo alle spire della du Barry. Quasi per una sorta di vendetta del destino, sarà sempre il vaiolo ad ucciderlo.
Confessa anche il suo disinteresse per la politica e per le condizioni economiche in cui si trova la Francia, che conosce benissimo nella loro drammaticità, ma che sono fonte, per lui, di soli grattacapi. Anziché sbattere la testa contro problemi gravi, egli vuole vivere e godersi la sua favorita, una donna che ha capito l’antifona e che non lo tedia con pesanti pose da intellettuale ed ingerendosi negli affari di stato, scelte che annoierebbero il monarca, allontanandolo da lei.
Colpisce la totale durezza di cuore di questo re che, sotto una finta aria scherzosa e bonaria, cela il più totale disinteresse per il suo popolo che muore di fame e per quella ex fidanzata sfigurata dal vaiolo. Addirittura i figli ed i nipoti considera brutti o bigotti o entrambe le cose, mostrandosi privo di quell’amore genitoriale che, seppure posseduto in minima parte, acceca e fa vedere belli anche i brutti e gli insignificanti.
Questa fame di vita, di piacere e di divertimento, che spesso lo avrebbe condotto al ridicolo, lo sottrae ai suoi doveri di monarca e di padre e lo chiude nell’egoismo e nel cinismo.
Penso a lui come ad una colossale occasione sprecata. Con la posizione che rivestiva e con la personalità che aveva, molto più forte e volitiva di quella del nipote, avrebbe potuto fare la differenza ed incidere sulla sua epoca, raddrizzando lo storture ed evitando futuri drammi. Preferì, invece, tirare i remi in barca, stemperarsi nei piaceri e diluire lo stress nell’ozio. Un ignavo, lo avrebbe definito Dante.
E’ molto interessante quest’esperimento di un’Antologia di Spoon River oscariana che ripercorre una lunga sequenza di ritratti post mortem, analizzati con una lente d’ingrandimento spietata che ne accentua ogni minimo difetto senza sconti. Essa inizia da un personaggio che, nella storia della bionda eroina, fu marginale, ma che non lo sarebbe stato affatto nella sua epoca e nella sua reggia, se non fosse stato lui stesso a marginalizzarsi con le sue grasse mani.

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