Stavolta non è la solita aggressività che nasconde lo sconforto della debolezza. L'urlo che lascia il retrogusto amaro dell’insoddisfazione.
C'è tutto l'orgoglio e il compiacimento di chi ha imparato a fatica a bastare a sé stesso; di chi riscopre e sottolinea la propria identità; di chi si lascia alle spalle il disagio di essere diverso.
È una danza selvaggia (“fatta di selva”: profumo ammaliante di foresta vergine, vergine e impenetrabile), una danza tribale, dai numerosi versi di sei sillabe che creano il ritmo serrato, marcato.
C'è un grande respiro di libertà fatto di rinunce: nessun patteggiamento, neanche con l’amore, il più elevato anelito di salvezza.
Catene spezzate, praterie sconfinate, cieli aperti: “la vita nel pugno”.
L’ho letta, questa poesia, con l’appagamento di chi rimette insieme le tessere d’un puzzle. Ogni tessera, ogni parola andava al suo posto, fino a formare un capolavoro.
Ne è rimasta fuori una, però, che non so bene come incastrare: “trasparente”.
Forse la trasparenza, al pari della felicità, è un’utopia.
Forse i pensieri, nel momento stesso che si fanno parola, si sporcano, si ossidano.
I vetri, al contatto con l’atmosfera che ci serve per respirare, si appannano.
Gli specchi, nei quali ci si guarda, danno indietro immagini distorte.
E la vita sfugge dal pugno.
Quello che era presente è già diventato passato, senza aver lasciato il tempo di goderselo.
Il pugno, languido, si apre. E la vita scivola via.
“La vita o si vive o si scrive” (Pirandello).
Ma tutto questo è un altro paio di maniche, ci azzecca ancor meno, è la tessera di un altro puzzle. |