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Autore: moonlightshine98    24/03/2012    3 recensioni
Se mi vedeste in questo momento credereste che io sia una ragazza normalissima. Ho i capelli biondi, ricci, che mi arrivano appena sopra le spalle, gli occhi verdi, le ciglia lunghe, il fisico atletico, da ginnasta. Così mi vedreste, probabilmente pensereste che sono carina. Io, invece, quando mi guardo vedo qualcosa di diverso. Il mio aspetto serve ad attirare le mie vittime. I miei occhi sono trappole incantatrici, il mio è un fisico da assassina perché è quello che sono. Quindici anni e posso dire di essere il sicario migliore degli ultimi cento anni ...
Genere: Azione, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Se qualcuno mi chiedesse chi sono i miei genitori direi che mia madre è un fantasma che gira per casa nostra e  che mio padre le va dietro. Se qualcuno mi domandasse se sono felice gli risponderei che non so più cosa sia la felicità. Se una persona appena incontrata mi chiedesse come mi chiamo direi che non ho un solo nome, ne ho molteplici. Mi hanno chiamata Jessica, Maria, Sofia, Lara, Zoe, Lisa, Dalia,... non ho mai amato nessuno di questi nomi. Non ricordo nemmeno più il mio nome di battesimo, o forse sì, ma non mi va di dirvelo. Per ora chiamatemi Giselle, il nome del momento. Se chiunque di voi che leggete mi facesse una domanda normalissima vi darei una risposta anormale, che non vi aspettereste di sentire nemmeno in un film, o forse, se vi piacciono i film di avventura e fantasy, allora sì, potreste averla già sentita un paio di volte, ma mai nella realtà. Se mi vedeste in questo momento credereste che io sia una ragazza normalissima. Ho i capelli biondi, ricci, che mi arrivano appena sopra le spalle, gli occhi verdi, le ciglia lunghe, il fisico atletico, da ginnasta. Così mi vedreste, probabilmente pensereste che sono carina. Io, invece, quando mi guardo vedo qualcosa di diverso. Il mio aspetto serve ad attirare le mie vittime. I miei occhi sono trappole incantatrici, il mio è un fisico da assassina perché è quello che sono. Quindici anni e posso dire di essere il sicario migliore degli ultimi cento anni e non è per vantarmi, nel mio lavoro uccidere non è motivo di vanto. Non uccido su commissione, anche se qualche volta, se mi servono soldi facili, non disdegno anche questo modo di lavorare. Le mie vittime non sono scelte a caso, alcuni sono assassini senza scrupoli come me, altri sono pedofili, altri ancora direttori o politici corrotti. I miei genitori erano i migliori sicari in circolazione prima di venire uccisi. E prima di loro lo erano i miei nonni, furono loro ad uccidere il presidente Kennedy, su commissione, non avevano nulla contro di lui. Non furono mai presi. Quel che so me lo hanno insegnato mia madre e mio padre e non posso dire che il mio lavoro mi piaccia, ma è tutto quello che so fare. Non sono mai andata a scuola, la mia istruzione erano le arti dell'omicidio, dell'occultamento, della trasformazione, della falsificazione, dello scassinamento, tutto quello che può servire ad un assassino. C'è un gruppo che insegna tutto questo, lo so ma non l'ho mai visto e non so dove si trova. Mamma e papà dicevano che quel posto non è per me, che non dovevo mai cercarlo o farmi incastrare per entrarci, mi hanno insegnato che fidarmi di qualcuno è l'ultima cosa che devo fare, che tutti, prima o poi, mi tradiranno. Io gli credo, non mi hanno mai mentito, non hanno mai cercato di rendere migliore questa realtà. Ho sempre saputo per cosa mi stavano allenando, ho sempre saputo cosa sarei diventata, cosa mi aspettava. Non ho mai detto no ed ora eccomi qui. A cercare di non dirvi il mio vero nome, a raccontare la mia vita, mi sto fidando di voi, per la prima volta nella mia vita mi fido di qualcuno che non siano i miei genitori, spero che sia fiducia ben riposta. Visto che siamo a questo punto vi spiegherò anche cosa sto facendo in questo momento. Aspetto. Attendo che la mia vittima mi raggiunga. Un pedofilo questa volta, so qual è il suo modo di lavorare, so come affrontarlo, ho già stampata in mente la conversazione. L'ho contattato su internet, ho messo alcune foto mie, ho finto di fidarmi di lui, abbiamo parlato al telefono, un numero falso ovviamente, gli ho detto che ero disposta ad incontrarlo, che volevo fare nuove esperienze e che lui mi sembrava la persona giusta. Lui si è finto un diciassettenne e sta per incontrarmi. In realtà ne ha cinquantadue suonati e vuole stuprarmi e uccidermi. Tutto studiato. Non ho paura, mi hanno addestrata a questo. Lo sto aspettando davanti ad un bar affollato di uomini vecchi, ubriachi e puzzolenti, loro fischiano quando mi vedono anche se non sono vestita in modo provocante, ma ho già spiegato che il mio aspetto è fatto per attirare le vittime. I miei jeans sono umidi, i capelli anche, la giacca ha salvato il maglione ma ho freddo comunque. Metto una mano in tasca e sento il freddo del metallo. Il coltello che ho in tasca è gelido, immagino che lo sia anche quello che tengo nello stivale, come la pistola alla cintura. Sì, lo so, ho parecchie armi, ma sono stata addestrata ad essere prudente. La mia vittima si avvicina con passo strascicato, è già ubriaco, sarà facile. Mi riconosce solo quando si trova a pochi passi da me e mi sorride.                                                                                                                                                         
- Ciao Louise. - il mio nome per quel lavoro. Faccio la faccia confusa come a chiedergli come fa a sapere il mio nome. Sono una brava attrice.                                                                                                                   
 - Mi scusi ma non credo di conoscerla. - dico innocente e leggermente spaventata. Faccio per allontanarmi ma quello mi afferra un polso. Tutto come da copione, fingo di essere agitata anche se potrei liberarmi in pochi secondi, la forza non è l'unica cosa che determina la sconfitta o la vittoria, se così fosse sarei morta molto tempo fa.                                                                                              
 - Invece ci conosciamo bene Louise, sono Charlie. - sbarro gli occhi e lo guardo. Un uomo grasso e unto, ubriaco e puzzolente come tutti quelli che ci sono dentro quel locale alle mie spalle. Mi chiedo qual è la sua vita. Ma chi voglio prendere in giro... so tutto di lui. Ha cinquantadue anni e non si chiama Charlie ma Mario, è sposato da dieci anni con una donna di nome Susanne, ha tre figli, Clodie, Alberto e Francesca, di cui non gli importa niente, tutti e tre sono stati concepiti durante una violenza contro sua moglie. La povera donna vorrebbe allontanarsi portando con se i suoi figli ma ha paura del marito. I tre piccoli sono costretti ogni giorno a guardare il padre fare il porco davanti a loro. Mi irrigidisco leggermente, irritata, lui la scambia per paura e ride sguaiatamente stringendo la presa. Non mi fa male, mio padre, durante gli allenamenti, stringeva più di lui. Provo a divincolarmi e lui mi avvicina a se, sento il suo fiato puzzolente di fumo e alcol. Vuole baciarmi ed io mi scanso, non ho mai permesso che arrivassero al punto di fare porcherie con me. Le sue labbra toccano il vento e si arrabbia.                                                                                                                                  
- Andiamo piccola, dicevi di voler fare nuove esperienze. Io ti voglio accontentare. - fa per baciarmi di nuovo ma io mi sposto ancora una volta con l'effetto di irritarlo ancora di più. Mi spinge in una via buia, dove arrivano a malapena le luci del bar. Mi blocca contro il muro pensando di avermi in trappola, che tra pochi istanti mi farà quello che vuole. Illuso. Avvicina le labbra al mio collo ed io mi divincolo, sempre nella mia parte di vittima indifesa, lui comincia a passarle sulla mia pelle e a gemere. Porco. Lo stacco da me e Mario si offende ma pensa che non conta nulla, fra pochi minuti, crede, non avrò modo di difendermi. Urlo di lasciarmi stare, sono perfettamente calata nella parte.                                                                                      
- Mi dispiace, ma sei troppo carina per lasciarti stare. - dice volgare. Sto per ucciderlo, sto per mettergli davvero paura quando qualcuno mi precede dandogli un calcio e facendolo cadere. Quello geme di dolore ed io sono pietrificata. La persona gli da un altro calcio nello stomaco, uh, che male. Lo alza da terra e gli da un pugno sul naso. Forte il ragazzo. Do per scontato che sia un maschio,visto che non riesco a vedere altro che la sua ombra, di solito una donna non ha il coraggio di fare una cosa del genere. Beh, ormai il mio piano è andato in fumo, pazienza, ma devo trovare un modo per ucciderlo ugualmente, non posso permettere che faccia quello che ha fatto a me ad altre ragazze. Non è andato molto lontano comunque. Mi accorgo che ora Mario è ai miei piedi immobile, respira a fatica.                                                                                                                                                
- Bel lavoro. - dico uscendo dal vicolo e tornando alla luce del bar. - Ma il pugno era un po' debole. - commento. Il ragazzo mi segue.                                                                                                         
- Non capisco. - dice.                                                                                                                                                       
- Non ti aspettare che ti ringrazi, potevo cavarmela da sola. - la mia voce è acida ma non importa. Lo guado. Ha i capelli neri come una notte senza luna ne stelle, gli occhi grigi come una giornata di pioggia. Al collo porta un ciondolo di metallo. Semplicemente un rettangolo grigio ma io mi irrigidisco, papà ne aveva uno uguale ed io lo porto al collo in questo momento.                                                                                                                                                                   
- Sì certo, ti stava solo per uccidere. - commenta sarcastico.                                                                           
- Non esserne così sicuro. Non mi conosci. - sorrido.                                                                      
- Pensavo di averti fatto un favore. – dice.                                                                     
- Allora grazie per averci pensato. – continuo a sorridere. I ragazzi credono di essere dei super eroi a volte e quello che ho davanti non è da meno. Si imbroncia. – Senti, io non sono una ragazza normale, quindi se pensavi di fare colpo su di me con quelle due mosse ti sbagli, ci vuole molto di più per colpirmi anche solo vagamente. –       
- Cioè devo tentare di farti del male?– chiede. Rido.                                                                 
- Sarebbe una novità. Nessun ragazzo ci ha mai provato, potrebbe funzionare. – mi guarda. – Ma non riusciresti a torcermi un capello. – sono seria adesso.                                                                  
- Ne sei sicura?– domanda. Annuisco.                                                                           
- Se quello che ho visto prima è tutto quello che sai fare allora non mi serviranno che pochi secondi. – sono cintura nera in tutto quello per cui serve una cintura, ho fatto e faccio box, pesi,... diciamo che so fare un po’ di tutto. Lui annuisce.                                                                                         
- Pronta?– chiede serio. Mi metto in posizione d’attacco. Prova con un calcio ma lo blocco con il braccio, banale. Cerca di farmi perdere l’equilibrio ma salto e lo colpisco allo stomaco con un calcio. Cade a terra. È stata una cosa molto veloce.                              
 - Soddisfatto?– gli porgo la mano per aiutarlo ad alzarsi. – Non male per un principiante. Quale sport pratichi?– sono curiosa.                                                                                            
- Karate. – risponde. Molto bello il karate.                                                                              
- Molto bello. Ma il karate deve essere usato solo per difendersi. – lo guardo di sbieco. – Ogni sport che implica di far del male a qualcuno dovrebbe essere usato solo per difesa. –                                                           
- Sembra che tu ne sappia qualcosa. – scrollo le spalle, non è il caso di fargli sapere che sono cintura nera, gli farebbe venire una crisi esistenziale.                                                                            
- Mio padre è cintura nera. – dissi, in fondo è la verità, lo era anche mia madre. Lui sembra capire ma dubito che abbia capito veramente. Mi volto e me ne torno a casa.                                                             
- Ehi, dove vai?– mi chiede.                                                                                 
- A casa. – dico continuando a camminare.                                                                      
- Non so nemmeno il tuo nome. – ok, sta flirtando con me, gli piaccio, ma io non posso stare con nessuno ho fatto troppi errori nella mia vita per stare vicino a qualcuno di così pulito.                                             
- Non ti serve saperlo. Non ti conviene saperlo. – sorrido. – Ma se ci tieni a collegarmi ad un nome chiamami Giselle. E spera di non incontrarmi mai più. – torno sulla mia strada.                                             
- Chiamami?Non è il tuo vero nome?– chiede.                                                                   
- Ho molti nomi e quasi nessuno conosce quello vero. Cosa ti fa pensare che lo verrei a dire a te?– sono divertita.                                                                                                     
- Non lo so... io... comunque io mi chiamo Christian. – dice.                                                       
- Piacere di conoscerti Christian. Ma per te non dovrebbe esserlo. Fidati. – vado via, non mi ferma più.
Casa mia è silenziosa come sempre. Penserete che la casa di un’adolescente che vive da sola sia disordinata. Be’ toglietevi quest’idea dalla testa quando parlate con me. La casa è perfettamente in ordine, sono abbastanza precisa, devo esserlo. Vi chiederete come faccio a pagare le bollette se vivo da sola. Il problema non si pone. Non ne ho mai vista una in vita mia perché vengono spedite tutte in un ufficio privato che se ne occupa. Il che significa che posso fare quello che voglio senza preoccuparmi di pagare ogni cosa. Tranne il cibo, quello me lo procuro da sola. Ma con i soldi che guadagno con un solo omicidio su commissione mi ci pagherei tre macchine nuove. Macchine molto belle. Vado di sopra a farmi una doccia. La mia è una casa a due piani, bianca, semplice. Sul retro c’è un grande giardino che uso per allenarmi. Ci sono molte stanze, per lo più fungono da palestre, da ripostigli per le armi o altro. La mia stanza è l’unico posto della casa ad essere vagamente... moderno. I miei erano parecchio vecchio stile. Mentre l’acqua mi accarezza il corpo penso a loro. Come sono morti?In un modo molto semplice. Li hanno uccisi prima che potessero uccidere di nuovo. Un colpo di pistola dritto alla testa, non hanno sentito niente, me lo hanno insegnato loro. La cosa strana?Adesso sono fantasmi e vivono con me nella nostra casa. Non si accorgono di me o della presenza del loro compagno, non so perché siano ancora qui ma la cosa non mi dispiace. Osservarli da vicino, a volte, mi fa sentire meglio. Esco dalla doccia e me ne torno in camera gocciolante, non mi sono mai presa il disturbo di asciugarmi, mi piace avere la pelle bagnata, è come se avessi una specie di barriera che per un po’ mi protegge dal mondo esterno. Sorrido e mi stendo sul letto aspettando di asciugarmi. Non penso a nulla in particolare, salto da un ricordo all’altro senza ordine e mi fermo su Christian. Mi scappa una risata quando ripenso alla sua espressione quando ha capito che Giselle non è il mio vero nome. È proprio un ragazzo candido, non me lo immagino a fare del male per divertimento, vorrei tanto sapere perché mi ha sfidata in quella pseudo lotta. Mi addormento pensandoci.
Il mattino dopo non vengo svegliata dalla luce, dalla sveglia o da chissà cos’altro, semplicemente mi alzo. Lo so, nei libri di solito c’è un qualcosa di carino per svegliarsi o di spaventoso. Io no, il silenzio è assoluto, il buio anche. Mi piacciono le tenebre perché nascondono le cose, perché le camuffano velandole di mistero. Accendo la luce e mi infilo una tuta. Non bado all’aspetto esteriore, quasi mai tranne quando devo uccidere. Scendo per fare colazione. Uova, pancetta, succo d’arancia e pancake con la cioccolata. Mangio sempre molto perché mi serve energia per gli allenamenti, in ogni caso poi brucio molte calorie. Vado subito in giardino e mi avvicino al sacco da box, molto utile per scaricare la tensione. Rispolvero tutte le arti marziali che mi hanno insegnato, corro, lancio i coltelli, tiro con l’arco, cerco erbe per i veleni,... tutto quello che vi potrebbe venire in mente. Lo so, sono un sacco di cose, per questo ho bisogno di energia. Faccio una pausa prima di scalare la parete di roccia in fondo al giardino. Non è molto alta ma è ripida e con pochi appoggi, mio padre e mia madre salivano e scendevano in due minuti e sette secondi circa. Io non ho mai fatto meno di quattro che, in ogni caso, non è male per una ragazzina. Appoggio le mani sulla roccia fredda, chiudo gli occhi e respiro profondamente. Il mondo è ancora addormentato in questo momento, il cielo inizia a colorarsi di un leggero grigio-azzurro slavato. I rami degli alberi e l’erba sono ancora coperti di brina, la roccia è umida e liscia. Faccio scorrere la mano su di essa e trovo il mio vero nome e quello dei miei genitori inciso. Sorrido triste al ricordo della nostra tradizione. Il primo giorno in una nuova casa cerchiamo un luogo dove scrivere i nostri nomi in modo che rimangano per sempre, cosicché gli altri ci ricordino come chi siamo e come chi decidiamo di essere. Li scrivevamo perché, se mai ci fossimo persi, saremmo tornati in una di quelle case e avremmo sentito che quel luogo era nostro, che lì era scolpito un pezzo di noi, della nostra vita, del nostro essere, della nostra anima. Sento le lacrime bruciare dietro le palpebre chiuse e scuoto la testa. Afferro con forza uno spuntone di roccia e inizio a scalare. Non apro gli occhi, mia madre mi ha insegnato che la memoria è la migliore amica di un assassino. Da un mese, circa, mi fanno scalare la roccia con gli occhi chiusi per testare la mia memoria visiva. So di essere arrivata in cima quando la luce filtra attraverso le palpebre. Apro gli occhi e mi godo il panorama appoggiata alla roccia. Il sole sta sorgendo lentamente e tinge il mondo di rosa. Le ultime stelle brillano leggere nascoste dalla luce del loro grande padre rosso. La madre luna se ne sta in un angolo quasi invisibile, la sua luce bianca e debole, vicino a quella del marito, la fa somigliare ad un fantasma, ad una nuvola di fumo che al primo refolo d’aria si dissolverà portando via con sé il ricordo di un istante che si perderà nel vento. Socchiudo gli occhi per osservare meglio quello spettacolo meraviglioso. La mia vita è come quella luna-fantasma. Quasi inesistente. Nessuno si ricorderà di me dopo che sarò morta, nessuno che si ricorderà di un istante in cui mi ha vista, nessuno che potrà dire che io ho fatto parte della sua vita. Mi volto e salto giù dalla parete rocciosa. Atterro leggera.                                                                                           
Mi dirigo verso casa ma mi fermo a pochi metri e rimango a fissarla. Non ho mai prestato attenzione ai luoghi dove andavo ad abitare, non erano importanti per me ne per i miei genitori. Ora però sento di essere in qualche modo legata a questo posto. Perché?La domanda affiora spontanea nella mia mente ma non ho bisogno di pensare per conoscere la risposta. La posso riassumere in una parola: Christian. Quel ragazzo che si è accorto di me, che mi voleva salvare, che mi voleva proteggere. Mi sento in debito con lui anche se non lo sono veramente. Rivedo il suo volto sul muro bianco della casa. I capelli nerissimi, gli occhi grigi, la pelle leggermente abbronzata, l’espressione confusa che gli dava un’aria riflessiva. Sorrido. Lui è un ragazzo come tanti che va a scuola, ha degli amici, esce con loro, ha sicuramente una ragazza, deve essere una di quelle persone che ti colpiscono e ti rimangono impresse nella mente. La mia attenzione viene catturata dal fantasma di mia madre che svolazza davanti ad una finestra, sta girando in tondo concentrata su qualcosa. Entro in casa e salgo velocemente le scale fino a raggiungerla. Il vestito da sera nero che indossava la sera in cui è morta si trasforma in nebbiolina bianca ai bordi, come i capelli rossi e ricci che le incorniciano il viso dolce e severo allo stesso tempo. Sta decisamente osservando qualcosa. Mi avvicino per vedere. Mia madre, in vita, e credo anche in morte, era una persona difficile da sorprendere, da coinvolgere o anche solo da incuriosire, perciò che rimanga a fissare una cosa per così tanto tempo non è normale. Sento un lamento e accelero il passo fino a raggiungerla. Rimango allibita nel constatare cosa si trova davanti a lei.                                                       
Un piccolo gattino bianco sta dormicchiando ai suoi piedi. Non capisco come sia potuto entrare e ignoro di chi possa essere. È un micino molto piccolo, non dovrebbe essere in grado di camminare, ancora, quindi com’è arrivato qui?Rimango immobile a fissarlo per un tempo che mi pare infinito poi mi avvicino e lo prendo in mano. Mi sta nel palmo e appena lo accarezzo un dito lui o lei spalanca gli occhi. Sono di un blu abbagliante e sorrido. Lo porto nella mia stanza e lo appoggio sul cuscino mentre decido cosa farne. Non posso lasciarlo in strada, sarò un assassina ma ho un cuore anche io, ma come faccio a tenerlo?Io non ho idea di come si allevi un gatto. Giro per la stanza pensando ‘ Cosa farebbe mamma?‘ e scervellandomi per trovare una soluzione. Alla fine decido di portarlo dal veterinario che non dista molto da qui. Infilo il cappotto e rendo delicatamente il micio.
La giornata non è fredda per essere febbraio e il cielo è terso. È molto presto, non sono nemmeno le otto, e la gente in giro è poca. Tanto meglio. Gli alberi spogli rendono il viale tetro e nero. Il mio gattino emette un lamento leggero ed io lo osservo. Una piccola palla di pelo spuntata dal nulla in casa mia. Lo sollevo all’altezza degli occhi sorridendo e poi lo riabbasso. È un micino molto carino.                                                   
Arrivo davanti alla porta del veterinario ma non ha ancora aperto e così mi siedo su una delle panchine che costellano il viale. Appoggio il gattino sulle ginocchia e lo copro con la sciarpa azzurra. Osservo la testa dell’animale spuntare dalla lana e penso che assomiglia ad una nuvola o alla luna, sì alla luna di questa mattina, quella luna leggera che rappresenta la mia anima. Il gatto è la sua parte solida e reale. Noi due siamo un’accoppiata perfetta.                                                                                       
- Giselle?– alzo la testa al suono di quella voce. Christian.                                                                  
- Buongiorno. – mi accorgo che ha un leggerissimo accento francese quando sento il mio nome pronunciato dalle sue labbra. Esce come un ‘ Jiselle ‘.                                                                          
- Buongiorno. – dice lui. – Felice di rivederti. – è evidente che lo rallegra rivedermi.                                     
- Non dovresti esserlo, molte persone ucciderebbero per scappare da me. –                                           
- Allora sono tutti pazzi. –                                                                                         
- Non mi conosci neanche solo vagamente. Non ci provare a dire che sono pazzi. Se sapessi chi sono te ne andresti in meno di un secondo. – lo avviso.                                                                     
- Allora sono contento di non sapere chi sei, così posso stare con te. Giusto?–                                            
  - Come ti pare. – alzo gli occhi al cielo e torno a concentrarmi sul mio gattino.                                              
- Sappi che anche tu scapperesti se sapessi chi sono veramente. – dice ad un tratto.                                        
- Ah, sul serio?Come mai, non ti chiami Christian?Mi hai mentito su una cosa così importante?– rido senza ironia. – Chiunque sarebbe meglio di me. Non mi farai mai paura. – dico guardandolo negli occhi.                          
- Ci credi davvero?– lo guardo come a dire di sì. Non dice nulla ma capisco che non ne è così sicuro. Tocca distrattamente il ciondolo che gli pende al collo ed io rabbrividisco al ricordo di papà. Il fantasma di mio padre è più agitato di quello della mamma, lui ha delle cose che lo tengono veramente legato a questo mondo, le cosiddette ‘’ Questioni in sospeso’’. La morte di un suo compagno, Sean, quando aveva solo diciassette anni, la paura di avermi lasciata sola, il rimorso per aver trascinato sia me che mia madre in questa storia, lui ha avuto una vita piena di crisi. Mi regalò il ciondolo che indosso quando avevo dieci anni dopo che sparai per la prima volta con una pistola era, con dei proiettili veri e non con quelle a pallini che usavo di solito. Mi si avvicinò orgoglioso ma con un’ombra negli occhi e, inginocchiandosi, mi mise le mani sulle spalle.                                             
- Tesoro, sei stata bravissima. – disse.                                                                                     
- Grazie papà. – lo guardavo.                                                                                           
 - Voglio che tu abbia una cosa, qualcosa che ti ricordi di me. – si infilò una mano sotto la maglia e ne estrasse un ciondolo di metallo. Semplice, un rettangolo grigio attaccato ad una catenella, ma per lui era molto importante, non lo avevo mai visto senza. – Te lo regalo. Adesso è tuo. – lo presi tra le mai leggermente paffute con venerazione quasi e lo guardai negli occhi felicissima.                                                                    
- Perché me lo regali?È tuo. – dissi timorosa.                                                                        
- Te lo regalo perché tu ricordi sempre quella storia che ti ho raccontato ieri sera. Perché non la dimentichi mai e poi mai. – i suoi occhi erano seri. – E perché tu possa avere qualcosa di tuo padre bambina mia. – aggiunse con un sorriso. Lo abbracciai forte.                                                                                   
  Sento una mano toccarmi il braccio e mi riscuoto. Ero immersa nei miei pensieri. Christian mi guarda con l’aria di chi aspetta una risposta. La ripete quando capisce che non lo stavo ascoltando.                                               
- Dove stavi andando?– una domanda semplice e per la prima volta nella mia vita posso rispondere sinceramente.                                                                                             
 - Dal veterinario. – non svelo il perché. In ogni caso me lo chiederà lui.                                                    
- Perché?– che vi avevo detto?                                                                                          
- Per il mio gattino. – mio, ma da dove mi è uscito?                                                                
- Quindi anche tu sei normale come tutti. Hai persino un gatto. –                                                    
- Non direi. Ma... vedila come vuoi. – accarezzo la testa del gattino/gattina e lascio che i miei occhi vaghino su un albero. È scuro, quasi nero, la parte sottostante è coperta di muschio verde e i rami si lanciano verso il cielo come braccia di persone che, dopo essere state al buio per troppo tempo, si allungano verso il sole.                            
- E tu cosa ci fai qui?– sono veramente curiosa ma mi mordo la lingua subito dopo aver pronunciato quelle parole. Io non voglio sapere nulla di lui, non devo sapere nulla di lui e chiedergli qualcosa equivale a conoscere nuove cose.                                                                                
Passeggio. – risponde sorridendo. Sento il lieve suono di una campanella e mi volto in tempo per vedere la porta dello studio del veterinario chiudersi e un camice bianco seguirla. Mi alzo e mi dirigo verso lo studio senza nemmeno salutare, mi dico che è la cosa giusta. Lui non deve ricordarmi, io non posso essere ricordata. Lui non può starmi vicino, la mia intera esistenza lo porterebbe alla morte, non può pensarmi, il mio solo pensiero sarebbe per lui un pericolo, non può assolutamente volermi bene. Sarebbe la sua condanna. Deve dimenticarmi, la mia immagine deve scomparire dalla sua memoria. Per sempre.
Il tintinnio della campanella annuncia la mia presenza e una segretaria dall’aria dolce mi fa accomodare. Non è molto vecchia, ha solo un po’ di rughe attorno agli occhi. È una donna dai capelli neri lunghi e lisci. Non è truccata e non le servirebbe nemmeno, è molto carina anche così. Scorgo una fede al dito, è sposata e deve avere dei figli e un animale, un pappagallo forse. Si chiama Teresa. In pochi secondi ho tracciato uno schizzo della sua vita.                                                                                              
- Giselle Harbor?– alzo gli occhi e incontro quelli neri della donna. – Tocca a lei. – annuisco e mi alzo ringraziandola. Non ho osservato bene l’ambiente, ma a prima vista non è sterile come potrebbe esserlo un qualsiasi studio veterinario. Ci sono piante in ogni punto libero, appese alle pareti delle fotografie, non solo di animali, ma della vita vera del veterinario. Ho notato che sulla scrivania di Teresa ci sono delle piccole conchiglie, di quelle tutte arricciate e anche alcune che ‘’ suonano ‘’. Le conchiglie che riproducono il rumore delle onde.
La zona dove lavora il veterinario, il dottor James, invece è sterile come dovrebbe essere. Tutto bianco e argentato. L’uomo mi saluta con un ampio sorriso.                                                                         
- Signorina Harbor. Allora, mi dica, cosa la porta qui?– alzai le mani e la testa del micino spuntò dalla sciarpa azzurra. – Oh capisco. È un cucciolo della sua gatta?–                                                             
- Oh, no, io non possiedo gatti. L’ho trovato... di fronte a casa mia. E vendendo che è molto piccolo ho pensato di portarlo qui. – dico. Il dottore prende in mano il gattino e lo studia con attenzione.                                        
- Femmina. È una bellissima gattina. – declama. Poi si rivolge a me. – Ha intenzione di tenerla signorina?–                             
- Sì. – rispondo automaticamente pentendomene subito. Accidentaccio questa non è proprio una bella giornata.                                                                                                
- Bene. Molto bene. – porta la gattina a fare delle visite di controllo e mi dice di aspettare fuori. Io esco in silenzio e mi butto su una delle poltroncine violette della sala d’attesa. Teresa mi ha notata e sorride.                            
- Tutto bene?– chiede. Io annuisco. – Sai, anche la mia pappagallina ha appena avuto dei piccoli, scommetto che andrà tutto bene. – ho indovinato. Pappagallo, non gatto o cane, pappagallo. La conversazione finisce lì, non ho voglia di parlare.                                                                                                
Oggi va tutto storto. Christian che si è convinto che io sia buona e cara,la gattina, io che dico di volerla tenere, mia madre che se ne esce, per la prima volta, dal suo limbo senza cose per lei,... scuoto la testa e me l prendo tra le mani. Sospiro e chiudo gli occhi. Respiro profondamente per calmarmi e funziona a meraviglia. Sento di stare per addormentarmi e riapro gli occhi. Vicino a me è seduto un uomo, non mi sono nemmeno accorta del suono della campanella. L’uomo ha un cane al guinzaglio e mi osserva come se avessi commesso qualche crimine. Ah, ah, ah, divertente. Intendevo qualche crimine in quel momento. È un signore anziano sulla settantina, i capelli brizzolati e radi, porta gli occhiali che rendono meno nitidi i suoi occhi di un nocciola slavato, sul viso ci sono alcune macchie dovute al sole.                                                                       
- Ciao giovanotta. – mi dice.                                                                                   
- Buongiorno. – rispondo educata.                                                                              
 - Sei qui da sola?– chiede.                                                                                       
- Sì, signore. – annuisco come a confermare la mia risposta e l’uomo mi guarda.                                               
- Una ragazzina giovane come te non dovrebbe andarsene in giro da sola. – mi dice con il tono che usano i nonni per sgridare i nipotini. Sorrido come a scusarmi. – Non hai un qualcuno che ti possa accompagnare?– chiede.                                                                                                    
- Non si preoccupi signore la mia casa non dista molto da qui. – lancio un’occhiata alla porta dietro la quale si trova la mia gattina. Mi viene in mente che, se voglio tenerla, devo darle un nome. Comincio a rifletterci. Quella mattina l’avevo paragonata alla luna quindi... perché non chiamarla Luna?Ma certo, Luna è il nome perfetto. In questo preciso momento il dottor James esce con la mia Luna in braccio e mi sorride. Mi alzo e gli vado incontro.                                                                                                         
- Allora?Tutto a posto?– chiedo.                                                                              
- Nessun problema signorina. – dice porgendomi la gattina.                                                          
- La ringrazio molto. – prendo delicatamente Luna e la stringo a me dolcemente.                                          
- Oh, di niente, è il mio lavoro. – sorride di nuovo. - Se avesse bisogno di qualsiasi cosa non esiti a chiamarmi, sa dove trovarmi. – annuisco e lui se ne torna in ambulatorio. Io esco. Luna miagola piano e mi guarda con i suoi grandi occhi blu.                                                                                                  
- Che c’è?– le chiedo, lei continua a guardarmi e a miagolare. – Hai fame?– lei miagola più forte e capisco di aver indovinato. Bene, è ora di fare un salto al supermercato, meno male che ho portato con me i soldi.
Tra le corsie del supermercato fa più freddo di quanto ne faccia fuori. Io giro a vuoto cercando il cibo per gatti, ma credo che anche un fantasma sarebbe più bravo di me. Osservo tutte le corsie e alla fine mi arrendo, sono un caso perso.                                                     
- Mi scusi, sa per caso dove si trova il cibo per gatti?– fermo un’anziana signora che ha sicuramente un gatto visti i numerosi peli sul cappotto. La donna mi sorride dolcemente.                                                             
- Ma certo tesoro. Ti accompagno se vuoi. – annuisco e ringrazio. Ci avviamo per la corsia cinque, che ho passato dieci volte, e lei si ferma proprio davanti ai sacchi e alle scatolette. Lì vicino si trovano anche le ciotole, le gabbiette, i collarini e tutto quello che vi può venire in mente per i gatti. Ma dico io, come ho fatto a non vederli?!Ringrazio la signora e mi addentro nel mondo felino. Non avevo idea che ci fossero così tante cose per i gatti. Prendo una gabbietta, una lettiera, due ciotole, un paio di sacchi di cibo per gatti, croccantini, spazzole,... un po’ di tutto insomma. Quando esco sembra quasi che abbia rapinato un negozio per felini che si trattano molto bene. Un uomo mi chiede se ho bisogno di aiuto ma declino gentilmente, le borse piene e la mia gattina, l’ho avvolta nella sciarpa e ora penzola dal mio collo mezza addormentata, non sono pesanti come si potrebbe pensare e non faccio fatica a portarle fino a casa.
- Luna, vieni qui!– la mia gattina spunta pochi istanti dopo dalla porta della cucina. Le poso davanti la ciotola piena di croccantini e lei ci si tuffa. È passato più di un mese da quando l’ho trovata in casa mia e da allora è diventata la mia famiglia. Ultimamente non ho ucciso nessuno e devo ancora recuperare quel diavolo di pedofilo che mi è sfuggito quando ho incontrato Christian. Sospiro, devo rimettermi all’opera e non sarà difficile. Quando ero sulle sue tracce sono entrata nel suo sito e ora so esattamente con chi sta parlando e chi incontrerà questa sera. Il suo nickname è RaggioDiSole e io ho raccolto abbastanza informazioni da sapere dove abita e che si chiama Marianne, ha solo dodici anni ed è una ragazzina semplice e gentile.                                 
Fra due ore devo trovarmi davanti alla stazione in attesa sua e del mostro. Salgo in camera e mi infilo un paio di jeans, un maglione blu e le scarpe da ginnastica. Mi pettino i corti capelli biondi e ricci e scendo. Luna mi si avvicina prima che esca. – Non preoccuparti, torno tra poco. – le dico lei mi osserva e poi torna di là.                         
L’aria fuori è fredda ed io rabbrividisco nella giacca. Per arrivare alla stazione ci vogliono meno di trenta minuti, ma io devo controllare il luogo prima che arrivino loro.
È una semplice stazione dove i treni non passano quasi mai, come se fosse abbandonata, il luogo di ritrovo preferito da spacciatori e simili. Le alte travi di metallo sono arrugginite e, ogni tanto, cadono qua e là dei pezzetti di colore scrostato. Da l’idea della scena di un film dell’orrore, quella dove la ragazzina impaurita arriva nel luogo previsto per l’appuntamento e comincia a preoccuparsi vedendo dove è finita. Ma allora è troppo tardi, ormai l’ombra ha colpito e lei sta per morire, quando il tipico eroe biondo, alto e con dei muscoli da far paura arriva e la salva. In effetti è più o meno quello che succederà solo che il grande eroe figo verrà sostituito da me, la ragazzina-assassina con i capelli biondi. Beh, se non altro, una delle caratteristiche c’è. Mi guardo intorno e scorgo figure rannicchiate nell’oscurità, fioche luci che creano ombre spaventose, sento rumore di cardini cigolanti o di carrelli con le ruote arrugginite che vengono spinti sui cocci di vetro sparsi sul pavimento di cemento. La luce argentea della luna, a suo modo, rende la scena più spettrale di quello che è.
Una volta individuato il luogo dove attrarrò la mia cara vittima me ne torno al luogo d’incontro dove trovo le piccola Marianne che attende, tra i brividi di paura e freddo, il caro Mario. Faccio una smorfia e mi sistemo dietro ad uno dei pilastri di sostegno, dove posso osservare la scena senza essere vista. La bambina porta i lunghi capelli castani raccolti in una coda infiocchettata. Indossa una gonnellina rosa che le arriva al ginocchio, la giacca bianca nasconde il maglioncino fucsia con le farfalle.                                                                    
 Non ha idea del pericolo a cui sta andando incontro. Mario non è ancora arrivato ed io preparo la scena mentalmente. Ad un tratto scorgo un ombra lontana che si avvicina barcollante, è lui, ne sono sicura. Marianne fa un passo indietro quando si accorge che l’uomo punta lei. Ha capito che qualcosa non va, brava ragazza. Mario si muove piano e sarebbe facile sfuggirgli se si fosse in grado di controllare la paura, ma la bambina non ne è in grado e continua a retrocedere nella speranza che lui cambi direzione.                                     
- Marianne... – dice allungando la E. La piccola si blocca sul posto.                                                     
- Ch-Chi sei?– chiede spaventata. Mario alza un angolo della bocca a mo’ di sorriso, come se si fosse dimenticato di come si solleva l’altro.                                                                            
- Sono Roberto. – nuovo nome nuova storia. Lei è allibita.                                                               
- No... tu non puoi essere lui, Roberto è un ragazzo come me, tu sei vecchio. – dice terrorizzata. Lui è a pochi passi da lei, la bambina potrebbe scappare ma è troppo spaventata da quello che sta succedendo, bloccata dalla consapevolezza osserva il grosso serpente che le si avvicina viscido e pieno di cattive intenzioni.                                       
- Invece sono io. Che ne dici di parlare un po’?– le parole sono strascicate e quasi incomprensibili. La prende per un braccio e ride abbracciandola. Al che la piccola Marianne riprende vita e comincia a dimenarsi, ma levarsi di dosso due braccia grasse e pesanti è difficile per una bambina di dodici anni normale. Comincio ad avvicinarmi lentamente e in silenzio. Quando sono a pochi metri da loro dico: - Mario. Che piacere rivederti. – lui è così sconvolto da lasciare all’istante la bambina che cade a terra in lacrime.                                          
- Louise... – sorride viscido ed io faccio una smorfia.                                                               
- Non ci si comporta così con le ragazze. – mi avvicino muovendo i fianchi in modo che rimanga concentrato su di me e dimentichi Marianne. Ad un tratto sono così vicina da sentire l’odore pungente del sudore. – Non si fa. – gli sferro un calcio nello stomaco che lo fa cadere a terra. Lo spingo con un piede in modo che sia ben disteso. – E ora, cosa ne facciamo di te?– chiedo. – Tu cosa ne pensi Marianne?– la guardo dolcemente. Non voglio spaventarla ulteriormente.                                                                                        
- Io... io non lo so. – sussurra tra i singhiozzi.                                                                             
- Io invece lo so bene cosa si fa con certa gente piccola Marianne. Ma non farò nulla se non fargli finire la sua vita in una cella buia e stretta dove non vedrà più nemmeno l’ombra di una ragazzina. Tu che ne dici?– annuisce con vigore. – Bene. Hai un cellulare?– comincia a frugare nella borsetta e ne estrae un piccolo telefono touch che mi porge con mano tremante. Lo prendo e chiamo la polizia, spiego loro dove trovarci e poi restituisco il cellulare a Marianne.                                                                          
- Grazie... – mormora dopo un po’.                                                                               
- Di cosa?– chiedo.                                                                                     
- Di avermi salvata. Non ti conosco neanche. –                                                                                            
 - Oh, beh, di nulla. Avevo un conto in sospeso con questo tizio. – sono seduta sulla sua enorme pancia per non farlo scappare. Lei annuisce come se capisse di cosa parlo e più o meno è così. – Inoltre ho liberato la sua famiglia da una tirannia. È una buona cosa. – scrollo le spalle. Sento le sirene della volate della polizia venire verso di noi. Mi alzo e osservo quel brutto mostro che era sotto di me, ora sembra solo un pupazzo venuto fuori male. La macchina si ferma appena fuori dalla stazione, poco distante da noi. Ne scende subito un agente che ci corre incontro, è giovane, avrà circa venticinque anni ed è preoccupato.                                              
Il secondo agente è più calmo e più maturo di lui, si avvicina lentamente e va da Mario. Quello giovane ha capito dalla faccia di Marianne che è lei la vittima.                                                                     
- Mario Edeli, cinquantadue anni, sposato, tre figli, due femmine e un maschio, è già stato dentro un po’ di tempo per droga e detenzione illecita di armi. Pedofilo. Ha tentato di violentare la ragazza accanto a me, Marianne Tolosa, dopo averla contattata su un sito ed essersi finto un ragazzo di... quattordici anni se non sbaglio, sono intervenuta prima che potesse arrivare alla violenza. La ragazza sta bene, è solo un po’ scossa. – i due agenti mi osservano sospettosi. Saluto con un cenno la piccola Marianne e faccio per andarmene ma una mano mi blocca.                                                                                             
- Aspetta un momento, dobbiamo farti alcune domande. –                                                       
- Non ora. – dico e continuo a camminare ma di nuovo vengo fermata, stavolta da una mano più esile e debole: Marianne.                                                                                                   
- Ti prego, resta con me... – dice con voce sottile. Sospiro e annuisco. Lei si getta tra le mie braccia. Per essere un’assassina ispiro fiducia nelle persone.                                                                                                                 
  - Niente domande, non risponderò. – mimo con le labbra accarezzando i capelli della bambina che in realtà non è molto più piccola di me. I due agenti sorridono duri.
Marianne ha rifiutato di informare i suoi genitori dell’accaduto quindi ora se ne sta alla centrale rannicchiata contro di me, seduta su una delle sedie blu della ala d’attesa. Non ha voluto allontanarsi da me nemmeno un momento per paura che la lasciassi sola in quel casino. Ho seguito l’interrogatorio da una sedia in fondo alla stanza. Mi hanno fatto una sola domanda: - Perché sai tutte queste cose?– ho sorriso.                                          
- Segreti del mestiere. – ho risposto. Questo per quanto riguarda ai poliziotti, con Marianne è stato più difficile, lei aveva visto tutto.                                                                                       
 - Chi sei?– è stata la prima domanda che mi ha posto. Non aveva paura di me e non ne ha nemmeno ora. Se ne stava tra le mie braccia, con la testa affondata nei miei capelli e singhiozzava.                                                     
Io le ho detto il mio vero nome, cosa che non faccio mai con nessuno. Sarà stata la stanchezza, la sorpresa, il non essere preparata alla risposta ma le ho detto il mio nome di battesimo: Candida Azzurra di Angelo. I miei genitori avevano senso dell’umorismo visto che mi hanno chiamata Candida.                                           
– No, non è vero, mi chiamo Giselle. – le ho detto per rimediare e lei ha annuito.Le domande difficili sono venute dopo. Quanti anni hai, dove vivi, i tuoi come si chiamano, hai fratelli o sorelle, dove ai a scuola,... tutto è sto difficile per me. Ho dovuto mentire.                                                                                  
Ora Marianne dorme tranquilla stringendomi il bordo della giacca. La osservo. Il suo viso è ancora tondo come quello dei bambini, gli occhi ho scoperto che sono grigi come quelli di Christian. Mi ha raccontato che le piace tantissimo vestirsi di rosa e che la sua camera e tutta di quel colore. Ha detto che ha un fratello più grande ma non mi ha detto il suo nome, dice che è simpatico. Ora so che i suoi genitori si chiamano Harold e Clara, che vanno d’accordo e sono una famigliola felice. Poi si è addormentata.                                                    
- Sicura che non vuoi andare a casa ragazza?– una poliziotta si avvicina a me con una tazza di caffè bollente. Annuisco guardando Marianne.                                                                           
- Lei ha ancora bisogno di me. – dico. Che volete che dica?Sono una ragazza dal cuore tenero. Io non dormo, sono abituata a passare le notti in bianco.

Alle quattro di mattina Marianne si sveglia e mi guarda sorridendo. – Non credi sia il momento di chiamare la tua famiglia?Saranno preoccupati. – le dico alzandomi. Lei annuisce e afferra il telefono. La voce che risponde è preoccupata. Io mi allontano ma Marianne mi segue continuando a parlare, mia afferra un lembo del maglione e sorride triste. Mi mo la parola ‘ bagno ‘ con la bocca ma non mi lascia allora dico ‘ Da sola ‘ e lei mi molla.                                                                                                   
 Mi lavo il viso e mi guardo allo specchio cercando di vedermi con gli occhi di Marianne. Le devo sembrare una specie di angelo custode ora che l’ho salvata. Le occhiaie mostrano la mia stanchezza e la bocca è storta in una smorfia di stupore e responsabilità. Esco e torno da Marianne che sta parlando con un ragazzo, suo fratello probabilmente, non lo osservo bene, non mi interessa. Lei mi vede e mi corre incontro. Allora vedo il suo volto. Christian.                                                                                                
- Christian?– dico.                                                                                            
 - Giselle?– dice lui nello stesso momento. Ci osserviamo sbalorditi. I capelli di Marianne mi solleticano in viso ma non ci faccio caso.                                                                                          
- Cosa ci fai qui?– gli chiedo.                                                                                  
- Mia sorella. Immagino sia stata tu a salvarla. – annuisco e, liberandomi dall’abbraccio di Marianne mi siedo su una delle sedie, stanca da morire. Mi strofino gli occhi.                                                               
- Immagini bene, o hai buona memoria. – sospiro. – La cosa buffa è che se tu non avessi tentato di salvarmi non sarebbe successo nulla oggi. – dico. Lui si irrigidisce, lo percepisco.                                                     
- Vuoi dire...?– non finisce la frase. Annuisco. Sento un rumore e alzo lo sguardo. Christian ha tirato un pugno al muro e lo osserva come se lo volesse sfondare. – Dov’è ora?– sibila.                                                    
- Non è una cosa che ti serve sapere. – dico senza scompormi. Lui mi guarda come se mi volesse uccidere.                        
- Che vuol dire?–                                                                                          
- Nulla più di quello che ho detto, Christian. – lo guardo negli occhi ma distolgo subito lo sguardo. Quegli occhi sono come un turbine di tempeste, ti prende e non ti lascia più. – Calmati ora. – non so se lo dico a lui, a me o a entrambi. Mi alzo controvoglia e mi avvio verso la porta.                                                             
- Dove vai ora?–                                                                                          
- A casa mia. Il mio compito è finito. – dico senza fermarmi. Sono ormai a metà strada quando sento dei passi dietro di me. Mi volto e trovo Christian ansante.                                                                 
- Cosa stai facendo?– chiedo.                                                                              
- Vengo con te. – resto a bocca aperta. Questo ragazzo mi stupisce più di chiunque altro.                                            
- E tua sorella?–                                                                                             
- Ci penseranno i miei genitori. – risponde scrollando le spalle. Rido e vado avanti con lui al seguito. Se è così deciso ad entrare nella mia vita, così sia. Ma poi che non mi venga a dire che non l’avevo avvertito.
Appena apro la porta Luna mi viene incontro. – Ciao bella. – dico accarezzandole la testolina. – Vieni che ti do la pappa. – lei mi segue in cucina. Eseguo i gesti di tutti i giorni come se Christian non fosse lì a fissarmi.                              
-Che dici, ci facciamo una bella dormita Luna?– lei si avvia su per le scale ed io la seguo a poca distanza.                            
- E io?– chiede Christian.                                                                                            
- Tu hai voluto venire, tu fai quello che vuoi, ma non sbirciare in casa mia. – dico salendo.                                       
Mi spoglio, rimanendo in biancheria intima, e mi metto sotto le coperte. La mia Luna mi si accoccola a fianco e in pochi istanti mi addormento.
 

   
 
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