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Autore: fallapart_    27/03/2012    5 recensioni
A giudicare dall’acne e dal taglio di capelli idiota, è un quindicenne alla prima sbronza, e io non sono tanto più adulto di lui, quindi perché dovrebbe fregarmene qualcosa? Sempre detto anche questo, io: reggere l’alcol non è una fortuna, è una stramaledetta croce.
E se anche loro si fossero conosciuti così?
The Last Shadow Puppets, Alex Turner/Miles Kane.
Genere: Comico, Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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DISCLAIMER: Dio solo sa quanto vorrei che Alex Turner mi appartenesse. Purtroppo non è così, infatti questa storia è frutto di fantasia e libera interpretazione di ore di interviste e concerti.
Due premesse: uno, non è collegata all'altra fanfiction che ho scritto su di loro, e penso si noti dal fatto che la caratterizzazione è molto diversa - insomma, sono personaggi, è bello sperimentare! - e due, non è verosimile, perché sappiamo da fonti certe che si sono conosciuti più tardi e per altre vie. Qui dovremmo essere nel 2005, un anno prima di "Whatever People Say I Am, That's What I'm Not" e quando Miles Kane non aveva ancora una band. Enjoy.


*

La risata sguaiata della ragazza che mi sta davanti muove la superficie del bicchiere di whiskey appoggiato sul bancone, che va a formare una serie di piccoli cerchi concentrici, disturbanti a tal punto da indurmi a fare un altro lungo sorso. Non mi ricordo se sono sempre stato così temprato, o se è stata la vita notturna non esattamente aristocratica che l’Inghilterra nordorientale ha donato alla mia tutto sommato lineare adolescenza, a darmi una formazione da caserma; sta di fatto che bevo da ore e non sento ancora nessun effetto, e soprattutto, non tale da poter credere fermamente che la bionda sia davvero interessata a me, e che ci sia qualche possibilità di concludere.
Del resto, avrei dovuto immaginarlo: non sono mai stato bravo a baccagliare nei pub. Quando andavo a scuola aspettavo più che altro che qualcuna si avvicinasse, mi sviolinasse con riferimenti all’ennesimo concertino patetico in palestra – con la tua chitarra mi ha stregata, ieri sera! – e pochi altri convenevoli, i quali, in ogni caso, non si protraevano mai a lungo, concludendosi presto nel tanto agognato taxi verso casa sua. Mai sottovalutare il potere seduttivo della musica – e dell’agilità delle dita ostentata al mondo senza pudore alcuno.
Mi allontano, cogliendo l’affacciarsi dei miei bisogni fisiologici come un auspicio – nonché usandolo come scusa; scolo il fondo del bicchiere, do una pacca sulla spalla alla sfortunata augurandole un buon proseguimento di serata e scivolo giù dalla sedia, spintonando le persone in piedi in attesa della comparsa, sul piccolo palco di legno, dell’ennesima combinazione piano più voce femminile che sfoggerà, stasera, le sue indiscutibili doti tecniche, in concomitanza con le, invece, discutibilissime, capacità espressive. Nulla di nuovo, insomma.
Spingo la porta dei servizi e ne bestemmierei immediatamente il sudiciume, se non fosse che, rispetto ai cessi dei peggiori locali del lungo porto, qui la cura dell’igiene è più che accettabile; c’è addirittura la carta igienica, un pacco di bicchieri di plastica, e sul lavandino troneggia un contenitore di sapone. Vuoto, ma almeno dimostra nobili intenzioni. Storco il naso davanti allo specchio, mi sistemo la frangia tagliata male e faccio per entrare nel cesso vero e proprio, ancora più angusto e chiuso da una porta ancora più piccola.
Il naturale aprirsi dell’anta urta contro qualcosa, al che mi sporgo, e lo spettacolo che mi trovo davanti è il classico scenario da bagno del pub all’una di notte: un ragazzino, carponi sul pavimento, vomita l’anima nel water, in preda a spasmi poco gradevoli alla vista e all’udito.
«Londinesi», bofonchio, «Sempre detto che non sapete bere.»
L’altro mi rivolge gli occhi persi, immersi in un paio di occhiaie da panda scavate nel viso pallido come un cencio, e la prima cosa che mi viene da pensare è no, io la crocerossina non la faccio, impara a dare di stomaco da solo come un cazzo di uomo che si rispetti.
«A... a...» biascica, al che io alzo un sopracciglio. «Prego?», faccio, con evidente spocchia. «Acqua... voglio... dell’acqua...»
Il mio cervello, ormai, sta inviando impulsi pericolosi a quella piccola parte di me che è intenerita da quegli occhi da cerbiatto, grandi, color cioccolato, evidentemente assenti ma ancora capaci di camuffarsi in uno sguardo da cane bastonato che non ha fatto nulla di male per essere abbandonato sul ciglio della strada – lo sguardo classico dell’ubriaco sul cesso, in pratica.
Appoggio la fronte allo stipite della porta. Uno, due, tre colpi. Un sospiro. Miles, non farlo...
«Tieni, va’», faccio con una certa svogliatezza, e gli passo uno dei bicchieri piuttosto sporchi della confezione sul lavandino, con due dita d’acqua, giusto perché non voglio essere colpevole di annegamento. Il rischio, comunque, non si pone, perché prima che la mia mano raggiunga la sua, ha già ricominciato a darci dentro, ancora più curvo e ancora più pallido.
«Ma che cazzo hai bevuto per ridur... Cristo», faccio a me stesso, mentre quello si accascia per terra, dando prova di non essere più capace di intendere e di volere, oltre che, ovviamente, in grado di centrare; lo tiro per la giacca di pelle, ma ogni tentativo è vano, tanto che, al culmine della disperazione, tento addirittura di rianimarlo con un paio di schiaffi moderati ma decisi, che perlomeno gli riaprono gli occhi.
«Muoio», trascina, accasciandosi sul mio braccio. Ecco. A giudicare dall’acne e dal taglio di capelli idiota, è un quindicenne alla prima sbronza, e io non sono tanto più adulto di lui, quindi perché dovrebbe fregarmene qualcosa? Sempre detto anche questo, io: reggere l’alcol non è una fortuna, è una stramaledetta croce.
«No che non muori, cretino», lo tiro su con uno strattone e, non so per quale malsano senso di responsabilità, me lo carico in spalla e spingo la porta, per poi attraversare l’intero locale e fare un’uscita più o meno trionfale dalla porta sul retro, fino alla strada. Apro la portiera e lo butto in macchina così com’è, a mo’ di sacco di patate – se sta scomodo, cazzi suoi.


*


La notte è ancora lunga, ma almeno il mio cesso è più largo, più pulito e dispone degli strumenti del mestiere.
«Co’unque mi ’iamo A- Alex.»
«Taci e vomita


*


Allora, parliamoci chiaro. Già non è nei miei principi morali accudire una persona che neanche conosco, solo perché è stata così stupida da bere sei litri d’alcol puro pensando che fosse acqua; liquidato, poi, questo quesito con la giustificazione di un occasionale picco di carità, resta il fatto che l’ho addirittura messo a dormire – o meglio, a smaltire – nel mio letto, con due dei miei cuscini, rimboccandogli come se fosse mio figlio una delle mie coperte di flanella. Ma soprattutto, il fatto che mentre lui riposa beato, io ho perso qualsiasi accenno di sonno, e me ne sto letteralmente al suo cospetto, con un secchio in mano, nell’eventualità che si svegli con qualche urgenza immediata.
Nel frattempo, nella luce dell’abat-jour, sicuramente meno spettrale del neon da ospedale del bagno, ho tutto il tempo di osservarlo e inquadrarlo meglio. Ok, forse proprio quindici anni non li ha. Direi che è maggiorenne, anche se quel taglio di capelli da sfigatello del primo anno non migliora certo la situazione, e neanche l’assoluta anonimità del suo viso, in generale.
D’un tratto mi viene in mente che, in effetti, a meno che non sia davvero nato scemo come sembra, dovrebbe avere dietro un portafogli – anche perché, altrimenti, dubito che sarebbe riuscito a ridursi in tale stato. Al giorno d’oggi, quella dello scrocco è una prerogativa femminile.
Recupero la sua giacca dall’angolo dove l’ho distrattamente gettata un paio d’ore fa, mentre lo trascinavo in bagno tentando di salvarmi lo zerbino, e frugo nelle tasche: un pacchetto di Camel Gold, un mazzo di chiavi, e finalmente eccolo lì, un anonimo portafogli di pelle nera, dal quale spunta lo spigolo superiore di una carta d’identità. Turner, dice. Oh, magnifico: Alexander Turner. Uno di quei nomi con cui, in caso di coma, non puoi neanche sbrigartela tanto in fretta a risalire a un parente da cui scaricarlo con le più sentite condoglianze. Non c’è altro che sia utile, solo un foglietto piegato in infinite parti con gli accordi di Where is my mind? dei Pixies e uno specchietto con l’orario della metro.
Sposto l’attenzione sul mazzo di chiavi, non senza avergli prima deliberatamente fottuto una sigaretta – mi devi questo ed altro, idiota – e mi rendo conto solo ora del portachiavi estremamente kitsch a forma di London Eye, che se non altro mi dà un altro indizio su di lui: nessuno nato e cresciuto a Londra troverebbe interessante un oggetto che urla souvenir da pensionato da tutte le sbavature di smalto.
Mi alzo a procurarmi un posacenere, cercando di ricomporre i pezzi del puzzle. Dev’essersi trasferito qui, e, a giudicare dalla faccia e dal fatto che abbia delle parti musicali nella tasca della giacca – ok, questo è strano persino per uno come me – è probabile che l’abbia fatto per i miei stessi motivi. È chiaro che... comunque qui c’è anche un do diesis minore, evita di farti dare partiture fatte con i piedi... dico, è chiaro che si tratta di un musicista in erba. Un’ipotesi davanti alla quale anche il taglio di capelli comincia ad avere un senso.
L’ultimo aspetto che mi sento di analizzare: non ha affatto buon gusto in quanto fumatore.
Del resto, non farei in tempo a sviluppare altre tesi, perché il suono della libertà arriva chiaro e forte dalla camera, e, sempre sperando che sia stato in grado di fare il tutto nel posto giusto. Ed effettivamente, con mio grande stupore, mi affaccio alla porta e me lo trovo con il secchio in mano, decisamente più colorito, che si asciuga il sudore con un fazzoletto. Non appena si accorge di me, mi rivolge uno sguardo spaurito.
«Ah, stiamo migliorando», faccio, con un sorriso ironico – ma neanche tanto.
Non sembra avere una benché minima idea di che cosa dire. Evidentemente il classico «Dove sono?» gli sembra l’opzione più lucida, anche se da come mi guarda, si capisce benissimo che ha capito che non sono un idiota, e so benissimo che a nessuno interessa realmente dove si trovi, quando si sveglia dopo una sbronza.
«Non farti problemi», proseguo, giusto per spezzare il silenzio, e per amore di quelle stramaledette convenzioni sociali che impongono sorrisi e gentilezza anche nella situazione che meno te lo ispirerebbe. «Eri proprio in condizioni pietose. Appena ti senti meglio puoi tornare a casa.»
Annuisce. «Grazie», fa con la voce ancora roca, «Insomma, chiunque tu sia.»
La cosa che più mi stupisce è che chiunque altro, me compreso, nello svegliarsi dopo una sbornia nel letto di qualcuno che non sia una donna, si farebbe due, ma forse anche tre, domande. Lui invece sembra assolutamente tranquillo, come se non lo sfiorasse minimamente il pensiero: poco importa che non mi ricordi come sono arrivato qui, e che il mio orientamento sessuale rischi di venire messo in discussione! Sono al calduccio, e ho ancora mezzo pacchetto di sigarette.
Fa un gesto spaesato alla ricerca di un accendino, così mi avvicino per passarglielo, e gli lascio il posacenere sul comodino.
«Comunque...», mugugno, spinto da non so quale principio ignoto, «Chitarrista? ... Scusa, non che io volessi frugare nella tua giacca per qualche strano fine, ma cercando di capire come ti chiamavi...»
Succede una cosa strana: mi rivolge uno sguardo assolutamente atono, disinteressato, che però, paradossalmente, riesce a mettermi un’ansia incredibile.
«Sì», accenna un sorriso vagamente autocompiaciuto. «Insomma, suonicchio, più che altro scrivo... ho una specie di band, ma non sembra andare da nessuna parte.»
«Ma va’?», inclino la testa, con un sorriso – lo ammetto – più che scettico; poi indico con un cenno del mento la mia chitarra acustica, appoggiata alla parete di fianco a lui. «Pezzi vostri? Fammi sentire, sono curioso.»
Lui mi osserva un attimo, come il tipico eroe da film che davanti all’eccessiva disponibilità del suo nemico giurato diventa improvvisamente sospettoso; poi si sporge verso la chitarra, senza smettere di guardarmi con la coda dell’occhio, e la imbraccia, intonando una melodia frenetica, vagamente cacofonica, e cominciando a canticchiare, con una voce posata ma indubbiamente particolare: «It’s ever so funny, I don’t think you’re special, I don’t think you’re cool...»
È divertente, a pensarci: non so nulla di quel ragazzino rachitico, ma ho già sentito un parto della metà artistica del suo cervello.
«What do you know? You know nothing...»
E, devo ammetterlo, sto già picchiando le dita a tempo sulla parete.
«But I’ll still take you home–»
«Oh, via, lo stai facendo apposta?», ridacchio, e in tutta risposta anche lui si lascia andare a un accenno di risatina.
Nel giro di qualche istante, sono già seduto sul letto, di fronte a lui, il solo posacenere a dividerci, ad alternarci alla chitarra, cantare Nick Cave e improvvisare parodie di canzoni dance anni ’80. Tutto quel che capisco di Alex, è che si lascia andare molto poco. Ride solo quando proprio non ce la fa, parla solo quando ha proprio qualcosa da dire, e persino la chitarra, preferisce mille volte che sia io a suonarla.
Quando, ormai nel tardo pomeriggio, si avvia fuori dal portone, ringraziandomi dell’ospitalità, e si accende l’ultima sigaretta della giornata, proteggendo la fiamma con le mani sebbene in casa non ci sia vento, mi appare chiaro: di una persona come lui capirò sempre poco, se non sempre meno.
Ma, forse, basta questo a farmelo piacere.
  
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