To Living.
Salone di prima classe del Virginian, Oceano
Estate 1931
Novecento ha vinto il duello, Jelly Roll Morton è sceso a
Southampton ed è tornato in America. Il Virginian
è ripartito, una settimana dopo, con un altro carico di emigranti e ricconi che
cercano fortuna o ne cercano di più. A Novecento non gliene frega di aver
vinto, per lui potrebbe essere stato Dio in persona a sfidarlo e a perdere e
non gli importerebbe, per lui l’importante è suonare, suonare, suonare.
La prima notte dopo la partenza, quando il mare non è più
solo mare ma è già oceano, Novecento va nel salone della prima classe e si
siede al suo posto, lì dove sta tutte le sere. Amico fidato, il pianoforte, Novecento
potrebbe stare in sua compagnia per tutte le notti della sua vita, e non
potrebbe esserne più contento. Se ne resta lì, accanto al suo amico, a sfiorare
il bianco e il nero con le dita, parlando con i tasti e i martelletti,
raccontandosi delle storie che a volte lo fanno ridere da solo, e a volte
piangere, e a volte perdere nei sogni.
È buio, nel salone della prima classe, e il silenzio è
quella strana atmosfera che aleggia in quelle notti, quando Novecento è dietro
il pianoforte, e quando magari c’è un po’ di burrasca e lui toglie i fermi, e
se ne va avanti e indietro e danza con l’oceano come se anche lui fosse fatto
d’acqua. Persino il silenzio è speciale, quando a farlo è Novecento.
Diventa silenzio vero, però, quando la ragazza oltrepassa la
porta e lo vede. Anche da lontano Novecento, che magari non ha mai studiato, ma
sa leggere le persone, anche da
lontano Novecento vede che è bella. Restano lontani, agli antipodi della sala,
e si guardano e si leggono a vicenda, si guardano e si scoprono pian piano.
Terza classe, lei, si capisce dal vestito. Lo tiene pulito e
in ordine, ma dalle mani si capisce la sua storia. E dagli occhi – dagli occhi
Novecento si lascia raccontare la sua storia di contadina, di poveraccia, di
una che non ha mai avuto niente. E mentre la legge ancora, Novecento inizia a
tradurre la sua storia in note, in arpeggi – piano piano, con dolcezza, inizia
coi toni alti, resta sospeso sulla cima, a guardarle gli occhi e a immaginarsi
che le sia successo, dove voglia andare, perché ci stia andando.
È una che scappa, lei, si capisce dallo sguardo. Spesso
basso, un po’ sfuggente, troppo adulto per quel viso da bambina. E poi è anche
una che non si fida, una che ha paura. Si capisce dalle spalle, le tiene
strette, un po’ curve, sempre contratte. Occupa poco spazio su quella nave
immensa, sembra che cerchi di farsi piccola piccola dentro quel salone
gigantesco, e Novecento che fa, Novecento la guarda e le legge dentro. La segue
con lo sguardo, la segue fuggire, tornare nella sua fortezza di terza classe a
pensare e a non dormire davanti a quegli occhi di mare che la guardavano mentre
tutto danzava, a quell’uomo strano che suonava la sua storia senza nemmeno
guardare i tasti, come se quella canzone la conoscesse a memoria, come se
l’avesse suonata da sempre e per sempre.
La seconda notte dopo la partenza, quando l’oceano non è più
solo un po’ d’acqua che si muove, ma un abisso scuro e freddo che solo a
guardarlo mette i brividi, Novecento è di nuovo nel salone della prima classe,
seduto al suo posto, lì dove, meglio che in qualunque altro luogo, riesce a
leggere la gente e le storie che la gente si porta dietro.
Quella sera, lei si fa più vicina, e le mani di Novecento
dai toni alti scendono un po’, vanno verso sinistra, accarezzano le ottave meno
acute, in cerca della storia nascosta sotto la purezza di quel viso di bambina.
Gli si fa più vicina, e sotto i suoi occhi scuri, scuri che sembrano fatti
della stessa terra che ha lavorato con quelle mani, sotto i suoi occhi scuri
come la terra Novecento continua a suonare, continua a leggere quella storia,
quel libro meraviglioso che magari non farà ridere come Culo quadrato o Minestrone
o Mamma o Marmellata, ma che di sicuro è interessante come i nomi di quei
maledetti cavalli che Danny amava tanto.
Ripensa a una cosa che gli ha detto Tim tanto tempo fa,
quattro anni per essere esatti, la sua terza sera sul Virginian, quando all’oceano erano girati i coglioni per tutti quei
festeggiamenti e si era messo a mugghiare e urlare come un indemoniato davanti
a un prete. Ripensa a una cosa che gli aveva detto Tim quando, nemmeno si
ricorda come, erano finiti a parlare di donne, e di amori, e della donna che
sarebbe stata giusta per ciascuno di loro. E Novecento, Novecento si lascia
scappare un sorriso quando ripensa a quello che aveva detto Tim, che la donna
giusta per lui sarebbe stata quella in grado di ricordarsi tutto quel suo cazzo
di nome, lungo come un fottutissimo treno della Georgia. E poi si riprende quel
sorriso, lo riprende e pinzandolo con due dita se lo infila in tasca, come i
ricchi si sistemano il fazzoletto, come i poveracci si sistemano una bretella.
Si riprende quel sorriso e lo nasconde, perché non c’è niente di divertente
nella storia che sta leggendo.
“Do you like this
song?” domanda, con quella sua voce che sembra velluto.
“Tu aimes cette
chanson?” riprova, pensando che magari non è inglese, anche se è salita a
Southampton.
“Te gusta esta
canción?” Niente, la sconosciuta ancora lo guarda con due occhi tanto
grandi che se fossero una bocca potrebbero mangiarsi il mondo.
“Magst du dieses Lied?”
prova ancora, forzando troppo l’accento, che se ci fosse qui Fritz Hermann lo
prenderebbe a bacchettate con quel suo archetto – e gli farebbe passare pure la
fissa per quelle note ‘non normali’ che gli piace tanto tirar fuori a metà di
una canzone.
Lei lo guarda ancora, abbassa ancor di più la testa,
continua a non capire, e Novecento, Novecento che conosce il mondo a piccole
dosi, a poche centinaia di persone per volta, e a poco a poco ha imparato usi,
costumi e linguaggi, Novecento tenta la sua ultima carta, quella che ha
imparato più alla svelta di tutte, quella che conosce meglio.
“Ti piace questa canzone?” le sussurra, e sussurra perché
ormai lei è vicina, si è avvicinata come un serpente al suo incantatore, rapita
dalle note che riempiono la sala e fanno scordare il tempo, lo spazio, gli
eventi e l’altra gente. Le sussurra e lei scompare, improvvisamente paonazza,
perché improvvisamente ha capito cosa volevano dire quelle strane parole.
La terza notte dopo la partenza, su un oceano troppo piatto,
Novecento è nel salone, con le braccia e il mento appoggiati su un pianoforte
muto e fermo. C’è proprio silenzio, un silenzio vero, e se tra le cabine di
prima classe uno di quei ricconi fosse sveglio, si accorgerebbe che Novecento
non è in sé, perché nessun pianoforte resta muto, se Novecento è nei paraggi.
La aspetta invano, per ore e ore, finché le stelle non si
spengono, e il mare si fa chiaro e in cielo torna il sole. La aspetta per tutta
la notte, e quando arriva l’alba e i raggi illuminano la vetrata, Novecento
alza gli occhi e torna nella propria cabina, si getta in branda svegliando Tim,
e rimane immobile a pensare ignorando le sue domande.
La quarta notte dopo la partenza, vincendo la paura di restare
di nuovo solo davanti al pianoforte senza riuscire a suonare una nota,
Novecento torna su, nel salone di prima classe, e si siede dietro il pianoforte
e alza il coperchio, e strimpella qualche nota così, giusto per riscaldarsi e
tenersi in esercizio.
E così, come richiamata dalla musica, la sagoma di lei torna
a farsi strada nei corridoi dei ricchi, indugia dietro la vetrata che non ci
era voluto molto a mandare in mille pezzi, e poi scompare alla vista e fa
capolino dalla porta, timida e solitaria, povera anima in pena. Novecento suona
di nuovo la sua canzone, quella che le ha letto dentro, e parte dalle note alte
e piano scende di un’ottava, poi di un’altra, e di un’altra ancora. E quando
arriva all’ultima, quella che più in basso è impossibile andare, a quel punto
lei è vicina, di fianco a lui, con le braccia conserte per nascondere le mani,
e i segni del suo lavoro e della sua vita di fatica.
Smette di suonare, Novecento, quando finisce i tasti da
pigiare. Smette e la guarda, senza dire una parola, perché due notti prima con
una parola l’ha fatta fuggire via, lontano. Si alza, Novecento, e una signora
di prima classe correrebbe via strillando per le maniche rimboccate della sua
camicia, e per la camicia un po’ stropicciata che sta un po’ fuori dei pantaloni,
e per la bretella storta e per i bottoni aperti che lasciano vedere un po’
della pelle che sta a sud del collo. Si alza, e la ragazza di terza classe con
la sua storia da raccontare alza gli occhi per catturarlo in tutta la sua
altezza, perché Novecento è alto, slanciato, proprio un bell’uomo, che le donne
mica se lo mangiano con gli occhi solo per le mille note che sa fare. Si alza e
le porge la mano, e lei, la ragazza della terza classe, prima tentenna e poi
accetta, e si va a sedere vicino a lui, sul seggiolino del pianista, e con gli
occhi che le brillano guarda la sala e se la immagina piena di ricchi, piena di
belle signore eleganti che aspettano le note strane di Novecento per ballare
qualcosa di diverso da come ballerebbero a terra. Si siede e pensa che al suo
paese è sconveniente anche solo guardare
un uomo, figurarsi lasciarsi prendere per mano e sedersi accanto a lui.
Resta in silenzio mentre lui riprende a suonare, e suona una
canzone diversa che non sa né di terra né di mare, né di ieri né di domani, che
non è una canzone di nessuno ed è la canzone di tutti.
La quinta notte, quando non si distingue più la costa
d’arrivo da quella di partenza, quando tutte le direzioni sono buone, Novecento
non alza gli occhi vedendola arrivare. Continua a suonare una delle tante
melodie che non ha imparato da nessuna parte, che semplicemente prende dalle
storie che sente, vede, legge in giro per il mondo – il suo mondo, quello che vede salire e scendere la scaletta come un
vecchio bruco silenzioso. La sente sedersi lì accanto a lui, silenziosa come un
fiocco di neve, bella come una farfalla, leggera come una piuma.
Novecento ha il mondo nelle mani: il mondo e mille e mille
storie che nessuno ha mai raccontato, e mille e mille storie che nessuno ha mai
capito, e mille e mille storie che ben pochi hanno vissuto. Continua a suonare,
socchiudendo gli occhi, continuando a raccontare la storia del mondo al suo
pubblico invisibile – o forse se le racconta da solo, chissà.
“Mi piace tanto la tua musica.”
Fran, cade il quadro. Quadro e chiodo, tutti e due insieme,
forse in anticipo, forse impreparati. Cadono a metà strada tra Southampton e
New York, in una notte stellata che in tante parti del mondo fa da sfondo a una
storia d’amore. Cade il quadro e Novecento fa silenzio, d’improvviso, non tanto
perché voglia far attenzione a quello che lei dice, ma perché la sua voce è
ancor più bella della sua musica, e quella voce gli racconta la parte della sua
storia che lui non aveva ancora letto, quella troppo nascosta e troppo fragile per essere capita.
“Mi piace tanto la tua musica” dice ancora. “Suona ancora,
suona ancora.”
Novecento ricomincia, ripropone quella che Tim chiama la
canzone della bella contadina, quella che le ha letto dentro. Parte dai toni
alti e pian piano scende, e intanto a lei si scioglie la lingua come a una
bambina timida, e seduta lì vicino a lui si beve la sua musica e le sue storie,
e intanto gli racconta la sua. E Novecento continua a suonare, salta sui toni
bassi quando lei gli racconta di quand’era bambina e abitava ancora al paese, e
di quando i suoi avevano dovuto mandarla a scuola per forza anche se non
volevano, perché lo diceva la legge, e Novecento continua a suonare e gli
tornano in mente le lezioni di Danny, e il ditino premuto forte sulle lettere
per non farle scappare. Le note si fanno profonde come l’oceano quando lei
abbassa gli occhi, si diradano e si fanno più deboli quando gli racconta le
cose brutte che le ha fatto un uomo del paese, che prima le ha fatto credere di
amarla e poi si è preso tutto di lei, tutto tranne il suo cuore. Novecento
continua a farsi raccontare ciò che non è riuscito a leggere, e quasi gli viene
da piangere quando lei gli dice del bambino che è nato, troppo debole, troppo
fragile, tanto che il Cielo se l’è preso poche ore dopo. E gli si stringe il
cuore ancora di più quando lei gli dice che quando quel bambino se n’è andato,
sono stati tutti i bambini del mondo ad andarsene, perché una brutta infezione
ha costretto il dottore ad operarla, e tutti le hanno detto che non avrà mai
più bambini – e quale altro scopo poteva avere una ragazza come lei, se non
essere madre? Gli racconta di come nessuno l’abbia più voluta, dopo quel
fattaccio, di come nessuno l’abbia più nemmeno guardata in viso, nemmeno i suoi genitori. E anche se Novecento non
capisce tutte le parole, perché gli è ancora difficile capire tutti quei
dialetti diversi, se la immagina, quella ragazza che fa fagotto e scappa di
notte, senza dire niente, senza lasciare un biglietto. Se la immagina, così come
lei gli sta dicendo, vagare da un paese all’altro in cerca di fortuna,
scacciata da tutti perché tutti pensano che sia una poco di buono. E torna
sulle note alte, mentre lei gli racconta del carrozzone di zingari che l’ha
raccolta quando stava per morire di fame, bagnata come un pulcino senza madre e
sola come un cane. Sperimenta qualche bemolle quando lei gli dice che non sa
nemmeno come ci sia finita, sul molo di Southampton, con il biglietto per
l’America.
“Sono felice che tu sia finita su quel molo, anche se non
sai come.”
La sesta notte, quando entra nel salone della prima classe,
lei è già seduta sul seggiolino, e sta suonando qualche tasto a caso, uno per
volta, come una bambina inesperta. Novecento si avvicina piano e si appoggia
allo strumento, rimanendo ad ascoltare quelle note normali che dopo un po’ lui
si stufa sempre di fare. “Sei molto brava.”
Gli occhi fatti di terra si alzano su di lui, sorridendo, e fran, sembra cadere un altro quadro, lì
in mezzo all’oceano, a sole due notti di distanza da New York, perché il Virginian è in anticipo sulla tabella di
marcia. “Non sono brava, facevo per scherzo. Vieni, suona tu per me.” Si
sposta, facendogli spazio, e allora Novecento si siede vicino a lei, ma prima
dice aspetta, voglio farti provare una cosa che nessuno ti ha mai fatto
provare, e allora toglie i fermi al pianoforte e le fa provare cosa vuol dire
danzare sull’oceano, danzare su uno grande specchio d’acqua che non sta mai
fermo e può essere diverso tutte le notti e tutti i giorni, e che può essere
amato sempre allo stesso modo.
La settima notte, l’oceano sembra un po’ arrabbiato.
Novecento sta camminando verso il salone della prima classe, sempre dritto come
un fuso, lui, che sembra non sentire il rollio della nave nemmeno quando
l’oceano è in tempesta. Cammina e la trova a metà del corridoio, che arranca un
po’ a fatica, perché una settimana non basta ad abituarsi ad un dondolio così.
La vede inciampare, sta per cadere, riesce a prenderla prima che si faccia
male, e restano lì a guardarsi, sospesi tra le pareti, sospesi fra l’Europa e
l’America, tra il vecchio e il nuovo, tra il passato e il futuro, tra tante
cose, ma così tante che non si possono contare, e per la prima volta a lui
viene da chiedersi, ma come si chiama questa ragazza, non me lo ha mai detto,
io non gliel’ho mai chiesto, siamo così vicini, adesso, e io dovrei saperlo,
così potrei sussurrarglielo e vederla arrossire. E poi, Novecento,
immaginandosi la musica perfetta per questo momento, fa una cosa che ha visto
fare tante volte agli altri uomini, ma che non ha mai fatto prima. Novecento
vede i suoi occhi di terra, grandi come l’oceano, chiudersi piano, e per la
prima volta sente il sapore della bocca di una donna, e si chiede com’è
possibile che nessuno l’abbia voluta, com’è possibile che nessuno l’abbia mai
amata, come si fa a non amare questo viso d’angelo, come si fa a non amare
queste mani sul viso, e come si fa a non amare questo naso, e questi capelli, e
questo cuore che batte vicino, troppo vicino?
L’ottava notte, l’oceano sta per finire. L’acqua si fa meno
profonda, e all’alba un ragazzo di Genova, uno che ha visto il mare tutta la
vita ma non l’ha mai solcato, all’alba quel ragazzo di Genova punterà il dito,
e ce l’ha scritto negli occhi che griderà “America!” con tutta la voce che ha
in corpo, e che quella voce sembrerà una voce di uomo, da quell’istante.
L’acqua si fa meno profonda, e Novecento sfrutta le ultime miglia per suonare
ancora, perché poi resteranno in porto una settimana, e per una settimana i
pianoforti taceranno.
Sta suonando ancora la canzone della bella contadina, che
Tim si sbellica dalle risate quando lo dice, e poi fran, un altro quadro cade quando lei attraversa il salone, gli
prende le mani e lo fa smettere di suonare. Novecento non capisce, ma la lascia
fare, si lascia mettere in piedi e si lascia guidare fuori dal salone, fin sul
ponte, sotto il cielo trapunto di stelle che sembrano note, roba da guardare e
immaginarsi che spartito ne verrebbe fuori. Non è una meraviglia, gli dice,
indicando il cielo e le stelle con il dito, è l’ultima notte che sto sulla
nave, volevo vedere qualcosa di bello con te, gli dice, senza guadarlo. E lui,
lui che non conosce le buone maniere e non sa cosa si dice a una donna in
questi casi, dice la cosa più giusta, dice io son otto notti che vedo cose
belle, che cose belle ne ho viste in trent’anni che vivo su questa nave, ma mai
belle come te. E allora lei alza la testa, e lo guarda, e pensa che è un
bell’uomo che sa anche cosa dire alle ragazze, anche se non è mai sceso forse
sa che vuol dire amare, e prima che altre parole guastino il momento è lei che
lo bacia, e lo stringe forte come se non ci fosse un domani, come se la vita
fosse tutta qui, come se non si potesse far altro che amare.
E Novecento capisce quello che voleva dire Tim tanto tempo
prima, che quando trovi quella giusta lo capisci, è come un ragazzo di Genova
che negli occhi ha scritta l’America, quando lo vedi lo sai. Novecento adesso
capisce, e per la prima volta suona una melodia senza usare la tastiera, meraviglioso
pianista, solo lui ci può riuscire. Lei è il pianoforte più bello del mondo, e
se all’inizio Novecento pensa di non essere capace, poi capisce di essere
seduto sul seggiolino giusto, davanti a una tastiera fatta apposta per lui,
bianca come il latte e calda come il sole d’estate, capisce di essere al posto
giusto e si lascia trasportare, è incredibile la musica che capisce di poter
suonare.
Poi la musica finisce, smettono le note ma l’incanto
continua, e mentre sono ancora nudi e stretti nella scialuppa dove sono
nascosti, lei gli posa una mano sul volto e lo guarda come se davanti agli
occhi avesse Dio, senti Novecento, gli dice, so che non sei mai sceso da qui,
ma per favore, se mai avessi voglia di scendere e vedere il mondo, ecco, se un
giorno mai dovessi scendere, per favore, scendi dalla parte dove ci sono io, e
lui le posa una mano sui capelli, e la accarezza e la guarda e non risponde, ma
i suoi occhi dicono tutto, che lui è fatto per l’oceano e per la musica, e che
a terra lui non ci scenderà.
E mille notti dopo, quando l’oceano non è più solo un po’
d’acqua che si muove, ma un abisso di ricordi e sogni persi per la strada,
Novecento si stende in quella scialuppa e guarda in alto, verso le stelle, che
sembrano sempre diverse, sempre di più, sempre più grandi, e si ricorda di
quella ragazza con gli occhi di terra, quella scappata per mettersi a
rincorrere la vita, che aveva forse vent’anni o forse un po’ di più, ma che
importa, quando una è bella è bella anche da vecchia, che quando era scesa, in
quel mattino radioso, quand’era scesa con gli altri emigranti a New York, dal
molo si era girata a guardare in su sul ponte, a guardare lui che restava, e
Novecento ancora si ricorda dell’odore del ferro del parapetto, e di come
urlavano quelli dell’ufficio immigrazione, e delle donne che si vedevano
tagliar le trecce perché chissà quanti pidocchi, e Novecento continua a pensare
che non è solo la bella contadina che è scesa da quella nave lasciandolo solo,
ma sono tutte le donne del mondo.