Disclaimer: I personaggi di
Hetalia: Axis Powers non mi appartengono
Ma sono di proprietà d Hidekaz Himaruya ©
Se fosse il contrario…
Ahrrrrrrr <3
A Rota perché erano secoli che le avevo promesso una RusAme ~
A Cry Benihime perché senza le sue traduzioni non sarei mai riuscita a sbloccarmi ~
.: I Just Act Like I Don’t Remember :.
-Ma
sei sicuro che regga?-
America si appoggia al cemento e
inizia a giocherellare con l’accendino che tiene in mano: lo accende, fa
ballonzolare un po’ la fiammella e poi lo spegne, chiudendolo con uno schiocco.
La quiete stagnante si frantuma ripetutamente a causa di quei fastidiosi clack.
Clack.
Clack. Clack.
Sembrerebbe lo scatto di un
grilletto se America non si trovasse nell’irritante situazione di non poter
mettere mano a quel bel pezzo di artiglieria made in USA a riposo sulla
scrivania. La cosa che un po’ lo rassicura e gli tira su il morale è che anche
il nasone è costretto nello stesso casino. Ah-ah. Incassa e taci.
Si diverte a ricordarglielo e si
diverte ancora di più nell’immaginare la sua facciotta bonacciona che si gonfia
e si comprime, le labbra che si arricciano e si appiattiscono nella perfetta
imitazione di un’anatra bella grassa.
Gli occhi, però, sono come quelli di un porcello, che si strizzano tanto
da infossarsi nell’orbita e tirare dalla loro parte, in quel risucchio di
pelle, anche un angolo della bocca, che si piega e si torce fino a spiaccicarsi
sulla faccia nell’espressione tipica del maiale che, invece di tenerla in
bocca, la mela se l’è ingoiata intera.
A dirla così, ad America fa
impressione, però, in qualche piega mal spolverata del cervello, un tarlo gli
pizzica il neurone a ribadire come, in un indefinito tempo prima, quell’accartocciarsi
della faccia di Russia non fosse così grottesco, ma quasi…carino.
Carino? Ma da dove gli è uscito,
quell’aggettivo? Quando mai Russia è
stato carino?
Il tarlo deve aver studiato
musica davvero bene, vista la sinfonia di ricordi che adesso gli sta
propinando, manco fosse membro insostituibile dell’orchestra newyorkese:
strimpella i dendriti con una sicurezza che neanche Springsteen, e gli assoni rispondo
alle note con le stesse urla e la stessa flemma delle gente strafatta di roba a
Woodstock.
Diciamo che forse, forse, Russia poteva rientrare all’ultimo
posto della categoria dei pazzi sovietici che probabilmente, in un sistema di
riferimento altamente ipotetico e del tutto irreale, potevano risultare non poi
così orribili.
Sì, insomma, adesso che ci
pensava, c’era stata una volta, in Alaska, in cui aveva pensato che Russia non
fosse poi così male: fuori c’era la neve –che
caso- e dentro la catapecchia in cui si erano rifugiati faceva un freddo
becco.
Russia aveva tirato fuori dal
cappotto una bottiglia di Vodka e la nottata era passata così, tra un sorso e l’altro
–non avevano bicchieri e al solo
ripensarci America si umetta le labbra, come a ricercare il contatto con quel
sapore lontano-, tra una canzone gracchiata fuori da gole arse dal liquore
e graffiate dal gelo e un’occhiata al di sopra della luce incerta del
fuocherello sempre in procinto di suicidarsi in uno sbuffo di cenere. No, non l’aveva
trovato affatto male quella volta, col naso pizzicato dal rossore dell’alcool e
le guance chiazzate di porpora dove l’aveva morso il vento. Solo le labbra
erano rimaste livide e incolori e America ricordava vagamente che la cosa gli
era dispiaciuta un sacco e infatti si era avvicinato per dirglielo che gli
dispiaceva che fossero così bianche, mentre tutto il resto portava i segni di
un calore rosso e…
Clack.
Questa volta il suono sembra
davvero quello di un proiettile tanto che persino America si stupisce della
forza che ha messo nel proprio gesto.
Ecco, pensare a Russia lo fa
arrabbiare peggio che trovarsi senza senape nell’hot-dog. E lui va matto per la
senape, nell’hot-dog. Tanta, tanta senape. Senapa giallastra e sugosa,
grondante da ogni lato…
-L’ho costruita io, Amerika. Dubiti della sua resistenza?-
Che
maledetto sovietico pieno di sé,
pensa America e le labbra si sollevano in un ghigno divertito.
Certo, perché Russia può tutto,
no? Glielo aveva detto tante di quelle volte da fargli venire la nausea, anche
se Russia gli faceva sempre venire la nausea. Ecco, diciamo che quando si
metteva a fare i suoi proseliti, gli faceva venire ancora più nausea: gli passava persino la voglia di mangiarsi un
hot-dog grondante di senape, pensa un po’.
Quello che diceva Russia era solo
un garbuglio di parole appallottolate insieme a qualche frase fatta priva di
senso e avvolte in carta di sproloqui di partito tutti spiegazzati. Spazzatura
per piccole menti deviate e rimpicciolite in serie da quel suo regime rosso del
cavolo.
Non aveva mai pensato che le
parole di Russia potessero essere belle o degne di essere ascoltate.
Quindi,
tarlo, taci. Sei tenuto a tornartene nel tuo angolino rancido a
catalogare quel
putridume di ricordi di cui non sente il bisogno di riportare a galla.
Non li vuole rivedere, ecco. Non vuole pensare di nuovo alle mani di
Ivan che,
seduto in un prato dal verde tanto intenso da essere incandescente,
accarezzavano il dorso di un libro, alle dita –per una volta si era tolto i guanti- che andavano alle labbra, la
lingua rosea che saettava dalla bocca schiusa e bagnavano il polpastrello, il
braccio che si abbassava lentamente, gli occhi che si alzavano un istante a
guardarlo, un accenno di un sorriso, e la pagina che veniva voltata col fruscio
crocchiante degli alberi di sottofondo.
È un’immagine così vivida che l’afflusso
di sangue improvviso dà il capogiro ad America –e se fosse solo alla faccia potrebbe anche chiuderla lì ed imputare la
colpa alla digestione.
Perché diavolo quel giorno il
corpo sembra essersi coalizzato contro di lui? È tutta colpa di quel maledetto
cosacco.
Cioè.
Non tutto tutto. Dalla cintola in
su. Perché se fosse anche dalla cintola in giù –le ginocchia che tremano, solo le ginocchia che tremano, soltanto le
ginocchia che tremano- ad imputargli la colpa gli si darebbe pure una certa
importanza a quel nasone.
Giammai.
Clack.
Clack. Clack.
-Trattalo bene quell’accendino, Amerika- lo riprende la voce di Russia –Non
vorrei che lo rompessi-
-E perché ti importerebbe tanto
di questo accendino?- domanda America, inarcando un sopracciglio e scuotendo la
testa.
Russia dall’altra parte non può
vederlo, ma America ne è sicuro che il commie sa benissimo quale siano i suoi
gesti, dalla minima ruga d’espressione alla più tenue sfumatura di emozione.
Solo perché, ovviamente, quel
maledetto cosacco passa la sua intera esistenza a spiarlo e non ha un minimo di
vita sociale.
Mica perché non c’era stata volta
in Crimea che, girandosi, si era ritrovato con lo sguardo di Russia fisso
addosso. E quando gli aveva chiesto cosa avesse da osservarlo in quel modo
quanto mai…esplicito, Russia gli
aveva risposto con tutto il candore della sua terra immonda e infinita: “I tuoi occhi sono il cielo che i fumi della
guerra non avranno mai la forza di soffocare”.
Maledetto tarlo, non ti avevo
detto di tacere? Dovevi catalogare i discorsi
di Russia, non ricordare quanto fossero mostruosamente ridicole e melense le
sue parole –e pateticamente belle.
-Perché te l’ho dato io,
ricordi?-
Berlino, nella notte intessuta di
quiete flaccida, con la luna suicida e le stelle che sbattevano pigre le ciglia
filamentose. Non c’era più nessuna bandiera marrone a sventolare, solo il rosso
della steppa lontana quanto il suo ideale; non un rumore se non i corpi enfi degli
ufficiali tedeschi che cozzavano tra loro, così appesi a qualunque cosa
avessero trovato per porre fine alla follia. Non un rumore, se non i lamenti di
Germania sulla tomba del fratello, se non i pianti dell’Italia intera in un
luogo non meglio precisato oltre l’orizzonte.
Russia era seduto a terra e aveva
gli occhi rivolti al cielo, come voler negare il declino della terra; America l’aveva
raggiunto e gli si era messo accanto, fissando i rimasugli di macerie che
intasavano la strada divelta.
Erano rimasti così tanto in
silenzio che America aveva sentito la voce fiaccarsi nella gola; allora, tanto
per far qualcosa, aveva tirato fuori un pacchetto di sigarette, salvo scoprire
che l’accendino gli era caduto chissà dove. Nell’esatto momento in cui si era
girato per rimettersi in piedi si era trovato con la mano di Ivan sotto il
mento e una fiammella ad accendere il tabacco. America aveva tirato il fumo e l’aveva
soffiato via in un refolo grigiastro, per poi passare la sigaretta a Russia;
questi l’aveva presa e se l’era portata alle labbra.
“Penso di odiarti” gli aveva
detto America, senza guardarlo.
Russia non aveva risposto, si era
limitato a piegare la testa sulla spalle e a fissarlo come se lo vedesse per la
prima volta.
“Anche io penso di odiarti, Amerika” aveva risposto “Ma non so perché”
“Forse lo scopriremo”
“Forse”
C’era stato un po’ di silenzio,
intervallato dal crepitare della sigaretta ancora accesa. Poi America si era
girato e si era messo a cavalcioni su Russia, le mani strette alla sua gola; aveva
cercato di serrare la presa, per vedere fin dove si potesse spingere quell’odio
che sentiva ribollire all’altezza dello stomaco.
Russia l’aveva guardato di nuovo
e aveva compiuto il medesimo gesto con la mano che non teneva la sigaretta;
America aveva potuto sentire il sangue incrostato sui guanti scuri contro la
pelle.
“Vuoi uccidermi, Amerika?”
Ah, bella domanda. America ci
aveva dovuto pensare un po’ prima.
“No” aveva risposto alla fine, scivolando via dal bacino di Russia e sedendosi
di nuovo accanto a lui “Non stasera”
Russia aveva accolto la cosa
facendo spallucce e aveva intrecciate le dita alle sue; America non aveva
opposto resistenza e si era lasciato scivolare con la testa contro la spalla del
russo. Era stato strano rimanere così, come a cercare di forzare qualcosa
mentre altri cercavano di forzare loro a non mantenerlo quel qualcosa.
“Vuoi fumarti un’altra sigaretta,
Amerika?”
“No. Non ho l’accendino”
“Prendi il mio, da”
“Eh? E poi quando te lo ridò?”
“La prossima volta che ci vediamo”
“E allora te tieniti la sigaretta”
“Perché?”
“Così anche tu hai qualcosa da
restituirmi la prossima volta che ci vediamo, no?”
-No- risponde secco America –Non lo
ricordo affatto-
Clack.
Clack. Clack.
Ora al suono dell’accendino si è
aggiunto quello delle scarpe di America che battono sul selciato. Russia rimane
zitto, il tarlo dichiara la sua sconfitta.
Dietro la schiena di America un
grumo di solido cemento sovietico, arpionato alla terra. Sopra la testa, fumo
grigiastro di una sigaretta ormai spenta, appeso al cielo berlinese.
Note Finali
Sono tipo secoli che cerco di scrivere una RusAme che
non mi risulti ributtante. Ma le parole non mi uscivano mai come volevano,
anzi, mi sembravano un’accozzagli di segni buttati lì a caso.
Forse mi mancava l’ispirazione, forse avevo perso
interesse verso questo OTP ed Hetalia, fatto sta che oggi nel leggere le fan
fiction di ProcrastinatingPalindrome
egregiamente tradotte da Cry Benihime (E, no, questo non è un messaggio
sublimale. E’ un ordine: LEGGETELE), le parole sono tornate.
Come avete visto, è come un flusso di coscienza. Un intrico
di sensazioni e ricordi negati. Di vecchie alleanze e nuovi odi.
Spero possa piacervi. E spero che si capisca che il presente è ambientato davanti al Muro, ecco.
Il titolo è ripreso da un verso della canzone "The River" di Bruce Springsteen.
Grazie a tutti voi.
Ci vediamo su questi schermi!
*Collassa sul letto*