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Autore: alessiasc    18/04/2012    2 recensioni
“Succede, a volte, che impercettibilmente quando raggiungi il sogno d'una vita tutto il mondo cominci a crollare, come se non avessi mai dovuto ottenere quello per cui hai lottato per tempo. Ma in ogni momento, mentre pezzo per pezzo ciò che è intorno a te si sgretola e ti cade addosso, continui ad amare con tutto te stesso quel che hai ottenuto, perché ti mantiene in vita. Perché è il tuo grande amore, e senza, non avresti motivo di respirare.”
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Da qualche parte oltre l'arcobaleno.

“Succede, a volte, che impercettibilmente quando raggiungi il sogno d'una vita tutto il mondo cominci a crollare, come se non avessi mai dovuto ottenere quello per cui hai lottato per tempo. Ma in ogni momento, mentre pezzo per pezzo ciò che è intorno a te si sgretola e ti cade addosso, continui ad amare con tutto te stesso quel che hai ottenuto, perché ti mantiene in vita. Perché è il tuo grande amore, e senza, non avresti motivo di respirare.” 
 
Ottobre 2010, Liverpool 
 
Faceva un freddo pauroso quella sera; si respirava aria di neve anche se dal cielo non scendeva nemmeno un fiocco bianco, dato che era solo Ottobre. Scesi dalla mia mini bianca col tettuccio nero e chiusi la portiera con forza. Il bar era aperto dalla mattina, ma era da una settimana che non ci mettevo piede. Era il momento di entrare a testa bassa e chiedere scusa a Nathalie per il mio comportamento della domenica precedente: non avrei dovuto urlare contro quei tifosi, e lo sapevo bene, né avrei dovuto cacciarli dal locale per lasciarli fuori, sotto la pioggia, ubriachi marci a festeggiare violentemente la vittoria della loro squadra.
Ero stata immatura, ma la verità era che non ne ero abituata: era solo da quel Luglio che lavoravo all'Anfield Match Point,e in quell'arco di tempo avevo affrontato solamente tifosi della mia stessa squadra, il Liverpool, che usciti da Anfield volevano godersi una cioccolata calda, un caffè, una birra o qualcosa di più forte. Quei tifosi del Blackpool erano proprio quattro cretini ubriachi e arroganti, invece, e il loro comportamento, i toni alti che avevano utilizzato per commentare la partita e descrivere alcuni giocatori mi avevano fatta scattare. Come se non bastasse, inoltre, durante la discussione, un attimo prima di cacciarli fuori minacciandoli di chiamare la polizia e denunciarli, avevo ricevuto un pugno sul labbro da uno di loro, e in quel momento, mentre mettevo la mano sulla maniglia della porta per entrare, sentivo la bocca pulsare.
Presi un lungo respiro ed entrai. Subito Nathalie alzò gli occhi e smise di passare lo straccio nel bicchiere per asciugarlo. Il locale si sarebbe riempito in pochissimo tempo di tifosi che volevano godersi Everton – Liverpool sul grande schermo che occupava tutta la parete in fondo alla stanza. La maggior parte delle persone che frequentavano quella piccola tana calda vicino allo stadio erano tutti clienti abituali, che passavano le loro domeniche rintanati al caldo a bere, ridere e commentare il gioco di ventidue uomini che corrono dietro ad una palla, per buttarla nella rete avversaria.
Amavo il calcio sin da piccola: essendo nata e cresciuta a Milano avevo imparato che lo sport del calcio può essere qualcosa che accompagna le tue domeniche, anche se sei una donna. E così, il primo compleanno che ho tra i miei ricordi di bambina, pregai mio padre di portarmi a vedere Inter – Milan, partita che vinsero i nerazzurri, la squadra del mio papà e la mia italiana, ma non ricordavo niente: né chi fu l'artefice dei due goal che portarono alla vittoria, né i posti, né niente, a contrario di tutte le altre partite che ero andata poi successivamente a godermi tra gli spalti del Meazza e, poi tra quelli di Anfield.
Mi trasferii a Liverpool a 11 anni, quando mio padre, dopo la morte di mia madre, si risposò con una donna inglese, e da quel giorno non mi passò mai per la testa di andare altrove: a Liverpool, la città piovosa sul mare, avevo trovato il mio posto sicuro, ed era diventata casa mia, soprattutto negli ultimi due anni: avevo lasciato l'enorme villa di quella riccona della moglie di mio padre per trovarmi un appartamento che condividevo con due amici, tra l'università e lo stadio.
«Sei riuscita a mettere da parte il tuo orgoglio, allora. Non ti credevo capace di qualcosa di simile...» disse la donna, alta e mascolina, vestita di una maglia nera con il colletto e le maniche corte che scoprono un tatuaggio colorato. Ha l'aria di sfida, ma nonostante quello che ha detto, sapeva bene che sarei tornata a chiedere scusa.
«Nat, ascolta, mi dispiace. Sono stata un'irresponsabile e una bambina per non essere tornata prima a chiederti scusa» presi un lungo respiro: scusarmi era una delle poche cose che mi dava davvero fastidio fare. «Ma non puoi licenziarmi, ti prego. Dimezzami lo stipendio ma non licenziarmi: ho bisogno di questo lavoro e lo sai meglio di me, se no devo tornare a vivere con papà e Lucinda.»
Lei rise, e mi venne voglia di tirarle qualcosa addosso; invece strinsi i pugni e puntai gli occhi nei suoi. «Non ti licenzierò, ma stasera devi fare la notte.»
Sorrisi e mi passai una mano tra i capelli: anche questa era andata.
«Grazie Nat, non te ne pentirai, te lo prometto. Non capiterà più.»
«Tranquilla, Ariel. Devi solo imparare a controllare la tua rabbia. Soprattutto per il calcio, aggiungerei. Potevano denunciarti!»
«E io potevo denunciare uno di loro! Questo cazzo di labbro mi fa male da una settimana e ogni tanto torna a sanguinare!» 
Nathalie mi scrutò il viso «Te la sei cercata, A, lo sai. Ora muovi il culo, vieni qui e comincia a preparare i cestini con le patatine, i bichieri di birra e a sincronizzare il televisiore sul canale giusto.»
«Sìssignora!» dissi, girai dietro il bancone e presi un pacco da un kilo di patatine dalla credenza affianco al lavandino, per versarne un po' in ognuno dei 10 contenitori che aveva disposto la proprietaria poco prima sul bancone.
Ariel era il mio nome: mia madre, una donna stupenda, era innamorata dei cartoni Disney e in particolare della “Sirenetta”, così quando naque la sua prima figlia femmina, decise di chiamarla come la protagonista del suo cartone preferito. 
Il suo nome invece era Estrella, che in spagnolo significa “stella”. Era nata a Madrid da una famiglia benestante composta da un uomo e una donna che per anni avevano provato ad avere figli, e che quando ne misero alla luce una – mia madre – decisero di chiamara “stella”, come se fosse un dono del cielo.
Ricordavo bene la morte di mia madre: lei, senza capelli, che per anni l'avevano caratterizzata e resa bellissima, i suoi capelli color rame scuro, mossi, lunghi fino a metà schiena e luminosi come i suoi occhi. Lei, spenta, con la pelle scura diventata quasi bianca, il viso scavato, le mani piccole e tremanti. Si era spenta come si spengono tutte le stelle, ma quando brillava, la mia mamma, era la più bella di tutto il cielo.
Avevo infatti odiato per anni Lucinda, che dal primo istante aveva cercato di prendere il posto della mia Estrella, fino a quando non mi resi conto che mio padre, con quella donna ricca e fredda, aveva solo cercato una via d'uscita facile per il dolore, sia per me, che per mio fratello Giampaolo, figlio del suo primo amore, che per lui. E forse un po' c'era anche riuscito.
Giampaolo aveva tre anni più di me, era nato nell'84 da una donna alta e bellissima, con i capelli marrone chiaro e gli occhi verdi. Lei era sparita subito dopo il parto, e mio padre si era preso piena responsabilità del piccolo Gian, che era cresciuto con lui e mia madre.
I miei genitori si erano conosciuti durante un viaggio della piccola famiglia composta da papà e Gian in spagna, a Barcellona, dove Estrella aveva lavorato per un anno e mezzo, prima di innamorarsi follemente dell'uomo italiano con il bambino di appena qualche mese, trasferirsi a Milano e sposarlo dopo solo un anno. Nell'87, nacqui io, dal matrimonio più vero che io abbia mai visto. Un'amore così vero e forte, come quello dei film, da far venire i brividi a chi lo vede. I miei genitori erano una di quelle coppie che dopo anni di matrimonio andavano ancora in giro per mano, si baciavano ancora in mezzo alla strada e si guardavano negli occhi mentre parlavano.
Nel momento del trasferimento a Liverpool, Giampaolo aveva deciso di restare a Milano per continuare a giocare a calcio, ed era entrato nelle giovanili di una delle squadre di serie A, per poi debuttare in prima squadra nella Fiorentina, essere venduto alla Sampdoria e, proprio l'estate che era appena passata, l'aveva comprato l'Inter. La squadra dei nostri sogni.
Ricordavo perfettamente il giorno in cui firmò il contratto perché fu l'unica volta che presi l'aereo da sola per raggiungerlo e festeggiare con lui. L'Inter era il suo obiettivo fin da piccolo, il nostro obiettivo, e quando lo raggiunse, e corse verso di me per abbracciarmi, mi sentii di nuovo una bambina di cinque anni che abbraccia il fratello maggiore che ha appena vinto una partita di campionato con l'oratorio. 
Ora non era più “Giampaolo Pazzini”, ora era “Giampaolo il Pazzo Pazzini”.
Pur avendo madre diversa, io e mio fratello eravamo sempre stati molto legati: lui e le sue gelosie mi avevano sempre tenuto alla larga dai grossi guai, soprattutto parlando di ragazzi, e nel tempo ci eravamo abituati a sentirci almeno una volta alla settimana.
Avevo finito la scuola tre anni prima ed ero uscita con dei voti discreti: niente lodi, niente massimo dei voti, ma abbastanza buoni da passare. E ora studiavo letteratura alla “University of Liverpool”, e mi mancavano solo pochi mesi per finire. 
Non sapevo ancora cos'avrei fatto dopo. Il mio sogno, era diventare fotografa, ma fin dal liceo avevo sbagliato tutto e quindi poteva rimanere solo un hobby. Più volte avevo pensato di insegnare, ma il pensiero di passare ancora qualche minuto sui libri dopo essermi laureata mi dava il voltastomaco, e quando mi passò per la testa l'idea di fare la scrittrice mi risi in faccia da sola.
Quando finii di riempire l'ultimo cestino andai a posizionarli sui vari tavoli, poi tornai dietro il bancone, mi lavai le mani e cominciai a riempire delle caraffe di birra appena in tempo: la prima ondata di tifosi ricoperti dalla testa ai piedi di sciarpe, magliette e bandiere rosse con lo stemma del Liverpool stava entrando nel bar.
Approfittai degli ultimi secondi di silenzio per chiamare Alan, il mio coinquilino, e informarlo che sarei stata fuori tutta la notte, di chiudere quindi la porta con la catenella.
«Ti ha perdonata, quindi? Grande Ael!» mi disse, con l'accento inglese migliore che avessi mai sentito.
«Gracias» dissi, nel mio spagnolo migliore.
«Non ti gasare perché sai lo spagnolo, chica!» ribattè lui.
In effetti, essendo nata in Italia sapevo bene l'Italiano, avendo la madre spagnola, la lingua con cui me la cavavo meglio era lo spagnolo e vivendo da anni in inghilterra, l'Inglese era diventata quasi la mia lingua madre.
Riattaccai. La serata era appena iniziata. Servii i clienti e quando l'arbitro fischiò il calcio d'inzio la guerra cominciò e dalla porta non entrò né uscì più nessuno.
Io mi sedetti affianco ad uno dei clienti abituali, Grass, con una birra in mano, e guardai i miei undici campioni entrare in campo.




Ciao gente! Allora, sì, ne ho cominciata un'altra. Sono un casino e questo è un periodo un po' incasinato quindi ogni due secondi mi viene in mente qualcosa di nuovo da scrivere. Perdonatemi, se stavate seguendo Close Enough To Hurt e aspettavate un seguito. Arriverà, ve lo prometto, però dovrete attendere ancora un po' (prendetevela con la mia ispirazione che manca.)
Questa storia è un po' mia, cioè, io amo il calcio e questa storia parlerà principalmente di calciatori, partite etc etc. spero che vi piaccia anche se non siete particolarmente appassionati. 
Il protagonista, come vedrete, è infatti un calciatore (il mio preferito al mondo, lalala).
Le recensioni sono sempre ben accette e gradite, e anche le critiche (che dovranno esserci, dai!)
I love you so much,
Alessia.
PS. Sì, ho cambiato di nuovo nickname, ma questa volta questo è e questo rimarrà!
PPS. Sì, il titolo è preso dalla canzone "Somewhere Over The Rainbow", se non la conoscete, ascoltatela. (è un obbligo.)
   
 
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