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Autore: Melitot Proud Eye    25/04/2012    2 recensioni
Si passò una mano sugli occhi, stanco. Riconosceva la città. Oh, c'era stato fin troppe volte... e il problema non era neanche il modo in cui ci era arrivato, paradossalmente. Fissò il giornale, in pratica un foglio, piegato su un banchetto. La proprietaria discuteva con foga degli avvenimenti. Avvenimenti del 1865.
Una vecchia meno stupida di quel che sembra, un'antica punizione ninja e la Kyoto di un periodo turbolento... sotto gli occhi di chi non dovrebbe poterla vedere, tanto meno influenzare. [cronologicamente successiva a La via della spada]
Genere: Avventura, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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[edit 21/8/15 dai che ci lavoro di nuovo!]
Nota
: lolol... rileggevo l'intro al primo prologo, quando me ingenua diceva che ci sarebbero stati aggiornamenti regolari. Sono passati tre anni XD

Complici un po' l'università, un po' il dover ricopiar tutto dagli appunti cartacei e il fatto che il tempo vola (ma vola davvero), questa fic è scivolata in quinto piano molto presto. In seguito il mio stile è cambiato, quindi pubblicarla significava riscriverne una bella fetta... quindi sono subentrati altri fandom... non ero più soddisfatta dello sviluppo della trama...
Non so neanche perché la stia aggiornando, tutto sommato ^^;
(Ma chi vuoi che legga, Mel?)
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Prologo II



Nubi nere incombevano sul tetto del Kamiya dojo, ancora una volta. Cinque persone erano riunite nella stanza del figlio maggiore, intorno al suo futon, chi inginocchiato chi in piedi, tutti in silenzio ad attendere il verdetto medico. Megumi abbassò lo stetoscopio e si raddrizzò con una smorfia, affaticata dalla gravidanza.
«E' un allucinogeno.»
Kaoru si protese in avanti, pugni stretti sulle ginocchia. «Che tipo di allucinogeno?»
E Kenshin, allo stesso tempo: «Che effetti ha?»
«Non lo so» rispose Megumi.
«Quando si riprenderà
Con un sospiro stanco, la donna si sfregò le palpebre. «Non lo so.»
I due genitori si scambiarono uno sguardo, pallidi. Yahiko scrutò prima Saito (appoggiato alla parete, torvo, katana al fianco) e poi il suo fratellino adottivo, febbricitante sul futon.
«Come fai a non saperlo? Sei il miglior medico del Giappone!»
«Ti ringrazio, anche se non è vero. La sostanza che ha usato la vecchia è una miscela di molte piante: ho bisogno di più tempo per scoprire quali.» Poi, a labbra strette: «Mi dispiace.»
In quell'istante, Kenji sussultò. Mentre il suo corpo si contraeva, arcuandosi verso il soffitto, sulla sua fronte si gonfiò un ematoma che si spaccò. Un rivolo di sangue gli scomparve nei capelli. Altri graffi e spellature gli segnarono le mani, una clavicola, le guance.
«Che succede?» sussurrò Kaoru, bianca. «Megumi, che sta succedendo a mio figlio
Pian piano, il respiro del ragazzo si calmò e i muscoli si rilassarono.
«Sembrano i postumi di una caduta» disse Kenshin, atono come sapeva esserlo solo nei momenti di tensione più grande. «Non è un semplice allucinogeno.»
«E... e se fosse un veleno?» azzardò Yahiko.
Megumi tacque, occhi sgranati sul suo paziente. «No» mormorò alla fine, «nessun veleno ha questi effetti... e nessun allucinogeno.»
Fu la voce di Saito a offrire una risposta. «Lo so io cos'è.»
Si volsero nella sua direzione, stupiti. Lo stupore virò presto in ostilità.
«La responsabilità è tua» fece Kenshin, sempre più calmo. «Era in questura quand'è successo. Hai permesso che quel proiettile lo colpisse.»
«Himura, io non rispondo dei figli altrui che provocano i criminali. Il tuo, se non è in grado di badare a se stesso, dovrebbe girare al largo dal lavoro della polizia. Che colpa ne ho se va a cercarsi maestri di tecniche estinte?»
In un momento del genere, con una rivelazione del genere e Saito che si comportava da Saito, la cosa migliore era incassare e rimandare.
«Una tecnica
«E' un'antica punizione creata dai ninja del periodo Sengoku. La si credeva perduta insieme al veleno che la infligge, ma qualcuno ha conservato i segreti dell'arte, a questo punto è evidente. Ne sentii parlare durante i miei anni da Shinsen.» Non si lasciò scoraggiare dagli sguardi d'incredulità, di dubbio e di sarcasmo. Anzi, sogghignò, addentando una sigaretta. «Separa lo spirito dalla coscienza. E lo manda in "Viaggio".»
«In viaggio?» ripeté Kaoru. «E non azzardarti ad accendere quell'affare!» aggiunse, riprendendosi.
Le labbra di Saito si curvarono appena più in su; ma i fiammiferi sparirono in tasca.
«La vittima sembra dormire; in realtà, il suo spirito vive una vita parallela, realistica in tutto e per tutto. La mente da una parte, il corpo dall'altra, ancora legati naturalmente, per cui il corpo subisce gli effetti che il malcapitato sperimenta altrove.»
«E' impossibile» dichiarò Megumi.
Lui continuò come se niente fosse: «Si dice che il Viaggio sia in grado di interagire con altre realtà e periodi. Che, in alcuni casi, sia stato usato per alterare il passato.» Chiuse gli occhi, mandando una risata gutturale. «Anche se su questo, naturalmente, ho le mie riserve.»
«E vorrei ben vedere» esclamò Megumi. «Perché è impossibile. Non è una cosa scientificamente provabile o plausibile. La magia non esiste, e nessun intruglio potrebbe mai provocare questo... viaggio
«Padroni di non credermi. Un medico può ignorare la diagnosi, ma affronterà le conseguenze della sua negligenza.»
Megumi continuò a scuotere la testa, torva.
Kenshin corrugò la fronte. Saito non parlava mai a vanvera e, se era noto per indulgere talvolta a provocazioni immotivate, non avrebbe mai usato la salute di un ragazzo innocente a questo scopo.
«Non ho mai sentito parlare di questa tecnica» disse, cauto. «E dubito che esista. Ma forse» continuò, cercando di chiudere fuori l'ansia e il dolore e di razionalizzare quello che aveva visto, «c'è una parte di verità, in quello che dici. Forse nel dardo c'erano sostanze usate per simulare quella "punizione". Se sapessi elencarcele...»
S'interruppe. Saito aveva scosso impercettibilmente la testa.
«E allora perché l'hai tirata in ballo?» esclamò Kaoru, furiosa.
«Perché credo che si tratti di quello.»
«Grande aiuto» ribatté lei, distogliendo lo sguardo e trattenendo a stento le lacrime.
Megumi intrecciò le dita in grembo, davanti al ventre gonfio. «Forse Shinomori potrà aiutarci.»
«Forse» disse Saito. «Ma non ci conterei. Se anche sapesse, potrebbe fare ben poco.»
Altri sguardi allarmati. «Perché?!»
«Non c'è cura. I presunti sopravvissuti si sono svegliati da soli. Non guardarmi così, Himura: non sono un esperto. Potete provare intrugli, palliativi e preghiere, e chissà che non funzionino – i progressi dall'epoca Sengoku sono stati parecchi, in medicina. Ma io non sottovaluterei le tecniche antiche.»
Pupille selvagge balenarono verso il fianco che, un tempo, aveva cinto il daisho assassino di Battosai.
«Alla prova, qui, c'è prima di tutto la forza di volontà di tuo figlio.»
«Cosa dovremmo fare, allora?» sibilò Kenshin.
«Niente.»

Impossibile. Inaccettabile.

«Una sensitiva» rispose Aoshi, arrivato il giorno dopo in treno da Kyoto, con Okina. A discapito dell'inflessione monotona, le sue spalle erano rigide. «Una sensitiva potrebbe metterci in contatto con lui.»
Okina annuì, scuro in volto.
«Tutte cose approssimative; fenomeni da baraccone» protestò Megumi. «Abbiamo bisogno di una diagnosi sicura!»
«Se la scienza è tutto, mi chiedo come abbiano fatto a sopravvivere i nostri antenati» commentò Okina, arricciandosi gravemente un baffo.
«Funzionerà?» chiese Kaoru. «L'importante è solo quello.»
«Non resta che provare. E sperare.»
Kenji, ancora supino sul suo futon, rimase incosciente ma non inerte.
   
 
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