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Autore: The Corpse Bride    21/11/2006    6 recensioni
Victorine Meurent, una modella imperfetta ma reale; Edouard Manet, padre dell'Impressionismo; quasi vent'anni anni di differenza, e, intrecciata a loro, la pittura, sviscerata nelle chiacchiere delle Folies-Bergères.
Genere: Erotico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: L'Ottocento, Il Novecento
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La prima volta che ti ho visto, Victorine, è stata in una sera d’autunno.
So che tu ricordi una notte d’inverno, e ricordi bene, perché quello è il giorno in cui ci siamo incontrati.
Ma il giorno in cui ti ho vista è stato qualche tempo prima.
Passeggiavo per i vicoli impolverati di Montmartre; l’aria iniziava a farsi fredda, io passeggiavo per darmi vigore, per riprendermi dalla serata passata in un salotto davanti a un caminetto ardente. Il panorama era sempre lo stesso: una coppia che si muoveva convulsamente dietro a un bidone dell’immondizia, qualche gatto randagio che rizzava il pelo, un’umidità pesante, qualche bottiglia rotta e i rispettivi proprietari: gettati su una parete o impegnati a smozzicarsi le orecchie, ad accoltellarsi in qualche angolo buio, a bere ancora qualcos’altro – giusto per scaldare la notte.
Tu stavi passeggiando, a braccetto con un uomo. Non ricordo il suo volto. Ricordo il tuo, però; ricordo l’espressione naturale che avevi, come se non stessi fingendo di essere la sua signora. Ho visto molte donne percorrere quei vicoli, al fianco di qualche signore annoiato dalla mondanità artefatta dell’accademia, ma, sebbene fossero sorridenti, avevano in viso qualcosa che diceva ‘tutto questo non è vero’. Qualcosa che ti faceva capire che sarebbe finito tutto in breve tempo.
Tu, quel qualcosa nell’espressione, non lo possedevi. Non ti si vedeva esplodere in risa e gridolini, né portare avanti un sorriso da poupette che facesse intendere che tu fossi felice solo standogli a fianco.
Avevi il viso concentrato di chi deve ancora capire bene che cosa sta facendo, e perché lo sta facendo. Nei tuoi occhi, brillava la curiosità dei sedici anni; quella curiosità che ha in sé la consapevolezza dell’essere donna, e l’ingenuità di chi ancora non sa bene come usare la sua femminilità.
Mi ha colpito questo, di te.
C’erano molte altre ragazze, anche più giovani di te, tra quelle strade. Alzavano la voce, volgari e rumorose, e facevano ticchettare le scarpette di vernice sulla strada poco illuminata. Forse, erano state istruite meglio di te. Forse, erano lì da più tempo di te, ed avevano già imparato tutto ciò che c’era da sapere. O forse non avevano saputo conservare la speranza nel loro sguardo, la speranza che, al di là dei viottoli bui formicolanti di perversione, al di là delle bottiglie di brandy nascoste nella guepiere, al di là delle esclamazioni sfacciate e impudiche, al di là di tutto questo ci fosse ancora qualcosa per loro.
Non ti ho più visto per qualche mese e le foglie sono cadute sul tuo ricordo, i cieli si sono ingrigiti ancora, il sole è sprofondato nell’orizzonte.
Poi un giorno ti ho rivista, sempre lì, sempre sulla nostra rive gauche; sei entrata nel café guardandoti intorno. Cercavi il mio maestro, a cui vendevi le tue forme per fargli comprare un altro Vermouth al Folies-Bergères.
Ci chiamavano bestie, ai tempi, ci dicevano che avevamo schiaffeggiato l’arte; mi accusavano di non conoscere il colore e di non saper distinguere gli spazi. Probabilmente, avevano ragione. Avrei potuto gettare qualche ombra sul corpo candido di Susanne, anziché affiancarla a due di quei dandy che hanno riso di fronte ai miei dipinti. Ma se non l’avessi portata alla vista così bianca e sicura, come avrebbe mai potuto ergersi al di sopra di quella foresta cupa? Il buio che la circondava avrebbe potuto mangiarsela a morsi, con i denti del chiaroscuro.
Ma non pensiamo a Susanne, mia bella Victorine. Susanne è andata, o forse dovrei dire che è arrivata, che è arrivata nei miei salotti, che si è seduta ai tavoli dei miei bar, che è in piedi di fronte alla mia tela.
No, non pensiamo a lei. Io e te parlavamo di quando ti ho incontrata.
Dopo aver sussurrato qualcosa all’orecchio del maestro ti sei precipitata fuori dal café, reggendoti la gonna per non pestarla nella tua corsa. Vestivi d’azzurro, quel giorno; avevi un abito celeste con delle balze candide, e anche un grazioso cappellino con dei fiorellini rosa e bianchi. I tuoi bei capelli, che avevano lo stesso colore delle fiamme, penzolavano a grosse ciocche, incapaci di rimanere rinchiusi nella prigionia del copricapo.
Io frequentavo Montmartre, tu lavoravi a Montmartre. Ero sicuro che ci saremmo rincontrati; se ti ho seguita, non è stato perché avessi il presagio che non ti avrei mai più rivista.
Ti ho seguita perché, anche se non dovrei essere io ad affermarlo, io sono un uomo coraggioso. E s’ero riuscito ad offrire Susanne agli occhi libidinosi del Salon des Réfusés, pensai, allora potevo anche far fronte al mio imbarazzo e cercare di parlarti: non domani, non allo sboccio della primavera. Subito.
Mi scusai, afferrai la tuba, infilai il montgomery ed uscii nel freddo spiazzante delle notti di dicembre. Tu attendevi di fianco alla porta, appoggiata delicatamente alla parete. Guardavi il cielo con gli occhi grigi puntati sulla Luna, circondata dai palazzi che apparivano sempre marrone scuro o grigiastri; non so se fosse il vino a farmelo credere, ma nessuno sembrava della stessa altezza degli altri. Alcuni sembravano addirittura pendere, altri, invece, sul punto di distruggersi. Altri ancora erano illuminati a festa, colorati dal verde chiaro dell’assenzio.
-Buonasera, - mi introdussi, sorridendoti.
Tu volgesti lo sguardo sul mio volto, senza assumere sorrisi di cortesia, senza fingere una gentilezza che non ti sentivi in dovere di dimostrare.
-Buonasera, monsieur. Vi manda monsieur Couture?
-No, mademoiselle. Il mio maestro è ancora impegnato con il suo Vermouth.
-Capisco. Qualcuno mi sta cercando?
-Io, mademoiselle.
Battesti le ciglia, e quando le riapristi, i tuoi occhi s’erano sgranati.
-Voi, maestro Manet? In che cosa posso esservi utile? Il volto di Susanne inizia forse a mostrare le prime rughe?
-Vedo che la mia vita privata è più celebre delle mie opere.
Tu arrossisti, perché t’eri resa conto d’aver ecceduto nella sfrontatezza. D’improvviso, sembrasti ricordare che eri una prostituta, e qualche volta un’indossatrice, e in ogni caso un’abitante dei quartieri più squallidi e brulicanti di Parigi.
-Non intendevo, monsieur..
-Non vi preoccupate – ti rassicurai, con un sorriso – Non vi ho cercato per discutere della qualità dei miei dipinti.
-Come posso aiutarvi?
-Victorine.. – incominciai, incerto. Tu mi squadravi in attesa con i tuoi larghi occhi. – Vedete, vi ho cercata per lungo tempo. Vi stavo già cercando quando studiavo all’accademia e cercavo di raggiungere il volto delle dee, almeno con l’immaginazione, dato che in questa vita terrena non potrò mai toccarle. Ma non vi sono mai riuscito, mademoiselle.
Tu tacesti, in attesa.
-L’immaginazione non mi dava nulla, anche se è l’unico modo che abbiamo per toccare le cime più alte. Ho capito che l’unico modo per poter arrivare un poco più in là di dove sono, è cercare di afferrare almeno ciò che vedo. Ne ho bisogno, per andare oltre, altrimenti non potrò mai muovermi da qui.
-Che cosa intendete dire, monsieur Manet?
-Intendo dire che, se non vi potrò ritrarre, temo che non sarò mai più in grado di dipingere un quadro, in tutta la mia vita. Mademoiselle, intendete aiutarmi?
-Monsieur
-Ve ne prego, Victorine.

Ricordo ancora la tua espressione. Non era l’espressione di chi sta valutando la proposta, o di chi sta calcolando una somma abbastanza cospicua da assicurargli un tetto sopra la testa per abbastanza tempo. No, il tuo volto esprimeva perplessità, quasi diffidenza.
Non eri di certo la signorina più richiesta del quartiere, per nessuno dei tuoi due lavori. Sei sempre stata piccina, Victorine, e forse un po’ troppo magra, per quelli che sono i canoni dei nostri tempi. Avevi braccia e gambe troppo corte, occhi troppo grandi, mani troppo piccole e morbide.
No, Victorine, non avrei mai potuto camuffarti da Dea. Non ne avevi la misericordia né la grazia.
Ma ciò che in quel momento non riuscivi a comprendere, aggrottando la tua fronte pallida, era che non erano né grazia né misericordia che cercavo. Non le ho mai cercate, e ho preferito farmi chiamare animale, piuttosto che stremare la mia fantasia per raggiungere vette che non avrei mai toccato.
Avevi la carnalità e la verità cruda delle donne del nostro tempo, mia splendida Victorine, piccola fata di neve e di fuoco. Eri ciò che volevo dire al mondo, eri ciò che Parigi fingeva di non vedere e che bendata dal buio di Montmartre toccava, avida del piacere che solo tu sapevi darle.
Victorine, Victorine Louise, segnata dal tuo nome.

-Dovrei abbandonare il vostro maestro, monsieur.
-Questo, per voi, costituisce un problema?
-Temo di sì. Il mio mestiere è quello che è, maestro, e io devo riuscire a mangiare tutti i giorni. Se voi non potete garantirmelo, mi vedo costretta a rifiutare, seppur a malincuore.
-Siete tanto materiale? Potreste sempre accettare per amore dell’arte.
-Questo è un compromesso a cui potreste scendere voi. Ma io non sarei che il mezzo, monsieur; l’amore è affar vostro.
-Avete ragione. Ebbene, qual è la vostra richiesta?
-Ho bisogno di poter mangiare ogni giorno, e di dormire su un letto caldo. Ho bisogno anche di poter vestire come si confà a una passeggiatrice, poiché è una parte fondamentale del mio mestiere. E, su tutto, ho bisogno del belletto e della cipria.
-Prima ancora che del cibo?
-Sono il belletto e la cipria, a procurarmi il cibo.
-Affare fatto. Cosa ne dite di sessanta franchi per ogni giornata di posa?
-Sessanta franchi, per un pomeriggio passato a stare immobile davanti a voi?
-Purtroppo è il massimo che posso permettermi..
-Oh, monsieur – ridesti – E’ più di quanto avrei mai sperato di guadagnare nei prossimi due mesi di lavoro!
Sorrisi con te, che ti eri presa gioco di me. Considerai tra me e me che, forse, ne sapevi più di quanto lasciassi trapelare, sul tuo mestiere.
Un’occhiata alla tua gonna mi sottolineò l’esistenza sregolata e vagabonda che conducevi nei quartieri bohémien di Parigi. L’orlo della balza bianca era inzaccherato e sgualcito; sulla manica sinistra, invece, c’era una macchia di fango. Il trucco nero attorno ai tuoi occhi iniziava a rivelare una sottile riga nera su una palpebra, frutto forse di un tuo tocco frettoloso.

Eppure, continuavi a tenere quella speranza negli occhi.

Quando pronunciasti quella frase, una frase da donna, una frase che dice solo chi ha vissuto la vita di Montmartre, ti adorai ancor di più.
Oh, ero già consapevole di averti trovata; in quel momento, ciò che realizzai con cocente pienezza, era che ti avevo cercata.

Victorine.
Hai nel nome il suono del trionfo, e nel tuo nome urlano i rabbiosi accordi della morte, che ci ha colti tutti e due.
Ci ha colti insieme, come il tuo nome aveva preannunciato.*

-L’appuntamento è nel mio alloggio; purtroppo, non avrò tempo prima delle cinque di domani pomeriggio.
-Non lavorate con la luce del cielo?
-Quale luce, Victorine? In inverno v’è solo un fioco chiarore. Per dipingervi con la luce del Sole, dovremmo aspettare che il sole sorga davvero.
-Perdonate la mia ignoranza. Avevo appreso dai discorsi nel café che il modo migliore per catturare il mondo, è quello di osservarlo per come lo vedete ogni giorno.
-Quel che avete appreso è giusto. Ma voi non siete un tramonto, Victorine, o un’alba, o le onde di un fiume. Voi rimarrete sempre così, bagliore e carne; e così come siete, bastate a voi stessa. – Le sorrisi. – Fidatevi della mia parola.
-Mi fido, monsieur – sorridesti di rimando. Mi guardavi da sotto la mia spalla, ed era realmente fiducia quella che ti brillava nello sguardo.

*

-Immagino siate avvezza a spogliarvi davanti a un uomo, non è così?
Mi guardasti con autentico stupore, lo stupore che si prova davanti a qualcosa di tanto disgustoso che la prima reazione è l’incredulità.
-Monsieur, se voi potete vivere dondolando un pennello su una stoffa, è una vostra fortuna; purtroppo, la sorte con me non ha voluto essere altrettanto magnanima.
Eri elegante nell’esprimerti. Avevi frequentato i salotti forse più di me. Inevitabilmente, ne avevi assorbito il linguaggio, le raffinatezze, le sofisticatezze.
Avevi una mente così pronta, come una tela che assorbe il colore.
-Non fraintendetemi, vi prego. Vi stavo chiedendo se vi sentiste in imbarazzo.
Tu mi guardasti per un attimo, sinceramente confusa. Appurato ch’ero serio, scoppiasti in quella tua risata da bambina, come un trillo di campanellini.
-Maestro, come potrei non esserlo? Avete forse dimenticato come ci siamo incontrati?
Abbassai lo sguardo, arrossendo lievemente, per la figura fatta davanti a te.
-Voi, piuttosto? Voi siete avvezzo a dipingere una donna nel vostro appartamento? Mi dissero che la vostra Colazione sull’erba presentava uno sfondo naturalistico.
-Non penserete, spero, che avessi fatto posare la poverina nuda nel mezzo di un bosco – ti sorrisi, restituendoti il piccolo colpo che m’avevi sferrato.
Anche tu chinasti il capo, arrossendo lievemente, e mostrandomi un grazioso broncio che mi fece sorridere ancor di più.
-Io sapevo soltanto che voi e i vostri amici amate dipingere en pleine air.
-Non soltanto. Il mio caro amico Edgar, per esempio, lavora esclusivamente in atelier.
-Vi riferite al maestro Degas? L’ho conosciuto, tempo fa, al Café Guerbois. Non m’è parso un signore a modo.
-Non lo definirei certo un artista della galanteria – risi sotto i baffi, ricordando le sue difficoltà con le donne – D’altra parte, egli è sicuramente l’unico di noi che non saprebbe toccarvi con un dito.
-E voi? – mi chiedesti subito – Voi mi tocchereste con un dito?
-Victorine.. – sospirai – non è questo ciò per cui vi ho pagato. Vi ho dato dei soldi per guardarvi, e in questo momento, nonostante la sicura ammirazione che ho per il vostro corpo, questo m’interessa molto più che non toccarvi.
Non dicesti nulla. La tua espressione svogliata era priva delle tracce dell’umiliazione, e questo mi diceva che avevi capito, e allo stesso tempo che forse un giorno avrei avuto un desiderio più vasto del toccarti.
Un desiderio che, mio malgrado, per ora solo la mia immaginazione riusciva ad afferrare.


Il primo giorno che posasti per me, non ebbi nemmeno il tempo, di pensare ai miei desideri più voluttuosi. Quando sfilasti il tuo abito celeste, quando la tua sottoveste immacolata scivolò a terra, quando la tua carne bianca fu lambita dall’aria fredda del mio studio, capii che la mia scelta era stata appropriata. Non ti avrei voluta, se tu avessi avuto gli arti longilinei, il naso diritto, l’ovale di una donna e le sopracciglia arcuate. Tiziano, Tintoretto, Rembrandt, avevano già mostrato fin troppe Veneri. Io ero stanco della ricerca, e stanco dell’evanescenza.
Ti feci posare sulle coltri bianche. Decisi che ti avrei affiancato un serva che ti porgesse un bouquet, e che chiunque avesse voluto avrebbe potuto considerarsi il tuo sposo. Decisi che avrei lasciato lo sfondo affogare nel buio, perché tu non avevi bisogno di sfondi, né avevi bisogno di adagiarti allo stesso modo lascivo di quella Venere a cui, nonostante tutto, ti stavo associando. Ti feci appoggiare a un cuscino, con lo sguardo serio e le gambe incrociate. Ti lasciai addosso degli zoccoli spartani e un laccio sul collo, invitando chiunque ti avrebbe vista ad afferrarti e trascinarti a sé.
E tu, con quel volto annoiato, con quello sguardo privo di simpatia che sfidava tutto il mondo, non sono riuscito a renderti impassibile. Non ho potuto far altro che riportare il tuo volto, quasi infastidito, che pungeva chiunque guardasse la mia tela. Del resto, questo era ciò che vedevo.
-Victorine, potreste posare una mano sul ventre?
Senza muovere nessun altro muscolo, senza nemmeno spostare gli occhi, facesti scivolare la mano tra le tue gambe, lentamente, aspettando di sapere fin dove spingerla.
-No, no – mi affrettai a precisare – sul ventre, mademoiselle. Potete appoggiare le dita sulla coscia, se preferite.
Non dicesti nulla, non annuisti nemmeno; avevi preso tutto con estrema serietà e decidesti di appoggiare il polso sul pube, e le dita sulla coscia sottile.
Osservavo rapito le tue ginocchia tonde, le tue gambe snelle, le tue braccia infantili; mi soffermavo sul pancino morbido da fanciullina, sui seni già adulti, sulla loro areola chiarissima. Il mio sguardo cadeva fulmineo sui piedini fasciati, poi schizzava sul tuo collo sottile, sul mento rotondo, sulle guance rosee e tenere – ancora salve dai cambiamenti dell’età adulta. Ammiravo la tua bocca sdegnosa, il nasino all’insù, le sopracciglia sottili e diritte, le orecchie forse un po’ sproporzionate. E i tuoi occhi, grandi, del colore del cielo in tempesta, mi contemplavano senza tradire nulla. E poi le tue ciglia lunghe, i tuoi lineamenti dolci, i tuoi capelli rossi, il fiore accanto al tuo volto..
Se non ci fosse stata quell’indolenza nei tuoi occhi, quella mancanza di rispetto, non ti avrei mai, mai voluta a posare per me. Solo le dee ti guardano con compassione. Le altre, invece, ti osservano cercando di celare il loro disprezzo.

*

-Non usciremo mai all’aria aperta, monsieur? – mi chiedesti, al nostro terzo appuntamento.
-Vi annoiate, nell’atelier?
-Mi annoierei anche fuori. Ma mi piacerebbe che tutti mi vedessero – considerasti, pensierosa. Io ti guardai, fermo per un attimo.
-Vorreste forse che tutti vi vedessero nuda?
-Non mi dispiacerebbe – replicasti, sognante – Chissà quanti di loro vorrebbero avermi, solo perché sono lì, offerta al loro sguardo.
Annuii, compresi cosa volessi dire.
Un anno più tardi, sentivo gli ansiti fioccare attorno alla mia tela.

-Penso che ci siamo, Victorine. La vostra figura è stata completata.
-Posso vederla?
-Non ancora, se non vi dispiace. Ho soltanto terminato le linee di contorno. Ora dovrò rifinirle e stendere il colore, e quella sarà la parte più difficile.
-Dunque una volta che avrete completato il mio contorno, non servirà più che io posi per voi?
-Affatto, Victorine. Ho ancora bisogno di voi. Devo ancora mostrare all’Europa la vostra carnagione – replicai sorridendoti.
-E’ uguale a quella di molte altre parigine.
-Molte altre parigine non possiedono il vostro fascino.
-E’ un complimento, quello che mi state facendo?
-E’ un complimento, certo.
Mi rattristò un poco, il fatto che tu avessi scambiato il mio complimento per una battuta sarcastica. Ma non dissi nulla, perché ancora non ti conoscevo bene, e non sapevo come rivolgermi a te.
Tu, dal tuo canto, eri ancora ferma sulla tua posa; non avevi nemmeno spostato la mano dal ventre. I miei occhi si abbandonarono sulla curva del tuo seno, ancora pieno e sodo. Percorsero la linea sottile che portava al tuo ombelico.
Mi guardavi senza battere ciglio, immobile come la figura che ritraevo nel mio quadro.
-Se volete, potete alzarvi e rivestirvi.
Ormai avevo smesso di chiamarti mademoiselle. Sebbene ti dessi ancora del voi, trattandoti da donna rispettabile qual eri, la prima barriera tra noi era già saltata. Tu, invece, mi chiamavi ancora monsieur, perché non potevi certo permetterti di chiamarmi per nome.
A volte sentivi Suzanne chiamarmi Edouard, ma non ti scomponevi. Eri vivace, fuori dal mio studio; avevi una lingua tagliente e modi spicci, ma nella mia casa non ti permettevi alcuna impudenza. Salutavi la mia fidanzata se lei capitava in casa mia quando stavi uscendo, e non proferivi parola con nessuno se non con me, nemmeno con la servitù.
Solitamente prendevo questo atteggiamento come una manifestazione del tuo orgoglio, o della tua pigrizia. Altre volte, invece, avevo l’impressione che tu fossi un po’ scontrosa, un po’ spaventata dagli altri. Mi chiedevo se tu non evitassi di sorridere perché avevi paura delle loro reazioni.
Ma, nei fatti, non avevo modo di osservarti se non nuda e adagiata su di un letto.
-Vi ringrazio. Se non c’è più bisogno di me, vorrei congedarmi.
-Se siete di fretta, congedatevi pure. Ma permettetemi di offrirvi una tazza di the. Ho saputo che avete momentaneamente lasciato il lavoro; forse potete tardare un’altra mezz’ora.
-Non saprei.. – mormorasti, indecisa, teneramente indecisa.
-Avete famiglia? Se qualcuno vi sta aspettando, non vi tratterrò un attimo più del dovuto.
-Nessuno, monsieur. Ma una prostituta che prende il the con il maestro non è la consuetudine.
-E’ un problema, per voi?
-No, monsieur.
-Non lo è nemmeno per me. Lo preferite con qualche goccia di latte, il vostro the?

Ma non successe nulla quel giorno, contrariamente a quanto forse ti saresti aspettata. Prendemmo il the da soli, nel silenzio del mio salotto; non facemmo che parlare delle conoscenze comuni, cercando di allontanarci dalle banalità ma di non avvicinarci troppo al pettegolezzo.
Te ne andasti con un sorriso, ricordi? Un sorriso dolcissimo e cortese, affettatamente distaccato, come un velo posato sulle tue labbra.

*

La volta successiva, iniziai a stendere il colore sulle tue gambe. Iniziai dai piedi, che erano coperti dagli zoccoli biancastri.
-Sollevate un po’ la punta del piede, Victorine.
-In questo modo?
-Esattamente. State attenta a non farlo scivolare. Siete scomoda?
-No, non mi dà alcun problema.
Colorai il primo zoccolo, con poche pennellate, com’era nostra consuetudine. Diedi una fugace occhiata alla visione d’insieme, ma qualcosa non mi convinceva.
Non era il colore, steso solo su un minuscolo ritaglio di tela.
Non era nemmeno la composizione.
No, il problema stava nell’espressività. C’era qualcosa che stonava. Riguardai tutto quando, dai capelli alla punta della scarpa. E poi mi fu chiaro cosa non andava.
-Aspettate un momento. Vorrei fare un esperimento: proviamo a lasciare un piede nudo, e lo zoccolo di fianco alle dita.
-Devo sfilarlo?
-No, no, Victorine, ormai avete assunto la vostra posizione, non scomodatevi. Lo sfilerò io.
Mi avvicinai ai tuoi piedi.
Fino a quel momento mi ero limitato a guardarti da lontano, e da lì sembravi davvero una figura ritratta su un quadro, un soggetto da ammirare e da cui lasciarsi stregare.
Ma, avvicinandomi a te, avvertivo sempre di più il calore che irradiava la tua pelle. Vidi la tua pancia e il tuo petto alzarsi e abbassarsi, potei ascoltare il tuo respiro, un soffio del tuo fiato caldo raggiunse la mia mano. Giunto vicino a te, vidi guizzare luci, ombre e veli sul tuo corpo, pronte a rapirmi e incatenarmi a te. Davvero ti muovevi, davvero respiravi e vivevi, davvero avevi la pelle calda e morbida.
Sfilai uno zoccolo, lentamente, dal tuo piede destro. Tu non facesti una piega. Lo feci lentamente, quasi temessi che sfiorarti la pelle avrebbe significato graffiarla. Alla fine, guardai il piede; sotto l’alluce c’era una cicatrice ancora rossa, viva e dolorosa.
-Mio Dio, Victorine. Che cos’avete fatto al piede?
-Oh.. – dicesti, come te ne fossi ricordata all’improvviso – quello è stato tutta colpa di un paio di scarpe troppo strette. Guarirà in fretta.
-Capisco. Ma io devo ritrarvi ora. Nasconderemo il piede sotto quello sinistro.. così non dovrebbe notarsi.
-Come desiderate.
-Vi fa male?
Accarezzai la ferita, ruvida e un po’ appiccicosa, perché non ti eri presa la briga di curarla.
-No.. se non la toccate.
Lasciai perdere la ferita e presi in mano il piedino piagato, accarezzandolo fino alla caviglia. Lo adagiai sulla coltre a fiori, poi presi il polpaccio della tua gamba sinistra. Era liscio e tiepido, e morbido, come per qualsiasi adolescente in fiore. Nell’alzarlo e posarlo sull’altro, lo carezzai fino alla caviglia, lentamente.
-Rimanete così, per favore.
-Sì.
Tornai al mio posto.
Sedevi senza mai muoverti, senza mai chiedermi una pausa, senza mai sentire un prurito o uno starnuto. Quel giorno, avevi un colorito particolarmente acceso.
-Victorine?
-Sì?
-Posso chiedervi cos’avete fatto fino ad ora della vostra vita?
-Se muoverò le labbra per parlarvi, non riuscirete a ritrarre il mio viso.
-Non preoccupatevi, sto colorando le vostre gambe. A trattenervi dev’essere solo la vostra volontà.
-Non ho mai voluto farne mistero. Non c’è molto da raccontare, monsieur.. e vi sono particolari che forse un gentiluomo non vorrebbe conoscere.
-Dimenticate che parlate con una fauve.
-Voi non siete delle fauves. Né voi, né il maestro Derain, né il maestro Monet.
-Come potete saperlo? – sorrisi.
-Le fauves non sanno dipingere – rispondesti con assoluta semplicità. Non ci fu bisogno d’aggiungere altro.
-Avete conosciuto da vicino i miei colleghi?
-Mi state chiedendo se sono stata pagata da loro?
-.. sì, è ciò che vi sto chiedendo.
-Non da questi due in particolare. Ma ho avuto una relazione con il maestro Couture.
-Lo immaginavamo tutti.
-Lo immagino.
-Lo amavate?
-Non so dirvelo, monsieur. Sono troppo giovane per amare, credo.
-Siete grande abbastanza.
-Forse. Ma non so che cosa significhi, esattamente, amare. Forse ho amato davvero, ma chi può dirlo con certezza?
-Non di certo io – mi lasciai sfuggire, con un sospiro.
-Come. Voi state per sposarvi. Non amate mademoiselle Suzanne?
-Siete una bella curiosa – replicai, divertito – quand’invece io v’avevo chiesto di voi.
-Non l’avevo dimenticato. Ho vissuto da orfana dall’età di dodici anni. Non ho sentito la mancanza di mia madre, che era costantemente occupata con il suo lavoro. Né ho sentito la mancanza di mio padre, che non ho mai conosciuto. Quando mia madre è morta ho deciso di unirmi al gruppo di prostitute con cui lei lavorava, e ho imparato come cavarmela da sola.
-Vi fate pagare dall’età di dodici anni?
-Sì, monsieur. Spero che questo non ferisca la vostra sensibilità.
-No, Victorine. Eravate una bambina. Non ho il diritto di sentirmi ferito, di fronte alla vostra sofferenza.
-Dite così – replicasti lentamente – ma voi, così come gli altri, impazzite per le forme in boccio delle bambine. Paghereste anche lingotti d’oro, per una dodicenne.
-.. non posso darvi torto. Forse non sbagliano, a chiamarci bestie.
-Ricordate, monsieur, quando tempo fa vi dissi che avrei voluto che tutti mi vedessero, così come mi vedete voi?
-Lo ricordo.
-Quello non è forse un desiderio da bestia? Eppure nessuno mi ha mai chiamata così.
Tacqui, incapace di risponderti. Mi limitai ad accarezzarmi la barba, e tu proseguisti.
-Qualche volta, vorrei fare l’amore con tutti. Tutti gli uomini di Montmartre, tutti gli uomini di Montparnasse, tutta Parigi.
-Perché lo volete?
-Non lo so. E voi? Voi perché bramate il corpo di una bambina?
-Non lo so, Victorine. Forse è perché so che non posso toccarlo.
-E se aveste potuto toccarmi?
-Victorine..
-Mi avreste toccata? Avreste fatto l’amore con me?
Ti guardai. Avevi le guance rosse, ansimavi leggermente, ma non ti eri mossa di un millimetro.
-Per favore, state ferma e lasciatemi dipingere.
Non rispondesti, e chiudesti gli occhi. Dopo un po’ sembravi esserti calmata, ma permaneva quello strano rossore sulle tue guance.
-Siete sicura di sentirvi bene?
Riapristi gli occhi di colpo; erano lucidi, vividi e brillanti.
-Sto bene – rispondesti. Dimenticai le gambe e mi concentrai sul colore del tuo volto, per non perdermi quel rossore febbricitante, quell’espressione indolente sullo sfondo di un volto che ardeva. E quando finii di colorarlo, a passetti rapidi per non riaprire i tuoi occhi serrati, ti venni davanti e ti posai una mano sulla fronte, all’improvviso.
Come prevedevo, scottava.
Tu alzasti lo sguardo verso di me.
-Monsieur, sono diventata una meretrice a dodici anni, ma a quattordici anni mi sono allontanata da Montmartre. Ho passato qualche mese fuori Parigi, con un altro nome, perché mi ero stancata di me stessa; ma poi sono tornata qui, e ho ripreso il mio vecchio nome.. mi facevo chiamare Olympia, perché tantissime ragazze, qui a Montmartre, si fanno chiamare così, e io sono una ragazza di Montmartre. Da questo, ho imparato, non potrò mai sfuggire.
-Credo di no. Ma vostro malgrado non posso che gioirne, Victorine, perché io vi stavo cercando, e se ve ne foste andata io non avrei mai potuto trovarvi.
-Ma io non voglio andarmene! Maestro, datemi un franco in più, ma vi prego, concedetemi un solo bacio. Se continuerete a guardarmi con quegli occhi, il corpo comincerà a farmi male.
M’inumidii le labbra.
Ricordi come ci guardammo? Tu, rossa di febbre e di voglia, io, col respiro che mi tremava nel petto per il desiderio.
Per la prima volta ti muovesti, debole e insicura come una bimba; socchiudesti gli occhi e schiudesti le labbra, ch’erano rosa e turgide come boccioli di rosa all’alba. Ti protendesti verso di me, con la punta del nasino all’insù che sfiorava il mio; e a quel punto cedetti. Victorine, mia piccola, rovente Victorine con le fiamme sul capo; ti ho afferrato per la schiena esile e ti ho travolto, premendoti sul mio petto; tu mi afferrasti i lembi della mia giacca, con le dita sulla mia schiena, protendevi i lombi verso il mio bacino, spalancavi la bocca ai gorghi della lussuria. Mi accarezzavi la lingua, l’intrecciavi e la facevi turbinare tra le nostre bocche; mi leccavi le labbra e i lobi delle orecchie; mi baciavi il collo, succhiandomi la pelle tra le tue labbra morbide e umide; mi spingevi contro di te premendomi la schiena.
I nostri occhi socchiusi quando ci guardavamo, i nostri ansiti con le bocche vicine che si sfioravano, e tornavamo a baciarci; le nostre mani che si muovevano frenetiche sui nostri corpi, incapaci di trovare pace; quando ti stesi nuovamente su quel divano, sbattendoti contro i cuscini, stringendoti i fianchi, mordendoti i seni bianchi. Carezzavo tra le dita quei capezzoli chiari e ascoltavo i tuoi gemiti crescere. Facevo serpeggiare la lingua nel tuo orecchio, mentre tu mi tiravi verso di te. Mi strappasti di dosso la giacca e la camicia, e subito, senza nemmeno guardarmi, premesti le tue curve contro il mio petto, dandomi una scarica di calore che mi fece rabbrividire in tutto il corpo. Appoggiasti il collo alla mia spalla, lasciandoti baciare le clavicole. Ti accarezzavo nervosamente le braccia, poi ti girai, ti cinsi la vita con le braccia, iniziai a baciarti la schiena; con baci umidi, lenti, ti leccavo dalle scapole fino al fondoschiena. Ti sfiorai le cosce, poi mentre ti tenevo ferma ti accarezzai i seni e la pancia con la punta dell’indice; tu ti premevi contro di me, ansimando, e io non volevo sbrigarmi, volevo lasciarti aspettare, volevo aspettare che il tuo corpo facesse male prima di lasciarti sentire il piacere.
Ti girai nuovamente e ti separai le ginocchia con la mano; iniziai a baciare le piccole dita dei piedi, poi i polpacci, poi le ginocchia; iniziai a leccarti le cosce, e a baciarle ardentemente, poi iniziai ad accarezzarle, avvicinando sempre di più le mani alla tua rosa. Ripresi a baciarle, rallentando il ritmo man mano che mi avvicinavo al tuo sesso pulsante; mi soffermai a lungo a pochi centimetri dalla tua eccitazione dolorosa, poi finalmente la toccai, con la punta della lingua, e tu gridasti; ti toccai pianissimo, a colpetti leggeri, e tu stringevi le lenzuola tra le mani. Mossi un po’ la lingua tra le tue labbra, sfiorandoti appena, sentendo la tua carne bagnarsi sempre più copiosamente. Alzasti le ginocchia; iniziasti a chiuderle attorno alla mia testa, con forza crescente. Cominciai a premere di più con la lingua, stregato dai tuoi sospiri, rapito dai tuoi gemiti, imprigionato dal pulsare del tuo sangue; tu mi afferrasti i capelli, tu, la puttana, e io, l’artista, che ti leccavo tra le gambe sperando che potesse durare tutta la vita.
La mia lingua iniziò a spingere più forte, sempre più veloce, e tu gridavi, e io rallentavo; allora tu gridavi più forte e stringevi le ginocchia contro le mie tempie, dimenticando ogni ritegno, dimenticando ogni riguardo. E a un certo punto sentii tutti i tuoi muscoli contrarsi, vidi la tua pancia fremere, tacesti e trattenesti il respiro, immobile; ti leccai solo un altro poco, forte e veloce, e poi tu ricadesti sul materasso, con un sospiro lunghissimo.
Quando sollevai il volto verso di te, ancora tremavi leggermente. Mi alzai, mi sdraiai al tuo fianco. Iniziai ad accarezzarti i seni, con le mani a coppa, per poi scendere sulla pancia e seguire i contorni dei fianchi appena abbozzati. Ti prendesti qualche minuto per riprendere il fiato, e poi lentamente t’alzasti, fissandomi con quello sguardo che mi strappava gli occhi. Ti issasti in ginocchio, camminando come una gatta sopra il mio corpo, e poi chinasti la boccuccia umida verso la mia cinta, facendo per slacciarmi i pantaloni. Ti lasciai fare, cieco di bramosia, mentre il mio bacino s’alzava spudoratamente verso le tue mani; lasciai che scendessi con quelle labbra sul mio membro, che lo prendessi in bocca, che l’avvolgessi nella tua gola calda; trattenni a fatica i gemiti mentre alzavi e abbassavi la testa, veloce, potente, mentre facevi scivolare la lingua sulla mia pelle, mentre succhiavi la mia eccitazione ribollente. Mi prendevi in bocca fino in fondo, completamente, stringendomi le labbra attorno per aumentare le mie sensazioni. Guardavo i tuoi capelli scomposti caderti sulle labbra e solleticarmi lievemente; tu proseguivi, mi accarezzavi le natiche, mi piantavi le unghie nei fianchi, e a un certo punto ti fermasti, lasciandomi ansimante, tremante, che scoppiavo di calore. Lasciasti la mia erezione e ti alzasti in ginocchio, e poi con un paio di passi l’accogliesti di nuovo dentro di te, tra le pareti bollenti e bagnate del tuo sesso. Avevi lo sguardo grondante lussuria, ti si leggeva sulle labbra semiaperte, sulla lingua che vi si muoveva sopra cercando nuovi intrecci, nuovi piaceri. Eri indomabile, Victorine, non stentavo a credere che avresti accolto tutti gli uomini di Parigi dentro di te, in quel momento. Volevo riempirti, colpirti dentro, spingere fino a portarti al limite. Iniziasti ad alzare e abbassare le natiche bollenti sulle mie cosce, inginocchiata a cavalcioni sul mio bacino; le mani si aggrappavano precariamente alle mie dita, sudate, stringendo i miei polpastrelli con violenza. A un certo punto t’afferrai, ti gettai sotto di me, ti spalancai le gambe con il ginocchio e ti penetrai con forza, scivolando tra i tuoi liquidi caldi, avanzando nella tua carne lucida e madida di fluidi. Ti sentii stringere i muscoli contro di me, per sentirmi più intensamente; spinsi, spinsi fino a toccare il tuo fondo, fino a vederti spalancare gli occhi e urlare davvero, finché entrambi non sentimmo un giramento di testa che ci impedì di avvertire altro che il piacere e quelle spinte, che continuavano ad aumentare in velocità e a perdere precisione, perché ci bastava sentire le nostre carni che sbattevano l’una contro l’altra, colpendoci così forte da stordirci di piacere.

Questi piaceri violenti hanno fine violenta;
muoiono nel trionfo, come fuoco e polvere,
arsi in un bacio.
[W. Shakespeare]

Victorine. Victorine Meurent, incendio delle mie carni, gloria e rovina.

*

Nel nostro incontro successivo, continuai ad avere delle remore. Dopo averti fatto posare, cercando di calmare i miei sensi, mi avvicinai a te con una scusa, incapace di pretendere: e fosti tu ad avvicinarti con aria interrogativa, chiedendomi con gli occhi perché non ti prendessi.
Iniziò così, e non finì per molti anni. Suzanne la notte, e tu il giorno, come se fosse stata lei la prostituta, e tu la mia sposa. Sapevate entrambe, e nessuna disse mai nulla. Avevamo Montmartre dentro, in quegli anni; la sua dissoluzione si era inerpicata negli animi e infettava tutti i cuori che riusciva a toccare.
Il tuo corpo di fanciulla era come una fiaba incantata, ai miei occhi di trentacinquenne. Ormai venivo considerato quasi un’uomo di mezz’età, uno per cui il sesso è qualcosa di normale e giusto, qualcosa di serio, di necessario; solo cinque anni fa, ne avremmo parlato come di avventure, di rischi, di qualcosa che aveva a che fare con il desiderio e le risate.
In tutti gli anni in cui accettasti di venire nel mio studio, che furono molti, non vidi mai il tuo corpo cambiare. Ti vidi prendere o perdere qualche chilo, ma le tue forme non mutarono mai, congelate nell’eterna minutezza dei sedici anni.
Cambiò il tuo volto. Con gli anni divenne più tondo e più roseo, ma continuai ad amarlo. Ti dipinsi molte, moltissime volte, e ogni volta, dopo ogni singola prova, ti portavo sul divano a fiori e assaggiavo le tue carni, bianche e soffici come la prima volta.
Ogni volta ero stupito dal fatto che tu, sedicenne di Montmartre, potessi accedere al mio studio ed essere trattata come una statuina della Madonna, da esporre a tutto il mondo, mentre mia moglie era costretta a rimanere fuori, e, per un tacito accordo, a non dir nulla a proposito di tutto questo.
Sono sicuro che a volte avesse udito i nostri sospiri. Un giorno, la vidi piangere. Ma qualche tempo dopo il sorriso era tornato sul suo volto, e notai che si assentava più spesso del dovuto; non dissi nulla nemmeno io, e la nostra vita proseguì tranquilla, perché Montmartre ci manovrava da dentro.
Victorine, eri così bella. Così piccola e con uno sguardo così innocente, e così disposta a piegarti davanti al mio corpo di uomo. Amavo lasciarti nuda davanti a me, e lasciarti cercare il mio corpo ancora completamente vestito. Amavo prenderti in braccio ed appoggiarti sul muro, approfittando del fatto ch’eri così piccina e leggera. Amavo poterti rovesciare e sollevare e immobilizzare, guardando il tuo sguardo semplice e privo di quegli artefici che dovrebbero servire a farti desiderare.
Perché io ti desideravo così, con quell’espressione naturale, con quel corpo nudo che s’apriva ovunque al tocco della mia lingua e delle mie mani, che mi mostrava qualunque angolo di sé, che si prestava ad ogni mia sete.

Quanto al dipinto, l’unico a difenderlo fu il mio amico Charles**, ma non m’importava, perché io avevo te.

Sedevi al mio fianco, guardandomi completare le mie opere, osservando in silenzio le mie tecniche.
-Perché date pennellate tanto secche? Questo non assomiglia a un lampadario, sembra più un’accozzaglia di linee verticali.
-Osservalo da lontano.
Tu arretravi di qualche passo, con aria critica; osservavi da sotto quelle tue ciglia chiare, corrucciando le sopracciglia. Poi decretavi che avevo ragione. Ti avvicinavi ancora, e riprendevi a guardarmi lavorare; qualche volta, passavamo i pomeriggi così, soltanto dipingendo e guardando.
Un giorno mi chiedesti tela e colore, e io ti lasciai fare, curioso di vedere quali fossero le tue capacità.
Ebbene, eri anche una pittrice, mia bellissima Victorine: i tuoi paesaggi erano terribilmente fedeli, ma tutti malinconici, neri e arancio, come i giorni in cui c’incontrammo. Lasciavi gli alberi nudi con file di cadaveri color ocra ai loro piedi, dipingevi viali costellati di macchie rosse e arancio, enormi cieli grigioazzurri sovrastavano, pesantissimi, sparuti alberelli dai rami fragili.
Io ti guardavo tracciare le tue linee con mano sicura, poche linee, come avevi imparato da me, ma essenziali, pregne; guardavi la tela con occhi fissi ma concentrati, senza che il tuo volto tradisse alcuna emozione.
È in un giorno di questi, giorni di pesantezza e di perdita, grigi di dolore, che io e te c’incontrammo.

Sai, forse ero destinato a perderti.
Perdo decine di persone, mia piccola Victorine, perdo una moglie e degli amici, perdo ricordi e possibilità, ma se solo potessi scegliere di rimanere in vita, se mi chiedessero per quale motivo, direi che voglio farlo per te.

Mi abbracciavi in silenzio, vomitandomi addosso tutta la tua tristezza, la tua voglia di sparire da questo mondo; infilavi muta i soldi nel reggicalze, sedevi in un angolo, tacevi per ore.
Il tuo silenzio è stata la tortura più straziante che Dio m’abbia mai inflitto, piagandomi con le tue sofferenze.

E qualche volta, scomparisti. Per mesi nessuno era in grado di dir nulla di te, oppure nulla che coincidesse con la versione d’un altro; si chiacchierava che fossi stata vista, in preda alle allucinazioni, davanti alla cattedrale di Nôtre Dame; si vociferava che nuotassi nella Senna, aggrappandoti alle barche per sfuggire da Parigi; qualcuno sussurrò che fossi morta, in circostanze e luoghi sconosciuti.
In quei mesi, non riuscii mai ad entrare nel mio studio.
E ogni volta, quando pensavo fosse giunto il momento di seppellire il mio cuore sotto la coltre dell’oblio, tu tornavi, sempre più silenziosa, sempre più chiusa, sempre più desiderosa di dipingere. Sparivi piano piano, scegliendo di non comunicare più con il mondo; forse eri vicina alla pazzia. Sapevo che pregavi ogni giorno, mormorando lontana da tutti.
E un giorno tornasti e ti concedesti a me, ancora, e quel giorno il male che portavi dentro mi afferrò; e ora che son vecchio, che la sifilide mi porta lontano da te, non riesco a far altro che pensare che non entrerò più nel mio studio, aspettando la mia fata dai capelli di fuoco e dalla pelle di zucchero.
Victorine, accetterei mille mali da te, sopporterei le forche dell’inferno e i venti gelidi di ogni inverno; ma Dio non m’ascolta, e vuol togliermi l’unica cosa a cui in questa vita avessi tenuto davvero.
Vuol forse punirmi per non essermi mai interessato a niente, per esser sempre stato sordo alle critiche e alle lodi, e per aver seguito sempre e soltanto la mia voglia di dipingere?
Signore mio Dio, se mi stai ascoltando, rispondimi. Perché lasci che soffra così..?
Il cuore mi preme contro le pareti del busto, e si affloscia esausto nel mio petto. La mia gola brucia, mio Signore, brucia di lacrime, perché non riesco più a contenerle, più a ricacciarle indietro.

Victorine, hai mai pensato alla maestà della morte? Io sì. E nonostante i miei struggimenti e i miei tormenti, ho capito una cosa soltanto. Ed è che la morte, è l’unica cosa contro cui non posso combattere in nessun modo. Nemmeno con il mio proverbiale coraggio.
È qualcosa a cui devi prestare ascolto, Victorine, che non sparirà dalla tua vita se l’ignori. Non è un critico del Salon, che posso allontanare da me, se gli nego la mia attenzione. Posso fare qualunque cosa, ma lei mi prenderà con sé mentre tu rimarrai qui.

Oh, perché non cerchi di trattenermi? Nelle tue preghiere, sussurri il mio nome?
Ti prego, Victorine, cerca di salvarmi.. perché io non voglio essere l’ultima foglia a cadere ai piedi dei tuoi esili rami. Volevo essere il tuo tronco, capace di ripararti dal gelo e dalla forza del vento.
Stai pregando affinché rimanga in vita?

Amor mio, coprirei di smeraldi i tuoi rami e di luce la tua cattedrale..


* Victorine Meurent richiama nel nome la “vittoria”. Il cognome, invece, è una voce del verbo “morire”: la terza persona plurale del presente indicativo, ossia “muoiono”.
** Charles Baudelaire.

  
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