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Autore: NiagaraFalls    30/04/2012    1 recensioni
Lavinia Bell ha appena compiuto diciotto anni, e torna nel piccolo paese dove passava le sue estati durante l'infanzia per gestire la villa e il panificio ereditati da sua nonna. Vuole decidere del suo futuro. E' solare, gentile, ingenua forse.
Christopher Dalton invece ha ventisette anni, vive nella villa della famiglia Bell e il suo carattere non ha niente in comune con quello della ragazzina che è piombata nella sua stessa casa all'improvviso. E' riservato, schivo e a tratti misterioso.
Riusciranno a trovare un punto d'incontro?
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non lo so, comunque da finire
MY SWEET LAVINIA

Capitolo 1

Lavinia osservò gli alberi scorrere velocemente attraverso il finestrino del taxi. Non riusciva a credere di stare tornando nella casa in cui aveva passato nove estati della sua vita, fino alla morte di sua nonna. Si ricordava confusamente alcuni dettagli: il camino che riscaldava l'enorme soggiorno, l'aspetto antico e accogliente dell'arredamento, le lunghe scale che portavano al primo piano accompagnate dal corrimano in legno lucido.
Aveva appena compiuto diciott'anni: il testamento di sua nonna si era attivato, e finalmente aveva ereditato la villa e il piccolo panificio che si trovava al centro del villaggio. Aveva aspettato nove anni, nei quali la sua eredità era rimasta nelle mani dei suoi genitori e dei signori Weber. I signori Weber gestivano il panificio quasi come se fosse loro; erano buoni amici di famiglia e la stavano aspettando con impazienza: erano passati molti anni dall'ultima volta che era stata in quel piccolo paese, e loro non vedevano l'ora di vederla e di informarla dei progressi della piccola azienda.
Aveva deciso di tornare nel villaggio della sua infanzia per controllare la sua eredità: voleva prendere le redini del panificio e lavorarci fino a dicembre, per capire di cosa si sarebbe dovuta occupare.
Aveva sempre amato quella villa misteriosa, e la prospettiva di viverci per un po' di tempo la rendeva nostalgica e eletrizzata. I suoi genitori però l'avevano affittata, e ora ci abitava una persona da quasi un anno. Pagava bene, e non si era mostrata contraria ad avere una coinquilina per tre mesi, e neanche a Lavinia importava. Nel caso in cui lei avesse voluto stabilircisi definitivamente, avrebbero trovato un compromesso. Era un periodo importante, per Lavinia: avrebbe deciso cosa fare della sua vita, avrebbe imparato a rendersi indipendente. Sebbene i suoi genitori la spingessero ad intraprendere l'università, lei voleva valutare tutte le opzioni.
«Siamo arrivati, signorina.» Lavinia alzò lo sguardo incrociando quello del tassista nello specchieto retrovisore. Sorrise timidamente e scese dalla vettura. Il leggero vento settembrino le scompigliò i lunghi capelli mori mentre l'aria fresca e pulita le entrò delicatamente nelle narici, facendo comparire un leggero sorriso sul suo volto. Osservò l'immensa costruzione davanti ai suoi occhi, cercando di ritrovarla nei suoi ricordi. Era una casa a tre piani in stile vittoriano, risalente agli anni settanta. C'era un piccolo giardino a circondarla, dove lei, da piccola, giocava a pallone con la figlia del sindaco. L'estate scorsa i suoi genitori l'avevano fatta ristrutturare, quindi aveva un aspetto meno decadente di quello che si aspettasse. Era di un colore spento, ma la nostalgia e lo stupore le mozzarono il fiato comunque. Il conducente fischiò, approvando i suoi pensieri. «Questa sì che è una casa! Non l'avevo mai vista da così vicino. Fa molto film horror di terz'ordine.» L'uomo sulla cinquantina si diresse verso il retro dell'auto ed estrasse due enormi valigie dal bagagliaio. Lavinia si precipitò ad aiutarlo. «Non si preoccupi, faccio io.» Lui scosse la testa, bonario. «Vorrei evitare che lei si spaccasse la schiena sotto il peso dei suoi stessi vestiti.»
La ragazza lo ringraziò con un sorriso e pagò il servizio. Prima di risalire in macchina, l'uomo si girò verso di lei. «Signorina, è sicura che questa sia la casa giusta?»
Lavinia aggrottò le sopracciglia, confusa. «Certo. Perché me lo chiede?»
«Be', è isolata dal villaggio, enorme e spaventosa. E poi, dicono che il ragazzo che ci vive sia strano.»
«Oh.» La giovane non credeva ai pettegolezzi e, cosa più importante di tutte, aveva l'appoggio dei suoi genitori: conoscevano l'uomo che avrebbe abitato con la loro adorata figlia e, nonostante avessero titubato molto prima di mandarla lì, avevano ricevuto la spinta finale da parte di suo zio Roy, il quale aveva una profonda stima di lui. Lei non lo aveva mai incontrato, ma si fidava ciecamente del giudizo della sua famiglia. E quello era l'unico posto dove sarebbe potuta andare.
«Starò bene» rispose con gentilezza. L'uomo sorrise mettendo in mostra i denti gialli e partì, lasciandola sola.
Afferrò entrambe le valigie e si mise in marcia verso il cancello semiaperto, ma non riuscì a fare neanche mezzo passo. Erano troppo pesanti, quindi decise di trasportarle una alla volta fino alle scale del portico. Per portarle in casa, però, avrebbe preferito essere aiutata. Poteva anche usarlo come pretesto per fare conoscenza con il suo coinquilino. Attraversò il piccolo vialetto malmesso e, dopo due piccoli viaggi, lasciò le valigie alla fine dei cinque gradini.
Quando arrivò davanti al portone, cominciò a sentire l'agitazione a fior di pelle. E se l'uomo con cui avrebbe dovuto abitare per tre mesi non l'avesse accettata? Lo avrebbe importunato? Sarebbero riusciti a convivere? Era d'intalcio, lo sapeva molto bene.
Strinse il batacchio con la mano destra, facendo un respiro profondo. Voleva bussare, ma la sua mano si rifiutò di farlo. Perché si sentiva così agitata?
Ci riprovò, ma ottenne lo stesso risultato. Ripeté il medesimo rituale altre sei volte, senza mai trovare il coraggio che le serviva. Dopo qualche minuto, quando finalmente si decise, la porta si aprì all'improvviso senza lasciarle il tempo di sfiorare il ferro battuto con le dita, rivelando una figura maschile. Lavinia sbarrò i suoi grandi occhi verdi e ritirò subito la mano, portandola davanti alla bocca spalancata. Un uomo sui venticinque anni stava davanti a lei, tenendo ancora la maniglia in mano. Alzò un sopracciglio e la squadrò con i suoi occhi grigi. La ragazza riuscì a scorgerci un'impercettibile aria derisoria, che venne quasi subito nascosta abilmente.
Quanto tempo era stata sul portico a rimuginare?
«Avevi intenzione di stare qui fuori ancora per molto?» Le rivolse un tono quasi annoiato, senza mai staccare gli occhi da lei. Lavinia abbassò la mano e sbatté gli occhi, accennando un sorriso amichevole.
«Lei è Christopher Dalton?» chiese insicura, stringendosi nel suo cappotto nero carbone. Si sentiva leggermente in imbarazzo: aveva fatto una pessima figura e lo sguardo distaccato del suo interlocutore non la stava affatto aiutando. Lui annuì.
«E tu chi sei?»
«Sono Lavinia Bell.» Christopher sembrò tanto sorpreso quanto confuso.
«Non dovevi arrivare il primo di settembre?» Si formò una ruga tra le sue sopracciglia, mentre le rivolgeva quella domanda.
«Ma oggi è il primo» ribatté timidamente. Aveva atteso con paura e agitazione quella data. Aveva passato quasi un mese con i suoi genitori per pianificarla; possibile che lui invece l'avesse considerata così poco?
Lui sembrò fare mente locale e dopo qualche secondo la ruga scomparve. Un'espressione scettica sostituì quella confusa e un'aria diffidente prese spazio tra loro. «Quindi tu sei la padrona di casa.»
Lavinia fece un cenno affermativo con il capo. «Non si preoccupi, signor Dalton, sarò silenziosa e non la infastidirò.»
«Questo lo vedremo» la interruppe lui. La ragazza sentì il disagio strisciare sulla pelle. Si schiarì la voce e tentò di non balbettare.
«Dovrei portare le mie valigie dentro.» Christopher si scostò dall'ingresso e le fece segno di entrare. Lei non provò nemmeno a chiedere aiuto, in qualche modo sentiva che non le sarebbe stato concesso. Scese le scale e afferrò una valigia, mettendoci tutte le sue forze per portarla fino all'uscio. Ripeté la manovra per la seconda, sentendo gli occhi derisori del signor Dalton perforarle la schiena. Quando appoggiò i bagagli sul legno del portico, sentiva la faccia accaldata per la leggera fatica e per la vergogna. Si trascinò all'interno e il suo coinquilino chiuse la porta alle sue spalle.
«Seguimi.» Le fece un cenno con la mano senza guardarla. Lavinia abbandonò le sue cose accanto all'attaccapanni e ubbidì. Notò che un sottile strato di polvere accarezzava ogni mobile e alcuni sembravano non essere mai stati toccati. Arrivarono in soggiorno, dove le ceneri del camino stavano morendo lentamente. Si guardò intorno estasiata come la bambina dei suoi ricordi. Christopher si fermò improvvisamente, in maniera talmente brusca che quasi ci sbatté contro. Quando lui si girò dovette fare due passi indietro.
«La casa la conosci già, giusto?»
«Sì, più o me-»
«Bene. La tua camera è al primo piano, in fondo al corridoio. Al secondo ci sono quelle degli ospiti, lì dormo io. Non entrare mai nella mia stanza. Non disturbarmi a meno che non sia strettamente necessario.»
Lavinia sentì tutti i suoi buoni propositi svanire al vento come la cenere ancora calda accanto a loro.
«E soprattutto non interessarti della mia vita. Io mi faccio gli affari miei, tu ti fai gli affari tuoi.»
Come poteva essere così sfacciato con lei? Avrebbe potuto cacciarlo da un momento all'altro. Non l'avrebbe fatto; i soldi servivano alla sua famiglia e lei non sarebbe mai stata così crudele. Ma voleva un po' di rispetto: era un valore molto importante, intriso nella sua educazione.
«Va bene.» Il pensiero di chiedergli se ci fosse qualcosa di caldo da mangiare per cena le sfiorò la mente, ma poi si rammentò di essere un'ospite inattesa e anche se non lo fosse stata probabilmente avrebbe dovuto arrangiarsi.
Christopher lanciò una rapida occhiata all'orologio appeso accanto ad un quadro. Senza dire una parola si diresse verso l'uscita. Indossò una giacca frettolosamente e aprì il portone.
«Aspetti!» Lavinia lo inseguì sulle sue ballerine bianche, arrestandosi a due metri di distanza. Christopher la fronteggiò scocciato, perforandola con i suoi occhi grigi. Incrociò le braccia impaziente mentre il tramonto illuminava i suoi capelli castani.
«Dove sta andando?»
«Hai appena infranto una regola essenziale» disse con voce autorevole. Poi sembrò ricordarsi di qualcosa di più rilevante; infilò la mano nella tasca della giacca e ne estrasse una chiave in argento e squadrata. Inaspettatamente afferrò la mano ghiacciata e delicata di Lavinia e ve la posò sopra. Era il loro primo contatto e Lavinia si stupì di quanto fosse avvolgente il calore della sua mano rispetto al suo carattere glaciale.
«Nel caso ti venisse la brillante idea di uscire.»
«E lei come farà?» si preoccupò. Lui si diresse nuovamente verso l'esterno. «Ne ho un'altra.» Chiuse il portone, facendo svolazzare il vestito estivo della ragazza che sbucava alla fine del cappotto. Era sola, di domenica sera, senza cena e senza qualcuno ad accoglierla in maniera affettuosa. Sospirò, guardandosi intorno. Aveva fame, ma la curiosità surclassò il desiderio di cibo. Corse di nuovo in soggiorno e osservò con bramosia il tappeto, le pareti in legno scuro decorate con alcuni quadri e il caminetto che occupava metà parete. C'era un grande lampadario sopra di lei. Accarezzò il tessuto del divano e delle due poltrone, sentendosi più tranquilla. Poi passò in cucina. Era spaziosa, con un tavolo rotondo al centro e quattro sedie ai lati. C'era anche una sala da pranzo, accanto alla cucina: ospitava un enorme tavolo rettangolare e le ricordò i pranzi familiari che si erano svolti lì dentro. Ignorò il bagno e lo studio e tornò ai piedi dell'ampia scalinata: era sempre stata una delle sue parti preferite, insieme alla soffitta e alla sua camera. Saltellò fino al primo piano e visitò ogni stanza. Ce n'erano quattro, l'ultima era la sua. Appoggiò la mano sulla maniglia con frenesia. Aprì la porta e le mancò il fiato: il letto a una piazza e mezzo troneggiava nel centro della stanza, coperto da candide lenzuola bianche. Sembrava essere stato fatto di recente. La porta-finestra dall'altra parte della camera faceva entrare la brezza serale, tipica di settembre, causando il volteggiamento delle tende rosa pallido. Di fronte al letto c'era una scrivania sovrastata da uno specchio ovale, coperto da un telo bianco. Era tutto lì, ma nella sua semplicità riuscì a renderla assurdamente serena. Diede un'occhiata veloce al bagno e salì al terzo piano, dove c'erano tre stanze per gli ospiti e un altro bagno. Quelle non le visitò, non voleva entrare per sbaglio nella camera del signor Dalton. In fondo al corridoio c'erano degli scalini perpendicolari ad esso che portavano alla soffita. Lì erano rilegate in un angolo tutte le cose relative alla sua infanzia, insieme ad altri oggetti antiquati che lei amava mettere a posto e classificare. Quando arrivò alla porta sentiva l'eccitazione alle stelle, che svanì come se avesse spento un interruttore quando la maniglia non si abbassò. Provò a metterci più forza e spingere contro il legno, ma era evidentemente chiusa a chiave. Emise un brontolìo frustrato e tornò al piano terra; doveva ancora avvisare i suoi genitori. Li chiamò, informandoli sul suo essere arrivata sana e salva. Disse di aver già mangiato e che il suo coinquilino era dovuto uscire immediatamente ma però aveva ricevuto il benvenuto che si aspettava. Quando riagganciò lanciò il telefono sul tavolo della cucina e aprì il frigorifero, sperando di prepararsi una cena veloce ma sostanziosa.
Ci trovò solo un paio di cose: delle uova - fortunatamente non andate a male - un po' di latte, dei pomodori e dell'acqua frizzante. Esplorò tutti gli scaffali, trovandoci solo del caffé, alcune spezie, dell'olio e un pacchetto di biscotti secchi.
Sbuffò e decise quale sarebbe stato il suo primo compito: fare la spesa. Doveva anche pulire a fondo la casa, o la polvere l'avrebbe soffocata nel sonno. Mangiò un uovo strapazzato e due pomodori. Non era per niente brava a cucinare - in questo aveva preso dalla madre - però sperò di imparare durante il suo soggiorno lì. Dopo aver cenato si ritenne abbastanza stanca da poter andare a dormire; ormai si aspettava di veder arrivare il signor Dalton a notte fonda, o forse la mattina dopo.
Con determinazione agguantò la valigia meno pesante e, con incredibile soddisfazione, riuscì a sollevarla sul primo scalino. Bene, ne mancavano sedici. Si tirò su le maniche come se stesse per affrontare la sfida più difficile della sua vita e passò la successiva mezz'ora a trascinare quel macigno nero al primo piano. Dall'alto dei diciassette gradini fissò impaurita l'altra valigia, più grande della precedente. Le bastarono due secondi per capire che non ce l'avrebbe mai fatta.
Andò in bagno e poi si coricò, addormentandosi in pochi secondi.

***

Lavinia sbatté ritmicamente il piede destro sulle piastrelle fredde, nervosa. Addocchiò nuovamente l'orologio e poi sbuffò, più per imporsi un po' di calma che per reale fastidio. La mattina seguente si era svegliata presto, ed aveva trovato, con sua immensa sorpresa e gratitudine, la valigia alla fine del primo piano, in cima alle scale. Per ringraziare questo gesto inaspettato, aveva deciso di preparare la colazione al signor Dalton. Voleva essere accettata e vivere con complicità e serenità reciproca, cancellando l'astio e l'indifferenza. Probabilmente quell'uomo non aveva mai cucinato per sé, e non si era mai preso cura della casa; a questo voleva rimediare lei.
Sapeva, grazie a suo zio Roy Bell, che il signor Dalton aveva il lunedì libero, ma ignorava quale fosse il suo lavoro. Erano le dieci, ormai, e di lui ancora nessuna traccia. Aveva visto una macchina nera parcheggiata fuori, e poteva appartenere solo a lui: non avevano vicini, e la villa era distaccata dal villaggio, nascosta dagli alberi. Per raggiungerla a piedi ci sarebbero voluti venti minuti.
Le uova strapazzate e il caffé ormai tiepido la stavano fissando dal tavolo in legno; se entro dieci minuti lui non fosse sceso si sarebbe sfreddato tutto. Agguantò uno straccio e cominciò a pulire la polvere presente sui mobili: era un buon modo per passare il tempo e da qualche parte della casa doveva pur cominciare.
Dopo alcuni minuti sentì dei passi pesanti scendere le scale e la faccia assonnata di Christopher Dalton sbucò in cucina. La guardò stralunato mentre lei, imbarazzata, metteva le mani dietro alla schiena, stringendo lo straccio consunto.
«Buongiorno!» trillò, cercando un approccio. Lui alternò lo sguardo dalle guance imporporate della ragazzina al piatto invitante poggiato davanti a lui.
«Le ho preparato la colazione» balbettò Lavinia, non ricevendo alcuna risposta.
Christopher si allacciò la felpa della tuta e la inchiodò con uno sguardo impenetrabile. «Non ho fame.» Afferrò solamente il caffè, ignorando le uova. Il sorriso della ragazza si spense, ma non abbandonò la speranza. «Cosa... Cosa vuole per pranzo?»
Si fermò sull'uscio, smettendo di sorseggiare il suo caffè. «Non mangio qui.»
«Oh.» Lavinia sbatté le palpebre per scacciare la delusione.
Lui fece per andarsene, quando sentì la voce flebile della ragazzina che lo chiamava. «Signor Dalton?»
Si girò, gli occhi duri e infastiditi.
«Devo fare la spesa. Potrebbe accompagnarmi in macchina in paese?» chiese timorosa, abbassando le iridi color smeraldo.
Spostò gli occhi grigi verso la finestra. Scorse un sole splendente illuminare il giardino. «Oggi è una bella giornata. Una passeggiata ti farà bene.»
Lavinia capì che la convivenza sarebbe stata più complicata del previsto.




NOTE: Allora, ringrazio chiunque abbia letto questo primo capitolo, grazie davvero! Questo è come un esperimento, per me: voglio riuscire a finire questa fanfiction e ci tengo davvero, perché ballonzolava nella mia testa già da un po'. Non ho molto da dire, spero solo che vi piaccia, anche se questo è solo l'inizio! E soprattutto, se trovate degli errori grammaticali, ditemelo. Ultimamente faccio a botte con i congiuntivi! Il titolo verrà spiegato a tempo debito, non preoccupatevi.
Al prossimo capitolo!





 
  
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