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Autore: Nezu    01/05/2012    0 recensioni
Jay è un giovane costantemente attaccato alla bottiglia e alla ricerca di un impiego qualsiasi per tirar su soldi, Deuce è in fuga da tipi poco raccomandabili e ha bisogno di una mano per mettere a segno un buon colpo, Toad è un campagnolo giunto in città per fare soldi con facilità. I tre si troveranno a organizzare e portare a termine una rapina alla banca sotto il controllo della mafia locale, ma dovranno fare i conti con alcune complicazioni.
Genere: Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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3. Those things I’ll never say

 

Il mozzicone di sigaretta restò tra le sue labbra anche se era ormai completamente consumato; era una piccola abitudine che si portava dietro da anni ormai, da quando si accendeva le cicche in camera da letto con l’accendino rubato a sua sorella, la musica a tutto volume nelle orecchie, hip-hop puro, rap a manetta, rumore, tanto rumore che copriva suoni sgraditi e rendeva possibile il suo mondo.

In quella stanza poteva accadere di tutto senza che nessuno sapesse niente, quello era il gioco. Lì poteva gustarsi il suo dannato pacchetto, poteva toccarsi, poteva sniffare un po’ di roba, stendersi sul letto e fissare il soffitto.

Lì le urla dei suoi genitori non arrivavano e neanche il rumore di piatti e tazzine infranti. Al massimo qualche colpo alla porta di tanto in tanto, come a controllare se lui fosse ancora vivo, ma nulla di più.

Anche in quel momento, a distanza di anni dalla sua prima sigaretta, Deuce provava la stessa sensazione di smarrimento: il futuro davanti a lui era un buco nero, profondo, sconosciuto. Se avesse potuto, se ne fosse stato in grado, sarebbe scappato così, su due piedi, senza voltarsi indietro.

Fanculo Harvey, fanculo il Colonnello, fanculo quei cazzo di soldi.

Erano anni che sperava di svegliarsi un giorno e scoprire che tutto quello che aveva vissuto era solo un brutto sogno e in quell’istante ringraziava di aver trovato dei buoni colleghi come Jay e Toad, gente che non faceva domande pur avendo tutto il diritto di farle.

Eppure c’erano tanti di quegli indizi nel lavoro che aveva proposto a quei due, tante zone oscure che avrebbero dovuto essere spiegate. Ma lui non voleva farlo: come poteva raccontare tutto a quei due? Dei suoi genitori che lavoravano per Harvey. Di come si erano ammazzati a vicenda lasciando lui e la sorella in un mare di guai e di debiti. Di come la ragazza era fuggita all’estero per non restare prigioniera in quella città e di come lui, Deuce, aveva dovuto pagare tutto da solo, con ogni mezzo a disposizione.

Primo fra tutti il suo corpo.

Era stato la puttana di Harvey per troppo tempo e ora che stava per sganciarsi da quell’uomo voleva solo dimenticare il suo passato e non parlarne coi suoi compagni.

Si accese un’altra sigaretta.

Quel piano era una follia, la rapina più incredibile mai fatta. Certo, perché no, andiamo a svaligiare una banca della mafia a bordo di una bicicletta scassata e una sola pistola! Ah, no, giusto, avevano anche quell’utilissimo coltellino svizzero, nessuno avrebbe osato opporsi ad una così temibile banda!

Scosse la testa: che diamine stava facendo? Ci teneva così tanto a morire giovane?

Lui e quegli altri erano solo tre pazzi suicidi che non si rendevano conto di in che guaio si stavano cacciando.

Avrebbe voluto bere qualcosa in quel momento, ma l’ultima bottiglia di Baileys era finita settimane prima e l’unica lattina di birra rimasta in casa giaceva vuota sul pavimento della cucina.

Fumò in silenzio la sua cicca, beandosi di quello stato di vuoto mentale: il giorno seguente avrebbero dovuto fare sopralluoghi, procurarsi qualche arma più seria, limare il piano, ma in quel preciso istante era tanto fortunato da potersi dimenticare di tutto.

 

Che la birra fosse finita, insieme a tutti gli altri alcolici in quella casa, se n’era accorto anche Jay, che continuava ostinatamente a vagare dalla cucina al salotto con la speranza di scorgere in qualche angolo nascosto di quelle due stanze una bottiglia dimenticata.

Mentre proseguiva la sua ricerca borbottava imprecazioni contro l’idiota che si era scolato tutte le riserve, ignorando bellamente il fatto che era stato lui stesso a svuotare lattine e bottiglie una dopo l’altra e in maniera così plateale e assetata da meritarsi un’occhiataccia dal padrone di casa.

Ridacchiò a quel ricordo: oh, lo sapeva cosa aveva pensato Deuce in quel momento.

“Ubriacone del cazzo, alcolista di merda.”

Bé, non aveva tutti i torti, ma non si sentiva poi così incolpa per il suo vizio. Non era l’attaccamento morboso all’alcol tipico di quei vecchi depressi che non avevano nulla di meglio da fare nella vita che ubriacarsi e tornare a casa per picchiare moglie e figli.

Lui non aveva picchiato nessuno dei suoi famigliari, anche perché non ne aveva mai avuto l’occasione. Era stato lasciato a casa del suo vecchio zio zitello all’età di cinque anni e non aveva più saputo nulla né dei suoi genitori né di nessun altro parente.

Non aveva avuto un’infanzia molto felice, se ci ripensava: pochi amici, tutti rimasti con lui per molto poco, e suo zio assolutamente non adatto a crescere un bambino. La maggior parte del tempo l’aveva passata da solo a leggere, fare parole crociate e sognare: non esattamente il massimo di compagnia per un ragazzino vivace come sarebbe stato lui di natura.

Poi era arrivato l’alcol. Jay non era mai stato troppo bravo a relazionarsi con le persone, ma era così facile fare amicizia con quella bottiglia piena di affetto e felicità. L’unica compagnia stabile, su cui poteva sempre contare e che non l’aveva mai tradito.

Gli permetteva di dimenticare la solitudine, i sogni irrealizzati, la vita che stava scorrendo come se non fosse sua, senza progetti, senza amici, senza affetti. Ma la bottiglia c’era sempre, meravigliosa e letale.

E grazie a lei era anche più facile socializzare con altri esseri umani.

Ricordava quelle lunghissime notti insonni passate a ballare con perfetti sconosciuti, imbottito di alcol e con la musica che rimbombava nelle orecchie stordendolo tanto da aver difficoltà a restare in piedi senza cercare appoggio.

Suo zio disapprovava tutto quello nella maniera più assoluta, ripetendogli che non poteva dire di divertirsi assieme ad altri coetanei se tutto quello che faceva era strusciarsi su di loro e non spiccicare neanche una parola, un po’ per lo stato di confusione mentale, un po’ per la musica troppo alta.

Ma lui non poteva capire cosa voleva dire passare ore e ore da solo, senza neanche una persona accanto, non per parlarci assieme, ma anche solo per guardarla, sapere che c’era qualcuno oltre a lui in questo mondo.

E quelle notti scatenate durante le quali faceva esattamente tutto quello che facevano gli altri, come un’unica entità, era una delle poche cose che davano un senso alla sua vita.

Poi suo zio era morto di vecchiaia, lasciandogli un piccolo gruzzoletto che era sparito in poco tempo e da quel momento in avanti la sua vita era stata un continuo racimolare grana per pagarsi la sua amata compagnia alcolica.

E così, tra una bottiglia e l’altra, era finito al bar di Fred, il posto più accogliente che avesse mai visto prima d’ora: c’era gente, musica in sottofondo, alcol, tutto quello che a Jay serviva per vivere bene.

Un ottimo rifugio per la solitudine, anche perché il barista dava l’impressione di capire perché lui beveva, perché passava là ogni singola ora libera; oh, probabilmente non capiva per bontà d’animo o particolare sensibilità emotiva, Jay non credeva in quelle stronzate, specie se si parlava di Fred.

No, quell’uomo capiva perché ne aveva visti altri, chissà quanti, di tizi come lui, che per tirare avanti avevano bisogno di quel bicchiere e di qualcuno con cui parlare. Non per noia, ma per poter sopravvivere.

L’unica cosa particolare del suo caso era che era arrivato a quel punto quasi senza ritorno ad appena ventitrè anni: bella vita di merda.

La bottiglia della salvezza non si vedeva da nessuna parte e il ragazzo lanciò un ultima maledizione prima di lasciarsi cadere sul divano, che era diventato da qualche giorno il suo nuovo letto improvvisato.

Non aveva la più pallida idea di cosa avrebbero fatto il giorno dopo, ma di certo valeva la pena di schiacciare un pisolino per essere in grado di fronteggiare ogni evenienza.

 

Un’assordante musica rap filtrava da sotto la porta chiusa a chiave di quello che, almeno una volta, doveva essere stato lo studio; le pareti erano ancora ricoperte di scaffali dai grossi libri impolverati, ma tutto attorno c’erano scatoloni pieni di cianfrusaglie, sacche di vestiti, un ferro da stiro, un frigo da campeggio e altri oggetti vari. Più che uno studio quel posto sembrava uno sgabuzzino dove gettare la roba che non si sapeva dove mettere.

Per fortuna o per caso c’era anche un letto ad una piazza, forse lì per gli ospiti oppure, più probabilmente, per parenti e amici intimi che non avevano problemi a dormire in quel caos.

Toad dal canto suo non si era lamentato per il disordine, trovare un posto dove dormire senza dover sganciare una lira era più di quanto chiedesse. Aveva anche ottenuto il permesso di sistemare in camera la sua amata bicicletta, l’unico oggetto a cui fosse realmente interessato.

Mentre quell’accozzaglia di suoni distorti e parole scurrili si affievolivano il ragazzo si lasciò cadere sul letto sollevando un gran polverone; a quanto pareva non era molto utilizzata, quella stanza.

Sospirò, stanco come se avesse avuto settant’anni invece che diciotto, e si passò una mano tra i lunghi capelli scarmigliati: avrebbe volentieri chiuso gli occhi per dormire, aveva una gran voglia di sognare, ma prima c’era qualcosa che doveva fare.

Allungò una mano ad afferrare il cellulare e sospirò: quindici nuovi messaggi e cinque chiamate senza risposta.

Tutto da un solo numero: Anne.

Per fortuna che aveva messo in silenzioso, non avrebbe potuto sopportare i commenti acidi e i ghignetti di Jay, a quanto pareva quel ragazzo proprio non lo poteva sopportare. Il che era un peccato, dato che a lui non stava affatto antipatico a pelle, anche se avrebbe fatto volentieri a meno di tutte le sue frecciatine.

Cancellò le chiamate senza risposta e si lesse i messaggi, che dicevano più o meno tutte cose come “ti amo da morire”, “mi manchi”, “chiama quando puoi”, “baci baci baci”.

Reprimendo il brivido di freddo che gli saliva lungo la schiena scrisse una sintetica risposta, sufficientemente romantica per i suoi standard.

“Qui tutto bene, mi sono sistemato e ho trovato un lavoro. Dovrei essere di ritorno in tempi brevi. Mi manchi un sacco, bacio. Pensami.”

In realtà nella sua testa la risposta suonava più o meno come “ti prego, dammi un attimo per riprendere fiato e non assillarmi come se fossi un call-center”, ma sentiva che troncare un rapporto in quella maniera non era esattamente il massimo della cavalleria.

Ad essere sincero anche lui sentiva la sua mancanza, non solo di Anne, ma di tutta la sua famiglia, della sua casa in campagna, dei fratelli, i genitori, gli zii, i vicini, tutti. Erano una bella comunità, molto legata, e Toad l’aveva sempre ritenuta come un’enorme famiglia allargata. E in effetti quando aveva iniziato ad uscire con Anne si sentiva un po’ come se stesse uscendo con sua sorella, una situazione alquanto inquietante.

Spense il cellulare e si sdraiò su un fianco, cercando di prendere sonno nonostante la musica che era tornata a rumoreggiare come prima. Se si trovava lì in quel momento, pensò seriamente, era proprio per il suo legame affettivo con quella specie di famiglia allargata.

Era andato tutto bene fino a che la signora Barnaby, la zia di Anne, non si era ammalata; aveva dovuto affrontare un ciclo di cure molto costoso e tutti avevano versato un contributo perché potesse seguirlo fino in fondo.

Ora stava meglio, ma il problema non era finito lì e gli abitanti di quel paesino non erano in grado, con tutta la loro buona volontà, di pagarle un altro ciclo. E in tutto quel casino era spuntato fuori lui, Toad,

Non era solo a dire il vero, altri ragazzi giovani come lui erano partiti per cercare di rimediare un po’ di soldi, ognuno in una differente direzione.

E Toad era finito nel luogo probabilmente più pericoloso di tutti, il covo delle vipere; ma a lui poco importava, tutto diventava ininfluente di fronte al problema della signora Barnaby. Lui aveva un compito e l’avrebbe portato a termine, a costo di svaligiare una banca o sparare a qualcuno (anche se in cuor suo aveva già deciso che, se fosse stato costretto a farlo, avrebbe mirato alle gambe).

Nel profondo del suo cuore poi, ma non l’avrebbe mai confessato a nessuno, aveva sempre sognato di fare qualcosa come nei film, una sparatoria, una fuga mirabolante, un geniale piano di rapina.

Certo, forse un colpo messo a segno da tre ragazzi con un coltellino svizzero e una bicicletta scassata non era molto da film, ma quelli erano dettagli.

A Toad bastava concludere quella questione e tornarsene a casa con i soldi. E riabbracciare Anne.

Fine del problema.

 

   
 
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