3.
Those things I’ll never say
Il
mozzicone di
sigaretta restò tra le sue labbra anche se era ormai
completamente consumato;
era una piccola abitudine che si portava dietro da anni ormai, da
quando si
accendeva le cicche in camera da letto con l’accendino rubato
a sua sorella, la
musica a tutto volume nelle orecchie, hip-hop puro, rap a manetta,
rumore,
tanto rumore che copriva suoni sgraditi e rendeva possibile il suo
mondo.
In
quella stanza
poteva accadere di tutto senza che nessuno sapesse niente, quello era
il gioco.
Lì poteva gustarsi il suo dannato pacchetto, poteva
toccarsi, poteva sniffare
un po’ di roba, stendersi sul letto e fissare il soffitto.
Lì
le urla dei suoi
genitori non arrivavano e neanche il rumore di piatti e tazzine
infranti. Al
massimo qualche colpo alla porta di tanto in tanto, come a controllare
se lui
fosse ancora vivo, ma nulla di più.
Anche
in quel
momento, a distanza di anni dalla sua prima sigaretta, Deuce provava la
stessa
sensazione di smarrimento: il futuro davanti a lui era un buco nero,
profondo,
sconosciuto. Se avesse potuto, se ne fosse stato in grado, sarebbe
scappato
così, su due piedi, senza voltarsi indietro.
Fanculo
Harvey,
fanculo il Colonnello, fanculo quei cazzo di soldi.
Erano
anni che
sperava di svegliarsi un giorno e scoprire che tutto quello che aveva
vissuto
era solo un brutto sogno e in quell’istante ringraziava di
aver trovato dei
buoni colleghi come Jay e Toad, gente che non faceva domande pur avendo
tutto
il diritto di farle.
Eppure
c’erano tanti
di quegli indizi nel lavoro che aveva proposto a quei due, tante zone
oscure
che avrebbero dovuto essere spiegate. Ma lui non voleva farlo: come
poteva
raccontare tutto a quei due? Dei suoi genitori che lavoravano per
Harvey. Di
come si erano ammazzati a vicenda lasciando lui e la sorella in un mare
di guai
e di debiti. Di come la ragazza era fuggita all’estero per
non restare
prigioniera in quella città e di come lui, Deuce, aveva
dovuto pagare tutto da
solo, con ogni mezzo a disposizione.
Primo
fra tutti il
suo corpo.
Era
stato la puttana
di Harvey per troppo tempo e ora che stava per sganciarsi da
quell’uomo voleva
solo dimenticare il suo passato e non parlarne coi suoi compagni.
Si
accese un’altra
sigaretta.
Quel
piano era una
follia, la rapina più incredibile mai fatta. Certo,
perché no, andiamo a
svaligiare una banca della mafia a bordo di una bicicletta scassata e
una sola
pistola! Ah, no, giusto, avevano anche quell’utilissimo
coltellino svizzero,
nessuno avrebbe osato opporsi ad una così temibile banda!
Scosse
la testa: che
diamine stava facendo? Ci teneva così tanto a morire giovane?
Lui
e quegli altri erano
solo tre pazzi suicidi che non si rendevano conto di in che guaio si
stavano
cacciando.
Avrebbe
voluto bere
qualcosa in quel momento, ma l’ultima bottiglia di Baileys
era finita settimane
prima e l’unica lattina di birra rimasta in casa giaceva
vuota sul pavimento
della cucina.
Fumò
in silenzio la
sua cicca, beandosi di quello stato di vuoto mentale: il giorno
seguente
avrebbero dovuto fare sopralluoghi, procurarsi qualche arma
più seria, limare
il piano, ma in quel preciso istante era tanto fortunato da potersi
dimenticare
di tutto.
Che
la birra fosse
finita, insieme a tutti gli altri alcolici in quella casa, se
n’era accorto
anche Jay, che continuava ostinatamente a vagare dalla cucina al
salotto con la
speranza di scorgere in qualche angolo nascosto di quelle due stanze
una
bottiglia dimenticata.
Mentre
proseguiva la
sua ricerca borbottava imprecazioni contro l’idiota che si
era scolato tutte le
riserve, ignorando bellamente il fatto che era stato lui stesso a
svuotare
lattine e bottiglie una dopo l’altra e in maniera
così plateale e assetata da
meritarsi un’occhiataccia dal padrone di casa.
Ridacchiò
a quel
ricordo: oh, lo sapeva cosa aveva pensato Deuce in quel momento.
“Ubriacone
del cazzo,
alcolista di merda.”
Bé,
non aveva tutti i
torti, ma non si sentiva poi così incolpa per il suo vizio.
Non era
l’attaccamento morboso all’alcol tipico di quei
vecchi depressi che non avevano
nulla di meglio da fare nella vita che ubriacarsi e tornare a casa per
picchiare moglie e figli.
Lui
non aveva
picchiato nessuno dei suoi famigliari, anche perché non ne
aveva mai avuto
l’occasione. Era stato lasciato a casa del suo vecchio zio
zitello all’età di
cinque anni e non aveva più saputo nulla né dei
suoi genitori né di nessun
altro parente.
Non
aveva avuto
un’infanzia molto felice, se ci ripensava: pochi amici, tutti
rimasti con lui
per molto poco, e suo zio assolutamente non adatto a crescere un
bambino. La
maggior parte del tempo l’aveva passata da solo a leggere,
fare parole crociate
e sognare: non esattamente il massimo di compagnia per un ragazzino
vivace come
sarebbe stato lui di natura.
Poi
era arrivato
l’alcol. Jay non era mai stato troppo bravo a relazionarsi
con le persone, ma
era così facile fare amicizia con quella bottiglia piena di
affetto e felicità.
L’unica compagnia stabile, su cui poteva sempre contare e che
non l’aveva mai
tradito.
Gli
permetteva di
dimenticare la solitudine, i sogni irrealizzati, la vita che stava
scorrendo
come se non fosse sua, senza progetti, senza amici, senza affetti. Ma
la
bottiglia c’era sempre, meravigliosa e letale.
E
grazie a lei era
anche più facile socializzare con altri esseri umani.
Ricordava
quelle
lunghissime notti insonni passate a ballare con perfetti sconosciuti,
imbottito
di alcol e con la musica che rimbombava nelle orecchie stordendolo
tanto da
aver difficoltà a restare in piedi senza cercare appoggio.
Suo
zio disapprovava
tutto quello nella maniera più assoluta, ripetendogli che
non poteva dire di
divertirsi assieme ad altri coetanei se tutto quello che faceva era
strusciarsi
su di loro e non spiccicare neanche una parola, un po’ per lo
stato di
confusione mentale, un po’ per la musica troppo alta.
Ma
lui non poteva
capire cosa voleva dire passare ore e ore da solo, senza neanche una
persona
accanto, non per parlarci assieme, ma anche solo per guardarla, sapere
che
c’era qualcuno oltre a lui in questo mondo.
E
quelle notti
scatenate durante le quali faceva esattamente tutto quello che facevano
gli
altri, come un’unica entità, era una delle poche
cose che davano un senso alla
sua vita.
Poi
suo zio era morto
di vecchiaia, lasciandogli un piccolo gruzzoletto che era sparito in
poco tempo
e da quel momento in avanti la sua vita era stata un continuo
racimolare grana
per pagarsi la sua amata compagnia alcolica.
E
così, tra una
bottiglia e l’altra, era finito al bar di Fred, il posto
più accogliente che
avesse mai visto prima d’ora: c’era gente, musica
in sottofondo, alcol, tutto
quello che a Jay serviva per vivere bene.
Un
ottimo rifugio per
la solitudine, anche perché il barista dava
l’impressione di capire perché lui
beveva, perché passava là ogni singola ora
libera; oh, probabilmente non capiva
per bontà d’animo o particolare
sensibilità emotiva, Jay non credeva in quelle
stronzate, specie se si parlava di Fred.
No,
quell’uomo capiva
perché ne aveva visti altri, chissà quanti, di
tizi come lui, che per tirare
avanti avevano bisogno di quel bicchiere e di qualcuno con cui parlare.
Non per
noia, ma per poter sopravvivere.
L’unica
cosa
particolare del suo caso era che era arrivato a quel punto quasi senza
ritorno
ad appena ventitrè anni: bella vita di merda.
La
bottiglia della
salvezza non si vedeva da nessuna parte e il ragazzo lanciò
un ultima
maledizione prima di lasciarsi cadere sul divano, che era diventato da
qualche
giorno il suo nuovo letto improvvisato.
Non
aveva la più
pallida idea di cosa avrebbero fatto il giorno dopo, ma di certo valeva
la pena
di schiacciare un pisolino per essere in grado di fronteggiare ogni
evenienza.
Un’assordante
musica
rap filtrava da sotto la porta chiusa a chiave di quello che, almeno
una volta,
doveva essere stato lo studio; le pareti erano ancora ricoperte di
scaffali dai
grossi libri impolverati, ma tutto attorno c’erano scatoloni
pieni di
cianfrusaglie, sacche di vestiti, un ferro da stiro, un frigo da
campeggio e
altri oggetti vari. Più che uno studio quel posto sembrava
uno sgabuzzino dove
gettare la roba che non si sapeva dove mettere.
Per
fortuna o per
caso c’era anche un letto ad una piazza, forse lì
per gli ospiti oppure, più
probabilmente, per parenti e amici intimi che non avevano problemi a
dormire in
quel caos.
Toad
dal canto suo
non si era lamentato per il disordine, trovare un posto dove dormire
senza
dover sganciare una lira era più di quanto chiedesse. Aveva
anche ottenuto il
permesso di sistemare in camera la sua amata bicicletta,
l’unico oggetto a cui
fosse realmente interessato.
Mentre
quell’accozzaglia di suoni distorti e parole scurrili si
affievolivano il
ragazzo si lasciò cadere sul letto sollevando un gran
polverone; a quanto
pareva non era molto utilizzata, quella
stanza.
Sospirò,
stanco come
se avesse avuto settant’anni invece che diciotto, e si
passò una mano tra i
lunghi capelli scarmigliati: avrebbe volentieri chiuso gli occhi per
dormire,
aveva una gran voglia di sognare, ma prima c’era qualcosa che
doveva fare.
Allungò
una mano ad
afferrare il cellulare e sospirò: quindici nuovi messaggi e
cinque chiamate
senza risposta.
Tutto
da un solo
numero: Anne.
Per
fortuna che aveva
messo in silenzioso, non avrebbe potuto sopportare i commenti acidi e i
ghignetti di Jay, a quanto pareva quel ragazzo proprio non lo poteva
sopportare. Il che era un peccato, dato che a lui non stava affatto
antipatico
a pelle, anche se avrebbe fatto volentieri a meno di tutte le sue
frecciatine.
Cancellò
le chiamate
senza risposta e si lesse i messaggi, che dicevano più o
meno tutte cose come
“ti amo da morire”, “mi
manchi”, “chiama quando puoi”,
“baci baci baci”.
Reprimendo
il brivido
di freddo che gli saliva lungo la schiena scrisse una sintetica
risposta,
sufficientemente romantica per i suoi standard.
“Qui
tutto bene, mi
sono sistemato e ho trovato un lavoro. Dovrei essere di ritorno in
tempi brevi.
Mi manchi un sacco, bacio. Pensami.”
In
realtà nella sua
testa la risposta suonava più o meno come “ti
prego, dammi un attimo per
riprendere fiato e non assillarmi come se fossi un
call-center”, ma sentiva che
troncare un rapporto in quella maniera non era esattamente il massimo
della
cavalleria.
Ad
essere sincero
anche lui sentiva la sua mancanza, non solo di Anne, ma di tutta la sua
famiglia, della sua casa in campagna, dei fratelli, i genitori, gli
zii, i
vicini, tutti. Erano una bella comunità, molto legata, e
Toad l’aveva sempre
ritenuta come un’enorme famiglia allargata. E in effetti
quando aveva iniziato
ad uscire con Anne si sentiva un po’ come se stesse uscendo
con sua sorella,
una situazione alquanto inquietante.
Spense
il cellulare e si sdraiò su un fianco, cercando di prendere
sonno nonostante la
musica che era tornata a rumoreggiare come prima. Se si trovava
lì in quel
momento, pensò seriamente, era proprio per il suo legame
affettivo con quella
specie di famiglia allargata.
Era
andato tutto bene
fino a che la signora Barnaby, la zia di Anne, non si era ammalata;
aveva
dovuto affrontare un ciclo di cure molto costoso e tutti avevano
versato un
contributo perché potesse seguirlo fino in fondo.
Ora
stava meglio, ma
il problema non era finito lì e gli abitanti di quel paesino
non erano in
grado, con tutta la loro buona volontà, di pagarle un altro
ciclo. E in tutto
quel casino era spuntato fuori lui, Toad,
Non
era solo a dire
il vero, altri ragazzi giovani come lui erano partiti per cercare di
rimediare
un po’ di soldi, ognuno in una differente direzione.
E
Toad era finito nel
luogo probabilmente più pericoloso di tutti, il covo delle
vipere; ma a lui
poco importava, tutto diventava ininfluente di fronte al problema della
signora
Barnaby. Lui aveva un compito e l’avrebbe portato a termine,
a costo di
svaligiare una banca o sparare a qualcuno (anche se in cuor suo aveva
già
deciso che, se fosse stato costretto a farlo, avrebbe mirato alle
gambe).
Nel
profondo del suo
cuore poi, ma non l’avrebbe mai confessato a nessuno, aveva
sempre sognato di
fare qualcosa come nei film, una sparatoria, una fuga mirabolante, un
geniale
piano di rapina.
Certo,
forse un colpo
messo a segno da tre ragazzi con un coltellino svizzero e una
bicicletta
scassata non era molto da film, ma quelli erano dettagli.
A
Toad bastava
concludere quella questione e tornarsene a casa con i soldi. E riabbracciare Anne.
Fine