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Autore: Lacus Clyne    01/05/2012    2 recensioni
Sono trascorsi sei mesi dalla caccia di Tom Culpeper al branco di Mercy Falls. L'inverno è tornato, e alle porte del Natale, Isabel torna a casa, nel gelido Minnesota. Una voce di lupo totalmente inaspettata e le sue speranze si riaccendono. Sam, Grace, Cole sono tornati? O è solo un miraggio dettato dal desiderio di rivederli?
Genere: Fantasy, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Angolo dell'autrice: Cosa dire sulla meravigliosa trilogia di Shiver? <3 E' sicuramente una delle storie più belle e profonde che mi sia capitato di leggere in questi mesi, e ho voluto scrivere qualcosa su Isabel, il mio personaggio preferito. <3 I fan di Shiver la conosceranno bene, la bella, spregiudicata, difficile, cinica e fragile al tempo stesso Isabel Culpeper. <3 Ovviamente, nello stile della storia, ci saranno più voci narranti. Parto dal presupposto che il finale di Forever mi ha lasciata in sospeso come tantissimi lettori... soprattutto per la coppia Cole/Isabel. ç_ç E così, eccomi qui! Aspetto qualche parere! :D Buona lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

ISABEL


 

 

 

Se qualche anno fa mi avessero detto che il Minnesota sarebbe diventato la tomba di mio fratello, non ci avrei mai messo piede. Ma questo avrebbe significato non incontrare delle persone decisamente fuori dal comune, e nemmeno permettere al mio destino di intrecciarsi con quello di un gruppo di licantropi d’inverno e umani d’estate.

Avrei vissuto la mia vita nella soleggiata e intrigante California, a godermi l’abbronzatura e la patetica esistenza da ragazza-più-popolare della scuola, a vivere spensieratamente giorni che adesso mi apparivano vuoti, grigi e  senza senso, anche nel Golden State. “Qui tu sei un’aliena”, mi aveva detto qualche mese fa un arrogante ed esibizionista ragazzo dagli occhi verdi e dalle labbra di un dio, che aveva messo a nudo la mia anima, col suo tono saccente, divertito a ogni punzecchiatura, un ragazzo che detestavo, ma da cui mi ero sentita sin da subito pericolosamente, impossibilmente attratta. E confesso che guardavo spesso il cellulare che in questi mesi di esilio forzato non aveva mai suonato. Né una telefonata, niente di niente, muto silenzio.

“Vaffanculo, Cole.”, sentenziai, quando mi decisi a non darla vinta a quell’egocentrico bastardo. E quando finalmente i miei genitori, il sanguinario principe del foro, l’anti-lupo Tom Culpeper, il padre più stronzo del mondo, e mia madre, vino-pasticche-non-voglio-saperne-niente-di-mia-figlia, decretarono la fine della mia punizione (confino a tempo indeterminato a casa dei nonni dopo il diploma), decisi di tornare in Minnesota a visitare la tomba di Jack.

Erano trascorsi diversi mesi da quando mio padre aveva deciso di sterminare i lupi che popolavano Mercy Falls, e Natale era alle porte. E nonostante la contrarietà dei miei, ero riuscita a strappar loro il permesso di tornare, anche se solo per qualche giorno. Dio, pochi mesi lontana da quel gelido inverno e mi sembrava di viverlo per la prima volta. Imprecai diverse volte quando il troppo ghiaccio sembrava aver trasformato la strada in una pista di pattinaggio, e io, che portavo stivali col tacco, trovai piuttosto scomodo il dover percorrere la strada che portava al cimitero. Avevo gli stivali da neve nel portabagagli, ma avventurarsi a prenderli non mi sembrava affatto una buona idea, in quel momento, tanto più che era già pomeriggio e non avrei avuto tempo e luce a sufficienza per entrambe le cose. L’aria ghiacciata mi sferzava il viso, e avrei scommesso che avrei avuto un cerchio alla testa una volta tornata al caldo, così, tirai su il cappuccio bordato di pelliccia del piumino ed entrai nel cimitero, alla ricerca della tomba di Jack. Tutto intorno, quel reverenziale silenzio che fa da sfondo alla morte. Solo il suono dei miei passi, nient’altro.

“Jack…”, dissi, quando mi fermai davanti alla sua tomba. “Scusa il ritardo, sarei dovuta venire molto prima”, continuai, notando che a differenza delle altre tombe, quella recante l’iscrizione “Qui giace Jack Culpeper, figlio e fratello amato”, era più pulita delle altre, quasi fosse stata tenuta in ordine in nostra assenza. Sapevo per certo che l’ultima visita dei miei risaliva a circa tre settimane prima, troppo per giustificare quell’attenzione.

“Sembra che qualcuno ti voglia bene nonostante il bastardo che eri, eh?”, domandai, e una folata di vento mi rispose. Sembrava quasi una beffarda risposta. Grace… Sam… forse anche Cole, non potevano essere lì. Col gelo di quei giorni, avrebbero dovuto trovarsi in chissà quale bosco, ignari del loro essere umani, felici di essere lupi.

“Sai, Jack… ho preso una cotta per uno stronzo qualche tempo fa. Uno stronzo che avrebbe potuto salvarti, forse… uno che ritiene che la propria vita sia qualcosa di cui fare a meno, ma che avrebbe potuto impedirmi di toglierti la tua. Vorrei averlo conosciuto prima… forse saresti ancora vivo adesso.”

E poi all’improvviso, un’eco lontana, una voce lupesca si sollevò nel silenzio, sommessa e poi più forte, nel cuore del bosco di Mercy Falls, e mi riportò alla realtà.

“Che siano loro?” Mi domandai, mentre il mio cuore silenzioso prese a palpitare al risveglio dell’emozione. Dovevo andare, dovevo sapere. Rivolsi un’ultima occhiata alla tomba di mio fratello. In fondo, ero tornata per visitarla. “A presto, Jack.” Dissi, per poi andar via.


Arrivai alla baracca di Beck che il sole era ormai tramontato. L’incombere della sera rendeva quel rifugio nel cuore del bosco una sorta di oasi spettrale, completamente isolata nel bianco inverno. Mi sentivo proprio una Biancaneve d’oggigiorno, scappata dal giogo di una famiglia odiata e opprimente. Quando varcai la soglia, mi sembrò di essere tornata indietro nel tempo. C’era odore di lupo, un odore che conoscevo bene, ma nessuna traccia dei miei amici.

Eppure, tutto era rimasto esattamente come prima che partissi, a cominciare dal casino di videocassette buttate per terra, file di bicchieri disposti in ordine crescente sul tavolo, fogli e tovaglioli scritti ovunque. Attraversai le stanze colorate della casa, carezzando con la mano i divani su cui spesso eravamo buttati durante i mesi passati. Raggiunsi la cucina, che Cole aveva trasformato più di una volta nel suo laboratorio. Il pensiero di quando avevamo ballato per festeggiare il buon esito dei suoi esperimenti mi strappò un sorriso, e quando i miei occhi si posarono sul taccuino disordinato, il mio cuore sussultò. Lo ammetto, fui tentata di vedere a quando risalissero le ultime prove, ma per orgoglio non lo feci. Che facesse come voleva, non gli avrei dato più la soddisfazione di interessarmi a ciò che faceva. Invece, mi misi a frugare nel frigo. Non che avessi troppa fame, nonostante mia madre si fosse raccomandata di mangiare. Ormai era dalla morte di Jack che avevo problemi alimentari, e certo, la mia stupenda famiglia trovava più facile impormi la sua volontà piuttosto che capire che dietro ai miei comportamenti c’era un disagio. Avevamo provato persino con la terapia. Che Dio me ne avesse scansata, ore e ore di chiacchiere al vento davanti al dottor Nasodicarota  quando la mia famiglia doveva essere esorcizzata e preferibilmente chiusa in un manicomio per il resto della sua vita, in modo da non potermi più nuocere. Inutile, il pensiero dei miei mi aveva tolto l’appetito. Chiusi lo sportello e optai direttamente per le stanze da letto. Quella di Sam si riconosceva subito. Era piena di origami e la sua chitarra troneggiava in un angolo vicino alla finestra. Entrai. Il mondo di Sam Roth era in quella stanza, così come il suo amore per Grace. I libri di poesia tedesca, gli appunti delle canzoni, una foto, dolce e complice, con la sua ragazza d’estate. Grace e Sam, per quanto questo mi facesse male, erano nati per stare insieme. Io non avrei mai potuto essere niente più di un’amica e questo rendeva la mia vita ancor più insignificante. Lasciai la camera per quella che era stata di Beck. Un grande letto, stile sobrio, molto legno e molto blu, custodie di cd buttate dappertutto, il modellino della Mustang sul comodino e, cosa che mi lasciò perlessa, una catenina d’argento con un ciondolo a forma di croce. Chiusi la porta alle mie spalle e tolsi il piumino. Si stava bene, nonostante la puzza di cane bagnato. Tolsi gli stivali, ringraziando il cielo del sollievo che provai in quel momento e mi sedetti sul materasso morbido. Quando mi sdraiai, puntai lo sguardo verso la finestra. Era buio pesto, e dopo il volo la notte prima, avevo passato ore e ore a guidare a noleggio per venire qui, in mezzo al nulla, nella solitudine più assoluta, nel gelo imperversante di una notte d’inverno. Per giunta, dei miei amici non c'era neanche l'ombra.

“Fanculo.” Borbottai, e fu l’ultima parola, prima che il sonno mi reclamasse.

 

 

 

 

 

 

 

  
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