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Autore: AthinaNike    09/05/2012    1 recensioni
La caratteristica di questo "componimento" (non saprei proprio come definirlo) è che l'ho scritto tempo fa di getto, senza averlo corretto per scelta.
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Respiro veloce, intenso, senza fermarsi. L’aria si condensa piano, e i muscoli si contraggono. Freddo, caldo. Notte, giorno. In quella stanza, su questo letto piombo freddo come una tomba non c’è niente, né un sentimento, né la voglia di far qualcosa. Il male di vivere, neanche quello. Solo carne, solo sudore e pelle bagnata.
Cerco di muovere le mani. Legate. Merda. Le gambe ferme come bastoni riescono solo a sentire le mani di alcuni camici bianchi che le sfiorano, che le bucano.
E no, la vita non può essere questa, non sarà questa la vita da ricordare una volta morta. Gli occhi girano veloci come lo zefiro fuori da quei muri di acciaio crudeli e insanguinati.
<< Non dimenarti stupida! >> arriva l’urlo e lo schiaffo da destra. La luce sparata negli occhi crea quei volti orribili, neri come la pece, neri come i suoi ricordi del passato. Per un attimo c’è solo quello, sofferenza. Per un attimo solo ferite, paura e freddo.
La siringa si svuota in fretta e la pupilla altrettanto rapidamente si allarga. Nelle vene corre il sangue come avesse fretta. Il cuore parrebbe stanco a vederlo da lontano. Eppure un corpo così bello... dannazione, giusto a lei? Ma tanto, che differenza farebbe lei o qualcun’altra. Che significato ha la vita? E’ solo un’esaltazione della sofferenza e del timore. Nient’altro. E si sente quasi in dovere di dire grazie a quella siringa, che con azione quasi spontanea e pronta arreca sollievo. Le palepebre si chiudono nonostante la mente sia nel pieno delle proprie attività.

Il risveglio fu doloroso quella volta. La stanza piccola, gelida e spietata stava lì, a trattenerla in quello strazio. Chissà cos’era quella sensazione che provava quando a mettere la mano sul cuore lo sentiva battere, chissà perchè batteva. E non sapeva nemmeno cosa fossero quelle cose strane, tonde e morbide sul petto. O almeno, forse lo ricordava; evidentemente una volta, in quel nero, c’era un nome anche per quelle strane cose. Però di una cosa del suo corpo se ne ricordava. Le sue ali. Come mai ancora non gliele avessero tagliate era un mistero. Ogni volta che le toccava, che le sentiva muoversi ricordava qualcosa, una sensazione, un profumo, un sapore. Ma il nero riavvolgeva tutto immediatamente.
Qualcosa entrò dalla porta. Accecata da poco prima non riconobbe la figura e un istinto vecchio e insensato la portò a spalancare le ali facendola mugugnare di dolore. Ormai persino muoversi era un dispendio enorme di energia. La figura entrò, le si avvicinò nervosamente e si abbassò al suo livello.
<< Non sopravviverai alla prossima seduta... >> disse.
O almeno, disse è una parola grossa. La figura distesa sul lettino non capì assolutamente niente.
<< Mi senti? >> chiese insistente. e la fece mettere seduta mentre le somministrava un farmaco.
La guardò, ma negli occhi non c’era niente, forse solo la voglia di morire lì in quel luogo, senza ricordo alcuno di quella vita che forse ebbe un tempo; voglia di portarsi dietro solo un lontano sentore di quel dolore che cesserebbe in quell’istante, di arrivare al buio e pace eterna.
Perché non credeva in Dio. Non credeva nella felicità, nella vita, nell’amore.
Scosse piano la testa e sbatte gli occhi, con le ali attraversate da un fremito.
Non la forza di parlare, non la forza di pensare. Ma quel cuore batteva.
Per una volta, un secondo, un istante, si sentì viva. Aprì le palpebre e la luce restrinse veloce le pupille. Contrasse i muscoli, e il dolore lancinante quasi la persuase di tornare a letto. Ma no. Sentì un fuoco labile: era questa la sua anima? Era ciò che faceva ancora battere il cuore? Faceva muovere le sue ali?
Riconobbe la figura. Dai contorni neri iniziò a trovare i dettagli, il volto, la luce che morbida cadeva sulle linee del volto. Capelli neri e pelle bianca. E quei begli occhi neri... forse era quella una classica definizione di bello? Aveva la linea del volto netta ma armoniosa, un bel collo lungo e snello, dove si intravedeva l’esofago sporgere. Mosse le labbra. Si ricordò di un lontano istante, di una vita forse passata o ancora a venire. Sorriso. Si chiamava così. Non sembrava triste, non sembrava come le espressioni che avevano tutti quando la drogavano, quando la bucavano o la schiaffeggiavano. La figura provò a muovere una mano al suo volto. Un fremito d’ali e per magia attinse ad una riserva di energia che non pensava neanche di avere e le fermò il braccio. Di botto sentì la sua testa. Ragionava. Pensava. L’occhio era tornato a guizzare per tutta la stanza. La figura dagli occhi neri davanti a lei la guardava sorridendo.
<< Bentornata tra i vivi, Uriele >> disse ridendo.

Voleva parlare. No! Voleva urlare! I ricordi affioravano veloci e rapidi. E l’odio, la rabbia sembravano i soli sentimenti appropriati in quel momento.
Quanto tempo era passato dal risveglio? Un giorno? una notte? un mese, oppure un anno? Sarebbero tornati ancora a iniettarle quel veleno. Ma no, sarebbe scappata.
Uriele. Bell’affare! Luce di un Dio che per lei non esisteva se non nelle bestemmie.
Aveva preso a camminare. E camminava, apriva le ali. Cercava di sollevarsi da terra.
In quella stanza bianca tutto diventava così esageratamente insopportabile.
La frenesia di scappare l’assillava. Voleva spaccare tutto.

Entrò un giorno la figura dai capelli neri e lunghi.
Uriele volò nella sua direzione e la sbatté contro il muro. Gemette. La chiamò per nome.
Voleva fargliela pagare! Avrebbe scontato la pena lei per tutti. Ma quando sentì il battito sotto la mano, quello stesso battito lieve che sentiva nel suo cuore, che la sua anima manovrava e lasciava scandire i secondi della sua speranza, non sentì più rabbia. Le pupille si dilatarono, i muscoli si distesero e la mano si staccò dal collo della donna in camice bianco. Poteva sentire i suoi pensieri. Percepiva le forze che risalivano alla testa e scendevano ancora.
Per un attimo ebbe l’impressione di vedere Dio in quella donna, di sentire Dio in sé stessa.
Riusciva a sentire un sentimento: un calore espandersi, le labbra gonfiarsi, il sangue scorrere veloce e lento insieme. Godeva ogni istante quella sensazione di benessere: di pienezza.
In quest’estasi la luce graffiante diveniva solare e riprese a ricordare la brezza primaverile; il sole d’estate che scalda con torrida afa, la nebbia autunnale che brina le foglie al primo mattino e la neve fredda e candida dell’inverno sulla pelle. E quella luce innaturale, di un argenteo chiaro... forse era quella la Luce Divina: forse lei stessa era quella luce. Forse anche la donna davanti a lei era quella luce. Dio è in lei, Dio è in me. E non poté far altro che dire << Io ti amo >> e svenire a terra.

Rumore. Un gran rumore da fuori le fece vibrare le ali. Entrarono nella stanza. Buttarono la donna dai capelli neri e lunghi dentro. Non aveva il camice bianco, ma solo la tutina grigia. Uriele la guardò a terra piangente. Si inginocchiò e le prese la testa fra le mani. Con un bacio le sigillò le incertezze, la paura e il dolore. La luce in lei doveva uscire, la Luce nell’altra si stava spegnendo. Doveva uscire da quel bianco che non dava lo spazio per respirare, per pensare.
Singhiozzando la donna disse << Scusami, non ho saputo portarti via dall’inferno >>.
Uriele sorrise << Andiamo via. >> e con la calma di una santa si alzò e prese in braccio la ragazza. Non sapeva esattamente cosa fare, ma delle solite nenie di quel giorno era stufa.
Con il sorriso fra le labbra ricordò. E ogni ricordo frammentario faceva a pezzi quella porta bianca.
Il profumo di una donna. Un boato e si apriva una crepa. La barba sulla pelle di un padre. Un altro boato. Il respiro dell’amante. Un altro ancora. E camminava lentamente mentre lasciava distruggere quel mondo aritificiale di dolore e sofferenza.
Più le urlavano contro, più la infilzavano con spade e lame, più la luce cresceva.
E credette di avere Dio dentro di lei, tanto che la morte era solo un fattore relativo.
Uriele. Finalmente riconosceva quel Dio. Quel Dio o Dea, senza sesso, che rappresenta solo amore; e di amore lei usufruiva. Perché l’amore non nasce dal dolore, ma da quel battito leggero che sentiva sotto la sua pelle, da quel fuoco che si prova quando si bacia qualcuno, quando si sorride. E quel battito è vitale, e per quanto sia debole e sommesso può creare un potere immenso. Lungo il battito, lunga la fiamma che dorata ricopriva Uriele.
Uriele che come tutti, credeva di essere creazione di qualcuno e ora sa di essere lei stessa parte del creatore.
Lei è amore.
Nata nell’amore e morta nell’amore.
  
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