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Autore: OperationFailed    14/05/2012    3 recensioni
[Esperimento stilistico] [post-Reichenbach]
Sono tornato, aveva detto Sherlock nella sua sciarpa di sempre, così di sempre che sembrava ingiusto fosse rimasta così uguale dopo tutto quello che era successo. [...]Stai bene, aveva chiesto Sherlock, con la solita pelle di sempre, con quel neo minuscolo nel posto di sempre, una mancanza di rispetto per tutti quei giorni che si erano deteriorati sempre di più nella vita di John.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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JAR OF HEARTS

 

 

E' immobile come un meccano cui sia finita la carica. Sono tornato, aveva detto Sherlock nella sua sciarpa di sempre, così di sempre che sembrava ingiusto fosse rimasta così uguale dopo tutto quello che era successo. Ma lui era rimasto immobile e con i brividi nel sangue, perché si era dimenticato di nuovo di mangiare e si ricorda solo ora che il corpo umano non è indipendente dal mondo esterno, anzi tutt’altro, ha bisogno d’aria, di cibo, di sole, di affetto. A John è rimasta solo la prima (e spesso gli sembrava pure che mancasse) dacché persino il sole ha migrato, scegliendo mete ben diverse da questa Londra inquinata di gente e di grigio che non sa che sbuffare volute di fumo e contrarsi in palazzi sempre più alti e case sempre più vuote. Stai bene, aveva chiesto Sherlock, con la solita pelle di sempre, con quel neo minuscolo nel posto di sempre, una mancanza di rispetto per tutti quei giorni che si erano deteriorati sempre di più nella vita di John. Lui sempre più simile ad una foglia accartocciata, il neo e la pelle tutta gli stessi di prima. John contrae appena le labbra, perché Sherlock è sempre stato un egocentrico bastardo irrispettoso e maleducato e nemmeno quello è cambiato. Se il nostro caro consulting detective avesse dato più importanza a qui sentimenti che rifuggiva come la peste, come il ferro che teme di arrugginire sotto le lacrime d’acqua, come l’ingranaggio che controlla furtivo la sciagurata presenza di un sassolino, avrebbe capito che aveva fatto una cazzata. Che sarebbe stato meglio non tornare proprio mai mai, andare a fare il monaco in Tibet e dedurre dalla pelata da dove provenisse questo o quell’eremita. Invece adesso guarda John ed è come avere tra le mani un cubo di Rubik incollato, con le facce che non si riescono a muovere*.

Le labbra di John ribollono in un tentativo difficilmente arginabile di aprirsi e scagliare una frana di insulti pesanti come macigni su quella faccia levigata che gli sta davanti, Sei l’uomo peggiore che conosco, vorrebbe dirgli, Non ho intenzione di posare i miei occhi su di te una singola sola altra volta, gli nasce tra i denti, ma in qualche modo riesce a ingoiare quella frase a cubetti. Sei morto, dice invece, No John, sono proprio qui davanti a te, vivo e vegeto, Tu sei morto, Toccami John, sono qui, dice Sherlock facendo un passo in avanti e togliendo le mani dalle tasche, Tu sei morto e faresti meglio a continuare ad esserlo, gli risponde il dottore facendo un passo indietro e stringendo un pugno, Andiamo John, non, Non cosa, Non negare l’evidenza, L’evidenza esiste solo per chi la considera tale, Cosa significa ora tutto questo filosofeggiare, John, Significa che sei morto e non c’è nulla che possa convincermi del contrario, Stai bene John, Sto bene chiedi, sto bene, Sì, stai bene John, mi sembri un po’ stanco, forse gli incubi sono tornati, Sono tornati, ti stai chiedendo, Sì John, Non sai niente di me, Stamattina hai sbattuto un ginocchio nello spigolo del comò e sei andato in cucina per cercare del ghiaccio ma ti sei arrestato sulla soglia perché qualcosa ti ha distratto e alla fine non, Non voglio dire questo, Questo cosa, Questo. John gonfia il petto e lascia appena il tempo a Sherlock di inclinare di qualche millimetro, volendo potremmo fare una stima della misura, ma non è il caso poiché John sta per parlare, dicevamo, Sherlock inclina appena il capo e non capisce, non capisce o altrimenti si metterebbe al riparo.

Sherlock continua a non capire mentre John lo oltrepassa e va in camera. Forse considera chiusa la conversazione, eppure Sherlock era convinto che stessero arrivando al punto di svolta, certo ha vagliato almeno trentotto alternative, ma queste ora si sono ridotte a due, poi a nessuna, perché John è un cubo di Rubik che non ruota e ha tutti i tasselli nel posto sbagliato, i colori sono in piena rivoluzione, i cubi rimangono contratti in quell’odiosa resistenza ribelle alla logica, sbandierano in faccia a Sherlock la loro fiera scompostezza, e dalla camera di John provengono dei rumori strani, come suoni di protesta di un mobile maltrattato. Tendendo un orecchio, Sherlock indovina che sia un fondo d’armadio, ma c’è una vibrazione leggera che lo confonde, Non puoi tornare qui con il tuo barattolo di cuori e pretendere che mi riprenda il mio così, come se niente fosse, gli dice cacciandoli tra le braccia il violino, Cosa significa, John, Lo sai bene cosa significa, razza di idiota, e ora vattene e vedi di rimanere morto per il resto della mia vita, Non posso, Devi. Sherlock pensa che il suo obbiettivo si rivela più difficile da raggiungere di quanto abbia previsto, e che il dottore non ha ancora smesso di infilare metafore letterarie nelle frasi della sua vita. Era interessante analizzare come avesse definito Barattolo di cuori tutta quella matassa di persone che si erano intrecciate nella sua vita e che in qualche modo aveva portato con sé in quei mesi di provvisorio decesso. Oltretutto si adattava piuttosto bene agli esperimenti che soleva condurre sotto lo sguardo interessato del dottore, impacchettato in un’occhiata fuggevole di riprovazione, perché per la sua morale integerrima e pura non era cosa giusta svolgere sperimentazioni su pezzi di carne recuperati dall’obitorio, nonostante Sherlock gli avesse sempre ripetuto che si trattava di ottima carne, cadaveri di prima qualità che nessuno era andato a reclamare. Sprecarli sarebbe stato un vero peccato. Sei ancora qui, Ottima deduzione, Troppo vivo, Persino più vivo di te, Non ho intenzione di continuare questo teatrino, Come pensi di metterci fine, dunque, Sei un pezzo di merda e non sarai capace di rovinarmi la vita mai più.

John oltrepassa nuovamente Sherlock e va in cucina, cerca le chiavi che devono essere da qualche parte lì intorno, non le trova, torna in salotto e tasta con rabbia i cuscini che apparentemente gli hanno fatto un grave torto, per meritarsi un tale brusco trattamento. Il lettore, certamente attento e forse un poco perplesso da tutta questa storia su due uomini che una volta si amavano e adesso sembrano arcinemici cosmici alimentati nei gesti da un istinto primordiale di acidità, non tarderà a comprendere che Sherlock troverà le chiavi molto prima di John. Sono nella serratura, Cosa, Come cosa, le chiavi, no, Certo che sono nella serratura, dove dovrebbero stare secondo te, Non lo so John, di solito le tenevi sempre con te, in quella tasca sul petto, Solito è morto buttandosi giù da un tetto, Non fare il melodrammatico, E tu non essere vivo, se non ti dispiace, Mi dispiace John, Sai una cosa, Sherlock, Cosa John, e il dottore qui va alla porta e si stringe le chiavi in mano, forse spera che gli entrino nella carne e chiudano a doppia mandata la ferita che gli si sta riaprendo dentro, quello sgabuzzino pieno di scheletri che ha chiuso con così tanta fatica, cercando la bellezza nelle cose stupide e piccole a cui tutte le persone macellate dal dolore cercano di aggrapparsi per sentirsi meno ragù di carne e più persona in vita. Il tuo supercervello superegoista non ti serve a molto, ora, sbaglio, Non sbagli John, ma a mia discolpa posso dire che sei diverso dal solito, strano, Strano, Sì, strano, Ti sei chiesto perché, Non ci vuole molto a capire che sei ferito. Il dottore scoppia a ridere, ma Sherlock vorrebbe farlo tacere, soffocargli quel suono raschiante e ricacciarlo più giù delle corde vocali, perché quella risata non è di John e quegli occhi opachi non diventano luminosi e rimangono solo i denti e le ciglia grottesche che ombreggiano la curva delle guance.  

Allora lascia che ti aiuti, Sherlock, Lo hai fatto spesso John, forse non te l’ho detto abbastanza, Deduzione brillantissima, Il tuo tono è ironico, Il mio tono è. John butta il viso in mezzo alle pieghe della sua mano e forse spera che quel pezzo di tendini e ossa basti a farlo soffocare lì, più morto di tutti i morti che ha visto, morto non come un cappotto liquefatto su un marciapiede che poi si rialza e torna a bussare alle vecchie porte, morto come un morto sepolto sotto tre metri di terra. Chi credi di essere, a camminare avanti e indietro sulla vita delle persone, Ho fatto un errore, Ne avessi fatto uno, Ho fatto qualche errore, Ne ho fatti più io, come ascoltare quello Stamford e assistere alla tua degenerazione, Non ti sembrava degenerazione prima che me ne andassi, Prima che morissi, Sì, Ammetti di essere morto allora, Tu sei matto, E tu sei morto, conclude John aprendo la porta e chiudendosela subito dopo alle spalle. Ha paura di scoprire che il morto era lui, e che la vita gli è appena stata restituita, stropicciata come i vestiti che l’amante ti ficca in mano quando scopre che sta rientrando il partner legittimo, se così vogliamo chiamarlo, insomma, stropicciata come una lettera che sembrava tanto ben scritta e che alla seconda rilettura non ha niente del significato primario che aveva in mente il suo autore, e fidatevi se asserisco che ben conosco quella sensazione, davvero spiacevole. Umiliante, e John concorderà certamente con me, immobile dietro a quella porta che nasconde alla sua vista un morto troppo vivo che non vuole vedere mai più, e che odia, con quel suo barattolo di cuori vecchi e ancora sanguinanti sotto braccio, inservibili persino per il più mediocre degli esperimenti. Chi crede di essere, pensa John, per venire qui e seminare cuori e cicatrici calpestando l’esistenza altrui, razza di prepotente egoista e maleducato, lo odio.

Il lettore perspicace che abbiamo nominato in precedenza avrà certamente intuito che non era questione di odio, di essere troppo vivo per un morto o di prepotenza, in fondo il dottore ha una fabbrica di pazienza interna ed inesauribile, ammirevole in talune situazioni e problematica in tal altre, il rischio è di passare sempre per il fesso di turno, ma il buon Watson riesce sempre a scongiurare questo pericolo. Il motivo è che John odia se stesso, perché lo sa che tanto quella porta chiusa diventerà una voragine spalancata nella quale si lancerà, proiettato verso l’egocentrico bastardo egoista e presuntuoso, per di più maleducato, che si è accorto di essere troppo vivo per morire, e gli penetrerà negli occhi glaciali e in quelle labbra così a cuore che potrebbe strappargliele per mettere una pezza al suo petto.

John vorrebbe staccare a morsi la sua traditrice mano destra, che è tornata sulla porta e gira ora la maniglia, fregandosene al massimo degli insulti mentali che certamente sente provenire da un cervello a lei prossimo. Sta aprendo un vaso di Pandora scambiandolo per una scatola di cioccolatini, e la cosa che più gli riempie la bocca di odio ferruginoso per se stesso e per i morti appena appena troppo vivi è che, per quanto si renda conto del cataclisma a lui terribilmente prossimo, non sarà capace di fermarsi.

John spalanca la porta. In quel barattolo di cuori cercherà il suo e lo farà ingoiare al dannato Sherlock Holmes.
Voglio proprio vedere se sei talmente infame da vomitarlo e andare a morire troppo poco per una seconda maledetta volta.











*Partecipa allo Sherlothon con il prompt n3
   
 
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