Disclaimers : Il marchio Jag e tutti i suoi personaggi appartengono alla Bellisarius Production. In questo racconto sono stati usati senza alcuno scopo di lucro.
S. Natale 2006
Travolti dal consumismo, dalla fretta e dal lavoro, diventa sempre più difficile sentire lo Spirito del Natale. Anche per me, nonostante io adori tutto quanto riporti all’atmosfera natalizia.
Pur trascorrendo il giorno di Natale più o meno allo stesso modo, con i familiari, in un pranzo che spesso si trascina fino a pomeriggio inoltrato, mi sono resa conto di sentirlo ogni anno in maniera diversa. E, contemporaneamente, nelle settimane precedenti, attenderlo anche in maniera diversa.
Ci fu l’anno in cui restaurai il vecchio presepe di quando mio padre era ragazzo: ogni sera pulivo, aggiustavo e ridipingevo una statuina… finché il presepe non fu pronto. Poi ci fu l’anno in cui dipinsi per ore ed ore, di sera o nel week-end, un lenzuolo natalizio per mio figlio.
Ora, da qualche anno a questa parte, l’attesa del Natale, tra le altre cose, la riempio scrivendo un racconto natalizio.
Spesso accompagnata da un sottofondo musicale in tema, lentamente mi calo nell’atmosfera, e mentre scrivo, dipingo o preparo un presepe, un insieme di ricordi, di idee, di emozioni si affaccia alla mente e ogni anno, da queste piccole cose, ecco che poco alla volta, ritorna anche lo Spirito del Natale.
Perché, in effetti, l’unico posto dove cercarlo e trovarlo è dentro se stessi.
Ma cos’è lo Spirito del Natale?
E’ una domanda che mi sono posta più volte, soprattutto in questo periodo, e sulla quale ho riflettuto parecchio. Tralasciando per un attimo le solite frasi fatte, o quello che significa sul piano religioso, ho provato a pensare cosa significhi davvero per me. O, meglio ancora, come ogni anno lo ritrovo.
Mi succede sempre quando penso o faccio qualcosa non per me stessa, ma per qualcun altro, benché quel qualcosa che faccio possa procurare piacere anche a me.
E allora ho capito che, forse, il vero Spirito del Natale è smettere per un attimo di pensare a noi stessi e dedicare i propri pensieri agli altri.
Non importa come: se portando in vita un ricordo, se regalandone uno, se donando dieci minuti di spensieratezza a chi, magari, troppo preso da altre cose, ne ha davvero bisogno, oppure se pensando ad un regalo speciale per qualcuno… l’importante è dedicare una piccola parte del nostro tempo per gli altri, siano essi familiari, amici o anche, eventualmente, degli sconosciuti.
Ritrovando lo Spirito del Natale, ogni anno mi accorgo anche che ho sempre qualcosa per cui “ringraziare”.
Quest’anno, in particolare, per mio padre, che è ancora con me a festeggiare quando, solo sei mesi fa, ho temuto che non ci sarebbe più stato.
Per questo motivo, questo racconto lo voglio dedicare a lui.
Buon Natale a tutti
Alexandra
CHRISTMAS
CAROL
22
DICEMBRE
Gli
occhi continuavano ad inquadrare le stesse pareti, la stessa finestra,
gli
stessi mobili. Da mesi, ormai.
In
quei giorni qualcosa, tuttavia, era cambiato: le infermiere, nonostante
le sue
proteste, avevano appeso alcune decorazioni natalizie, segno evidente
che il
tempo trascorso dal suo incidente era davvero ormai troppo.
Il
dottor Clive continuava a dire che non c’erano motivi fisici perché non
camminasse, e lo stesso ripeteva in continuazione Barbara, la
fisioterapista
che ogni mattina ed ogni pomeriggio costringeva le sue gambe a continui
ed
estenuanti esercizi.
Inutili,
a suo parere.
Indispensabili,
secondo Barbara. E, ovviamente, era l’opinione di Barbara quella che
contava.
Non di certo la sua.
In
quei giorni, inoltre, anche i suoni, solitamente gli stessi, erano un
po’
cambiati: all’ovattato silenzio che generalmente accompagnava le
interminabili
giornate, interrotto solo dai passi di medici ed infermiere nel
corridoio, dai
carrelli di medicinali o cibo spinti dagli inservienti e dalle voci dei
parenti
in visita e poco altro, si era aggiunta la soffusa melodia di brani
natalizi
neppure cantati, semplicemente suonati da un’orchestra di musica
classica. Probabilmente
secondo la direzione dell’ospedale avrebbero dovuto portare un po’ di
allegria.
Ma
cosa c’era d’essere allegri?
Proprio
nulla, a suo parere.
Mattie
Johnson si guardò attorno per l’ennesima volta, mentre una lacrima le
scivolava
sulla guancia. Con un gesto stizzito, sollevò la mano e l’asciugò
rapidamente.
Se avesse permesso ad una sola delle sue lacrime di aprire un varco,
anche
piccolo, alla disperazione che sentiva in quel momento, sarebbe stata
la fine…
“Harm… dove
sei?”.
Neppure
lui, quel Natale, sarebbe venuto a trovarla. Le aveva telefonato da
Londra
poche ore prima, per comunicarglielo.
“Non ce la faccio proprio a venire, Mattie…
mi spiace. Il lavoro… Non appena mi libero ti prometto che verrò a
trovarti…
Come vanno gli esercizi?”
Erano
tutte scuse, lo sapeva: anche lui non sopportava di vederla in quel
letto, per
questo non avrebbero passato il Natale insieme.
Esattamente
come suo padre, anche Harm stava fuggendo da lei, ormai un’invalida.
Chiuse
gli occhi e si premette le mani alle orecchie, voltando la testa da un
lato…
era stufa di vedere quell’alberello di Natale che le infermiere avevano
appoggiato sul tavolino davanti al suo letto, esattamente com’era stufa
di
sentire quelle melodie sdolcinate.
Al
diavolo tutto quanto!
Cosa
c’era da festeggiare, quell’anno?
“Mac…
per favore… cerca di capire…”.
“Che
cosa, Harm? Cosa dovrei capire?”
“Ti ho
detto che non riesco proprio a liberarmi per Natale… Magari per il
primo giorno
dell’anno…”
“Mattie
ti aspetta. Come puoi deluderla così?”.
Harmon
Rabb chiuse gli occhi, sospirando. Sapeva che Mac aveva ragione e
questo lo
faceva sentire ancora più in colpa.
“Di
cosa hai paura, Harm?” aveva domandato lei.
Cosa
temeva? Forse, proprio dover rispondere a quella precisa domanda…
perciò rimase
in silenzio, di nuovo.
“Non
sei obbligato a vedere me… Ma vai da Mattie, almeno…”.
Dannazione!
Aveva capito. In fondo doveva aspettarselo.
“Mac…
ti prego… Non si tratta di questo…” Lei, però, aveva già interrotto la
comunicazione.
Con
un moto di rabbia,
insolito in lui,
gettò il telefono sulla scrivania, si alzò e, senza neppure infilarsi
il
cappotto, uscì dall’ufficio, sbattendo la porta alle sue spalle.
“Capitano
Rabb…”, cercò di fermarlo il tenente Leach, suo segretario.
“Devo
uscire”, bofonchiò senza neppure fermarsi.
“Il
cappotto, Signore…” disse il tenente, ma lui era già sparito.
Le
lacrime le avevano inumidito gli occhi, ma fece il possibile per
trattenerle.
Era inutile piangere. Erano mesi, ormai, che lo faceva quasi ogni sera,
prima
d’addormentarsi. E non era cambiato nulla.
Harm
continuava a fuggire. Da Mattie e da lei.
Eppure
c’era stato un momento in cui aveva creduto che tutti i suoi sogni si
sarebbero
finalmente realizzati. Era
successo la sera prima della partenza per le loro rispettive nuove
destinazioni.
In
aprile di quell’anno, proprio poco dopo che Mattie aveva avuto
l’incidente che
tuttora la costringeva immobile in ospedale, il generale Cresswell
aveva
comunicato la promozione di Harm a Capitano e il suo trasferimento a
Londra, a
capo del Jag in Europa; mentre lei era stata assegnata a dirigere gli
uffici di
S.Diego.
Per
entrambi un’ottima prospettiva di carriera, che tuttavia li aveva colti
di
sorpresa; benché da tempo si aspettassero di essere divisi, l’idea di
non
lavorare più assieme li aveva resi consci, finalmente, dei sentimenti
che
provavano l’una per l’altro e dopo anni erano riusciti a confessarselo.
La
prima e unica volta in cui avevano fatto l’amore era stata stupenda.
Forse, se
lo fosse stata di meno, sarebbe stato tutto più facile.
Era
stato proprio Harm a suggerire di lasciare che fosse il Destino a
decidere chi
dei due avrebbe dovuto abbandonare la propria carriera per seguire
l’altro e
poter finalmente vivere assieme come marito e moglie.
Non se
l’era sognato: Harm, quella sera, le aveva davvero chiesto di sposarlo.
E lei
era stata così felice… anche quando, poche ore dopo da McMurphy, lo
avevano
detto ai loro amici più cari… anche allora le era sembrato tutto un
sogno,
troppo bello per essere vero.
Ed
infatti…
Bud,
come aveva chiesto Harm stesso, aveva lanciato in aria davanti a tutti
la
moneta che avrebbe dovuto rivelare la decisione che il Destino aveva
preso per
loro; ma quando era caduta nelle mani del Capitano di Corvetta Roberts,
Harm lo
aveva fermato.
“Aspetta Bud…
“ e poi
l’aveva guardata.
Lei
non avrebbe mai scordato quello sguardo: paura. Aveva scorto la paura
negli
occhi dell’uomo che amava da anni.
“Forse è
meglio che siamo noi a
decidere…” aveva
detto lui, con un sorriso, davanti a tutti. E gli altri, benché
sorpresi da
quel cambio d’idea improvviso, avevano annuito… la tensione, che era
stata
palpabile per alcuni attimi non appena Harm aveva interrotto Bud, si
era
sciolta immediatamente tra le rinnovate congratulazioni per il
matrimonio, le
chiacchiere e i saluti.
Solo
quando tutti se n’erano andati e Harm aveva iniziato a parlare per
spiegarle
quello che intendeva, lei aveva capito esattamente il perché di quello
sguardo
che aveva scorto nei suoi occhi: stava fuggendo di nuovo.
“Ho fermato
Bud perché non volevo
che fossi tu a dover rinunciare alla tua carriera…”
“Cosa ti fa
essere così sicuro che
la moneta sarebbe stata a tuo favore?” aveva
ribattuto lei.
“Non volevo
farti correre il
rischio”.
“Che gentile!
Sicuro che non sia
stato perché temevi di dover essere proprio tu quello costretto ad abbandonare la Marina?”
Non
era riuscito a rispondere nulla. E lei aveva capito. Purtroppo aveva
capito
tutto quanto.
“Potremmo
iniziare i nostri
rispettivi incarichi e sposarci fra un po’… nel frattempo avremo
provato con il
nuovo lavoro, sapremo decidere meglio…” aveva
proposto infine Harm.
Non
aveva detto più nulla; si era limitata a guardarlo, con la tristezza
nel cuore.
Era certa che se lui fosse andato a Londra, non sarebbe più tornato
indietro,
neppure per lei.
Non era
riuscita più a dirgli neanche quello che aveva deciso solo poche ore
prima, tra
le sue braccia: si era sentita così felice con lui che, nonostante la
sua
proposta di lasciar decidere tutto quanto al Destino, aveva pensato che
lo
avrebbe seguito persino in capo al mondo, abbandonando tutto quanto,
pur di
potersi svegliare ogni giorno accanto a lui.
Harm
era sembrato così convinto di volere che fosse una moneta a decidere
del loro
futuro, che aveva pensato di assecondarlo; tuttavia aveva anche
stabilito
dentro se stessa che se la sorte avesse deciso a favore di Harm,
avrebbe finto
di fare buon viso a cattivo gioco e lo avrebbe seguito senza dirgli
nulla, ma
che se invece il destino avesse deciso che dovesse essere lui a
rinunciare alla
sua carriera per seguire lei, allora glielo avrebbe impedito e gli
avrebbe
comunicato la sua decisione.
Forse
aveva sbagliato a non dirgli nulla…
Ma era
stato quello sguardo di paura che l’aveva bloccata: Harm non temeva
solo una
decisione per le loro carriere… Era il legame definitivo tra loro due
ciò che
lo spaventava maggiormente.
Ne
aveva avuto la conferma nei mesi successivi; dopo aver acconsentito,
pur a malincuore,
di fare come desiderava lui, più volte aveva tentato di portare
nuovamente il
discorso sul loro futuro. Lei non ce la faceva a vivere così lontano.
Voleva
stare con Harm, avere una famiglia, anche se probabilmente il suo sogno
di
avere dei bambini sarebbe rimasto per sempre un sogno. Ma c’erano tante
altre
possibilità…
E poi
c’era sempre Mattie, che aveva tanto bisogno di loro due.
Gli
aveva proposto anche di accompagnarla lei a Londra, per poterla avere
più
vicino… ma lui aveva trovato un milione di inutili scuse, tra le quali
il padre
di Mattie.
Erano
mesi che il padre di Mattie non si faceva più vivo con la figlia.
Lei
era andata tre volte a trovarla, ogni volta che ne aveva avuta la
possibilità,
e la ragazza stava davvero soffrendo molto… Harm non si era mai fatto
vivo con
lei, se non al telefono.
La
scusa era sempre il lavoro, ma Mac sapeva che se Harm fosse volato a
Washington
per Mattie, avrebbe dovuto affrontare la loro situazione irrisolta, ed
era
proprio questo a frenarlo.
In
questo modo stava trascurando anche Mattie e lei non poteva permetterlo.
Per
questo motivo gli aveva finalmente detto quello che aveva dentro da
mesi: non
era obbligato ad andare da lei, se andava a trovare Mattie. Come
immaginava, non era riuscito a rispondere nulla. Quindi aveva ragione:
il
problema era lei, non la ragazza.
Ricacciando
indietro con determinazione le lacrime, decise che quel Natale Mattie
non
sarebbe rimasta sola. E lei nemmeno. All’interfono
chiese alla sua assistente di prenotarle l’aereo per Washington per
l’indomani,
non importava a che ora, purché le trovasse un posto.