Note
dell’autrice:
questa piccola cosuccia è piena di spoiler. Dal titolo fino alle note, per cui
se non volete sapere niente, non leggete, grazie.
Per
tutti coloro che invece conoscono la storia, buona lettura. La fic non è niente
di che, racconta solo cosa è successo il giorno prima che Percy sparisse. Uno
stralcio di normalità, una volta tanto, senza mostri, furie o dei arrabbiati in
cerca di vendetta.
Tre giorni, sei ore e
circa dodici minuti
“Ci
siamo incontrati al campo martedì, immaginando di passare tre settimane insieme.
Doveva essere grandioso. Poi dopo il falò, lui – lui mi ha baciata per la buona
notte, è tornato indietro alla sua cabina, e al mattino se n’era andato. Abbiamo
cercato per l’intero campo. Abbiamo contattato sua madre. Abbiamo provato a
raggiungerlo con ogni mezzo che conosciamo. Niente. È semplicemente
scomparso.”
[Annabeth a Piper]
[1]
Abitare
nella stessa città non vuol dire necessariamente riuscire a vedersi tutti i
giorni.
New
York è immensa e le nostre scuole vergognosamente lontane; senza contare che io
stavo in collegio, con regole ben precise sugli orari e sugli spostamenti fuori
sede.
Non
stavo male, Percy veniva all’uscita di scuola tutte le volte che poteva, anche
solo per vedermi cinque minuti, per stare un po’ insieme e progettare le nostre
vacanze al Campo Mezzosangue. Era questo l’argomento ricorrente delle nostre
conversazioni nelle ultime due settimane ed entrambi non vedevamo l’ora
finalmente di passare insieme le giornate, senza la necessità di scandire il
tempo con il contagocce.
Martedì
era il giorno prestabilito. In realtà avremmo potuto vederci anche prima, ma
Sally Jackson era decisa a passare qualche giorno col figlio prima che
scomparisse nei confini del Campo e onestamente non potevo darle torto.
Invidiavo
il legame che c’era tra loro due, era quel tipo di affetto che io non avevo mai
provato in vita mia e che certamente aveva contribuito a rendere il mio
carattere … scostante.
Arrivai
al campo lunedì e notai con piacere che non c’erano ancora molti ragazzi in
giro, solo quelli che stavano al Campo per tutto l’anno – perché non avevano
un’altra famiglia da cui tornare.
La
mia Casa, osservai con una punta di fastidio, era un totale disastro. Era stata
abitata nelle ultime settimane solo da tre dei miei fratelli e l’avevano ridotta
peggio della Casa di Dionisio durante la Festa del Vino. Non ebbi molto tempo di
arrabbiarmi, comunque.
Il
mattino seguente molti dei figli di Atena sarebbero rientrati e potevano stare
certi che li avrei fatti sgobbare come muli per riportare la Casa a un minimo di
decoro; ci tenevo all’ordine degli
altri.
Io
sono l’architetto dell’Olimpo, una mente particolarmente intelligente e
creativa, non ho tempo di pensare all’ordine della mia testa, figuriamoci a
quella della mia postazione. Per le pulizie esistono i miei fratelli e dato che
sono la seconda per anzianità in quella Casa, nonché capogruppo e fidanzata a
tempo indeterminato del figlio di
Poseidone, posso permettermi di dettare legge e impartire ordini a mio
piacimento.
«Malcolm»
chiamai a voce alta, posando lo zaino a terra.
Non
ricevetti risposta. Mi avviai verso la Casa Grande, ma incontrai solo qualche
figlio di Afrodite e di Ermes, nessuna traccia dei miei fratelli e in particolar
modo del mio capogruppo in seconda.
Malcolm
era un ragazzo a posto, un po’ confusionario ma di certo una persona fidata.
Mentre io ero stata eletta con regolare votazione alla guida della Casa di
Atena, Malcolm era diventato mio vice perché lo avevo scelto di persona. Era un
anno più grande e aveva una dote che apprezzavo particolarmente: quella di farsi
gli affari propri. Dote che mi era risultata molto utile da quando stavo con
Percy.
Riuscii
a trovare Malcolm e i miei fratelli sulle rive del lago, intenti a godersi quei
pochi raggi di sole tiepido che la stagione consentiva; tutti avevano a fianco
un blocco da disegno con alcune matite mangiucchiate. Non era inusuale vedere i
figli di Atena sempre accompagnati da quegli strumenti; siamo intelligenti, un
vulcano di idee in eruzione, dovevamo appuntarle di continuo per non dovercele
scordare.
«La
Casa è un macello» annunciai, mettendomi a sedere accanto a
loro.
«Annabeth,
che sorpresa! Non dovevi arrivare domani?» chiese Mallory, la mia sorellina di
dieci anni.
«Cambio
di programma» dissi senza tanto entusiasmo.
I
miei fratelli sorrisero malandrini, senza però azzardarsi a fiatare. Solo
Malcolm si rivolse a me con uno sguardo furbo.
«Percy
arriva oggi?».
«No».
«Domani?».
Mugugnai
in risposta.
«Capito
tutto. Ragazzi, mettiamo a posto la Casa, Annabeth è decisamente di cattivo
umore».
Ammetto:
Malcolm per certe cose era davvero più intelligente di me.
La
serata passò tranquilla, dato che eravamo ancora in pochi. Neanche Rachel era
arrivata, ma in compenso c’era Clarisse. Ma il suo stare sempre appiccicata a
Chris, a bisbigliarsi chissà cosa nell’orecchio, non migliorava il mio
umore.
Decisi
di andare a letto presto: Percy sarebbe arrivato la mattina seguente e avremmo
passato tre settimane intere insieme, solo per noi.
Sarebbe
stato magnifico.
«Annabeth?
Annabeth, svegliati!».
Aprii
gli occhi quel tanto che bastava per riconoscere Mallory.
«Che
ore sono?» chiesi, notando con disappunto che fuori dalla finestra il cielo era
grigio.
«Le
sei e mezzo» fece la mia sorellina, con uno sguardo
colpevole.
«E’
presto, è successo qualcosa?».
Mallory
si mise a sedere sulla sponda del mio letto, un po’ incerta. Sembrava che si
stesse pentendo di avermi svegliata.
«Sono
andata al bagno dieci minuti fa e … ho visto che qualcuno è arrivato alla Casa
di Poseidone».
Il
mio cervello scattò come una molla. Mi alzai in fretta, rovesciando per terra la
mia povera sorellina e correndo ad affacciarmi alla porta.
Poco
lontano, la Casa di Poseidone era in attività. Un grosso borsone da viaggio era
ai piedi della porta, le finestre erano spalancate e fui quasi certa di notare
un’ombra che si muoveva all’interno. Mi voltai verso Mallory, che poverina si
massaggiava il sedere dolente.
«Hai
visto chi era? Può – può essere Tyson».
«Tyson?
Lui non viene spesso al campo. Solo quando è sicuro di trovarci Percy,
no?».
Aveva
ragione.
Senza
neanche cambiarmi o mettermi una felpa addosso, camminai veloce verso la Casa di
Poseidone, con il cuore che mi era salito in gola. Riconobbi il
borsone.
Ero
quasi vicina alla porta quando un ragazzo alto, dai capelli neri e gli
inconfondibili occhi verde acqua uscì fuori, stiracchiandosi le
braccia.
Ci
guardammo per pochi secondi, come se le nostre menti dovessero verificare che
non eravamo due allucinazioni, e il resto fu immediato.
Percy
spalancò le braccia e io mi buttai su di lui, come se non lo vedessi da mesi
interi, invece che da una settimana e poco più.
Non
ero una persona sentimentale, non mi piaceva neanche scambiare smancerie in
pubblico con lui; m’imbarazzavo facilmente, lo ammetto. Ma da quando era finita
la guerra e avevamo fatto chiarezza con i nostri sentimenti – io avevo fatto
chiarezza con Luke – la sua presenza mi era diventata indispensabile. Saperlo
accanto a me mi rassicurava, pensare di poter contare su di lui per qualsiasi
cosa mi faceva sentire amata, come non lo ero mai stata in vita
mia.
Non
sapevo se per lui era lo stesso, ma credo che fosse un sentimento che ci andava
piuttosto vicino.
Senza
pensare al fatto che probabilmente c’era ancora Mallory che mi stava osservando
da lontano, spinsi Percy all’interno della sua casa e lo baciai di slancio,
prendendogli il viso tra le mani. Lui rispose subito, chiudendo con un calcio la
porta.
«Non
ci è permesso di stare da soli dentro a una Casa, vuota» bofonchiai, mentre
sentivo le sue mani che mi scivolavano lungo la schiena.
Percy
mi sorrise e pareva che i suoi occhi brillassero nell’oscurità della
stanza.
Gli
ero mancata, non c’era dubbio.
«Non
mi pare di essere un ragazzo che bada molto alle regole del Campo» fece,
tornando a baciarmi sulle labbra.
Non
aveva tutti i torti e io niente da obiettare.
Nel
pomeriggio Chirone non era per niente contento. Quel centauro ha occhi e
orecchie ovunque e il fatto che fossimo usciti dalla Casa di Poseidone solo
verso l’ora di pranzo fu una cosa che lo fece uscire di
testa.
I
miei fratelli non dissero nulla a riguardo, limitandosi a ridere tra di loro
ogni volta che mi trovavo nelle vicinanze, ma a Percy non era andata
meglio.
Connor
e Travis Stoll non gli dettero pace per tutto il tempo, seguendolo dalla signora
O’Leary, al molo delle canoe, al tiro con l’arco, nel bosco a cercare Grover,
stordendolo con le loro allusioni poco caste.
Durante
il banchetto della sera, Percy toccò il fondo quando pure Clarisse cominciò a
prenderlo in giro. A quel punto, decise che avrebbe volentieri saltato il
falò.
Lo
trovai molto più tardi, seduto sul molo e con le gambe a mollo nel
lago.
Era
più pensieroso del solito e pensai che fosse per tutte le prese in giro della
giornata, ma Percy non era il tipo che se la prendeva per certe cose. Anzi,
aveva anche più pazienza di me, semplicemente si faceva scivolare tutto
addosso.
«Tutto
bene?» chiesi, poggiando la testa sulla sua spalla.
«Tutto
bene» sospirò, alzando lo sguardo verso le stelle.
Mi
passò un braccio intorno alle spalle e stette in silenzio. Ogni tanto si voltava
nella mia direzione, mi guardava, sorrideva, giocava con i miei capelli, ma non
diceva mai niente.
Era
strano, di solito parlavamo un sacco, se non di noi, degli dei, della guerra,
della nuova profezia di Rachel. A volte anche della stessa Rachel, ma
l’argomento non mi faceva impazzire e lui lo sapeva bene, gli piaceva quando
diventavo gelosa.
Rachel
era l’Oracolo, non le era concesso avere un ragazzo, da qui all’eternità, ma la
sua astinenza ancora mi convinceva poco.
Dopo
un’ora Percy mi accompagnò alla Casa di Atena, dove tutti erano addormentati nel
proprio mondo dei sogni. Mi baciò ancora, con un po’ troppa prepotenza per
essere solo un bacio della buona notte, ma di certo non avevo nulla di cui
lamentarmi. Di solito ero io che prendevo l’iniziativa, quando gli altri non
erano nei paraggi, ma vedere lui così intraprendente mi fece sentire ancora più
innamorata.
Mi
sorrise, esitò un attimo prima di congedarsi, sfiorandomi la guancia con le
dita. Poi si diresse verso la sua Casa.
Al
mattino, Percy non c’era più.
Se
n’era andato, senza lasciare tracce, portando dietro di sé un pezzo del mio
cuore.
“[Annabeth]
si strofinò il viso e prese un respiro incerto «Scusa. Sono un po’
stanca».
«Sembri
pronta a crollare» disse Piper. «Da quanto tempo stai cercando il tuo
ragazzo?».
«Tre
giorni, sei ore e circa dodici minuti».”
[2]
Note:
[1]
e [2] sono pezzi tradotti da “The Lost Hero”, il primo libro della saga “The
Heroes of Olympus”, seguito di “Percy Jackson e gli Dei
dell’Olimpo”.
Li
ho tradotti io, quindi di seguito vi metto i brani originali in
inglese.
“We met up at camp on Tuesday, figured we had three weeks together.
It was going to be great. Then after the campfire, he—he kissed me good night,
went back to his cabin, and in the morning, he was gone. We searched the whole
camp. We contacted his mom. We‘ve tried to reach him every way we know how.
Nothing.
He just disappeared.”
“She rubbed her face and took a shaky breath. -Sorry. A little
tired.
-You look ready to drop, Piper said. -How long have been searching for your
boyfriend?
-Three days, six hours, and about twelve
minutes.”
Percy Jackson e gli
Dei dell’Olimpo © Rick Riordan
“Tre giorni, sei ore e circa dodici minuti” – fan fiction © Elpis Aldebaran