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Autore: blackamethyst    02/06/2012    5 recensioni
Anno 2017.
Quando si ha ventitré anni è inevitabile che si pensi al futuro o al mettere su famiglia: Lila Tomlinson è l'eccezione che conferma la regola. Vivendo ancora con sua madre e le sue sorelline, si mantiene facendo la cameriera presso una famosa tavola calda di Londra ed è fermamente convinta che sia destinata a passare il resto dei suoi giorni come una zitella. Ma, forse per uno strano scherzo del destino, si ritroverà a fare da madre ad una bambina un pò troppo vivace. E ad un giovanotto che sembra tutto tranne che un padre.
[Ispirato all'omonimo film, “Tre all'improvviso”.]
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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                                                                                                                              Prologo



                                                                                                                                                                                                                                                                                                                   
27 marzo 2016.
Londra, U.K. 
   
                                                                                                                                                                         
Posso dire con certezza di non essere quel tipo che molla tutto quello che sta facendo e corre via con una scusa campata per aria per pura noia (Mi spiace, ma devo nutrire il mio tricheco), ma a quanto pareva la mia amica non la pensava esattamente come me, tanto per cambiare. Di
nfatti, alle prime avvisaglie del mio imminente addio, Gin mi concesse un saluto particolarmente affettuoso e io valutai se fosse il caso di metterle in mano un fazzoletto bianco da sventolare con delicatezza.
«Stronza! Non puoi piantarmi in asso proprio adesso!»
Urla quanto vuoi, tanto me ne vado lo stesso. Eh.
Freneticamente mi sfilai il grembiulino battezzato da una grossa macchia color cacao, poggiandolo sul bancone in marmo e voltandomi un'ultima volta verso la giovane imbufalita che mi guardava di traverso. Sì, ci voleva proprio un fazzoletto bianco, che però, al momento, non avevo. Gin, tanto per non scontentarmi, sostituì il fazzoletto con un bel coltello affilato. Adoravo quella ragazza, sempre di buon umore e così incline all'affetto. Sicuro, affetto, perché proprio emanava amore, con quel coltello sbandierato nella direzione della mia testolina, insultandomi ai quattro venti. Ebbi la decenza di spostarmi un pò dal suo campo visivo, non sia mai il coltello le fosse sfuggito di mano.
«Scusami scusami scusami, Gin» piagnucolai, decisa ad impietosirla  o quantomeno, ad ammorbidirla. «Prometto che mi farò ripagare, ma ora mi tocca filare via.»
Detto ciò, gli mandai uno stucchevole bacetto volante  che lei contraccambiò con il gestaccio del dito medio, ve l'ho detto io che era incline all'affetto, seh  e afferrai il cappotto nero, attraversando a grandi falcate il locale, in sottofondo un allegro brusio di voci. Era così affollato che dovetti improvvisarmi contorsionista per farmi largo tra le mille sedie; Un bambino biondo che agitava un cucchiaio urlando come un guerriero comanche e indicando la coppa di gelato spiaccicata sul lussuoso pavimento quasi non mi spedì a gambe all'aria, con il suo continuo dondolare sulla sedia, come se fosse in un ottovolante. Gin sospirò, paziente, e si affrettò a pulire il disastro o come minimo Conrad, il mostr- pardon, nostro datore di lavoro, ci avrebbe (sì, ci avrebbe perché di solito trovava sempre il modo per punire anche me nonostante non c'entrassi un fico secco) tolto definitivamente il misero stipendio. Osservai Gin grugnire e strofinare violentemente la pezza per terra, furiosa.  Non potevo biasimarla, c'era un bel pò di folla, e avrebbe dovuto gestirla da sola. E dire che si poteva gestire insieme a qualcuno era un eufemismo, figurarsi quando si è soli soletti alle prese con cinquanta tavoli affamati e pullulanti di bambini urlanti e utensili da cucina assassini come i cucchiai. Mannaggia a Conrad, la sua stupida tavola calda era troppo famosa. E lui era troppo sexy perché potessi fargli il terzo grado, del tipo «I soldi ti escono dalle orecchie, assumi un addetto alle pulizie». Era un mostro. Ma sexy. Un mostro sexy, in ogni caso. 
Tuttavia, fui costretta a congedarmi velocemente dalle circostanze del momento. Anche se mi sarebbe piaciuto tanto strofinare allegramente il pavimento, altroché. Nel frattempo, infilai di fretta e furia il cappotto mentre aprivo la porta del bar e mi riversavo in strada come una forsennata. Scesi gli scalini e mi ritrovai nella solita stradina con i marciapiedi traboccanti di persone e i viali straripanti di negozi. Il cielo di quella mattina era poco nuvoloso e il sole regnava in alto, illuminando ogni cosa ci fosse sotto di lui, me compresa. Non mi stupii granché, a maggior ragione perché in quel periodo Londra era particolarmente soleggiata e in più eravamo in marzo. Mi pentii subito di aver attorcigliato lo sciarpone al collo, perché la pelle iniziava a diventarmi rovente, così tanto che feci il pensiero di mettere ad arrostire un pò di bacon sopra. Adoro il bacon.
Mi tastai la tasca del jeans, mentre un raggio di sole mi acceccava; Era vuota. Magari, se Gin non mi avesse tramortito con il suo inarrestabile fiume di parole, sarei riuscita a non dimenticare il cellulare che, scoprii in quello stesso istante, era probabilmente rimasto sul bancone, accanto alla zuccheriera. Di bene in meglio. Nemmeno con tutta la buona volontà reperibile — Di cui io ero così vistosamente priva — avrei fatto dietrofront e recuperato il cellulare. In realtà bocciai immediatamente l'idea e continuai imperterrita per la mia strada. Mi allargai come più potevo la sciarpa, lanciandomi fugaci occhiate intorno. La strada era piuttosto affollata — ma almeno era all'aperto e non rischiavo crisi claustrofobiche come nei locali —, con coppiette di colombelle innamorate lì e qui, mamme con mocciosi a seguito, rumorosi gruppetti di ragazze e maschietti solitari che si impuntavano al cospetto della vetrina all'angolo che offriva a prezzi salati dei raffinati giubbotti di pelle. Mi acceccavano, sibillando sssoldisssoldisssoldi. Quant'erano belli. Distolsi lo sguardo. Non potevo nemmeno sfiorarli con lo sguardo, giubbotti del genere. Dico, quando il tuo sinonimo di lusso è un espresso triplo di Starbucks o un pranzo completo al McDonald, giubbotti di trecento sterline nemmeno ti passano per i meandri più oscuri della mente. Mi constrinsi ad affrettare il passo o mia madre mi avrebbe ucciso, al ritorno.
«Lila, va subito a scuola di Phoebe e Daisy» aveva latrato nella cornetta del telefono. «Non si sentono bene e qui c'è Andy con Lily. Sarebbe scortese lasciarli da soli, non credi?»
Poi avevamo continuato con una cosa del tipo: «Mamma, sono al lavoro» e lei «Ginevra finirà al posto tuo! Ora muoviti, ché si sentono male!» e allora io «Non può andarci Lottie?» e allora lei «Lo sai che fa storie, Lila! Ora ti decidi ad andare, benedetta ragazza?» e allora la benedetta ragazza era stata costretta a lasciare tutto seduta stante e volare via. Questo era il lato negativo della convivenza con la propria madre, per di più nemmeno l'unico, ma i suddetti erano così numerosi che mi ci sarebbe voluta una lista lunga quanto la barba di Noé per elencarli tutti. Tutto ciò perché a ventidue anni non avevo ancora trovato uno schifosissimo impiego capace di mantenermi indipendente; Ero finita, mio malgrado, a fare la cameriera in una tavola calda, dove potevo raccimolare un pò di grana, anche se dopotutto lo stipendio di un anno non mi sarebbe mai bastato per pagarmi un'appartamento perché Conrad era spilorcio (e sexy, ve l'ho già detto che era sexy?) fino alla punta dei suoi bellissimi capelli, e dato che non facevo un bel nulla per rendermi simpatica (Dopotutto lo fissavo come una lepre anestetizzata) mi era toccata una paga misera. Al massimo potevo comprare dieci dozzine di vaschette di gelato, che mi sarebbero servite per l'autocommiserazione giornaliera. 
Tuttavia mia madre era fermamente convinta che una ventiduenne dovesse lavorare, rendersi autonoma e non oziare sul divano di casa come fa la maggior parte della gioventù scellerata di oggi, cosa che, onestamente, avrei preferito mille volte alle caraffe di caffé rovesciate e i bicchieri rotti.
In più, Gin —
 o Ginevra se proprio vuoi beccarti un pugno sul naso —, la mia storica migliore amica dai tempi del pannolino, diventava più che autoritaria sul posto di lavoro. La scenata di qualche minuto prima è un buon esempio. Era abile nel servire le persone e diligente fino allo stremo, e non sopportava che me la svignassi appena ne vedessi la possibilità. 
Purtroppo per me non aveva capito che quella era una situazione di massima emergenza — Ed ero perfettamente consapevole di dovermi subire una delle sue interminabili paternali al mio ritorno, che iniziavano con Amica ingrata!e finivano con Ti perdono, ma non devi farlo mai più — e non una scusa dozzinale inventata di sana pianta. Infondo non gli avevo mica detto che dovevo nutrire il tricheco, annaffiare le peonie di mia madre o che so io. Le mie sorelline stavano male, eh. Il che era sempre una buona scusa per filarmela, anche se totalmente casuale. Un dono del cielo, in pratica. La manna che cade.
Santo cielo, ma si moriva dal caldo! Stavo letteralmente prendendo fuoco.
«Attenta!»
Le ultime parole famose.
Mi voltai e osservai, sconcertata, una macchina venirmi contro. Non sapete quanto sperai di essere al cinema stravaccata su una poltrona a guardarmi qualche film in 3D. Ovviamente, non vedo come un attenta avrebbe contribuito a salvarmi la vita, ma il tizio al volante doveva evidentemente avere una filosofia tutta sua. Magari credeva che avessi dei superpoteri come i tizi in Matrix. Ma se non altro non ero l'unica che sarebbe morta investita. Infondo alla lista proprio io, riuscivo già ad immaginare il mio nome per intero sul foglietto di carta: Lailonne Audrey Tomlinson, 1994 - 2016. Morta a causa della tirannica mamma e di un'autovettura spericolata.
Tranquilla, mamma, ti ringrazierò nel mio testamento, dove lascerò le vaschette di gelato alle mie sorelline. Louis è straricco, quindi si merita solo una botta in testa per non avermi portato con sé nei suoi tour o quello che sono. Prometto di perseguitarlo affettuosamente dall'oltretomba. 
Temetti veramente di essere spacciata, perché in cuor mio iniziai a recitare un padrenostro in maniera concitata. Ringraziando il cielo non mi inchiodai del tutto a terra con la faccia della mucca che fissa il treno che passa, perché ebbi se non altro il riflesso di scansarmi di lato e al momento giusto l'auto frenò, con il cuore che mi saliva in gola. 
Amen.
L'enorme macchina nera mi si accostò accanto con un lungo stridio di ruote. Un ragazzo dai lisci capelli castani si affacciò dal finestrino con tanta foga che all'inizio credetti che stesse per buttarsi sull'asfalto in un maestoso tuffo. Quando mi guardò in faccia, sbarrò sgomento gli occhi. Probabilmente io avevo uno sguardo strambo, come se avessi appena fumato la miscela di erbe che mamma usava per le tisane.
«Lila, buon Dio, sei tu! Salta su, sorellina.»
Non mi feci pregare. Con le gambe traballanti aprii la portiera del lato del passeggero e mi accomadai, trafelata. 
Dammi il tempo di riprendermi, cervello di gallina, e ti spedirò con un solo calcio in culo a Piccadilly Circus, altroché.
Eccolo lì, Louis Tomlinson; Fratello maggiore, venticinque anni, incarnato abbronzato e vivaci occhi azzurri oscurati da un enorme paio di occhiali che gli inghiottiva metà viso. Ovviamente era il prezzo dell'essere il componente di un'importante band musicale. Non potevi camminare per le vie di Londra che venivi assalita da giornalista impiccioni e ragazzine mestruate con l'ormone birbante. Mio malgrado, ne ero stata testimone qualche mese prima, e di sicuro quella non fu un'esperienza che può dirsi piacevole. A parte il fatto che il 2016 era per me l'annata della sfortuna. A gennaio c'era stato l'assalto delle mestruate assatanate mentre io e Louis portavamo a spasso Athos, e febbraio mi aveva riservato un bel febbrone con annesso raffreddore cronico che mi ero portata dietro per settimane.
Appuntai mentalmente: Marzo - Rischio di essere investita da quel babbeo di Louis.
Cinque, quattro, tre, due, uno...
«LOUIS TOMLINSON!» strillai, pronunciando il suo nome come se fosse una maligna parolaccia. Mi ero ripresa dallo shock e mi era sembrato che la cosa più saggia, e liberatoria, da fare fosse aggedire Louis; Dal momento che non potevo picchiarlo, mi limitavo ad abbaiare con espressione da dinosauro.
«Geeeeesù, che modi sono questi?» mi stuzzicò lui, fingendosi indignato. Nel frattempo richiudeva con nonchalance il finestrino. «Suvvia, baby, che maniera barbara di salutarmi. Non ci vediamo da mesi, dopotutto.»
«Oh, certo, perché tu stavi per salutarmi in un modo davvero delizioso. Mandandomi direttamente al cimitero!» ribattei, accalorandomi. Accidenti, se avevo avuto paura. Credevo di essermela fatta sotto, sul serio. Se non avete mai visto un macchinone venirvi incontro a velocità mostruosa, allora non potete capire.
«Dove l'hai trovata la patente, in una busta di patatine?» esalai, poggiandomi poi allo schienale in pelle e asciugandomi la fronte con il dorso della mano. Il cuore sembrava voler uscire a tutti costi dalla cassa toracica, tumultuoso, e presi a battere i denti, nonostante il caldo afoso e il sole cocente, cui raggi battevano sul parabrezza.
«Oh, sembri un'aragosta» osservò Louis allegro, mentre metteva in moto la macchina. Trovai giusto il momento per sfilarmi il trench e lo sciarpone, rimanendo solo con la maglia nera a mezze maniche che aveva una pecora a cartone animato infilata in un bicchiere di birra stampata sopra. La mia preferita, niente da dire. Adoravo quella pecora. Mia sorella Fizzy l'aveva soprannominata Betty. Osservai per un pò Betty la pecora, ma fui abbastanza veloce da scorgere dei flash accecanti aldilà del finestrino scuro.
Maledetti paparazzi.
«Mi spaventano, riescono a trovarmi ovunque, anche se mi rifugiassi con gli Indios nella foresta pluviale» mormorò mio fratello, avanzando lentamente per non rischiare di investire qualcosa. Da parte mia, poggiai il gomito al finestrino e il mento sul palmo della mano. Dopo un pò lo sentii canticchiare Paparazzi di Lady Gaga. Presi a torturarmi morbosamente il labbro inferiore e mi bloccai solo quando sentii il sapore ferroso del sangue. Dato che non vedevo il silenzio di buon occhio, mi venne quasi da porgergli una domanda deragliante, dalla serie: «Ehi, hai visto cosa hanno fatto i New York Yankees ieri?», ma decisi di non sembrare troppo... mh, fuori di testa, o anche lui sarebbe arrivato alla conclusione dell'erba miscelata. Non che la fumassi, mettiamo le cose in chiaro.
«Visto che hai rischiato di uccidermi, ti conviene ascoltarmi o dirò del tuo tentato omicidio alla mamma» borbottai, piccata. E piuttosto infantile, ma io sono infantile di natura. «Sono sicura che non si sposerà molto bene sul tuo curriculum da star della musica. Volta l'angolo e accompagnami davanti scuola di Phoebe e Daisy, non si sentono bene.»
«Scommetto che la mamma ti ha fatto interrompere tutto sul momento, sbraitando nel telefono come se un tirannosauro gli stesse distruggendo le peonie in giardino.»
«Scommetti bene. E dire che la mia paga è una miseria di suo, quello spilorcio di Conrad mi vieterà anche le mancie dopo questa scappatella!»
«Conrad chi?»
«Conrad Harper. Il mio datore di lavoro, lo sai.»
Solo pronunciare il suo nome servì a lasciarmi l'amaro in bocca.
E dire che qualche anno prima avevo una super-cotta per lui. Cotta è dir poco, visto che... mh, beh, mi piaciucchiava ancora. Purtroppo per me avevo la cattiva consuetudine di infatuarmi di chiunque mi colpisse particolarmente.
Lui lo fece. 
Nel senso più letterale del termine. Del tipo che mi sbatté amabilmente la porta sulla fronte, perché stava uscendo al locale mentre io entravo, e... kaaapoooom. Avete capito. Ma almeno era stato così gentile da tirarmi su e poggiarmi del ghiaccio sul naso con fare premuroso. Ecco, poi avevo intravisto l'Adolf Hitler che c'era in lui, superando quella seducente barriera da uomo del mistero che aveva coltivato con tanta premura e che aveva contribuito ad affascinarmi. Purtroppo per me non ero ancora riuscito a togliermelo dalla testa. Metterci una pieta sopra? Non è da me, dico. Mettiamoci una mano sul cuore, la pietra avrei preferito tirargliela dietro, ma purtroppo non potevo impedirmi di non andare incontro ad un blackout appena scorgessi la sua sagoma alta. Ma almeno innamorarmi di uno sfigato che mi trattasse bene, e che diamine! No, certo. Scegliamo il datore di lavoro stronzo. Evvai.
«Quel tizio alto e bruno che vidi qualche mese fa, quando venni a prenderti al lavoro?»
«Sì, Louis, lui.»
«Pfft, sua sorella è una mia grande fan» assunse un'aria lusingata, come Brad Pitt che vince l'oscar. Mi aspettavo solo che dicesse E per questo premio, sigh, vorrei ringraziare mia madre, mio padre, e, sigh, le mie sorelline, sigh”. «Se vuoi posso convincerlo ad alzarti lo stipendio. Sarà un giochetto da ragazzi.»
Mi rincuorai. Un aumento di stipendio avrebbe fatto proprio comodo! Se mi alzava sul serio lo stipendio, gli avrei fatto da schiava a vita.
Be', non proprio a vita, magari per i primi dieci anni della mia vita. O per i primi cinque minuti.
Mi misi a sedere diritta, corrugando la fronte. Ero decisamente più interessata. Ed arzilla. Accidenti se lo ero. Fiutavo l'odore di grana.
«Se ti prendi la briga di farlo, allora sappi che ti perdono per il tentato omicidio.»
Louis, per tutta risposta, ghignò. 
«Dove andavi di bello?»
Riposi le mano in grembo, tranquillizandomi. Non battevo più i denti, e c'era da sperare che Louis non avesse bevuto il caffé e di conseguenza avesse tutta quella voglia di smaniare e fare il folle spericolato. Sei o sette anni fa però i poliziotti addirittura lo fermarono perché guidava troppo piano. Lo presi in giro per mesi, ah.
«Da Eleanor» Sorrise affettuoso, una sorta di lucentezza impregnata di dolcezza e amore che mi abbigliava e rischiava di farmi venire una carie. Di solito faceva sempre così quando intavolavamo l'argomento “Eleanor”, che sarebbe mutata da “Storica fidanzatina” a “Mogliettina perfetta” da lì a poco. «È da molto che non la vedo.»
«Oh, ecco perché tanta fretta» conclusi, con fare vagamente offeso. 
Certo, facciamo le corse per andare dalla nostra morosa e investiamo la sorella scansafatiche, boo-ya.
«Ma sarei pronta a scommettere che vi siete consumati il credito del cellulare a vicenda a colpi di “Stacca tu”, “No, trottolina mia, stacca tu!”, “Insisto, pulcino, stacca tu!”, “Oooh, sei bellissima quando mi chiami pulcino!”, “E tu sei bellissimo quando mi dici che sono bellissima quando ti chiamo pulcino!”»
Mi cimentai in una stramba imitazione che rasentava il ridicolo, ma i vetri erano oscurati, pertanto non rischiavo 
di farmi vedere da qualcuno nel mio momento di follia. Be', ci mancherebbe. Non prendetela come una cosa personale, Eleanor mi è simpatica (O quantomeno lo è diventata dopo aver abbandonato quell'alone candido e puro da Doris Day), ma proprio mi veniva da rigettare a vedere quei due impegnati in cose così... puah, cicci-pu. Che mi venisse un colpo, mi si era appena cariato un molare!
«Almeno l'abbiamo fatto senza interruzioni» ribatté lui, lanciandomi uno sguardo carico di rimprovero. Ebbi la netta sensazione che fosse ancora incazzato perché qualche mese prima, mentre le colombelle innamorate erano impegnate con i loro “stacca tu”, mi ero avvicinata e senza permesso avevo interrotto la telefonata urlando “Stacco io!”. Beh, purtroppo anche la mia pazienza ha un limite, che ci crediate o meno. E poi dovevo usufruire urgentemente del telefono. Una telefonata collettiva con i membri della mia banda, se capite cosa intendo.
«Che c'è? Ne avevo abbastanza. E mi serviva il telefono! E quella scena era peggio del peggior film horror.»
E scusatemi se suona esagerato.
«Un metro e cinquantasette di puro cinismo» Louis esordì con un sorrise storto. Odiavo questo suo mettere in mezzo l'altezza. Sì, ero alta 1,57 e sì, ero vergognosamente minuta per i miei ventidue anni. E allora? Le donne basse nel profondo avevano un certo fascino. Molto nel profondo.
Tipo, mh, come nel profondo di un pozzo, o dell'Atlantico, più esattamente dove c'era arenato il Titanic, ecco.
Anche se comunque non è che “Lila Tomlinson” e “affascinante” vadano molto bene nella stessa frase, eh. Non mi sono mai trovata particolarmente avvenente, con gli occhi un pò cadenti e il naso troppo piccolo. In quello almeno somiglio alle mie sorelle, ma per il resto siamo totalmente diverse. Quasi tutte le Tomlinson hanno gli occhi azzurri e i capelli biondi; Solo io e Louis siamo effettivamente mori, ma mentre lui sfoggia i tipici occhi cristallini, io ho bizzarri occhi cangianti, che variano dal verde, al verde scuro, al grigio, al castano, o all'ambrato, anche. Un vero arcobaleno.
Quando hai la fortuna di avere gli occhi azzurri possono vezzeggiarti con un “Hai davvero degli occhi celestiali”, se verdi allora puoi aspirare ad un “Hai due smeraldi al posto degli occhi”, ma se possiedi un'imbarazzante miscela di colori tra il castano e il verde scuro? Be', insomma, i paragoni più carini erano “color cioccolato” o “color pera”. Gli altri sono... un tantino irripetibili. Quindi, no, i miei occhi non sono fighi, e no, non vi augurerei mai di possedere tale colore.
«Non sono cinica, sono diversamente romantica» obiettai.
«E io che ho detto? Ehi, questa è scuola di Phoebe e Daisy, vero?»
«Sì, superstar. Ora corri dalla tua Giulietta, ché se ti aspetta troppo fuori al balcone si becca una polmonite.»
«Sul serio, ma Giulietta a forza di stare sul balcone non si è ammalata?»
«Chiedilo a Shakespeare, baby.»
Gli scoccai un bacio sulla guancia e mi infilai velocemente cappotto e sciarpa, questa volta allentandoli entrambi per evitare di sembrare un gamberetto abbrustolito. Appena misi piede sull'asfalto notai quegli impiccioni dei paparazzi e mi limitai ad alzare in modo bizzarro gli angoli della bocca, sperando che il risultato fosse la cosa più vicina ad un sorriso sincero. Ammetto che nel profondo mi sentivo un pò Angelina Jolie, ma senza il suo fascino Joliesco. Nel contempo Louis da dentro salutava tutti come se fossero buoni amici, dalla serie “Ehi, bello, hai visto che hanno fatto i Lakers ieri?”.
Non mi sarei sorpresa così tanto se li avesse invitati a saltare su accanto a lui. Visto che le telecamere erano puntate su di lui, io ne approfittai per svignarmela in grande stile, percorrendo il vialetto della scuola e confondendomi con la folla. Sentii l'ultimo avvertimento di Louis come un suono ovattato e attituto.
«Non finirmi sotto un'auto, Miss Cinismo 2016!» 
Per carità, non avevo mica la sfiga attaccata al culo. O forse sì?

l'angolo della miws.
Saaaalve, prodi lettori. Sono tornata con una nuova stronz-- fanfiction su quei cinque coglioni universalmente riconosciuti con il nome di One Direction. Premetto che il prologo sarà diviso in due parti, ed è ambientato nel 2016. La vera e propria storia sarà invece ambientata un anno dopo.
La fanfiction è ispirata all'omonimo film Life as we know it (Tre all'improvviso), e grossomodo la trama è quella. Ovviamente non sarà uguale.
Detto ciò, boh, recensite.
Per tutto il resto, io ho l'ascia.
 psicoticamente vostra,
midnightsun
  
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