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Autore: MaTiSsE    04/06/2012    5 recensioni
"Mi voltai di colpo, scombussolata. Qualcosa era tornato a fare male.
Me lo ritrovai faccia a faccia, il fotografo: Andrea detto Zeno detto Genio.
Andrea era un bel nome, perché storpiarlo?
Non lo riconobbi dal viso ma dai suoi tatuaggi: Medea mi occhieggiava con tutte le serpi dalla sua spalla, tra rose, teschi e scritte in lingue sconosciute.
Balbettai qualcosa, i denti stridevano e la lingua non era in grado di articolare una parola. Erano tornati i miei momenti scuri, quel capogiro, la confusione, l'irrazionale sensazione di non saper dove mi trovavo e perché. Ero convinta di essere guarita, quella foto invece mi aveva riportato indietro. Cento passi indietro, tutti gli sforzi dei miei diciotto anni buttati via per una foto."
Un centro sociale, due giovani che non si conoscono e forse si conoscono da sempre: questa è la storia di Meg e Andrea, il Genio.
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Roberto Kusterle








“Stai guardando per davvero” ripeté, convinto. Io non sapevo che fare.
Per la prima volta nella mia vita mi sentivo una stupida. Non che fossi stata sempre particolarmente intelligente, pronta o sagace, ma in linea di massima non  potevo lamentarmi troppo del mio modo di approcciare al mondo e alla gente. Era anonimo, essenzialmente, ma sicuro nella sua banalità: non potevo chiedere di meglio. E invece in quel momento seppi che ogni certezza si stava disintegrando dentro di me. La mia capacità di affrontare gli ostacoli e rialzarmi, discutere con la gente, affermare le mia idee, anche solo rispondere, tutto stava andando felicemente a farsi fottere ed era colpa di Zeno. Delle sue foto, di quella strada sconosciuta, di quegli occhi grigi pieni di cose da dire, familiari tanto quanto il bricco del tè che fischiava sul fornello della cucina ogni pomeriggio alle cinque.
O forse era soltanto colpa della mia memoria. Perché ancora mi restituiva ricordi che raramente erano veritieri; più spesso si trattava di sensazioni impossibili da descrivere che mi riempivano e mi spezzavano dall’interno. E così la confusione tornava ad assalirmi,  ripiombavo nel buio e…
 
“Le tue foto sono tutte in bianco e nero.” fu tutto ciò che risposi.
Proprio una stupida risposta eppure lui annuì.
“Trovo che sia più funzionale allo scopo. Le fotografie a colori costringono l’osservatore a vedere quello che c’è: un fiore giallo, il cielo blu, delle labbra rosse. Il bianco e il nero ti consentono di lavorare di fantasia, potrai vedere quello che vuoi, non quello cui ti costringe la realtà. La fotografia è una forma di evasione, non un modo per starsene incatenati a questo mondo.”
Probabilmente lo guardai a bocca spalancata per diversi minuti. Dovette immaginare che fossi una mezza sciroccata.
“Io… io… “ balbettavo. Infine mi voltai, indicai la foto e quella viuzza che conoscevo. Volevo capire.
“Conosco quella strada.”
Fece spallucce.
“E’ possibile: si trova dall’altro lato della città.”
“Dove?”
“Quartiere San Giovanni”
Un quartiere un po’ degradato, gente che si arrangiava.

“Non posso esserci stata. Non è un posto che frequento, normalmente.”
“Certo, non puoi.”
Alzò le spalle, mi sentii colpita. Assunse un’espressione contrita per un istante.
“Non posso?”
“Sei una brava ragazza, si vede. Per San Giovanni non ci passeresti mai…”
“Tu invece?” risposi di rimando, stranita.
 
“Meg!”
La voce di Romina mi raggiunse in un boato nello stesso istante, interrompendo ogni conversazione. Mi scombussolò come un vulcano pronto ad esplodere nelle mie orecchie mentre io volevo solo parlare piano, in un posto quieto con Andrea, davanti a una finestra che desse su di un giardino magari. Proprio la tipica studentessa sfigata, insomma, quella che immaginava di poter vivere ogni scena della propria vita in mezzo ai fiori. Ridicola.
“Allora sei venuta! Oh… Genio, ciao!”
Andrea alzò appena la mano per salutarla. Di sicuro non sapeva neanche chi fosse.
“Allora, Meg… ci vediamo. Grazie ancora.”
Voltò le spalle con eleganza e si allontanò senza aggiungere altro. Aveva salutato solo me ed ebbi l’impressione che anche la sua Medea agitasse le serpi per farmi ciao ciao.
Mi stropicciai gli occhi e quando li riaprii desiderai immediatamente richiuderli.
In questo modo almeno non sarei stata costretta a contemplare l’espressione esaltata di Romina.
“Hai visto?! Che ti dicevo?! Aaaahhhhwww!”
 
“Ahw”.Un “ahw” prolungato. Degna espressione di una fangirl scema.
 
Vi prego, seppellitemi.
 
“Romina, riprenditi. Non è successo niente.”
“Vuoi scherzare?! Capisci chi ti ha rivolto la parola?”
“Un ragazzo tatuato sui vent’anni che per hobby fa il fotografo. Appena parlerò con Dio ti darò il permesso di esultare con tanto di pon pon. Adesso no.”
“Smettila di sminuire sempre tutto! Ero certa che ti avrebbe notata… sei così terribilmente radical chic!”
Alzai gli occhi al cielo, spazientita.
“Guarda che non mi stai facendo un complimento.”
“Oh, non essere pignola! Intendevo dire che hai classe!”
“Ma non è questo il significato…”
 
Prima che potessi impelagarmi con Romina in una discussione su ciò che volesse dire l’espressione radical chic secondo il genere umano e ciò che volesse intendere esclusivamente lei, il cellulare vibrò in borsa, più volte. Mi affrettai a raccoglierlo, rovistando tra scartoffie colorate, carte di gomme da masticare già consumate, un paio di penne mangiucchiate e almeno cinque agendine di diverso colore.
“Pronto!”
“Margherita… Sai che ore sono?”
 
Papà.
La sua voce seria, quella che non ammetteva repliche.

Merda.
 
“Eehmm… sono le…”
Guardai l’orologio. Entrambe le lancette erano ferme sul dodici.
Dov’era l’orologiaio? Avevo bisogno di cambiare la pila.
 
“Non importa. E’ tardi. Stasera ci sono i nonni a cena…”
 
I nonni.
 
… Con zio Aurelio e la sua seconda moglie.
E tua cugina Florinda, quella cara ragazza! Sai che ha superato a pieni voti il primo anno di economia all’università cattolica? Perché lei studia in un ateneo serio e di classe, mica come te che l’anno prossimo vuoi iscriverti a una miserabile facoltà di Lettere in città! Lei è avanti, è andata oltre, è chic, sa cosa vuole dalla vita.
Tu, invece…

 
“Ci sarò. Sto per tornare a casa.”
“Bene.”
 
Un clic dall’altro lato inghiottì la voce di papà eppure mi sembrava rimbombasse nella mia testa in mille echi insopportabili.
 
Zio Aurelio. Sua moglie Katiuscia.
E Florinda.
Aurelio, Katiuscia, Florinda.
I nonni.
Condannarli al rogo, come faceva l’Inquisizione, ecco cosa desideravo.
Era così sbagliato se, nel pensare a quasi tutti loro, mi venivano istinti omicidi?
 
“Devo andare.”
Romina mi guardò delusa.
“Ma come? Stai qui con noi, dopo festeggiamo, la mostra ha avuto parecchio successo! E poi i ragazzi stanno pensando di occupare anche il vecchio edificio abbandonato del Rhodiaceta. Se vuoi puoi vedere come si organizzano.”
Scossi la testa.
“Ho i nonni a cena. E zio Aurelio, Katiuscia…”
“…E Florinda.”
“Esatto.”
“Okay, come non detto. Ci si vede domani, tesoro.”
 
La salutai, agitando la mano, facendomi spazio tra la gente.
Mi guardai ancora un po’ intorno, speranzosa. Inutile non ammetterlo, cercavo Andrea. Tuttavia, di lui, neppure l’ombra si vedeva in giro. Non individuai la sua cresta viola, nessuna Medea mi occhieggiò tra la folla.
Quand’ero già in strada il cellulare tornò a vibrare. Lo recuperai di nuovo frettolosamente, timorosa di un nuovo rimprovero paterno.
Invece era un messaggio di Romina:
“E comunque, complimenti per la conquista.”diceva.
 
La mandai a quel paese, ridendo fra me e me.
 
***

“Tesoro della nonna, come stai?”
Il profumo di mia nonna Margherita m’investì totalmente. Dopo averne aspirato una piccola quantità mi stordii come se mi fossi buttata in corpo chili di hashish. Non mi sarei mai abituata ai suoi profumi fruttati di provenienza francese: semplicemente li detestavo. C’era da dire che la nonna, alla veneranda età di 72 anni, si reggeva ancora benissimo: conservava un fascino antico, fasciata nel suo tailleur scuro, indossando scarpe dal tacco basso e la punta quadrata. Alla sua età chiunque avrebbe desiderato mantenere la medesima estetica.
Lo stesso avrei potuto dire per il nonno, sempre impeccabile nei suoi completi grigi a costine, nonché per mio zio Aurelio che vantava splendidi capelli biondi (frutto di un costoso trapianto effettuato da un’equipe di esperti di Cesare Ragazzi) e un sorriso luminoso da pubblicità della Colgate .
Infine c’era Katiuscia, la seconda e più giovane moglie di mio zio, rimasto vedovo quattro anni prima.
Katiuscia, di origini russe da parte di padre, era alta e bionda; sempre truccata, sorridente e nel 90% dei casi vestita di strass, aveva i capelli vaporosi e le tette più grosse che avessi mai visto. Anche le più siliconate, probabilmente.
Una bella Barbie, in altre parole.
A guardarli tutti erano davvero perfetti. Peccato fossero quanto di più estraneo e lontano avessi visto in vita mia; era sempre così: ci incontravamo una volta al mese, due al massimo in caso di particolari festività, e ogni volta, anziché avvicinarci, li sentivo più distanti che mai. Da un parente caro puoi andarci anche vestito con jeans e t-shirt, non c’è bisogno sempre di stare in tiro, no?
Tra noi questo invece non accadeva mai.
Forse era questo che decretava la nostra lontananza: il vestiario. I legami di sangue non necessariamente sono legami sentimentali: Aurelio, per esempio, di fatto poteva essere mio zio ma per il  mio cuore non era nessuno e viceversa. E per gli estranei bisogna essere tirati a lucido perché è necessario mantenere le apparenze; ecco perché, quando i miei parenti venivano a trovarci, sembrava sempre fossero diretti a una festa di ricconi piuttosto che da gente di famiglia: perché per loro noi non contavamo niente. Forse neanche l’uno per l’altra significavano davvero qualcosa: eravamo una famiglia inutile di borghesi inutili e privi di sentimenti, era questa la verità.
Era la mia famiglia e io la odiavo.
 
“Ciao nonna. Sono felice di vederti.”
 
Menti, Meg. Sai mentire bene.
 
“Ne sono felice anche io.”
Il nonno, dopo di lei, mi salutò con un sorriso e una pacca gentile sulla spalla: fra tutti era quello che preferivo perché non parlava mai inutilmente. Avevo più stima per mio nonno che per l’intero parentado.
“Margherita Egle! Tesoro, quanto sei cresciuta!”
La voce di Katiuscia, al contrario, mi trapanò il timpano. Zio Aurelio, alle sue spalle, fingeva di sorprendersi allo stesso modo degli invisibili centimetri in più che aveva acquisito la mia statura nell’ultimo mese, boccheggiando come un pesce lesso, e a me venne da vomitare. Se almeno avessero smesso di pronunciare il mio nome per intero – lo trovavo improponibile – magari saremmo andati appena più d’accordo.
“Grazie zia. Stai benissimo.”
 
Le tue protesi reggono bene, zia.
 
Rispose con un sorriso a cento denti: ottimo, credeva alle mie bugie.
In ogni caso, e fortunatamente, me li scrollai subito di dosso: alle mie spalle, infatti, mia madre e mio padre facevano allo stesso modo mio gli onori di casa, attendendo sulla porta i loro ospiti come ogni volta in cui venivano a trovarci. Era una processione prestabilita: prima i saluti da parte della piccola di casa, poi i visitatori passavano per il capofamiglia – l’imprenditore Francesco Maria Gherardi – e infine venivano dirottati verso la signora (mia madre) che li trascinava nel salotto buono ordinando per loro qualcosa da bere al nostro maggiordomo. Maggiordomo, poi! Un povero cristo filippino che veniva a pulirci i vetri e che, per guadagnarsi due lire, era costretto a sorbirsi tutti gli ordini e le ramanzine di mio padre. Lo compativo.
Già sorridevo, valutando il tempo che mancava per porre fine allo strazio, quando un rumore di tacchi sul selciato mi ricordò che non era ancora finita. Mancava l’ultimo saluto: quello a mia cugina Florinda.
 
“Cugina… buonasera.”
“Ciao Florinda. Ti trovo bene.”
Mi squadrò da capo a piedi, con aria di evidente disgustoso. Nello stesso momento mi guardai anch’io dall’esterno, immaginandomi come lei mi vedeva: una ragazzina di quasi diciannove anni, più bassa della media, con i soldi che le venivano fuori dalle tasche e che, nonostante questo, seguitava a vestirsi come una stracciona. Una ragazzina insulsa, per essere più precisi, con indosso una camicetta a fiori da sfigata e le ballerine rosse, l’orologino di pelle finta e i graffi sul braccio provocati dagli artigli dell’ennesimo gatto accudito di nascosto, in giardino. I miei capelli non vedevano un parrucchiere da anni, non mi truccavo molto, non ero solita passarmi lo smalto e indossavo della bigiotteria da
quattro soldi. Immaginavo cosa stavo pensando: sei una vergogna per la famiglia Gherardi, Margherita!
Lei, invece – che aveva soltanto un anno e mezzo più di me - vestiva con gonne eleganti, scure, a vita alta, e camicette dai ricami sfarzosi in stile settecentesco. I suoi capelli bruni erano sempre vaporosi, boccolosi, freschi di parrucchiere; il rossetto rosso si stendeva splendidamente sulle labbra carnose e le ciglia lunghe contornavano eleganti i suoi occhi verdi, eredità della compianta zia Carolina. Particolare essenziale: camminava sui trampoli e non cascava mai.
Insomma, a guardarmi dall’esterno stava certamente pensando che io fossi una poverina, in confronto a lei. Beh, amen. Non sapevo che farci.
 
“Ti ringrazio” sputò infine in risposta al mio complimento.
In teoria, e per educazione, avrebbe dovuto dirmi “trovo bene anche te” ma non lo fece. Piuttosto ridacchiò mentre, sorpassandomi per buttarsi tra le braccia dello zio preferito – l’unico, tra l’altro – mormorò un indisponente “sei sempre un po’ sciupatina però, vero?”
 
***
 
“Ludovico si trova a Londra, vero Franco?”
Papà annuì compiaciuto in risposta alla domanda della nonna. Nella sala da pranzo non si sentiva altro rumore che quello di forchette e coltelli che stridevano sui piatti del servizio buono. Io fingevo soltanto di affettare. In bocca c’infilavo la metà di quel che tagliuzzavo: detestavo mangiare a tavola con certa gente. Mia madre – la mia bella e dolce mamma – di tanto in tanto mi lanciava occhiate di rimprovero. Voleva dirmi “mangia altrimenti non esci con Romina” ma io continuavo a fingere di non vederla.
“Si è preso una vacanza.”
“E’ a casa della fidanzata?”
“Sì, da Amy.”
Amy, la ragazza di mio fratello, era inglese. Di famiglia ricchissima ma una famiglia bella, di quelle che si volevano bene. La invidiavo.
“Senza mio nipote è tutto più complicato, in azienda!” commentò zio Aurelio ridendo e pulendosi la bocca con ampi gesti.
Detto per inciso, l’azienda era la Gherardi&Stornelli snc., leader nella regione nella produzione di imballaggi industriali in legno. Fondata nel lontano 1947 da mio nonno e un amico dell’epoca la cui famiglia si era poi fusa con la nostra grazie ad una serie di matrimoni, tra cui quello di zio Aurelio con la compianta Carolina. Non si trattava di un’azienda grandissima ma insomma, fruttava i suoi soldi. Una cosa insopportabile, in altre parole.
“Sì, puoi dirlo forte.”
“Per fortuna è un periodo tranquillo, questo.”
“E’ vero. Nonostante i tagli al personale degli ultimi tempi non ci sono stati grandi problemi.”
“Dopo tutto quel che è accaduto in passato ci mancherebbe.”
L’ultima frase pronunciata da mio padre fu anche la più infelice. Sapevamo tutti cosa significava, per me in particolare. Abbassai gli occhi sul piatto, costernata, mentre gli sguardi di tutti si puntavano sulla mia persona.
“Tesoro, hai ancora quelle orribili crisi?”
No, mi sbagliavo: più infelice degli interventi di mio padre c’erano soltanto quelli di Katiuscia.
Ma perché non si faceva mai i cazzi suoi?
Scossi la testa, stringendo convulsamente il tovagliolo sulle mie gambe.
“No, adesso Margherita sta bene.” rispose mamma con voce dura.
“Non si direbbe, ha quella faccina così pallida!”
 
Florinda, che tu possa crepare!
 
“E poi ancora non ricorda tutto. E’ vero tesoro? C’è ancora qualcosa che non ricordi?”
“Aurelio, lasciala in pace!” l’ammonì mio nonno.


“Sei ancora certa di non voler studiare economia come tuo fratello e tua cugina, Egle? Sarebbe la scelta più giusta, dopo potresti lavorare con noi in azienda. Perché ti ostini con questa stupida facoltà di Lettere?”
“Perché non me ne frega niente della vostra azienda!” sbottai d’improvviso. Avevo raggiunto il limite ormai: ci mancava soltanto la nonna che s’impicciava del mio futuro accademico per completare l’opera. “E per favore nonna, Egle è un nome che non mi piace! Potresti evitare di usarlo? Mi chiamo Margherita. M – A – R – G –H – E – R – I – T – A, come te! Non è difficile!”
Lanciai il tovagliolo sul tavolo, furiosa, e mi allontanai alla svelta mentre papà, alle mie spalle, chiamava il mio nome con voce intrisa di rabbia e mortificazione: la sua figlioletta scema l’aveva gettato nel ridicolo ancora una volta. Non lo ascoltai comunque, né mi preoccupai delle occhiate disgustate o sorprese degli altri ospiti o dei tentavi di mia madre di riportare stupidamente tutto all’ordine proponendo di mettere in tavola il dolce.
Tutto ciò che afferrai fu l’ennesimo commento inascoltabile di mia cugina Florinda:
“Poveretta! Non si riprenderà mai più! Zio, ti ho sempre detto che dovresti portarla da un buon specialista, perché non mi dai ascolto?”
L’istinto di tornare indietro e schiaffeggiarla mi travolse, tuttavia mi appellai a tutto il mio autocontrollo e mi trattenni. Dopotutto, le avevo dato io modo per denigrarmi compiaciuta, ancora una volta.
 
Se avessi potuto, sarei scappata via. Avrei aperto la portafinestra che dava sul giardino e sarai andata via. Prima in giardino, poi sulla strada, oltrepassando il muretto di cinta. E poi sempre più lontano fino a sparire per non pensarci più. O forse non avrei risolto nulla perché gente come me i suoi problemi se li porta cuciti sotto la pelle e li ritrova sempre, ovunque vada.
Fatto sta che non potevo allontanarmi veramente per ovvie ragioni e così, ancora una volta, l’unica cosa che riuscii a fare fu raggiungere il piano superiore. Qui, mi chiusi in camera in tutta fretta, decisa a uscirne soltanto in caso di necessità e possibilmente di nascosto, quando il display del cellulare che avevo lasciato sulla scrivania s’illuminò d’improvviso.
Riluttante mi avvicinai al mio Nokia soltanto per scoprire che l’ennesimo messaggio di Romina era arrivato a destinazione. Sorrisi nel leggerlo. Nonostante la rabbia, la frustrazione, la collera, riuscii a sorridere semplicemente perché recitava così:
 
“Non vorrei dirtelo ma… Zeno ti cercava. Ha chiesto di te!”
 
 















Buonasera ragazze :)
Eccoci qui con l'aggiornamento! :)
In questo capitolo abbiamo scoperto qualcosina in più sulla vita della nostra Margherita: avrete capito che la sua è una famiglia abbastanza benestante (non stiamo parlando di Berlusconi ma comunque i loro soldini ce li hanno) per cui Meg è abbastanza estranea all'ambiente dei centri sociali. Per adesso ;)
In ogni caso è una persona che non riesce a legare neppure al mondo fatto di denaro e falstà della sua famiglia: è molto combattuta e spesso faticherà a trovare il suo posto "nel mondo".

Grazie per le sei recensioni al primo capitolo, mi avete resa felicissima :D Vedo che Zeno già spopola: in questo capitolo è comparso poco, dal prossimo tornerà alla grande. Adesso avevo davvero l'esigenza di presentarvi meglio la nostra protagonista. Detto per inciso, Meg è un nome che le ho attribuito in onore della mitica Meg ex 99 Posse, una cantante che ho sempre amato molto :)
Vi ringrazio ancora molto per l'accoglienza riservata a Piovre sotto pelle: spero continuerete a leggere e lasciarmi i vostri pareri <3
Un bacio a tutte voi
Matisse
PS: il capitolo non è betato, mi scuso per eventuali errori.
PPS: ho "usato" di nuovo Kusterle come immagine del capitolo, la trovo davvero significativa per la nostra Meg, ma non escludo di potervi presentare una copertina più bella per il prossimo aggiornamento :D
   
 
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