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Autore: Yuri_e_Momoka    06/06/2012    0 recensioni
«Sogno gli omicidi… in anticipo. Quando sono sul punto di risolvere un caso li vedo. Sono come i ricordi di uno sconosciuto.»
Non riusciva a capire, era quello il vero dolore, la sua vera disperazione. E poi c’era quell’urgenza, come un’immensa fame, un bisogno di essere elogiato da John, vedere la sua approvazione e il suo orgoglio nel suo sorriso, nei suoi occhi, sentirli nelle sue parole. Ancora e ancora, non poteva farne a meno. Il suo cervello era assetato di elogi. Qualcosa doveva essersi rotto quando era stato colpito, lo sapeva. Quei pensieri erano come un cancro. Ma l’unico modo che aveva per fermarli era John.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Lestrade , Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Unbearable Nota dell'autrice: Questa fanfitcion è nata in inglese e, poiché non si tratta propriamente della mia lingua migliore, la sua traduzione risulta un po' impoverita, me ne rendo conto. Potete andare QUI per leggere la versione originale (sempre by me). Mi auguro comunque che appreziate l'idea. Buona lettura!



«Il metro» disse, sollevando la testa e fissando il vuoto, rivolto verso il camino. Non c’era niente lì, ma attraverso quel buco nero poteva vedere in un altro luogo, in un altro tempo. Poteva vedere il momento in cui il killer aveva afferrato il metro e aveva strangolato la sorella, ruggendo, una scintilla primitiva negli occhi.

«Come lo sai?»
«Hai mai visto un sarto senza metro? L’ha usato per ucciderla, ecco perché non lo aveva nel suo laboratorio. Chiama Lestrade, andremo là.»
Sherlock si alzò dalla sua poltrona e lanciò un’occhiata a John prima di dirigersi in cucina: meraviglia, ammirazione, orgoglio. Il suo viso era così leggibile. Sherlock sorrise.
Un altro caso risolto.
 
Il sarto non fu meravigliato affatto. Aveva creduto che liberarsi del metro sarebbe stata la scelta migliore. Doveva essere stato un insulto alla sua povera intelligenza. Aveva davvero creduto che nulla avrebbe potuto incastrarlo, ma si sbagliava. Fallire causa sempre un’acuta delusione.
Quella pesante sbarra di metallo: probabilmente la usava per appendere i vestiti ultimati. Probabilmente? No, Sherlock ne era certo, anche mentre la sbarra scendeva sulla sua testa e lo sguardo negli occhi del sarto rasentava la pazzia.
 
La sua percezione era strana: non era sicuro circa la reale distanza degli oggetti, né del loro colore- La luce era troppo brillante e ferì i suoi occhi per alcuni istanti. Era John? Era abbastanza vicino da poterlo toccare? Avrebbe voluto accertarsene ma improvvisamente capì di non poter alzare il braccio. Era meglio riposare ancora un po’. Il dolore alla testa stava aumentando.
John diceva qualcosa, o forse gridava. Sherlock poteva a mala pena udire un brusio, ma poteva vedere i suoi occhi. Cos’era quello sguardo? Poteva leggere paura e preoccupazione, ma anche una punta di… delusione? Il dolore dalla testa ferita stava migrando più in basso, improvvisamente colpì il suo petto. Perché era deluso?
Sentì la mano di John premere sulla sua spalla. «Stai giù. L’ambulanza sta arrivando.»
Non ho bisogno di un’ambulanza, sto solo risposando, ma non sapeva se aveva effettivamente parlato o se si era soltanto immaginato quelle parole.
Di nuovo quello sguardo: incredulità e delusione.
«Perché non l’hai evitato, o non hai almeno cercato di difenderti?»
Stavo deducendo la sbarra. Ho calcolato male le priorità, a giudicare dalla tua faccia.
«Hai sbagliato le tue priorità» disse John. Anche lui poteva leggere lo sguardo di Sherlock. Non era stupido. Non completamente. Ma poi scosse la testa tristemente, rassegnato.
La sensazione fu la stessa di essere colpiti una seconda volta.
 
Giacere sul suo letto era indubbiamente più comodo che stare sdraiato sul duro, sporco pavimento nel laboratorio di un omicida. Ma c’era ancora qualcosa di doloroso che continuava a ricordare e che lo faceva sentire a disagio.
«Il tuo brillante cervello non sembra aver subito danni.» John entrò nella stanza. Si sedette sul margine destro del letto, appoggiato alla mano sinistra, sporgendosi in avanti. «Ma devi avere cura di te stesso e smetterla di comportarti da idiota incosciente.»
«Non riesco a capire» rispose Sherlock. Non gli importava delle parole di John, ma solo del suo sguardo irritato.
«Cosa?»
Perché mi interessi così tanto la tua approvazione, ma non erano quelle le parole giuste da dire.
«Ma ho risolto il caso, no?» chiese invece. Un sottile sorriso apparve sul volto di John e Sherlock avvertì un lieve sollievo.
«Sì.» John abbassò lo sguardo sulla coperta, come se stesse rievocando una memorie piacevole. Poi la sua espressione tornò stizzita e si alzò, camminando fuori dalla camera. «Ma ora preferirei che non l’avessi fatto.»
Quella spiacevole sensazione non sfumò. Sherlock la ricordava, Baskerville, il disagio, la paura di avvertire un sentimento che non era suo. Un pensiero parassita.
Il dolore gli esplose in testa.
 
«Stai bene, Sherlock?» domandò Lestrade.
«Perfettamente.»
«E allora perché quella benda?»
«Stupida precauzione del medico. E ora, se volete tacere e lasciarmi lavorare…»
Stava seduto sui talloni, le mani giunte sotto il mento, studiando il corpo di un uomo morto nel terrore. La smorfia sul suo volto era grottesca, piena di dolore e paura. Nessun segno di violenza, niente sangue, nulla fuori posto.
«Il medico legale dice che potrebbe essere stato un attacco di cuore, ma niente è certo prima dell’autopsia. In ogni caso credo sia evidente che…»
«Silenzio» ripeté Sherlock.
Non vi era nulla di interessante in quel corpo, avrebbe potuto continuare a cercare ma sapeva che no avrebbe trovato nulla lì. Ma nelle vicinanze sì.
Si alzò lentamente, guardandosi attorno. Il corpo era caduto dalla sedia di fronte al tavolo, il quale era coperto da una tovaglia bianca. Sul tavolo alcune carte da gioco: un solitario incompiuto. Aveva piazzato il Jack di picche al posto sbagliato. Un bicchiere di liquore, mezzo vuoto. Scotch. Nulla di rilevante. Un candela. Perché usare una candela in una casa con l’elettricità?
«Accendete le luci» ordinò Sherlock, qualcuno obbedì. Sentì il rumore di un interruttore ma la luce non venne. «Ovvio» mormorò.
Sherlock annusò la candela. Riconobbe l’odore: un’improvvisa intuizione, un lampo nella sua mente, epifania.
«Portate questa al laboratorio» disse porgendo la candela a Lestrade, «questa è la vostra arma del delitto.»
Due ore più tardi ricevettero il risultato dei test: una rara radice indigena bruciata con la candela aveva causato allucinazioni e un attacco di cuore. Il cognato era appena tornato da un lungo viaggio in Africa: odiava la vittima. Caso risolto.
Sherlock incontrò lo sguardo di John: stava sorridendo in ammirazione e orgoglio. Fu come una rinfrescata in un giorno caldo.
 
La pioggia batteva sugli ombrelli producendo suoni croccanti. Avevano coperto il corpo il prima possibile, ma a quel punto qualunque tentativo di prevenire ogni altro danno sarebbe stato inutile: la pioggia aveva già lavato via qualunque cosa dal corpo e dalle vicinanze, il cadavere era freddo e leggermente irrigidito, persino l’ora della morte sarebbe stata difficile da stabilire.
La polizia stava vagando per la via alla ricerca di qualcosa che l’acqua non avesse ancora trascinato via, con scarsi risultati. Tra il corpo e il marciapiede un torrente stava scorrendo insistentemente.
«Ipotizzo che sia morta tra le otto e le venti ore fa. È un largo lasso di tempo, ma questa pioggia…» John si alzò dal corpo con aria contrita. «Dobbiamo aspettare l’autopsia.»
Il mal di testa di Sherlock iniziò con un fastidioso brusio e iniziò ad aumentare. Non rispose. John lo fissò alzando le spalle, aspettando di udire qualcosa di intelligente dal consulente investigativo.
«Venti ore sono un tempo troppo lungo. Questa strada dev’essere stata percorsa la scorsa notte almeno una o due volte. È morta non molto tempo fa, ma il corpo è già rigido. Dobbiamo cercare ciò che l’ha causato.» Sherlock avvertì il bisogno di guardare John, leggere la sua espressione. Mal di testa.
Il rigagnolo continuava a fluire. Iniziò a seguirlo con passi ampi e attenti. John lo seguiva. La strada diventò più larga e il torrente si divise in due. Destra o sinistra. Destra. Procedette per qualche passo ancora. Ed altri ancora. Forse un altro. Sì, doveva essere quello il luogo. Sherlock si chinò. C’era una grata sul lato del marciapiede. Sapeva che sarebbe stata lì. Intrappolata tra le sbarre trovò l’arma del delitto: una siringa.
John lo raggiunse e gli mise una mano sulla spalla. Sherlock sentì che si sporgeva in avanti per vedere meglio. Sentì il suo respiro diventare più rumoroso per la sorpresa.
«Fantastico! Come hai… al primo tentativo…»
«Dobbiamo essere creativi, John.» Sherlock sorrise compiaciuto. Il mal di testa era svanito. «Io sono creativo, in effetti, e questo era abbastanza semplice da immaginare. Potrei quasi dire che si è trattato di un déjà-vu.»
 
La sua stanza. Era la sua stanza. Beh, ovvio: era notte, stava dormendo ed era nella sua stanza, nel suo letto. Perfettamente normale. Aveva sognato qualcosa che lo aveva fatto svegliare. Aveva immagini nella sua mente, casuali frammenti colorati. Non avrebbe dovuto provare a dar loro un senso, la mente umana tende a tentare di costruire ponto razionali tra varie immagini, ma non può. La mente umana è limitata, persino la sua, alle volte. È una semplice questione chimica, gli umani tendono ad essere razionali, specialmente Sherlock. Questo era il motivo per cui doveva fermarsi ora, prima di che il sogno venisse corrotto.
Ma qualcosa di scomodo lo stava facendo riflettere: lo odiava. Non riflettere, dubitare. Aveva sognato di un omicidio. Un brillante omicidio, questo va detto. Ovviamente: lui amava gli omicidi, i misteri, i puzzles. Era intelligente, per cui sognava omicidi intelligenti.
Una giovane donna era stata drogata e nascosta in una bara, sotto un altro corpo insospettabile: una donna anziana morta di vecchiaia. La vecchia signora aveva ricevuto un piccolo funerale e la bara era stata seppellita. Questo era ciò che riusciva a ricordare sul suo sogno, tutto il resto non aveva senso, schegge ingarbugliate: qualcosa a proposito dei suoi guanti, cloroformio, John che sorrideva, bianco, un verme che scavava nella carne marcia. Quei pensieri illogici peggiorarono il suo mal di testa.
 
«Sappiamo che la tengono prigioniera, ma non abbiamo prove e non sappiamo dove potrebbe essere!» Lestrade era davvero agitato, stava camminando velocemente davanti a quel zuccheroso, bianco cottage. Molti poliziotti stavano in piedi nel giardino, guardandosi attorno un po’ annoiati, scrollando le spalle: non sapevano cosa fare.
«Abbiamo già perquisito la casa» proseguì Lestrade. «Non avevamo un mandato» ammise infine. «Nulla, non una singola prova eccetto una bottiglia di cloroformio, ma non basta a incriminare qualcuno.»
Sherlock osservò il bianco abbagliante della casa. Era così dannatamente bianco. «Cloroformio, hai detto.»
«Cloroformio» ripeté Lestrade, era troppo ansioso.
John stava battendo un piede sul terreno erboso, pensieroso. Aveva le braccia incrociate. Guardava Sherlock, dubbioso. «Forse potremmo… non siamo della polizia, potremmo chiedere di visitare la casa… e dare un’occhiata.»
Idea stupida. Non sei così stupido, John. Sai che non può funzionare.
Il mal di testa stava aumentando. Una dolorosa escalation. Come un tarlo stesse scavando nel suo cervello, pezzo dopo pezzo. Sherlock chiuse gli occhi and prese fiato. Doveva trovare la soluzione.
Una campana suonò non molto lontano. Sherlock si voltò alla sua destra, video il campanile del piccolo villaggio. La chiesa era fatta di pietre chiare, rustica, campagnola. Sul retro vi era un accogliente cimitero, alcune persone stavano entrando nella chiesa.
«È un funerale?» chiese. Domanda ovvia, non necessitava davvero di una risposta.
«Sì. Una vecchia zia dei proprietari della casa… dove stai andando?» gridò Lestrade guardando Sherlock galoppare verso la chiesa.
«Era grassa?» chiese Sherlock ad un’anziana signora vestita di nero che stava seguendo la bara dentro la chiesa.
«Prego?» La donna era comprensibilmente confusa.
«Mi perdoni, le mie più profonde condoglianze. La donna morta era grassa?»
«N-no, non lo era! Era ancora graziosa e…»
«Allora perché usare una bara così grande?»
La signora era sul punto di scoppiare a piangere. «Era mia amica, non ne ho idea… si meritava una bara grande!»
Sherlock smise di prestarle ascolto e raggiunse la testa della processione. «Polizia. Mettetela giù.» Le persone tutt’attorno borbottavano confuse. «Mettetela giù!»
Lestrade arrivò correndo, mostrò il distintivo. «Fate come ha detto!» ordinò, poi sussurrò a Sherlock: «Spero tu sappia quello che stai facendo.»
John aiutò a rimuovere il coperchio della bara. All’interno giaceva un’anziana donna. Certamente non poteva essere morta durante l’ultima settimana, a giudicare dall’odore e dalla decomposizione.
John era esterrefatto, guardò Sherlock con una punta di panico nei suoi occhi. Il mal di testa era sul punto di fargli esplodere il cervello.
«Spostiamola!» disse Sherlock, stringendo i denti.
La bara aveva un doppio fondo. Lo sollevarono e scoprirono il secondo corpo: la giovane donna rapita.
«È ancora viva!» John aveva premuto le dita sulla sua carotide.
Confusione. Poliziotti tutt’attorno, medici per il primo soccorso, persone che gridavano. Sherlock sedeva sull’erba, ansimando, cercando di concentrarsi contro il dolore.
John si chinò su di lui. «È stato straordinario, Sherlock! Tu sei stato straordinario!»
Sherlock afferrò strettamente il suo braccio. «Dillo di nuovo.»
«Sei stato fantastico.»
Il suo sguardo era sincero, c’erano orgoglio e ammirazione nel suo sorriso. Finalmente Sherlock poté respirare regolarmente, il mal di testa era sparito. Si portò la mano alla bocca per nascondere un sorriso. Il suo guanto emanava un leggero odore di cloroformio.
 
I primi passi furono come un sogno, poi capì che i suoi piedi lo stavano realmente postando alla camera di John, era davvero in piedi di fronte alla sua porta, sentì il legno ruvido della porta di legno sotto i suoi polpastrelli.
La porta era socchiusa. John l’aveva dimenticata? No, aveva abitudini militari: l’aveva fatto di proposito. Si trattava di un muto invito? O solo una precauzione?
Un cigolio smorzato, una lama di luce colpì il letto e si inarcò sopra un corpo avvolto.
«John.» Silenzio. «John.»
Un fremito.
«C-cosa?» Il tono della domanda era un po’ troppo alto. John stava davvero dormendo ed era stato sorpreso da quell’interruzione. «Che succede, Sherlock?»
«Hai qualcosa… per il mal di testa?»
John si sedette e spostò la coperta di lato. «Mal di testa? Dio, hai ancora… perché non me l’hai detto prima?»
Sì allungò attraverso il letto e raggiunse il comodino alla sua sinistra. Aprì il cassetto e Sherlock udì il ticchettio delle pillole in un contenitore di plastica.
«Vieni, siediti.» Sherlock entrò. La stanza odorava di John. «Ho un bicchiere d’acqua qui… Spero non di dispiaccia se… l’ho già usato.»
Sherlock afferrò il bicchiere senza ribattere a bevve le pillole, sedendosi sul lato del letto.
«Credi che sia dovuto al colpo? Al colpo inferto dal sarto, intendo.»
«Probabilmente.»
«Beh, credo… che sia abbastanza normale, sei costantemente stressato da casi pressanti e con una dieta discutibile come la tua…»
«Qualcosa mi fa pensare» lo interruppe Sherlock.
«Qual è la novità?» Lesse una sorta di speranza nel tentativo di sorriso di John.
«I miei sogni.»
«Incubi? Oh, aspetta, che stai…»
Sherlock aveva posato la fronte sulla spalla di John. Non l’aveva premeditato, ma quel posto sembrava essere il più accogliente e sanatorio.
La sua voce era un sussurro. «Sogno gli omicidi.»
«I-io non credo che sia strano. Anch’io sogno gli omicidi, talvolta, specialmente i più terrificanti.»
«Sogno gli omicidi… in anticipo.»
Sherlock avvertì John immobilizzarsi per un momento, poi un timido tremore: stava cercando di ridere. «Sai cosa, ho letto a proposito di questo. Alcune persone possono farlo e tu hai una mente talmente strana… Voglio dire, chissà come lavora davvero il tuo cervello. Probabilmente sei stato suggestionato.» Silenzio, la sua spalla tornò immobile.
«Quante volte?»
«Alcune.»
«Quante?» insistette John.
Una nuova esplosione di dolore  costrinse Sherlock a ritardare la risposta. Qualcosa di estraneo si stava insinuando nel suo cervello. «Quattro.»
«Beh… coincidenze?»
«Quando sono sul punto di risolvere un caso li vedo. Sono come i ricordi di uno sconosciuto.»
Non riusciva a capire, era quello il vero dolore, la sua vera disperazione. E poi c’era quell’urgenza, come un’immensa fame, un bisogno di essere elogiato da John, vedere la sua approvazione e il suo orgoglio nel suo sorriso, nei suoi occhi, sentirli nelle sue parole. Ancora e ancora, non poteva farne a meno. Il suo cervello era assetato di elogi. Qualcosa doveva essersi rotto quando era stato colpito dalla sbarra, lo sapeva. Quei pensieri erano come un cancro. Ma l’unico modo che aveva per fermarli era John.
«Come va il tuo mal di testa?» John stava cercando di fuggire da quello scomodo argomento, ciò fece aumentare il dolore.
«Sei fiero di me?» chiese Sherlock tutto d’un fiato. Fai smettere questa sofferenza. Ti prego. Ti prego. Riusciva a sentire la pena nella sua stessa voce. Era vergognoso, ma improvvisamente era regredito, necessitava di attenzione come un bambino, non gli interessava della miserevole impressione che stava dando. Doveva sentire quelle parole, ora!
«Io… sì.» John era preoccupato. Forse addirittura spaventato da lui. «Lo sono, Sherlock. Sei così intelligente e capace.»
«Dimmelo.»
John sospirò dolorosamente e appoggiò una mano sulla testa di Sherlock. «Sono fiero di te.»
 
Tutte le persone nel vagone lo stavano fissando ad occhi aperti. Un’anziana coppia spintonò gli altri passeggeri e sparì al di là della folla. Cosa c’era che non andava in loro? Ecco perché Sherlock odiava la metropolitana: era popolata da ubriachi, stranieri, pazzi, persone disgustosamente ordinarie che si spaventavano solo perché lui stava seduto lì. Con in mano un arpione. Coperto di sangue. Non era colpa sua, nessun taxi si era fermato per lui. Idioti.
Era un esperimento, avrebbe voluto gridare loro, ma sarebbe stato inutile.
«Che noia» sospirò entrando nell’appartamento.
John improvvisamente sollevò la testa verso di lui, sgomento. «Dove sei stato?! Cos’è quello?!» Era esageratamente agitato, stava in piedi davanti a lui, ma non troppo vicino, stringendo il giornale che stava leggendo pochi istanti prima. Il primo giornale del giorno, dedusse Sherlock, odorava ancora di tipografia.
«Non essere noioso, John. Ho arpionato un maiale per un esperimento, ma non è stato così interessante come avevo immaginato.»
«Un maiale? Tutta la notte?» John non gli credeva.
«Cosa c’è che non va?»
«Sei stato fuori tutta la notte, ero in pensiero per te! Perché non rispondi al tua maledetto telefono una volta nella vita?!»
«Non ho fatto caso al tempo.» Sherlock parlò tranquillamente per impedire al mal di testa di crescere più in fretta. Era sul punto di andarsene, magari per farsi una doccia: i suoi vestiti sapevano di sangue, non esattamente il migliore dei profumi, ma John gli si piazzò davanti interrompendogli il cammino. Stava ancora tenendo il giornale, ma l’aveva piazzato dietro la schiena, come se volesse nasconderlo. Certamente non per nasconderlo da Sherlock, doveva sapere che si trattava solo di uno stupido tentativo. Lo fissava, la bocca semi-aperta, il labbro superiore tremava leggermente, voleva dire qualcosa ma aveva paura, oppure non ne era sicuro.
«Tu hai… hai davvero colpito un maiale?»
Sherlock si guardò attorno esasperato. «Sì, sì! Qual è il problema? Era un maiale morto! È per lui che stai soffrendo? Ha avuto una magnifica, fangosa esistenza finché non è morto come tutti i maiali!»
L’espressione penosa di John lo stava facendo innervosire, lo stava facendo soffrire. Stava dubitando, c’era qualcosa di strano nei suoi occhi. Poteva trattarsi di paura? Qualcosa molto simile. Non aveva paura per se stesso, ma per qualcun altro.
«Ti credo» disse infine. Mentiva.
John camminò lentamente fino al divano e rimase lì, dopo aver gettato a terra il giornale. Sherlock se ne andò in tempo per vederlo prendere in mano il suo telefono e comporre un messaggio, esitando sopra ogni lettera, tremando un po’.
Sherlock si chiuse nella sua camera, bisognoso di separarsi dal mondo. Si tolse la camicia indurita dal sangue, si sedette sul bordo del letto e si prese la testa tra le mani.
Qualcosa nel suo cervello si stava oscurando, come un’eclisse. Immagini, memorie, sogni. Chi era cosa? Era incapace di pensare. Lui non era mai incapace di pensare! Come un vetro trasparente, qualcosa gli impediva di pensare razionalmente. Il dubbio. Il dubbio di John, circondato dal dolore.
Insopportabile…

Insopportabile.
 
Finalmente il riscatto. Un altro caso. Brillante, certo, ma facile da risolvere con una mente attenta e allenata. Come la sua. Ma era comunque glorioso: tutto il sangue della vittima era stato drenato e riempiva una piccola piscina per bambini. La donna morta sedeva su una sedia a dondolo vicino alla piscina con indosso un costume da bagno, cercando di catturare i raggi di un finto sole – una lampada al neon – sulla sua pelle mortalmente bianca, dissanguata.
Curioso, intrigante. Ma non era così difficile sapere come il killer avesse estratto tutto il sangue, poteva quasi vederlo.
«Sherlock!»
«Non ora, sto deducendo» intimò sollevando una mano.
«Sherlock…» Lestrade sapeva essere davvero fastidioso. «Fermati.»
«Mi hai chiamato e ora cambi idea, Lestrade? La polizia non può affrontare quest-…» Il suo piede produsse un rumore liquido. Strano. Guardò in basso: le sue caviglie erano circondate dal sangue, un rivoltante, metallico e dolciastro odore permeava i suoi vestiti e all’improvviso realizzò di stare in piedi in mezzo alla piscina.
«Non ti ho chiamato, Sherlock» disse Lestrade gentilmente. «Mi ha chiamato John, perché tu sei sparito nel mezzo della notte, come aveva già fatto molte altre notti.»
«Non dire assurdità, ricordo perfettamente…» Non era vero. Non ricordava come aveva fatto ad arrivare lì. «John?»
«Non muoverti, Sherlock. Andrà tutto bene, non muoverti.» Era lì, anche lui, Sherlock non lo aveva notato prima. La sua vista era come macchiata dall’oscurità che si stava diradando, rivelando la realtà. Oppure no? Era sicuro che quella non potesse essere la realtà: Lestrade lo aveva chiamato sulla scena di un crimine, lui stava risolvendo il puzzle, John lo stava assistendo, stava giungendo a una brillante conclusione, come sempre.
Fece qualche passo fuori dalla piscina, lasciandosi dietro un sentiero rosso, sentendo il pavimenti viscido sotto i suoi piedi.
John alzò una mano, Lestrade alzò una pistola.
«Non farlo, Sherlock» gli chiese John. No, lo stava supplicando.
«Fare cosa? Posso risolverlo. È semplice, posso risolverlo!» Sherlock procedette, non poteva credere a ciò che leggeva negli occhi di John. Che cos’era? Paura? No, tristezza? Disperazione. Delusione. Speranze infrante.
Il dolore esplose come migliaia di aghi. Sherlock alzò una mano per tentare di contenere il dolore, ma si bloccò quando vide il suo guanto grondare sangue. Era ferito? Perché tutto quel sangue? Perché non riusciva a capire?
«John.» Cercava i suoi occhi, un’occhiata rassicurante, uno sguardo complice, qualche spiegazione perché lui non ne aveva. Non vide niente di tutto questo: poteva solo vedere un profondo, muto orrore, come la muta disperazione di un uccello intrappolato.
Improvvisamente il dolore su insostenibile.
 
Fastidiosa pace, silenzio, come se il tempo e lo spazio stessero aspettando la sua prossima mossa, aspettando di giudicarlo. Definitivamente. Ma non aveva nulla da fare in quella chiara camera d’ospedale, niente da dire, niente a cui pensare. Sentiva che il suo cervello era stato lavato, era vuoto per la prima volta nella sua vita. Non riusciva a pensare. Non poteva nemmeno muoversi, perché il suo polso era stato ammanettato al letto. Non sarebbe andato da nessuna parte comunque. Non aveva alcun posto dove andare né a cui far ritorno.
John era stato lì quando si era svegliato, lo aveva informato che era stato ammanettato e ciò che aveva applicati alla fronte erano semplici elettrodi. Come se non potesse notarlo da solo. Probabilmente era anche stato drogato perché il dolore acuto nella sua testa era diventato smorzato e costante, come un pensiero non trascurabile. Un pensiero dal colore scuro. Nero pece e viscido.
Siccome non aveva dato segno di voler parlare, John alla fine se n’era andato. E di nuovo silenzio.
Un poliziotto era stato mandato a sorvegliare la porta della camera, ma viste le ore di immobilità si era concesso delle lunghe pause.
Un comune criminale. Doveva accettarlo, adesso. Ma non era la parola ‘criminale’ la più offensiva e vergognosa delle due.
Comune.
Ordinario.
Falso.
Guardò le manette attorno al suo polso destro: non erano poi così strette. Provo a tirare la sua mano all’interno dell’anello di metallo, sentì la pelle strapparsi ma la sua mano si stava muovendo leggermente, lentamente scivolando. Il sangue sul suo polso rese la fuga più facile e improvvisamente fu libero. Libero dalle manette. Non sarebbe mai più stato libero.
Sulla sedia stavano alcuni vestiti piegati. Non quelli che indossava la notte precedente, ovviamente. Quelli erano stati probabilmente spediti ai laboratori della polizia come prove. John doveva avergli procurato quelli nuovi. Fu felice di averli e li indossò, non avrebbe finito si suoi giorni in uno scomodo camice da paziente fatto di carta.
Fuori era silenzioso, il corridoio era vuoto. Era stato fatto sistemare in un’ala tranquilla del Bart’s: che gentile premura.
Sapeva perfettamente dove andare e salì le scale senza esitazione. Ancora due piani da scalare.
 
Sherlock guardò le persone camminare in basso, nella strada, condurre un’ordinaria, noiosa vita solo pochi piedi più in basso. Trenta piedi, forse? Li osservava e prendeva tempo. Non aveva paura, si stava solo chiedendo se sarebbe effettivamente servito a qualcosa, ma non c’era un’altra opzione.
«Torna indietro, Sherlock.» La voce di John era sorprendentemente calma. Davvero notevole. Ma quando Sherlock si voltò scoprì che John no era calmo affatto. No, era solo terrorizzato. È facile scambiare il muto terrore per calma.
«Perché?»
«Perché è una pazzia!»
«Io sono  pazzo.»
John rise nervosamente. «Non sei pazzo, Sherlock. Non lo sei.»
«Cosa sono allora?»
«Sei solo… stressato.»
«Stressato.» Sherlock riuscì a malapena a trattenere una risata. I tentativi di difenderlo di John erano così innocenti e ingenui. Era come un bambino viziato che cercava di ottenere un altro giocattolo con qualche scusa assurda. «Certo, sono stressato. Uccidere così tante persone è un lavoro impegnativo.»
«Non mi importa di quelle persone» rispose John d’un fiato, senza esitazione. Questa volta, Sherlock rimase sorpreso.
«Nemmeno a me.»
«E allora… cosa stai facendo lì?»
«Mi godo il sole.» Il colto di John era come pietra. Non gli piacevano gli scherzi in una situazione come quella ed era un peccato perché avrebbe potuto assistere a quella vergognosa pantomima con un po’ di divertimento. «Ho intenzione di saltare.»
«No, non è vero.»
«Sono abbastanza sicuro di essere io quello sul bordo di un tetto.» Poteva avvertire la paura di John formicolare nell’aria. «Torna dentro, John.»
«No!» Aveva urlato. «Sherlock, non hai bisogno di farlo.»
«E allora, cosa?» Sherlock era furioso adesso. «Verrai a farmi visita in prigione tutti i giorni? Verrai a trovarmi in manicomio? Mi leggerai le testate dei giornali: ‘Falso detective psicotico uccide i suoi stessi casi?’»
«Credevo che non ti importasse dell’opinione degli altri.» Rimprovero. Molto astuto.
«Credevo un sacco di cose anch’io, ma improvvisamente sono tutte sbagliate!» Sherlock prese un respiro. John lo stava infastidendo ma vederlo disperato lo feriva. «A me importa della tua opinione.»
John fece qualche passo avanti, improvvisamente ispirato da nuova speranza. «La mia opinione non è cambiata! Sono ancora fiero si te!»
Sherlock lo fece fermare alzando la sua mano destra. «Come puoi dirlo? Sei fiero di un assassino?»
«No. Sono fiero di Sherlock Holmes.»
«Allora non sei fiero di nessuno. Sherlock Holmes non esiste più.»
«Ma sei di fronte a…»
«L’uomo di fronte a te è colui che ha ucciso dozzine di persone!» Scandì ogni parola con un passo dopo l’altro, indietreggiando. I suoi talloni raggiunsero il vuoto. «Colui che ti ha ingannato, che stava innanzi ai casi deducendo i suoi stessi omicidi senza nemmeno saperlo! Colui che venerava il suo stesso intelletto, il suo falso intelletto!»
«Ma non erano dozzine! Hai avuto soltanto cinque casi da quando sei stato colpito.»
«Il colpo non c’entra, mi ha solo indebolito. Ricordo perfettamente, John. Ho sempre agito spinto da una dipendenza!»
«Quale dipendenza?»
Sherlock strinse i denti, poi rilassò di nuovo la mascella. «Tu.»
John stava perdendo le forze, sostituite dalla frustrazione. «Vieni qui, per favore. Smettila.» Sherlock avvertì la sua impotenza e vide le sue lacrime. «Ti prego, smettila. Andiamo a casa.»
«Non posso andare a casa.»
«Torna indietro, continua ad essere l’unico consulente investigativo al mondo!»
«Non è mai esistito.»
«Sì! Tu sei ancora l’unico al mondo… sei l’unico al mondo per me. Ti prego.»
Anche tu, pensò Sherlock, ed è per questo che deve finire.
Un altro breve passo e il suo piedi fu sospeso nel vuoto. Iniziò a sentire alcune persone parlare e urlare di sotto. Ma un altro grido ruppe l’aria, spezzato in lacrime.
«Sherlock!»
John stava avanzando, mosso dal coraggio della disperazione.
«Non ti perdonerò! Ascoltami bene, non ti perdonerò!»
«Ed è così che dev’essere.»
L’aria riempì le sue orecchie nella caduta e tutti gli altri suoni si fermarono. Il grido di John fu muto, anche i suoi passi e le sue ginocchia che colpirono il margine del tetto. Solo pochi pollici più vicino e probabilmente l’avrebbe afferrato, ma riuscì solo a sfiorare la guancia di Sherlock, colpendolo con la sua stessa colpevolezza e, allo stesso tempo, donandogli l’ultimo assaggio di calore prima dell’inevitabile freddo.
   
 
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