Storie originali > Noir
Ricorda la storia  |      
Autore: Puglio    08/06/2012    1 recensioni
"La voce del tassista mi giunse lontana, come da oltre la riva di un fiume. Per un istante ebbi la sensazione di trovarmi sul fondo duro di un pozzo, immersa nel buio. Tutto ciò che vedevo, se alzavo lo sguardo, era la pallida luce che incorniciava il volto scuro del tassista. Potevo udire la sua voce che avanzava cristallizzandosi, galleggiando nella densità vuota dello spazio che ci divideva.
«Mi scusi» dissi, scuotendo la testa. «Ero soprappensiero».
Mi allungai, per mostrare all'uomo il foglietto su cui avevo segnato l'indirizzo. Lui gli rivolse una rapida occhiata, quindi ingranò la marcia e si immise nel traffico. Non appena la vettura cominciò a muoversi presi a rilassarmi, e a scacciare quella scomoda sensazione di gelo che strisciava lungo il mio corpo come una serpe molle e disgustosa, serrandomi mani e piedi. Mossi le dita dentro le scarpe e strinsi i pugni così tanto che le nocche mi si arrossarono. Sospirai, rilasciando lentamente il fiato.
Mi sentivo le mani lorde di sangue".
Una storia brevissima, con cui ho partecipato a un concorso bandito da una rivista letteraria. Spero vi piaccia!
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Estinzione

 

 

1

 

«Dove vuole andare?»

La voce del tassista mi giunse lontana, come da oltre la riva di un fiume. Per un istante ebbi la sensazione di trovarmi sul fondo duro di un pozzo, immersa nel buio. Tutto ciò che vedevo, se alzavo lo sguardo, era la pallida luce che incorniciava il volto scuro del tassista. Fermo sul bordo del pozzo si sporgeva verso di me, gridando qualcosa. Potevo udire la sua voce che avanzava cristallizzandosi, galleggiando nella densità vuota dello spazio che ci divideva.

«Mi scusi» dissi, scuotendo la testa. «Ero soprappensiero».

Mi allungai, per mostrare all'uomo il foglietto su cui avevo segnato l'indirizzo. Lui gli rivolse una rapida occhiata, quindi ingranò la marcia e si immise nel traffico. Non appena la vettura cominciò a muoversi presi a rilassarmi, e a scacciare quella scomoda sensazione di gelo che strisciava lungo il mio corpo come una serpe molle e disgustosa, serrandomi mani e piedi. Mossi le dita dentro le scarpe e strinsi i pugni così tanto che le nocche mi si arrossarono. Sospirai, rilasciando lentamente il fiato.

Mi sentivo le mani lorde di sangue.

 

 

2

 

Quella mattina, avevo ricevuto una telefonata. Si trattava di una donna. Per tutta la durata della chiamata ebbi l'impressione di aver già udito quella voce, ma non avrei saputo dire dove.

«Ha da segnarsi l'indirizzo?»

«Sì, solo un momento...»

Presi nota di quanto mi dettava. La penna ancora in mano, aspettavo che aggiungesse qualcosa.

«Bene, direi che per il momento è tutto» fece la donna. «Ha qualche domanda?»

Restai in silenzio, riflettendoci sopra.

«No» risposi alla fine. «Direi di no».

Pensai avesse riagganciato, ma all'improvviso riprese a parlare.

«Senta, cerchi di non mancare l'appuntamento» disse. La sua voce era educata, ma ferma. «Non ci sarà una seconda occasione».

Le confermai che ci sarei stata, senza alcun dubbio. A quel punto, chiuse la chiamata senza aggiungere altro.

 

 

3

 

Il taxi mi lasciò davanti a un vecchio magazzino in disuso, scrostato e con le saracinesche arrugginite. Sembravano ferite aperte su un cadavere putrescente. Più lo guardavo, più avevo l'impressione che da un momento all'altro ne sarebbe uscito qualcosa di orrendo, pronto ad afferrarmi.

Aggirai l'edificio, come mi era stato indicato. Trovai una porta, sul retro, bloccata da una grossa serratura nuova di zecca; a fianco, un citofono. Suonai. Dopo un istante, la pesante serratura di acciaio scattò e la porta si schiuse, scricchiolando sui cardini. L'interno era buio, fatta eccezione per il lungo passaggio sulla sinistra, illuminato a stento da alcune lampadine che penzolavano dal soffitto nude, come la pelle pallida e vuota di un rettile. Mi incamminai lungo il corridoio: era umido, e ricoperto di muffa. L'aria era viziata e puzzava di chiuso. L'unica presenza, oltre alla mia, era quella di un ratto che sgusciava furtivo lungo la parete.

Il corridoio svoltò, terminando con delle scale che conducevano a una porta. Quando bussai, un rumore di passi risuonò sempre più vicino, finché la porta si aprì.

«Benvenuta».

Era una donna. Forse la stessa della telefonata. Nella voce era molto simile, ma non l'avevo mai vista in volto e non avrei potuto giurare che fosse lei. Si era fermata proprio dietro lo stipite, là dove la luce non riusciva a raggiungerla.

«Prego, si accomodi» mi disse, l'accenno di un sorriso nella voce. «La stavamo aspettando».

La seguii nella stanza, dove una luce opaca filtrava a stento dalle finestre sprangate, tracciando sul pavimento di cemento grezzo nitide strisce sottili. Senza mai uscire dal buio, la donna mi fece strada lungo uno stretto budello che terminava con una porta chiusa. Ai lati vi stazionavano due uomini massicci, dal volto coperto.

«Ecco» disse, voltandosi verso di me. «È qui dentro».

La guardai, cercando di coglierne come potevo i lineamenti del volto. Mi chiedevo dove l'avessi già incontrata. Stavo per domandarglielo, quando mi mise tra le mani una mazza da baseball. Io strinsi meccanicamente le dita intorno al manico di legno robusto, mentre lei mi apriva la porta.

«Mi raccomando, non abbia pietà. Se dovesse esitare anche solo per un attimo, per lei sarebbe la fine. Ha capito?»

Annuii, e a quel punto mi guidò nella stanza. Tutto quel buio mi impediva di vedere bene; ma sul fondo si avvertiva la presenza di qualcuno che si agitava scomposto, emettendo un debole mugolio. Doveva essere incatenato, perché ad ogni suo movimento si levava uno stridente suono metallico.

«Non posso vederlo in volto?» chiesi. La donna nicchiò.

«No, non è possibile. Se lo vedesse, il trauma potrebbe risultare eccessivo. Lo facciamo per il suo bene».

Cercai di protestare, ma lei mi zittì. Anche se non potevo vederla, sentivo tutto il peso del suo sguardo su di me.

«Si fidi» fu quel che mi disse. Poi uscì, richiudendosi la porta alle spalle. Ormai sola, strizzai gli occhi più volte, nel vano tentativo di dipanare le tenebre che si stringevano su di me. Erano così fitte che se avessi teso la mano avrei potuto toccarle.

Con decisione, trassi un profondo respiro. Cominciavo a percepire l'odore della paura, che si mischiava a quello acre di sudore che avevo addosso. Mentre avanzavo verso quell'ombra nel buio, la udivo agitarsi, e ringhiare muta contro di me. Aspettavo quel momento da tanto.

Levai alta la mazza e mi concentrai là dove il buio sembrava addensarsi di più. Lo fissai, trattenendo il fiato. Quindi colpii.

Ci misi tutta la forza che avevo.

 

  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Noir / Vai alla pagina dell'autore: Puglio