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Autore: Strega_Mogana    05/01/2007    7 recensioni
Cinque ragazze, cinque ragazzi, cinque amori.
Genere: Romantico, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Inner Senshi, Sorpresa
Note: Alternate Universe (AU), OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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L'ispirazione é arrivata ieri sera come un fulmine a ciel sereno, questa storia ha un tono più amaro rispetto alle altre. Sono felice che le prime due vi siano piaciute molto, ci ho messo veramente tutta me stessa, in quella di Rei ci sono perfino le mie paure ^_^". Ora vi lascio alla lettura della prima parte della terza mini storia... Aspetto numerosi commenti!

Ritratto d’amore (prima parte)

La stazione é fredda e vuota, aspetto il mio amico e la sua ragazza da dieci minuti ma non arrivano.

* Din Don *
Attenzione il treno in arrivo dal monte Fusji é in ritardo di 15 minuti.


Perfetto... un altro quarto d'ora al gelo. Predo il pacchetto di sigarette che ho nel taschino interno del giubbotto e me ne metto una tra le labbra. Con l’angolo della bocca scosto con uno sbuffo un riccio castano che mi é caduto davanti al viso e prendo l'accendino. Maledetti capelli... un giorno mi deciderò a tagliarli a zero. Osservo la punta arancione della sigaretta che si accende ed aspiro la prima boccata di fumo. Che porcheria... dovrei decidermi anche a smettere di fumare una buona volta. Rimetto a posto l'accendino e mi appoggio mollemente allo sportello della mia macchina nera, alcune ragazze mi passano accanto, mi guardano per poi ridacchiare tra loro. Non é una novità... so di fare questo effetto.
Abbasso appena gli occhiali da sole con le lenti scure che porto praticamente sempre, lascio che vedano i miei occhi verdi, lancio un lieve sorriso e li risistemo con un dito tornando a fissare la stazione vuota e triste.
So perfettamente di risultare presuntuoso e molto arrogante, uno dei miei peggiori difetti: sapere di esser bello e sfruttare questa mia qualità al massimo, spesso facendolo diventare un lato negativo della mia persona. Una volta non ero certo così, quando andavo al liceo ero un ragazzo come gli altri, con una vita tranquilla, amici fidati, la ragazza con cui facevo coppia fissa da oltre un anno, ero un ragazzo come gli altri, amalgamato alla perfezione con il resto dei liceali presenti. Ma poi si cresce, si va all'università, si vede un mondo differente, ci si crede più grandi. All'improvviso ti senti superiore, i tuoi amici sono troppo infantili anche se hanno solo un anno in meno di te, la tua ragazza é sono una bambina al confronto con le belle donne universitarie, ti rendi conto che non sei più uno dei tanti ma sei tu che, a volte, vieni fissato dalle tue compagne di corso.
Tutto cambia, la tua vita viene drasticamente distrutta e ne inizi un'altra sotto un falso te stesso. All'inizio inebriato da quel mondo adulto che conoscevi appena e poi disgustato per quell'uomo superficiale che sei diventato in poco tempo ma, ormai, così radicalmente cambiato che non puoi più tornare indietro.
Oooh non do colpa alla società se mi sono ridotto in questo stato, la colpa é stata mia che non ho avuto abbastanza palle per restare com'ero, mi sono lasciato trascinare, mi sono fatto prendere, riassettare come il mondo mi vuole e sono rimasto lì fermo, con il mio nuovo io. Bello, perfetto, splendente ma falso e del tutto lontano dalla realtà. Io non ho fatto nulla per fermare questi ingranaggi, mi sono lasciato schiacciare ed ora sopporto le conseguenze.
Finalmente il treno arriva in stazione, si ferma con un fischio acuto, scendono poche persone, per di più uomini d'affari di ritorno ad una qualche riunione, vedo subito il mio amico e la sua ragazza, sono i più giovani; impossibile non riconoscerli.
La ragazza, che poi é una delle migliori amiche della mia ex, si blocca non appena mi vede e mi lancia una delle sue occhiatacce di cui va tanto fiera. So benissimo di non esserle simpatico. Il mio amico si ferma, guarda lei, poi me, alza gli occhi al cielo e iniziano a parlottare piano. Non c'è neppure bisogno di chiedersi il perché. Lei gesticola, sembra furiosa, lui tenta di convincerla a salire in macchina con me... inutile so già che non la convincerà. Quando finalmente decido di andarmene si avvicinano, lei continua a fissarmi, le labbra strette tra così forte da diventare bianche. Vuole insultarmi, vuole prendermi a pugni e si trattiene per non ferire il suo fidanzato.
- Scusaci per il ritardo Nephrite.
- Avevano dato l'annuncio Jaedite, non preoccuparti. - mi tolgo gli occhiali e guardo con finto divertimento la ragazza - Ciao Rei.
Mormora qualcosa di incomprensibile ma sono certo che qualsiasi fosse la frase finiva con la parola bastardo.
- Grazie per esserci venuto a prendere anche se con così poco preavviso.
- Non preoccuparti, - lo rassicuro aprendo lo sportello della macchina - non ero impegnato.
Ci avviamo verso il tempio scintoista dove Rei abita col nonno, lo ricordo molto bene con quel suo grande piazzale, gli alberi che proteggono la sua sacralità, la quiete, il tempio immenso, silenzioso.
Una volta ci andavo spesso.
Ora é solo un fugace quanto indistinto ricordo.
Ogni tanto guardo velocemente Rei dallo specchietto retrovisore, continua a fissarmi con quello sguardo di ghiaccio, non mi meraviglierei se stesse lanciando piccole maledizioni contro la mia persona. Me le meriterei proprio.
Per cortesia, e per rompere questo silenzio insopportabile, chiedo al mio amico com’é andato il viaggio.
Jaedite é felice, lo capisco dal modo in cui si muove, dal sorriso, dal suo entusiasmo che mette in qualsiasi cosa dica.
Un po’ lo invidio... un tempo credo di esser stato così anch’io.
Un tempo che mi sembra lontano anni luce, un’altra vita... eppure sono passati solo sei mesi. Sei mesi da quando sono cambiato in questo modo, da quando ho salutato definitivamente il Nephrite del liceo. Sei mesi in cui sono diventato lo stronzo superficiale arrogante che sono ora.
In parole povere: un povero decelebrato.
Ci fermiamo davanti alla lunga scalinata che porta al tempio, Jaedite e Rei scendono dalla macchina, lei neppure mi saluta, sale direttamente le scale senza dire una sola parola. Il mio amico si affaccia al finestrino, ha un’espressione mortificata in volto.
- Mi dispiace per il suo comportamento.
- Solidarietà femminile. – gli rispondo con una buona dose di sarcasmo, un sarcasmo che usavo poco fino a qualche tempo fa, ora mi é indispensabile come l’aria se non voglio morire sotto questa maschera – Non mi aspettavo nulla di più.
- Mi dispiace lo stesso.
- E’ colpa mia.
- Se tu provassi...
- E’ inutile che mi ripeti le stesse cose Jaedite. – gli dico smorzando la sua paternale sul nascere – E’ tardi. Lo sai anche tu.
- Ma...
- Ve bene così. Ora scusami ma ho un sacco di cose da fare. – mento in maniera così convincente che mi faccio quasi schifo.
Non mi risponde, sa che é inutile tornare su certi argomenti con me, segue la sua ragazza su per le scale e io accelero tornando nel mio appartamento vicino all'università.
I miei genitori sono partiti poco prima che io entrassi all'università, due geologi alla ricerca di tesori e società estinte perdute, volevano che li seguissi ma io volevo restare qui, come se in questa città ci fosse ancora qualcosa, o qualcuno, che mi lega. Apro la porta di casa, poggio distrattamente le chiavi sulla mensola al muro e mi tolgo la giacca. L'appartamento é nella penombra, non mi serve la luce sono uno dei pochi che riesce a vedere anche di notte, appendo la giacca sull'appendiabiti e vado verso la cucina, nell'angolo del salotto, quello vicino alla grande porta finestra che da sul piccolo balcone c'é il cavalletto che uso per dipingere e una tela bianca. La stessa tela bianca che é ferma su quel cavalletto da sei mesi... mi piange il cuore ogni volta che la vedo e poi ribollisco di rabbia, non capisco perché in facoltà riesco a dipingere di tutto e qui no. Nella mia casa, il posto dove un tempo regnava la mia ispirazione.
Forse é proprio questo il problema: la mia ispirazione non c'é più. L'ho buttata via come se fosse una cosa vecchia, inutile.
La verità è che sono un patetico fallito.

***

Intingo le setole del pennello nel colore verde smeraldo, il suo colore preferito, lo stesso intenso verde dei suoi grandi occhi spalancati sul mondo.
Dicono che gli occhi siano lo specchio dell'anima, beh i suoi trasmettevano solo purezza, gentilezza e dolcezza. Qualità che ho sempre amato ma che ho rinnegato e non mi ricordo più neppure il perché.
Sento che qualcuno mi fissa alle spalle, sono gli altri miei compagni di corso, probabilmente fissano il quadro e non me.
Scommetto che loro lo trovano bello.
- Nephrite é bellissimo. - cinguetta un'oca dietro le mie spalle.
Mi fermo a contemplare il mio dipinto, solitamente quando dipingo ho un'immagine fissa nella testa, un'immagine che non se ne va fino a quando non l'avrò impressa sulla tela. Ho dipinto un bosco, fitto ma non cupo, é irradiato dai raggi del sole, vedo un ruscello in fondo a quelle che sembrano betulle, muschio morbido che ricopre il terreno, scoiattoli sui rami e una donna. In fondo al mio bosco c'é una figura che indossa una lunga veste sui torni caldi del marrone, lo stesso marrone dei tronchi d'albero e un mantello color del muschio, non sorride, ha gli occhi tristi, sembra sofferente, come se qualcuno le avesse spezzato il cuore.
Gli occhi versi come le foglie degli alberi, i capelli legati in un’alta coda, quelle labbra morbide...
Conosco bene quella donna.
- Nephrite...- continua quella fastidiosa ragazza - é un elfo del bosco?
- No,- dico bruscamente alzandomi in piedi ed immergendo il pennello nel vasetto con l'acqua - é la Regina del bosco... e questo quadro é orribile.
Mi tolgo il grembiule bianco che uso in aula per non sporcarmi, predo la mia giacca e me ne vado.
Dipingere era sempre stato il mio sogno, fin da piccolo, fin da quando ho memoria.
Volevo far vedere al mondo quanto fossi bravo con il pennello in mano, volevo dimostrare che anch'io potevo fare cose meravigliose come i grandi pittori del nostro mondo.
A volte volevo solo lasciare il segno in questa società.
Poi la mia passione più grande era diventata la mia migliore amica, la mia arma per far sognare la ragazza che mi faceva battere il cuore.
Esco dall’università, il freddo mi fa rabbrividire ma non voglio prendere l’autobus, è pieno di gente, c’é cattivo odore e non riesco neppure a muovermi.
Alzo il bavero della giacca per coprirmi meglio il collo e mi avvio verso il centro, magari vedere un po’ di persone mi farà bene.
Si iniziano a vedere i primi accenni del Natale, le vetrine iniziano a fare pubblicità, le strane si illuminano, la gente sembra quasi più felice.
Questo é il mio primo Natale senza di lei.
Non avrei mai immaginato che potesse mancarmi in questo modo. Anzi avrei dovuto immaginarlo, ma ero troppo preso dal mio egoismo per capirlo.
Affondo ancora di più le mani nelle tasche della giacca, fa un freddo cane ma fingo che non mi interessi. Lentamente, un piede davanti all'altro fingendo che quello che mi sta attorno desti la mia attenzione, osservo rapidamente le vetrine, lancio brevi occhiate alle persone che mi sorpassano o che mi camminano accanto, le coppiette felici che si tengono per mano o a braccetto, le coppie anziane che passeggiano guardandosi teneramente anche dopo anni di matrimonio, bambini con le mamme che cercando il regalo perfetto per il padre e io che passeggio solo, di malo umore, maledicendo tutto, tutti e, soprattutto, me stesso.
Mi maledico per averla persa, la donna più bella e favolosa che avessi mai visto in tutta la mia vita, perfetta, un raro fiore di bosco che sboccia nel fitto della foresta attraverso le avversità ma sono per esser più profumato e bello, di quella bellezza che quando la vedi non puoi più farne a meno.
Improvvisamente mi arriva alle orecchie una risata, mi blocco, in mezzo alla via pedonale del centro. Conosco questa risata, la conosco molto bene... una volta rideva così solo... solo con me.
I miei passi iniziano a diventare più veloci, più veloci... sempre di più... alla fine sto correndo... in direzione di quella risata, quella risata cristallina che non sentivo più da troppi lunghi e lugubri mesi.
Svolto l’angolo e mi blocco con il fiatone.
E la vedo.
Bellissima, indossa un lungo cappotto di lana nera, i bottoni sono aperti mostrando i suoi pantaloni blu scuro e il maglione a V che mette in mostra le sue curve generose. Sorride… sembra felice… forse perché accanto a lei c’è un altro. Un ragazzo più grande forse anche di me, alto e biondo, si guardano, si sorridono, si tengono per mano.
Stringo le mani a pugno, talmente forte che mi si intorpidiscono, digrigno in denti mentre sento il mare imperioso della gelosia che mi travolge l’anima. Improvvisamente lei si ferma, come se avesse sentito il mio sguardo su di lei. Si sblocca… le sue labbra si muovono, è troppo distante e non riesco a sentirla ma so che mi ha chiamato, che ha detto il mio nome. Anche quel ragazzo si ferma, quel ragazzo odioso che sta tenendo per mano la mia donna, o quella che un tempo era la mia donna.
Una liceale.. ha solo diciassette anni eppure sembra una donna.
Sono stato proprio un cretino a non vederlo prima.
Mi avvicino di un passo, forse non dovrei farlo, non ne ho il diritto… ma se non lo faccio lo rimpiangerò per il resto della mia vita. Mi avvicino ancora, loro non si sono mossi, continuano a fissarmi, ancora un passo, un altro e sono proprio davanti a loro.
- Ciao Makoto. – dico con un tono di voce deciso, più deciso di quello che sono in realtà.
- Cosa ci fai qui?- mi domanda bruscamente, mi guarda come se fossi il più brutto degli insetti e so di esserlo realmente ai suoi occhi.
- Possiamo parlare un momento?
Scuote un attimo la testa, si mordicchia un labbro, lo fa sempre quando è indecisa… mi mancavano questi piccoli dettagli.
- Motoki, - dice voltandosi verso il damerino biondo che vorrei solo disintegrare a suon di pugni – poi aspettarmi al bar? Ti raggiungo subito.
Motoki… che nome ridicolo.
- Sei sicura?- le domanda osservandomi con aria di sfida.
- Sì, vai pure.
Le da un bacio sulla guancia, devo fare un enorme sforzo per non prenderlo a calci nel sedere. Si allontana non senza avermi lanciato un’altra occhiata maligna. Lo seguo con lo sguardo fino a quando non entra nel locale e poi mi volto per vedere Makoto, ha richiuso il cappotto come se si sentisse improvvisamente nuda.
- Allora, - fa sbuffando – cosa ci fai qui?
- Siamo in un paese libero.
- Non hai lezione a quest’ora?
- E tu come fai a sapere quando ho lezione?
Arrossisce un attimo e scosta un ciuffo castano da davanti il volto.
Siamo sempre stati così simili.
- Chi è il tuo amico?- le chiedo facendo un cenno col capo al locale.
- Non sono affari tuoi Nephrite.
- Era solo legittima curiosità.
Mi lancia occhiata decisa.
- Il mio fidanzato. – dichiara con orgoglio.
Ecco ora il mio stomaco ha appena subito un doppio pugno, dovevo immaginarlo, dovevo prevederlo… mi sono scavato la fossa con le mie mani.
- Non mi avevi detto una volta che i biondi non ti piacevano?
- Motoki è gentile, dolce, premuroso e, soprattutto, non mi ritiene una bambina.
Ecco il terzo pugno.
- Makoto io…
- No! – mi blocca quasi urlando in mezzo alla strada – Tu mi hai lasciato, tu hai preferito vivere la tua nuova stupida vita senza di me e ora io vivo la mia nuova vita…- fa una breve pausa e i suoi occhi mandano scintille - …senza di te. – si stringe ancora un po’ nel cappotto – Addio Nephrite.
Mi sorpassa e cammina veloce verso il locale.
Il quarto pugno mi mette KO, affondo di nuovo le mani nelle tasche e me ne torno a casa.
Mi sento uno schifo... proprio come il mio quadro.
   
 
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