Ciao
fandomminomioadorato!
Ci
ho messo un secolo per aggiornare, perdonatemi, ma il tempo
è stato veramente
tiranno con me!
Questo
è definitivamente il penultimo (stavolta per davvero,
sì) capitolo, prevedevo
dovesse essere l’ultimo, ma non volevo costringervi a decine
e decine di pagine
tutte assieme e ho preferito dividerlo!
Sperando in bene, vi auguro buona lettura!
S.
“Buonasera, Signore” sentì
però dire a Sherlock, del tutto inaspettatamente.
“In cosa posso esserle utile?” continuò,
in un tono gentile e cordiale
palesemente contraffatto. John si sporse inutilmente in avanti,
chiedendosi
ancora chi fosse la persona e perché Sherlock gli si stesse
rivolgendo a quel
modo. Non era uno dei loro inseguitori, forse?
“Che
sfacciataggine!” sbottò l’altra persona,
adesso ancora più irritata di prima.
“Questa sera la biancheria nella mia stanza non è
stata cambiata! Esigo una
spiegazione, giovanotto! Che razza di servizio offrite?”.
John tirò un sospiro di sollievo forse un po’
troppo sonoro, tanto che fu
costretto a tapparsi la bocca con il palmo della mano, sperando con
tutto il
cuore che lo sconosciuto non avesse sentito. Per fortuna, almeno a
giudicare
dal suo continuo tamburellare sul pavimento con la punta del piede, non
si era
accorto di nulla.
“Oh lei ha ragione, Signore, ma c’è
stato un…piccolo intoppo” disse prontamente
Sherlock, e John ancora si stupì per quanto credibile
quell’uomo riuscisse a
sembrare a seconda delle situazioni. “Verrò
immediatamente. Stanza?” domandò.
Il tamburellio cessò, e il proprietario del paio di gambe si
rilassò mollemente,
come se tutta la tensione di poco prima fosse dovuta esclusivamente a
quel paio
di insignificanti asciugamani sporchi.
“La 323” disse l’uomo, spocchioso.
“E quella comunicante con la stanza del
Signor West, l’attore. Sono il suo assistente”
disse il tizio con tono
supponente, come se si credesse di una spanna superiore a Sherlock.
John esultò silenziosamente nel suo nascondiglio, agitando i
pugni e facendo
attenzione a non urtare le pareti di metallo. Quella fortuna era giunta
insperata e soprattutto al momento giusto, quando le speranze di
riuscire erano
drasticamente diminuite rasentando lo zero. Sentì Sherlock
battere con le
ginocchia contro il carrello, probabilmente anche lui in fibrillazione
per la
gradita scoperta.
“Oh, verremo certamente, Signore, ci conti”
sentì annunciare a Sherlock con
tono eccitato. L’uomo batté i tacchi sul marmo del
pavimento e tossicchiò.
“Molto bene, grazie. Io sarò giù per un
po’, ma al mio ritorno mi aspetto che
la mia richiesta sia stata esaudita” aggiunse, con tono
ancora più presuntuoso.
John aveva una seria voglia, nonostante quell’uomo
insopportabile fosse la
fonte di ogni loro fortuna, di prenderlo a schiaffi. Se
l’avessero punzecchiato
con uno spuntone, sarebbe esploso come un palloncino a una festa di
compleanno.
“Sarà
fatto” lo assicurò di nuovo Sherlock.
“Glielo garantisco”.
L’altro
sbuffò con fare arrogante, e si allontanò.
“Arrivederci, Signore” John sentì dire
al coinquilino, e fu straordinariamente sollevato
di vedere i piedi di quell’uomo scivolare via dalla sua
visuale verso la
scalinata.
Quando
furono al sicuro, senza nessuno nei paraggi nel corridoio, John
improvvisò una
piccola danza della vittoria nel suo cubicolo che fu accolta da una
risatina
profonda e soddisfatta da parte di Sherlock.
“Questo è un puro colpo di fortuna! Assolutamente
insperato” disse ancora
Sherlock, come se anche lui fosse decisamente incredulo di fronte a
quello che
era appena successo.
John si sostenne al carrello prima di rispondere, con Sherlock che con
un
notevole sprint aveva preso a
correre
spericolato per i corridoi come un bambino su un carrello al
supermercato.
“Cerca
uno scomparto interno, John, dovrebbe esserci un passepartout! Temo che
se
provassimo a forzare le serrature scatterebbe un allarme
interno” gli disse,
infervorato. John sbuffò, ancora tenendosi, sballottato
dentro la scatola come
un uovo in padella.
“Va piano, Sherlock, non siamo a Silverstone! Non riesco a
muovermi così”
sibilò tra i denti mentre andava a cozzare violentemente
contro una scatoletta
metallica interna, spinto dalla prima pericolosa curva presa da
Sherlock in
tutta velocità.
Per
fortuna però, in quello scomparto trovò
ciò che gli serviva.
“Sherlock!” gridò ancora, stringendo in
mano la chiave e mandando al diavolo la
riservatezza. “L’ho trovata!”
continuò, ricevendo come risposta una raffica di
botte sopra di sé, come se Sherlock stesse suonando il
tamburo di un’invisibile
batteria.
“E
assolutamente grandioso, John, grandioso!” ripeté
per l’ennesima volta il
detective, imboccando l’ultima curva prima di rallentare
gradualmente (per
fortuna di John aveva deciso di non cimentarsi in una brusca fermata),
davanti
ad una porta nel corridoio est del piano.
Sherlock
armeggiò con il telo bianco sopra il carrello e John
sentì Sherlock armeggiare
con la parte superiore del suo nascondiglio. Con un ultimo forte clang! la porta scorrevole si
aprì sopra
di lui. Venire investito dalla luce intensa delle lampade del corridoio
costrinse John a strizzare gli occhi per riabituarsi.
“Bentornato”
lo accolse il detective, posandogli un bacio sulla fronte.
Ridacchiando, John
si puntellò sui lati del carrello e sbucò fuori,
atterrando sul pavimento.
“Forza,
abbiamo poco tempo ancora” lo spronò John,
assolutamente deliziato al ricordo
delle labbra di Sherlock sulla sua pelle poco prima. Possibile che
ancora gli
facesse effetto anche un contatto tanto semplice, nemmeno fosse un
adolescente
alle prime armi?
Sherlock annuì e prese la scheda dalle mani di John,
maneggiandola tra l’indice
e il medio per individuare la maniera corretta con cui lasciarla
passare nel
circuito della porta.
John osservò lo scintillante numero 324 in ottone impresso
sulla porta di legno
scuro poco più avanti come se fosse un premio
prestigiosissimo conquistato dopo
ore di incommensurabile fatica. E in fondo in fondo, pensò,
quell'idea non si
allontanava poi molto dalla verità.
Sherlock inserì la tessera nel lettore, che quasi
immediatamente emise uno
squillo e un flebile ronzio d’ingranaggi che scorrono
l’uno sull’altro, e alla
fine, con uno schiocco secco, la serratura si sbloccò.
“Entra,
presto” sussurrò Sherlock, assicurandosi che
nessuno li avesse visti, mentre
velocemente chiudeva la porta dietro di loro. La stanza era ampia e
spaziosa,
una delle più belle stanze d’albergo che John
avesse mai visto in vita sua.
Soltanto l’anticamera era quasi più grande del
loro intero appartamento, e il
letto, seppur disfatto da un precedente utilizzo, era uno dei
più ordinati,
sfarzosi e imponenti che John avesse mai avuto il privilegio di
guardare. Sherlock
individuò immediatamente la porta per la stanza accanto e
senza ulteriore
indugio si precipitò ad aprirla senza trovare alcun
impedimento, sbucando in
una stanza perfettamente gemella di quella da cui erano entrati.
Una sottile brezza notturna penetrò dalla finestra
semiaperta, facendo
sventolare le tende damascate e le frange dorate delle lampade sui
comodini.
“Quest’aria ha un sapore dolce, John”
esclamò Sherlock abbassando
l’interruttore di una lampada a muro poco lontana.
“Sento che la vittoria è
vicina”.
John non rispose immediatamente, preferendo prima dare
un’occhiata in giro
invece di cantare immediatamente vittoria. Ad un primo superficiale
controllo,
non sembrava che il principale motivo della loro presenza in quella
stanza
fosse esattamente a portata di mano.
“Aspetta a dirlo Sherlock. Io non vedo quella statuetta in
giro” John placò
l’entusiasmo del detective. “Troviamola prima di
cantar vittoria”.
Sherlock osservò John con disappunto, come se non approvasse
che bruciasse in
quel modo il suo ottimismo. Dopo un’occhiata alla stanza
anche da parte sua,
uno sguardo desolato stampato sui bei tratti diede conferma a John che
anche il
detective era giunto alla sua stessa conclusione.
“Io darò un’occhiata negli armadi e nei
comodini. Tu controlla la stanza del
suo assistente, magari l’ha lasciata lì prima di
andare”.
John annuì, sperando con tutto il cuore che Sherlock non si
sbagliasse, e
attraversò nuovamente la porta fra le due camere.
Sherlock
fu minuzioso e certosino nella sua ricerca, come sempre.
Aprì
le ante del grosso armadio laccato, trovandovi solamente qualche abito
elegante
e biancheria da letto ordinatamente ripiegata, controllò il
contenuto dei
cassetti (troppo piccoli per un oggetto di quelle dimensioni, ma era
sempre
meglio controllare), dei comodini, controllò sotto il letto,
sul pavimento
lindo e pulito, nelle intercapedini tra i mobili e le pareti, sullo
scrittoio
sul quale era poggiata solo una pila di vecchi libri e una macchina
fotografica. Fece un approfondito sopralluogo in bagno (mobiletto
vuoto, il
water idem per fortuna, cestino della spazzatura immacolato) e infine,
sconsolato, vide la sua ultima speranza andare in fumo quando John
ritornò
della stanza con espressione mesta e a mani vuote.
Sherlock colpì il muro con un pugno, provocandosi discreto
dolore che mascherò
in un flebilissimo verso sconsolato, e sospirò.
“Dove diamine l’avrà messo? Sono sicuro
che è qui, lo ha lasciato qui, lo so!”
sbottò, esasperato il detective.
John
si guardò ancora intorno, scoraggiato.
“E se l’avesse portata con sé,
Sherlock?” propose, ricevendo soltanto
un’occhiatina irritata come risposta. Sherlock diede
un’altra pacca eloquente
alla tasca della giacca.
“Lucy ha detto che West ha lasciato l’albergo con
la giacca sottobraccio e
nient’altro. Greta ha affermato con sicurezza che
è entrato nel locale con la
giacca indosso e le mani libere. Jessica la cameriera ha confermato che
gli
unici effetti personali depositati sono stati un cellulare, un cappello
e un
orologio”.
John
guardò il soffitto, fingendosi costernato per non aver
pensato prima alla nuova
rete d’informazione di
Sherlock. Si
colpì la fronte con il palmo della mano, enfatico.
“Oh, è vero. Dimenticavo le tue…Sherlock’s
Angels”.
“Le mie cosa?” Sherlock domandò,
allibito.
John lo guardò sorpreso.
“Non hai mai… sì, ok, lascia
perdere” gettò la spugna in partenza, per nulla
desideroso di addentrarsi in quella conversazione.
“Pensa John, pensa. Dove può averla messa? Dove
può averla nascosta?”.
“Hai controllato ovunque? Dappertutto?”.
“In ogni angolo e pertugio, John”. Sherlock rivolse
a John un’occhiata
indispettita, come se fosse offeso da quella domanda. John osava
dubitare della
sua scrupolosità? Tsk.
John
ridacchiò, quando un’idea bislacca e totalmente
assurda saltò alla sua mente.
Aveva visto un film con una situazione simile nemmeno troppo tempo
prima…
“Magari l’ha nascosto nello sciacquone”
disse ancora, divertito. “Sai, come un
criminale con una pistola illegale e cose così”.
Nonostante John avesse formulato un’ipotesi scherzosa per
smorzare la tensione,
Sherlock sembrò illuminarsi all’istante, come se
fosse stato investito da un
lampo improvviso. Senza dire niente si precipitò nella
stanza da bagno,
arrampicandosi lesto sulla tavoletta chiusa del water e sporgendosi a
guardare nella
vasca di ceramica dello sciacquone.
Il verso trionfante e soddisfatto che seguì
l’attento scrutare del detective,
lasciò il medico senza parole. Sherlock tirò
fuori una busta di plastica
gocciolante, contenente una statuetta bronzea abbastanza pesante, e la
lanciò a
John che la afferrò sbalordito e abbastanza disgustato.
“Oh mio Dio” balbettò John, incredulo.
“Io stavo solo scherzando”.
Sherlock rise, allegro.
“Sei sempre preziosissimo, John!” Sherlock lo
abbracciò, in preda
all’eccitazione.
“G-grazie…” rispose John, ancora
guardando allibito l’oggetto nelle sue mani.
Sherlock rise alla reazione del medico.
“Anche se non capisco davvero perché ha sentito la
necessità di nasconderla a
quel modo. Insomma, non è certo un…tesoro”
affermò poi Sherlock, come se pensasse che anche la sola
idea fosse assurda.
John
distolse lo sguardo e scoppiò in una risata sarcastica ma
assolutamente adatta
in quella circostanza.
“Oh non riesco davvero a immaginarlo Sherlock!”
esordì in una vocina fintamente
ingenua. “Chi potrebbe voler rubare
una cosa del genere?”.
Per
fortuna, il detective sembrò non aver nemmeno lontanamente
udito l’ultima
affermazione, all’improvviso preso dalle sue elucubrazioni,
con gli occhi
puntati nel vuoto e le punte delle dita unite.
John rimase in silenzio, come sempre, ad aspettare che il detective si
risvegliasse dalla sua trance. Sperò almeno che stesse
elaborando un piano per
quella che aveva cominciato a definire la…consegna.
Poi,
senza che John potesse prevederlo, Sherlock non si avviò
verso la porta, anzi,
tornò nella stanza da letto e si avvicinò al
piccolo scrittoio accanto alla
finestra, dove una macchina fotografica di ultima generazione faceva la
sua
bella figura nascosta tra due vecchi libri. Il detective
l’aveva già notata, in
precedenza, senza prestarci molta attenzione nella foga della ricerca.
“Sherlock, cosa fai?” domandò John,
allibito. Il tempo a loro disposizione era
sempre di meno e adesso Sherlock perdeva tempo dietro qualche foto?
“Voglio capire che tipo è questo West”
annunciò, con tutta la semplicità del
mondo. Come se non avessero i minuti contati.
“E per farlo devi ispezionare la sua fotocamera?”
continuò John, esasperato.
Non poteva continuare a ignorare quell’uomo come aveva fatto
fino a nemmeno
cinque minuti prima?
“Si
può capire molto di un uomo dai soggetti che
immortala” spiegò, tranquillo,
premendo un tasto. “Scrivilo, per tuoi affezionati
lettori”.
“Sherlock,
per favore… usciamo da qui” lo supplicò
John, osservando teso l’orologio sulla
porta. Era veramente rimasto pochissimo
tempo.
Sherlock
non rispose, ma la sua espressione mutò improvvisamente dal
profondamente
curioso all’assolutamente interessato nel giro di qualche
secondo mentre
pigiava velocemente la rotella per lo scorrimento delle varie foto. A
quel
punto John, pur con tutta la fretta e la buona volontà del
mondo, non riuscì a
non farsi prendere da un moto di curiosità, sbirciando da
dietro le spalle del
detective.
“Forse dovrò ricredermi, John. A quanto pare il
nostro amico era veramente
dispiaciuto di aver soffiato il premio a Benedict” disse
Sherlock mellifluo,
con un sorriso. Porse la fotocamera a John che sbalordito, prese a
scorrere le
foto una ad una, costretto a schiudere le labbra per la sorpresa. Poi,
senza
riuscire a fermarsi, scoppiò in una risata fragorosa.
Almeno cinquanta delle settantacinque foto presenti ritraevano Benedict
Cumberbatch in tutto il suo splendore in varie situazioni. Benedict
intento a
sistemarsi la giacca, Benedict in maniche di camicia, Benedict con un
drink,
Benedict sorridente, Benedict in procinto di salutare un amico,
Benedict mentre
fumava una sigaretta, Benedict mentre si sistemava i capelli
pettinandoli con
le dita (‘quella è la
più bella’
aveva detto Sherlock e John aveva convenuto) Benedict e il proprietario
della
fotocamera in posa e sorridenti, West che sfoggiava in volto il suo
sorriso più
smagliante e uno sguardo assolutamente sognante. A giudicare dai
vestiti, le
fotografie erano state scattate tutte quella sera stessa.
“Chi
l’avrebbe mai detto?” ghignò ancora
John, divertito. “Mi sa che non sei l’unico
qui ad avere una cotta per lui, Sherlock” lo
stuzzicò il medico, aspettando la
reazione del detective.
Reazione
che ovviamente si manifestò nella solita alzatina di
sopracciglia esasperata e
una scrollata di spalle indispettita.
“Sai John, stai diventando monotono”
esclamò, con tono annoiato. “Potrei
davvero contemplare l’idea di rimanere in
quest’albergo e…circuire il ‘mio’ bel Benedict”.
John sorrise, anche se con una certa preoccupazione. Non sarebbe certo
stata
un’impresa per Sherlock, anche se il medico non
l’avrebbe mai riconosciuto
davanti a lui.
“Oh,
ne sei così sicuro? Peccato che solo io riesca a sopportare
tutte le tue
stranezze”.
Sherlock ridacchiò, ironico.
“Oh si abituerebbe. Se si parla di questo, anche Lestrade mi
sopporta da anni.
E da più tempo di te, oltretutto”.
Non
era del tutto sbagliato ma John represse un commentino acido quando
immaginò
Lestrade e Sherlock per più di una settimana intera nella
stessa stanza. Il
povero Greg avrebbe cambiato nazione e continente pur di non rivedere
il
detective ancora.
“Lungi
da me distruggere le tue aspettative, Sherlock”
commentò invece, e il detective
s’immusonì, come un bambino col broncio.
“Comunque,
ora questo West mi è decisamente più
simpatico” annunciò solenne Sherlock.
“Insomma, non ho il minimo rimorso per ciò che sto
facendo, ma se avessi avuto
un minimo di senso di colpa, adesso sarebbe drasticamente
diminuito”.
John scosse la testa, divertito e allibito allo stesso tempo.
“Certo, Sherlock”.
“Beh
sì, insomma, penso che si senta in colpa anche lui, no?
Quindi sarà più che
felice del nostro gesto. Anzi, sono sicuro che se fosse stato qui ci
avrebbe
volentieri dato una mano” disse, sicuro della sua
affermazione.
John
rise, pensando che, effettivamente, alla luce di quella nuova scoperta,
Sherlock non avesse poi tutti i torti.
“Peccato che non sia qui allora. Ci avrebbe facilitato di
molto l’intera
faccenda”.
Con
un ultimo sorrisetto complice, Sherlock tornò a concentrarsi
sulla via di fuga.
Arrivato di fronte alla porta, si fermò per udire ipotetici
rumori di passi e
una volta assicuratosi che non ve ne fossero, fece cenno a John di
raggiungerlo.
“Adesso
usciamo, con calma. Non dovrebbe esserci nessuno. Tu rientra in quel
coso”
disse Sherlock, a bassa voce, controllando ulteriormente la situazione
dallo
spioncino della porta. John sbuffò ed emise un versetto
desolato alla
prospettiva di un nuovo giretto su quell’aggeggio infernale,
ma non si lamentò,
rassegnato.
Per fortuna o per disgrazia (a seconda dei punti di vista)
però, qualcuno aveva
ritenuto opportuno riappropriarsi del carrello, probabilmente qualche
vero
inserviente, e già quella prima misera parte del piano
andò bellamente a farsi benedire.
“Oh benissimo” esclamò Sherlock,
sarcastico, nascondendo la statuetta sotto la
divisa come poteva. “Ci toccherà rischiare e
andare a piedi”.
Rasentando
il muro, i due scivolarono fino al corridoio successivo, abbastanza
lontano
dalla stanza precedente nonostante si trovasse sullo stesso piano. John
si
domandò come i clienti di quel posto riuscissero a trovare
le loro stanze senza
consultare una mappa, che di sicuro, nel caso fosse esistita veramente,
sarebbe
stata tre volte più ampia dello stradario completo di Londra
e dintorni.
Dopo
un’altra curva, un altro corridoio, e un ruzzolone per le
scale sfiorato per
pochissimo, riuscirono a intravedere in lontananza la porta della
stanza 221.
“Oh
grazie al Cielo!” sbottò Sherlock a bassa voce,
dando una pacca al
rigonfiamento nella sua giacca provocato dalla statuetta, come a
volersi dare
coraggio.
Lesti e quasi invisibili, strisciarono quatti fino alla porta, e John
sospirò
di sollievo.
Sherlock
tirò fuori il passepartout dalla tasca con fare sicuro,
ormai sentendo la
vittoria a portata di mano, quindi fu colto totalmente di sorpresa
quando la
serratura, al posto del familiare e confortante scatto
d’apertura, li accolse
con un fastidioso suono cantilenante.
“E ora che succede? Perché non ti apri?”
domandò Sherlock alla porta come se
quella potesse parlare. Afferrò la maniglia e
l’abbasso, senza troppe speranze,
trovando ancora l’accesso bloccato. Passò di nuovo
la tessera, girandola e
rovesciandola nel caso funzionasse a quel modo, ricevendo come risposta
sempre
lo stesso monotono suono.
John,
che sempre più teso non aveva aperto bocca fino a quel
momento, tolse di mano
al detective la scheda magnetica, preso da un dubbio atroce che
cercò in tutti
i modi di scacciar via dalla sua mente.
Quando osservò la superficie della tessera, che presentava
un impercettibile
rilievo che nella fretta era sfuggito a entrambi, mugolò
sconsolato.
“Questa apre solo dalla 250 alla 350” disse,
appoggiando la schiena al muro e
puntando gli occhi al cielo. “Siamo fregati”.
Sherlock,
se possibile, era ancora più desolato di lui e John, ormai
lo conosceva
benissimo, ne sapeva benissimo il motivo. Sherlock non aveva mai
sopportato
neppure l’idea di non portare a termine un caso, e quando
succedeva nella realtà,
diventava dieci volte più insopportabile, intrattabile e
insofferente di quanto
lo fosse di solito. Nella sua mente, John già prevedeva
settimane di raccolta
proiettili dalla parete, di cibo imposto con la forza e soprattutto
un’enorme
forza di volontà per non tener conto delle mille battutine
acide dettate dalla
frustrazione che avrebbe dovuto tollerare.
“Sherlock,
è andata così. Non so…lasciala qui di
fronte alla porta” propose il medico, non
sperando molto in una risposta affermativa di Sherlock. Infatti,
l’altro lo
guardò come se John avesse appena minacciato di appiccare il
fuoco al suo
cappotto.
“Mai
e poi mai John. Dovessi forzare la porta e farmi arrestare, io
porterò a
termine quello che mi ero prefisso” spiegò, senza
possibilità di replica.
“Sherlock, io però non voglio farmi
arrestare!” sbottò John, vagamente
indispettito. “Non oso pensare
cosa succederebbe, se ci ammanettassero insieme” John
sembrò rabbrividire, al
pensiero.
“Ti prenderei come ostaggio e ti porterei al
sicuro” rispose Sherlock con un
sorrisetto furbo, dimenticando per un secondo il problema
‘porta’.
John tossicchiò, divertito.
“Mi trascineresti in un vicolo per sottopormi ad ogni tuo
bieco desiderio?”
chiese, ridendo.
Sherlock lo guardò sottecchi con uno strano luccichio negli
occhi, come se
stesse seriamente accarezzando
l’idea.
“Non
ci avevo minimamente pensato John. Grazie, mi hai fornito uno spunto
interessante” lo ringraziò Sherlock, avvicinandosi
pericolosamente.
John lo lasciò fare, non curandosi più del tempo
ormai agli sgoccioli, felice
di poter concedere anche una minima consolazione al suo povero
(completamente
matto) detective preferito. Sperava di fargli dimenticare quella storia
e ogni
tentativo criminale di metter fine ad essa, dandogli qualcosa con
cui…distogliere la sua
attenzione.
John lo strinse a sé in un abbraccio avvolgente, caldo,
familiare. Sherlock lo
spinse ancora contro il muro bloccandolo con il suo corpo e annullando
le
distanze per un bacio pieno di trasporto e passione che John accolse
più che
volentieri con una sensazione trionfante nel petto, senza curarsi di
tutto il
resto, come se non si trovassero in un corridoio di un albergo
extralusso,
anche se deserto, con la possibilità di essere visti da
chiunque, oltretutto
con indosso due divise trafugate, una chiave rubata da un carrello, un
oggetto
requisito da una stanza non loro e attaccati l’uno
all’altro contro il muro
come se non si vedessero da un decennio.
Quando
si staccarono, per pura necessità respiratoria, Sherlock
rise contro le labbra
di John, accarezzando una guancia del dottore.
“I tuoi…uhm, argomenti
hanno fatto
vacillare pericolosamente la mia determinazione, John. Non abbastanza
da farmi
cedere, però, mi dispiace” disse, con
un’espressione canzonatoria sul viso.
John sbuffò, impotente.
“Cosa vuoi che faccia allora?” chiese allora il
medico, ancora stretto
nell’abbraccio, cercando di concentrarsi nonostante gli occhi
di Sherlock
ancora puntati nei suoi.
“Che tu mi sostenga, John” ripose Sherlock
semplicemente. “Che tu mi aiuti a
risolvere questo piccolo intoppo”.
Il
medico fece scivolare le braccia dai fianchi di Sherlock fino a
sfiorare con i
palmi la parete su cui era appoggiato. Sospirò, sconsolato.
“Io non posso fare magie, Sherlock. Non posso cacciar fuori
una chiave dal
nulla, non sono…Harry Potter, diamine”.
Sherlock
storse il naso.
“Harry chi?” domandò, senza
l’impressione di necessitare però di una risposta.
Continuò ad osservare John come se si aspettasse davvero che
trovasse una
soluzione al suo problema.
“Harry…lascia perdere anche questo,
Sherlock” esclamò John, spazientito.
“Senti,
rassegnati. Non sono capace di evocare qui qualcuno con le chiavi.
Fattene una
ragione”.
Proprio mentre Sherlock stava per replicare, il detective fu costretto
a
voltarsi quando si sentì chiamare timidamente da qualcuno
con un buffetto lieve
su di una spalla.
Quando John riuscì a sporgersi dalla spalla di Sherlock,
vide Christina, la
ragazza che avevano incontrato alla reception, che li guardava rossa in
viso
con un’espressione timida, come se si sentisse combattuta e
imbarazzata allo
stesso tempo.
“Ehm…io non sarò Harry
Potter” ridacchiò, per farsi coraggio.
“ma…ho visto dei
tipi strani scendere e salire le scale e…li ho depistati. E
poi, ecco, sono
salita a controllare la situazione e ho pensato che avrei potuto
aiutarvi dandovi…questa”.
Ancora più rossa in viso porse a Sherlock un’altra
tessera, stavolta dorata,
che non recava (con somma felicità di entrambi) alcuna
scritta indicativa al di
sopra. John la guardò come se la ragazza avesse appena porto
a Sherlock un
fiabesco baule pieno d’oro.
“Le apre tutte, tranquilli. Vi prego però, fate in
modo che torni a me. Solo
questo”.
Era
impossibile dire cosa stava succedendo dentro Sherlock in quel momento.
La sua
espressione era un cocktail di emozioni contrastanti:
incredulità, felicità,
eccitazione, frenesia, addirittura gratitudine.
“Tu sei veramente un portento, Christina, davvero”
fu tutto ciò che disse
Sherlock, senza staccare gli occhi dalla ragazza, che se possibile,
assunse una
sfumatura scarlatta ancora più intensa. Le prese il viso tra
le mani e la baciò
sulla guancia, esaltato, e quel punto la ragazza fu costretta a
reggersi al
muro per non liquefarsi sul pavimento in un nanosecondo.
Ridacchiò, cercando di darsi nuovamente un contegno, e si
sistemò la gonna con
le mani alla ricerca di qualcosa con cui distogliere
l’attenzione dai due.
“Lieta di…” tossicchiò, con
un sorriso a trentadue denti. “Lieta di esservi
stata utile. Io…io…sarà meglio che
tornì giù prima che comincino a farsi
domande”.
“Grazie
mille, Christina, davvero” la ringraziò anche
John, sfiorandole una mano. “Non
so come avremmo fatto senza di te”.
Lei ridacchiò ancora nervosamente e sventolò la
mano, come a sminuire l’importanza
del suo intervento. Se solo avesse saputo quanto
in realtà aveva fatto per loro…
Con
un cenno della mano la ragazza salutò Sherlock e John,
precipitandosi verso la
scalinata come se il corridoio stesse andando a fuoco e quella fosse
l’unica
via di fuga.
Sherlock sorrise e si strofinò le mani, impaziente.
“Un altro colpo di fortuna John. Oggi il fato ci
assiste” esclamò, fremente.
Tornato
a rivolgere l’attenzione alla porta, Sherlock
strisciò la tessera nella
serratura ed emise un versetto estatico quando invece del solito suono
irritante sentirono uno squillo diverso, identico a quello udito nella
stanza
di West. Sherlock saltellò sul posto, stringendo i pugni e
trattenendosi per
non gridare, eccitato.
“Fantastico, John, fantastico” sussurrò
mentre abbassava la maniglia della
porta, spalancandola.
John
entrò dopo Sherlock e si guardò intorno, aiutato
dalla luce abbastanza intensa
della strada, curioso.
La stanza era pressappoco identica a quella che avevano…visitato in precedenza, a parte la
tappezzeria di un vivo blu
cobalto e un bellissimo lampadario a gocce di cristallo che rifletteva
la luce
proveniente dalla finestra.
La stanza era silenziosa, deserta, ma lo sguardo sul viso di Sherlock
disse a
John che il detective non era del tutto sicuro che la situazione fosse
tranquilla come sembrava.
Sherlock socchiuse gli occhi e si guardò attorno, senza
nemmeno cercare
l’interruttore, aggirandosi per la stanza a passo felpato e
annusando l’aria
come un segugio in cerca di una traccia.
“Sherlock…” sussurrò John,
sinceramente preoccupato per la reazione del
detective. Sherlock lo zittì con un gesto della mano.
“Non siamo soli, John…”
annunciò poi, parlando flebilmente per non farsi udire
da quell’ipotetico qualcuno nella stanza. “Credo ci
sia qualcuno nascosto da
qualche parte”.
L’affermazione
di Sherlock provocò a John un brivido decisamente allarmante
lungo la schiena,
costringendolo a guardarsi attorno guardingo, come se dovesse
aspettarsi un
agguato dall’armadio o un’imboscata da sotto il
letto.
“Sei sicuro, Sherlock?” domandò ancora
John, in tensione.
L’altro annuì, sollevando un lembo della coperta
per rovistare sotto il letto.
“E allora dove…?” cominciò
John, prima di essere interrotto da un rumore secco
e assordante.
Qualcuno
venne fuori dalla toilette, sbattendo la porta con forza, avvolto in un
accappatoio blu scuro. Tra le mani stringeva un portasciugamani di
metallo,
brandito come una spada.
“Chi siete?” gridò la voce dello
sconosciuto, minacciosa. “Cosa fate qui?”.
John si precipitò a cercare l’interruttore della
luce, impossibilitato a vedere
bene il volto dell’uomo in quella penombra, percorrendo
tastoni il muro accanto
al letto, desideroso di fermare l’ira dello sconosciuto prima
possibile. Quando
trovò la leva, illuminando l’enorme lampadario,
John guardò verso Sherlock che
era rimasto fermo e immobile di fronte alla porta e
all’intruso, senza il minimo
accenno a volersi spostare.
E quando John spostò lo sguardo e riconobbe l’uomo
davanti alla porta, fu
costretto a reprimere un gemito di sorpresa, incredulo. Sherlock
sorrise,
incrociando le braccia.
“Buonasera Signor Freeman, è davvero una piacevole
sorpresa vederla qui”.
Continua…