Questa storia partecipa all'esperimento "Otto autori per un prompt" ed è ispirata al seguente prompt:
"Nessuno
ha mai pensato a Norvegia come una persona affettuosa, inclusi i suoi
fratelli.
Ma Islanda faceva molti incubi quando era piccolo.
Invece di andare da Norvegia nel pieno della notte, preferiva
strisciare nel letto di Danimarca, che era sempre pronto a coccolare
Islanda per farlo sentire al sicuro dopo un incubo.
Norvegia non
l'ha mai saputo, perché gli altri due non ne hanno mai
realmente
parlato. Ma un giorno, in epoca recente, lo scopre ed è
probabilmente geloso, forse anche arrabbiato e pieno di risentimento
-ma per la maggior parte ferito, perché non avrebbe mai
negato
l'affetto di Islanda. (Chi scrive su questo prompt è libero
di
giocare con la reazione di Norvegia, anche se preferirei rimanesse
sul negativo).”
Bonus: Islanda
va' ancora, ogni tanto, da Danimarca per farsi
rassicurare.
Bonus2: Il
bonus di cui sopra è il modo in cui Norvegia viene a sapere
di tutte
le altre volte.
A
questa iniziativa partecipano anche:
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happylight http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=98503
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Milla Chan http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=107403
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Aclhuophobia
«P-pabbi...»
Una
vocetta sottile, delicata, così flebile da far fatica a
notarla,
nonostante il silenzio.
Una
testolina pallida, i capelli chiarissimi che sembravano quasi
emettere una debole luce propria, nel buio in cui era immersa la
stanza.
«Ehi...»
Gli
fece cenno di avvicinarsi, mettendosi a sedere sul bordo del letto,
scostandosi le lenzuola calde di dosso.
Il
bambino si avvicinò piano, tremante, guardandolo con gli
occhi
spalancati.
«Che
succede?»
Il
piccolo tirò su col naso.
«M-martröð...»
Accennò
un sorriso comprensivo, allungando le braccia verso di lui.
Vide
i suoi capelli esitare per un istante, e poi corrergli incontro.
Sentì l'esile corpicino contro di sé, caldo ma
scosso dai brividi,
come se avesse freddo.
«Va
tutto bene... era solo un sogno...»
L'altro
annuì piano contro il suo petto, stringendosi forte a lui.
Gli
accarezzò piano i sottili capelli, prendendolo delicatamente
tra le
braccia e posandolo sul letto, coprendolo con le lenzuola.
Spalancò
gli occhi, boccheggiando.
Quel
sogno. Di nuovo.
Si
passò una mano sulla fronte madida di sudore, socchiudendo
gli occhi
quasi con timore, come se le immagini appena scomparse dalla sua
mente potessero riapparire di fronte a lui in
tutta la loro dolorosa verosimiglianza. Ogni volta che chiudeva le
palpebre, poteva intravedere i capelli dei due sul cuscino, i volti
nascosti dalle coperte.
Si
diede dell'idiota.
Posò
i piedi a terra silenziosamente, alzandosi piano dal letto. Le
lenzuola, di una stoffa strana simile a carta, frusciarono e caddero
a terra. Le superò con una falcata, dirigendosi verso la
porta.
La mano si posò sulla maniglia di plastica bianca,
spingendola verso
il basso. La porta si aprì senza emettere il minimo cigolio.
Uscì
dalla stanza, senza richiuderla, cominciando a camminare lungo il
corridoio buio, deserto. Un passo dietro l'altro, lento e silenzioso.
Neppure un fruscio, solo i piedi nudi sulle piastrelle fredde,
che producevano un suono ovattato. Ogni metro percorso lo avvicinava
alla sua meta. Quella porta...
La
conosceva alla perfezione. Bianca, con gli spigoli perfetti, tranne
quello in basso scheggiato che lasciava intravedere il marroncino
originario del legno, la disposizione e la forma delle cerniere,
lo stipite... ogni dettaglio di quella porta era marchiato a fuoco
nella sua mente. Era importante, per lui.
Quante
notti aveva passato nascosto dietro quella porta origliando in
silenzio, immaginando ciò che lì dentro accadeva
con una chiarezza
tale da sembrare più reale della realtà.
Quella
porta era l'amore, il tradimento, il dolore, la rabbia.
Accarezzò
piano la superficie un tempo lucida, ora più opaca, intorno
alla
maniglia. Poi trattenne il respiro, mordendosi il labbro inferiore, e
premette.
«F-fratellone?»
Il
bimbo dai capelli candidi stava seduto a gambe incrociate sul letto,
sfogliando un vecchio libro di favole con le pagine sgualcite e
ingiallite.
Spesso
aveva insistito per regalargliene uno nuovo, magari con delle belle
illustrazioni. Ma il bambino si era sempre opposto categoricamente,
stringendo il pesante volume al petto, come
se fosse un orsacchiotto.
Si
avvicinò a lui e si sedette sul bordo del letto, piegando
lievemente
la testa di lato, guardandolo negli occhi. Il piccolo tremò
lievemente per un attimo, poi sussurrò...
«...tu
mi vuoi ancora bene, vero?»
Si
ritrovò a guardarlo serio, senza tradire un'emozione.
Batté piano
le palpebre.
«Certo.»
Allungò
una mano e la affondò nei capelli del fratellino, morbidi
fili
d'argento che gli solleticavano le dita. Si sforzò di
sorridere.
Non
era abituato a elargire sorrisi e carezze. Mascherava perfettamente
ogni sentimento dietro quel muro di apparente insensibilità.
Era una
qualità quando si trattava di affari, ma un pessimo
difetto con le persone a cui teneva.
Sapeva
perfettamente perchè gli aveva fatto quella domanda. Stava
crescendo, e passavano sempre meno tempo insieme. Gli concedeva
sempre meno affetto.
«G-grazie...»
Il
bambino mormorò debolmente, guardandolo negli occhi e subito
abbassando il capo. Lui annuì e, silenziosamente,
uscì dalla
stanza.
Quel
ricordo riaffiorò quasi con violenza mentre guardava la
camera del
fratello.
Si
avvicinò al letto ancora disfatto, lisciando le pieghe
lasciate sul
cuscino dalla sua testa. Notò i vestiti ordinatamente
piegati
appoggiati sullo schienale della sedia.
Sospirò
nervosamente, domandandosi dove fosse andato a quell'ora improbabile
in cui di solito dormiva.
Lui
lo sapeva. Ogni notte andava nella sua stanza a guardarlo dormire. Lo
faceva sentire meglio. Più in pace.
Abbassò
lo sguardo e notò le sue pantofole accanto al comodino. Era
uscito a
piedi nudi.
Forse
era solo andato in bagno...
Irrigidì
la mandibola, voltandosi di scatto e uscendo dalla stanza. Richiuse
la porta, come se non fosse mai entrato.
Sbuffò,
appoggiando la schiena al muro, fissando il corridoio bianco.
Tutto
bianco. Pavimento, muri, porte, maniglie... Odiava quel corridoio.
E
odiava l'ultima porta a sinistra.
Chiuse
gli occhi e si rimise in piedi, fissando quella porta che faceva
capolino pochi metri più avanti.
Sapeva
già cosa avrebbe trovato. Sapeva cosa avrebbe visto dietro
quella
porta.
Aprì
gli occhi e, rigido come un automa, attraverso a grandi falcate lo
spazio che lo separava da quella stanza, senza più
preoccuparsi di
non fare rumore. Il fratello non era nella sua stanza, quindi
non stava dormendo. Il problema non si poneva.
L'ennesima
porta bianca dalla maniglia bianca era davanti a lui, ora. Ebbe la
tentazione di sfondarla.
Ma
si trattenne. Si limitò a posare la mano sulla maniglia,
premendo un
po', lasciandole tutto il tempo che le serviva per chinarsi al suo
volere.
Spinse
la porta appena la porta, creando uno spiraglio da cui poteva sentire
ciò che dicevano all'interno senza essere visto.
«Acluofobia.»
«Acluo...
che?»
«E'
il nome che i medici danno alla paura del buio.»
«Io
non ho paura del buio!»
«Ah
no?»
«N-no.
Per niente.»
«Che
ci fai qui, allora?»
Un
mugolio.
Una
risata allegra.
«...non
c'è niente da ridere.»
«Non
sto ridendo di te, ci mancherebbe... E' solo che lo dici tutte le
volte.»
«Non
ho paura del buio. Chiaro?»
«Convinto
tu...»
Qualcuno
sbuffa.
Il
rumore di un cuscino lanciato addosso.
Una
risata attraverso il cuscino.
«Non
farne un dramma... è normale. La paura del buio non
è la paura del
buio stesso, ma la paura dei pericoli che potrebbe
nascondere.»
«Dan...»
«Sì?»
«Non
è il buio della notte a farmi paura.»
«Allora
che cosa?»
«...è
il buio che mi sento dentro.»
Stava
parlando con lui. Ancora una volta.
Perchè
andava da lui? Perchè con quell'idiota si confidava e con
suo
fratello no?
Ringhiò
sommessamente.
Lo
sapeva, lo aveva sempre saputo. Aveva visto la complicità
tra quei
due crescere nel tempo. Lunghi anni in cui lui era stato solo il
fratello silenzioso e insensibile. L'altro, invece, da perfetto
sconosciuto
era diventato l'amico con cui confidarsi.
Un
dolore violento e improvviso alla bocca dello stomaco. Un male che
conosceva fin troppo bene. Un demone che dimorava, nascosto, nel suo
animo da sempre.
Gelosia.
Era
geloso, sì. Geloso di suo fratello.
Suo.
Solo suo. Non di quell'idiota.
Spinse
la porta con forza, ora, entrando nella stanza.
«Che
inten-»
L'uomo
dagli ispidi capelli biondi si interruppe, voltandosi verso di lui
con un'espressione ebete che mutò velocemente in un'altra,
tra lo
stupito e il colpevole.
Anche
il ragazzo lo guardò, ma nei suoi occhi lesse paura e senso
di
colpa.
Lunghi,
interminabili secondi di silenzio, che si insinuarono dentro di lui
come una zavorra invisibile e insostenibile. Un peso terribile che si
prese a forza lo spazio che prima era occupato da
un grande vuoto.
Digrignò
i denti, con la sgradevole sensazione di una belva che lo dilaniava
dall'interno.
«Che
ci fai qui?»
Parole
gelide e meccaniche che, a differenza della sua mano sinistra stretta
in un pugno tremante, non tradivano l'esplosione violenta che sentiva
dentro di sé.
«I-io...»
«Non
ha fatto niente di male! Ha fatto un incubo ed è venuto a
farsi
consolare, tutto qui.»
Guardò
il biondo dritto negli occhi, in quelle iridi blu che amava e odiava
allo stesso tempo. Ma non c'era traccia di amore, ora, nei suoi
occhi. Solo una rabbia incontenibile, un magma incandescente
che premeva per uscire, per bruciare e distruggere.
«Perchè
da te? Io non ne sarei in grado?»
I
due si guardarono per un istante. Suo fratello abbassò lo
sguardo,
colpevole. Il più adulto ridacchiò, come suo
solito.
«Non
sei la persona più affettuosa e rassicurante del mondo,
ecco...»
Immaturo
e idiota. Anche in quel momento.
Fece
un passo verso il letto dove entrambi erano sdraiati. Poi un altro.
Poi un altro ancora.
Era
bravo a contenere le proprie emozioni.
Di
solito.
Un
brivido gli corse lungo la colonna vertebrale, facendolo tremare di
freddo e eccitazione. I suoi occhi vagarono febbrilmente lungo le
pareti della stanza, sui mobili, sul pavimento.
Non
era cambiato nulla. Tutto era rimasto uguale a come l'aveva lasciato.
Le
sue labbra si piegarono in un sorriso che si fece via via sempre
più
ampio, fino a fargli scoprire i denti.
Scoppiò
in una risata incontrollabile. Si tenne l'addome con le braccia,
piegandosi in avanti, fino a sbilanciarsi e a crollare a terra.
Rideva, rideva forte. Così forte che quasi non sembrava lui.
Il
suo volto era una grottesca maschera deformata da un ghigno.
Sollevò
il viso dal pavimento, il corpo scosso da violenti spasmi.
Rideva
con le lacrime agli occhi, tanto forte da non riuscire a riprendere
fiato.
Osservò
il letto, le lenzuola aggrovigliate. Poi il suo sguardo cadde sul
pavimento.
Una
mano tesa verso di lui.
«S-smettila...
Noregur... b-basta...»
La
voce del fratellino gli giungeva ovattata e distante, soffocata dal
tumulto del sangue che pompava nelle orecchie.
Il
suo cuore aveva mai battuto tanto forte?
Un
altro colpo. E un altro. E un altro ancora.
Il
ragazzo dai capelli di neve se ne stava rattrappito in un angolo,
fissandolo a occhi sgranati. Non riusciva a vederlo, non vedeva nulla
ora, ma sentiva i suoi occhi sulla propria schiena.
Si
sentì felice. Suo fratello non aveva occhi che per lui,
adesso.
Si
fermò, ansante, guardando l'uomo dagli ispidi capelli biondi
sotto
di lui.
Tremava,
boccheggiando. Sembrava parecchio malconcio. Forse non riusciva a
respirare?
Gli
accarezzò delicatamente una guancia, poi abbassò
il viso sul suo,
baciandolo sulle labbra.
«N-Nor...»
Sollevò
il volto, guardando il fratello.
«Scusami...
non volevo ti sentissi trascurato...»
Si
alzò a fatica, gettando a terra l'ascia senza troppe
premure, e si
diresse verso di lui. Gli si sedette accanto e gli accarezzò
dolcemente i capelli.
Si
accorse che il ragazzo stava piangendo. Come aveva potuto non
notarlo? Gli prese il viso tra le mani, osservando le lacrime che
scendevano sul suo volto, le spalle scosse dai continui singhiozzi.
Lo abbracciò, continuando a d affondare le dita nella sua
chioma
color della neve.
«Non
devi avere paura. Il fratellone è qui e ti
proteggerà, va bene?»
Lui
non rispose, continuando a tremare. Decise di accettarlo come un
segno d'assenso.
Inspirò
a pieni polmoni, godendosi l'aroma acre dell'aria di quella stanza.
Sentiva il viso sporco e le mani viscide.
Si
leccò le labbra inaridite, socchiudendo gli occhi estasiato
quando
sentì sulla lingua quell'inconfondibile sapore metallico.
Sospirando
felice, strinse un po' più forte a sé il ragazzo,
posando la
schiena contro il muro e osservando soddisfatto le pareti e il
soffitto non più bianchi.
In
fondo, gli aveva fatto un favore.
Il
rosso era il colore preferito di quell'idiota.
Uscì
dalla stanza con gli occhi lucidi e una piacevole sensazione, un
solletichio alla bocca dello stomaco.
Non
si preoccupò di chiudere la porta, e si avviò
tranquillo verso la
porta della propria stanza.
«Signor
Bondevik, che ci fa qui?»
Si
voltò di scatto, sorpreso.
Una
donna. Che diavolo ci faceva quella in casa sua?
La
osservò socchiudendo gli occhi, tutto sommato aveva un aria
in
qualche modo familiare...
Lei
gli sorrise paziente, doveva essersi accorta che non l'aveva
riconosciuta.
«Lei
non dovrebbe allontanarsi così tanto dalla sua stanza, lo
sa. Mi
segua, la riaccompagno.»
Docile,
posò una mano sulla spalla della donna, notando come la
stoffa
verdastra della sua divisa avesse la stessa consistenza delle
lenzuola del suo letto.
Lei
sorrise nuovamente e gli prese la mano, conducendolo lungo il
corridoio.
Odiava
quel corridoio tutto bianco.
Si
guardò intorno, rendendosi improvvisamente conto che il suo
corridoio non era affatto tutto bianco. E neppure le porte lo erano.
Strinse
forte la mano della donna, spaventato.
«Va
tutto bene, stia tranquillo...»
Dove
diavolo si trovava? Pochi istanti prima era a casa sua, invece ora...
Si
voltò indietro, verso la stanza.
Vide
suo fratello osservarlo con lo stesso sguardo inquieto e terrorizzato
di poco prima, il volto rigato di lacrime, i capelli che prima aveva
accarezzato striati di rosso.
Abbassò
lo sguardo sulle proprie mani, sui propri vestiti.
Rossi.
Rosso ovunque.
Si
voltò nuovamente, ma suo fratello non c'era più.
In compenso, una
lunga scia di orme rosse attraversava ora il corridoio bianco. Erano
le impronte dei suoi piedi nudi.
Osservò
la donna al suo fianco, che camminava tranquilla, come se non
vedesse.
Non
riusciva a capire.
Lei
gli sorrise e aprì la porta della sua stanza. Erano
già arrivati?
Lo
spinse delicatamente all'interno, facendolo sedere sul letto, poi gli
si avvicinò piano.
Gli
prese il braccio, sorridendo tranquillamente, e gli arrotolò
la
manica della camicia fino al bicipite.
Dal
canto suo, lui non riusciva a fare altro che seguire i suoi movimenti
precisi e delicati, eseguiti con la sicurezza di chi li ripete da
secoli.
«Ci
siamo divertiti stanotte, eh?»
Le
sorrise apertamente, dopo un attimo di silenzio.
«Sì...
tanto...»
La
donna estrasse una siringa dal taschino del camice. Oh, aveva un
camice? Non se n'era accorto prima...
L'ago
penetrò nella pelle della giuntura senza causargli il minimo
dolore.
Rimase a guardarlo incantato. Non appena fu estratto però,
sentì
una profonda spossatezza impadronirsi di lui.
Si
era stancato davvero tanto, quella notte. Doveva riposare. Domani
avrebbe dovuto farlo ancora, e se fosse stato stanco, quell'idiota
avrebbe potuto vincere, stavolta.
Chiuse
gli occhi, posando la testa sul cuscino, mentre la donna gli
rimboccava le coperte.
«Buonanotte
dottoressa...»
«Buonanotte
signor Bondevik.»