Autore |
Pocahontas@Effie (forum) | EffieSamadhi (EFP) |
Titolo
della storia |
“Immagina che non esista alcun paradiso” |
Fandom |
CSI: Las Vegas |
Citazione |
“Quello che voi chiamate ‘inferno’, lui lo chiama casa.” [Rambo, 1982 – Colonnello Trautman
(Richard Crenna)] |
Rating |
Arancione |
Genere |
Drammatico, Introspettivo |
Tipologia |
One-shot |
Avvertimenti |
Non per stomaci delicati |
Introduzione |
Era di Larry
LaVelle la voce che aveva segnalato la presenza di dieci cadaveri nella
palestra della sua scuola, così com’erano di Larry LaVelle le impronte
trovate sull’impugnatura del coltello. Non che fosse stata una grande
scoperta, visto che Larry LaVelle, all’arrivo della polizia, aveva confessato
i dieci omicidi e le dieci decapitazioni. |
Note
dell’autore |
Ambientata in un momento imprecisato della sesta stagione
(nomino Mandy Webster, presente nelle prime due stagioni e tornata a partire
dalla sesta; in più, considero la figlia di Catherine Willows, Lindsey, come
una liceale). Ho inserito l’avvertimento “Non per stomaci delicati” a causa
di alcuni dettagli poco simpatici forniti circa la scena del crimine. Il contatore Word riporta 5105 parole. |
Immagina che non
esista alcun paradiso
In più di dieci anni di servizio,
Catherine Willows non aveva mai visto una scena del crimine peggiore di quella
trovata all’interno della palestra del liceo McKinley di Henderson, contea di
Clark.
Dieci corpi senza vita e senza testa
allineati contro una parete schizzata di dieci diversi tipi di sangue, gli
stessi dieci diversi tipi di sangue trovati sulla lama del coltello appoggiato
accanto al telefono con cui Larry LaVelle, diciotto anni compiuti a marzo, aveva
chiamato il numero d’emergenza.
Era di Larry LaVelle la voce che
aveva segnalato la presenza di dieci cadaveri nella palestra della sua scuola,
così com’erano di Larry LaVelle le impronte trovate sull’impugnatura del
coltello. Non che fosse stata una grande scoperta, visto che Larry LaVelle,
all’arrivo della polizia, aveva confessato i dieci omicidi e le dieci
decapitazioni.
Larry LaVelle era un disadattato, a
sentire i suoi compagni di scuola; aveva smesso di avere un padre poco più di
un’ora dopo essere stato concepito, e si potevano usare molti aggettivi per
descrivere la signora LaVelle, tranne la parola ‘materna’. Larry LaVelle amava
intagliare il legno, tanto da preferirlo alla possibilità di entrare nella
squadra di atletica, a sentire il suo insegnante di ginnastica, e doveva avere
un gran cervello, diceva il professore di scienze, peccato che a scuola si
facesse vedere poco.
La prima vittima ad essere
identificata fu Saffron Johnson, sedici anni e mezzo e fisico da pin up, la
bella capitana delle cheerleader per cui Larry aveva sempre avuto una cotta, e
che l’aveva respinto per uscire con Tyler Mackenzie, vittima numero due,
diciotto anni, capitano della squadra di baseball e proprietario di una Jaguar
rossa con gli interni in pelle di cui andava molto fiero. Vittima numero tre,
Anthony LaMarca, detto Tony, migliore amico di Tyler e recente vincitore del
campionato di tuffi della contea, fratello gemello di Thomas, detto Tom,
vittima numero quattro e leader del terzetto che appena un mese prima aveva pestato
Larry, su ordine di un gelosissimo Tyler. La quinta vittima identificata fu
Blaine Johnson, fratello maggiore di Saffron e secondo picchiatore
dell’assassino. Il terzo picchiatore, nonché vittima numero sei, era Roy
Scherbel, ascendenze austriache e fisico da pugile – in apparenza la vittima
sulla quale Larry si era accanito di più. La settima e l’ottava vittima
portavano i nomi di Adam Murciano e Ryder Jerkewitz, figli di immigrati e
migliori amici di Larry LaVelle, colpevoli – secondo l’assassino – di non
averlo difeso durante il pestaggio ordinato da Mackenzie. Vittima numero nove,
l’ignaro bidello entrato per pulire la palestra alla fine degli allenamenti di
pallacanestro – erano bastate due coltellate per cancellare l’esistenza di
Willy Bancroft, cinquantasette anni, vedovo e senza figli. Il decimo e ultimo
cadavere ad essere identificato, il secondo non previsto dall’assassino, fu
quello di Glynnis Hobson, cinquant’anni, divorziata con tre figlie adolescenti
a carico, corsa in palestra per consegnare una comunicazione urgente al
professor Miller, l’insegnante di ginnastica.
Catherine ricordava alla perfezione
i dieci corpi allineati contro la parete della palestra, la pozza di sangue che
si allargava sul pavimento liscio, lo sguardo incredibilmente lucido che quel
ragazzo dalle braccia imbrattate di sangue le aveva rivolto quando l’aveva
vista entrare. Con le braccia pulite, Larry LaVelle sarebbe sembrato un ragazzo
come tanti altri, uno ‘normale’, tanto per capirsi, uno dei tanti ragazzi che
frequentavano il liceo come sua figlia Lindsey.
E invece Larry LaVelle aveva ucciso
dieci persone, oltraggiato i loro cadaveri e confessato tutto alla polizia, e
adesso, sei mesi dopo quel massacro, stava per sedersi in un’aula di tribunale,
incatenato mani e piedi, in attesa che una giuria decidesse della sua vita.
In terza fila, seduta tra i colleghi
Sara Sidle e Nick Stokes, Catherine non sapeva come sentirsi. Larry LaVelle
aveva ucciso, questo sì, ma in seguito a quali violenze? Era stato trascurato
dalla madre, insultato dai compagni di classe, pestato dagli amici di un
ragazzo che non sopportava il pensiero di saperlo innamorato di una bella
adolescente. Era stato deriso, oltraggiato, umiliato, abbandonato da quelli che
considerava i suoi migliori amici, e il massacro avvenuto nella palestra del
liceo McKinley non era che il risultato della condotta sbagliata di otto
ragazzi come tanti.
Certo, poi c’erano il bidello e
l’impiegata, le uniche vittime innocenti, colte di sorpresa durante una
normalissima giornata di lavoro. Certo, Willy Bancroft meritava giustizia.
Certo, le figlie di Glynnis Hobson avevano il sacrosanto diritto di vedere
l’assassino della madre finire dietro le sbarre – o, ancora meglio, morire per
un cocktail di farmaci sul lettino del boia. Certo, Larry LaVelle doveva pagare
per il male che aveva fatto – ma chi avrebbe pagato per il male che era stato
fatto a lui?
Greg Sanders scivolò silenziosamente
accanto a Sara, bisbigliando che Warrick stava cercando parcheggio. “Manca
molto all’inizio?” domandò. Catherine avrebbe voluto rispondergli che no, non
era l’inizio che stavano aspettando, ma la fine
– la fine di Larry LaVelle.
Quando Warrick ebbe occupato
l’ultimo posto libero sulla panca, Catherine si sentì soffocare – e non era
solo per il ridotto spazio vitale, no. Fissò lo sguardo sulla porta dalla quale
sarebbe entrato l’assassino, trascinando le catene come il fantasma di
Canterville, indossando un camice di cotone arancione troppo largo per le sue
spalle ossute. Chiuse gli occhi per un istante, cercando di immaginare quale
espressione Larry si sarebbe cucito sul volto: sarebbe apparso sottomesso, un
ragazzo come tanti vittima di quindici minuti di follia, oppure avrebbe
guardato negli occhi i giurati, uno per uno, facendoli tremare come foglie
d’autunno? Riaprì gli occhi, guardando il box della giuria, ancora vuoto. No,
non aveva importanza con quale atteggiamento Larry LaVelle si sarebbe
presentato in mezzo a quell’aula: era già stato condannato. Lo avevano
condannato le famiglie dei ragazzi uccisi, lo avevano condannato gli insegnanti
del McKinley, lo avevano condannato i vicini di casa di Willy Bancroft, lo
avevano condannato gli ex datori di lavoro della signora LaVelle, lo avevano
condannato i signori Murciano e i signori Jerkewitz – quelle famiglie di
immigrati che meglio di tutti sembravano aver capito il disagio di Larry, che
avevano condiviso il suo desiderio di essere considerato uguale a tutti gli
altri, e che tante volte lo avevano nutrito, lavato, vestito, che avevano
concesso ai propri figli di trascorrere tanto tempo in sua compagnia.
Alla destra di Catherine, Greg stava
ascoltando, attraverso il punto di vista cinico e inflessibile di Sara, i
motivi per cui la giuria avrebbe dovuto evitare la pena capitale, preferendo il
carcere a vita. “La pena capitale non ti insegna nulla, non ti dà la
possibilità di redimerti. Passi qualche mese in carcere, aspettando che tutti
si mettano d’accordo sulla data migliore per toglierti di mezzo, alla fine ti
concedono un pasto in cui puoi strafogarti di tutto ciò che adori, ti infilano
una siringa nel braccio e tanti saluti. Non c’è vera giustizia, nella pena di morte. Con un po’ di fortuna, Larry
LaVelle passerà gli ultimi mesi della sua vita leggendo quotidiani e riviste, e
quando decideranno di giustiziarlo, per lui sarà una specie di liberazione.”
“Su questo Sara ha ragione”
intervenne Warrick, protendendosi verso i suoi interlocutori per non dover
alzare troppo la voce in una stanza dove il brusio aveva già raggiunto livelli
piuttosto alti, “la pena di morte non gli farà mai soffrire quello che ha fatto
soffrire lui a quei ragazzi.” Greg annuì deciso, mentre Catherine si
meravigliava dell’approccio così decisionista del detective Brown. “Spero che
gli diano l’ergastolo e lo sbattano nel carcere peggiore della contea. Quella potrebbe essere giustizia.”
Il disagio di Catherine si acuì. In
più di dieci anni di servizio, non si era mai occupata di un caso tanto
controverso. In più di dieci anni di servizio, Larry LaVelle era il primo
pluriomicida neomaggiorenne che le fosse capitato davanti agli occhi, nonché il
primo reo confesso con cui avesse mai parlato. No, non poteva restare
indifferente mentre tutti, in quella stanza, consideravano lui l’unico responsabile della tragedia. Sì, era stato Larry LaVelle
ad uccidere materialmente due adulti
innocenti, i suoi due unici amici, la ragazza che gli piaceva e altri cinque
studenti, ma chiunque dotato di un minimo di cervello avrebbe ammesso che la
somma delle colpe delle vittime costituiva il movente dell’assassino. Aprì la
bocca per parlare, cambiando idea subito dopo. Si guardò intorno: i ritardatari
si affrettavano a prendere posto, gli uscieri gettavano continue occhiate
all’orologio, pronti a chiudere gli ingressi. Se voleva uscire, doveva farlo in
quell’istante. La domanda era: avrebbe avuto la forza di guardare Larry LaVelle
negli occhi, mentre un branco di sconosciuti decideva del suo destino?
Si alzò, destando subito la
curiosità dei colleghi. Superò Nick, mentre estraeva il cellulare dalla
borsetta e fingeva di leggere un sms appena ricevuto. “Scusate, non posso
rimanere, è… ho un’emergenza.”
“Va tutto bene?” le domandò Nick,
mentre gli uscieri cercavano di decidere se fosse arrivato o meno il momento di
chiudere le porte dell’aula. “Vuoi che venga con te, ti serve…”
“No, no, è tutto ok. Ci vediamo più
tardi.”
Sgattaiolò fuori prima che uno
qualunque dei colleghi potesse dire o fare qualsiasi altra cosa. In corridoio,
si appoggiò alla parete, traendo lunghi respiri per regolarizzare il battito
cardiaco. Aspettò che il cuore tornasse a pompare sangue ad una velocità
normale, poi si appoggiò una mano sugli occhi, nascondendo un principio di
pianto.
Trovò una sedia libera e vi si
accasciò, ripensando all’attimo in cui quell’inferno era iniziato, sei mesi
prima. Era stata la prima ad arrivare sulla scena, chiamata da Warrick mentre
era a casa a controllare i compiti di Lindsey, ed era stata la prima – dopo i
poliziotti allertati dalla chiamata al 911 – a vedere con i propri occhi Larry
LaVelle in piedi al centro della palestra, con gli abiti schizzati di sangue e
gli occhiali in bilico sul naso come il più normale dei topi di biblioteca; era
stata la prima persona che avesse guardato negli occhi dopo il massacro, ed era
stata la prima a cui avesse raccontato il suo passato di soprusi e angherie, la
prima alla quale avesse spiegato le ragioni per cui aveva ucciso ognuna di quelle dieci
persone.
No,
semplicemente Catherine non poteva
starsene seduta in mezzo al pubblico che chiedeva a gran voce giustizia a qualunque
costo, non poteva sopportare di
guardarlo mentre lo condannavano. Avrebbe letto il verdetto sul giornale,
l’avrebbe sentito raccontare in tv, l’avrebbe rivissuto nei corridoi tra i
laboratori, ora raccontato da Sara, ora da Greg, ora da Warrick – e per ogni
voce diversa, una diversa opinione, un diverso tono. No, Catherine non poteva
sopportare l’idea che Larry la confondesse con l’opinione generale.
Si
alzò. Non c’era niente che potesse fare per Larry LaVelle. Non c’era mai stato.
Dal momento in cui l’aveva incontrato, sei mesi prima, era stata condannata a
guardarlo affondare.
***
In più
di dieci anni di servizio, Catherine Willows non ricordava di aver mai sentito
un verdetto più discusso: era trascorsa una settimana da quando Larry LaVelle
era stato condannato a scontare otto ergastoli nel carcere di massima sicurezza
appena fuori Las Vegas, e ancora le prime pagine dei giornali continuavano a
dare spazio al dibattito tra coloro che ritenevano giusta la carcerazione a
vita e coloro che vedevano nella pena capitale l’unica possibile realizzazione
della giustizia.
Il
settimo giorno dopo il verdetto riuscì a scansare Hodges, ansioso di sentire la
sua opinione in merito alla questione, soltanto per imbattersi in Grissom,
l’unico oltre a lei, Nick e Archie a non essersi espresso né in un senso né
nell’altro. “Ciao, Catherine. Hai un caso.”
“Di che
si tratta?” gli domandò, prendendo il biglietto su cui era appuntato l’indirizzo
della scena.
“Quasi
certamente suicidio, però è meglio controllare” aggiunse, sorpassandola.
Lei lo
richiamò indietro subito. “Gil?”
Lui si
voltò. “Sì?”
“Questo
è l’indirizzo della prigione della contea?”
“Sì, lo
è.”
“Che è
successo?”
“Un
ragazzo di diciotto anni che sta scontando otto ergastoli è stato trovato
morto. Potrebbe essere suicidio, ma voglio che tu vada a controllare.”
“Si
tratta di Larry LaVelle, vero?”
“Me lo
confermerai tu. Porta Nick con te, è libero.”
Mentre
Nick guidava sicuro sull’autostrada incredibilmente sgombra, dietro gli
occhiali scuri Catherine non riusciva a fare a meno di pensare a Larry LaVelle,
diciotto anni appena, morto in una fredda cella in uno squallido carcere di
massima sicurezza. Come madre, non riusciva a fare a meno di pensare che non
sarebbe dovuto morire prima di sessanta o settant’anni, e certamente non in
prigione. Era soltanto un ragazzo come
tanti, fino a sei mesi fa. Come succede? Com’è possibile che in sei mesi le
cose passino da un estremo all’altro?
Nick rispettò
il suo silenzio, senza tentare nemmeno una volta di interromperlo – come invece
avrebbero cercato di fare Sara, o Greg. Si limitò a guidare, prestando
attenzione al poco traffico e agli eventuali ostacoli, lasciando a Catherine i
pensieri che erano di Catherine.
***
Il
coroner aveva aspettato l’arrivo degli agenti, prima di iniziare l’esame del
corpo. “La temperatura del fegato è di trentaquattro gradi. Non è morto da più
di due ore. Non c’è rigor mortis.”
“L’ho
trovato un’ora fa, durante il mio giro d’ispezione. Ero appena entrato in
servizio” spiegò il guardiano che, insospettito dal silenzio e dall’immobilità
del detenuto, era entrato nella cella per controllare di persona. “Ho cercato
di rianimarlo, ma era già… ho chiamato subito i miei superiori.”
Catherine
ignorò i fischi di approvazione e i commenti osceni che le piovevano addosso
dalle altre celle. Cercò di ricordarsi di ringraziare Gil per averla spedita
nella fossa degli arrapati, a subire ogni sorta di improperio e sconcezza.
Scattò una fotografia del corpo di Larry LaVelle, pallido come sempre e non
ancora freddo. In più di dieci anni di servizio, non le era mai successo di
occuparsi di un cadavere così recente. Quasi le sfuggì un sorriso nel pensare
che per lei Larry LaVelle stava rappresentando una sorta di record sotto molti
punti di vista. “Dovremo prenderle le impronte” disse al guardiano, scattando
un’altra foto del corpo.
“Sono
già nel vostro database. Da un anno a questa parte, tutti i dipendenti del
sistema carcerario sono stati schedati. Ho depositato le mie sei mesi fa,
quando mi hanno trasferito qui” aggiunse, mostrando una mano. “Povero ragazzo”
sussurrò poi. “Sono stato io a svegliarlo, tutte le mattine di questa maledetta
settimana. Lui è… era un bravo
ragazzo, in fondo. Non fraintendetemi, lo so che ha combinato quel casino e ha
ammazzato tutte quelle persone, però… non l’avresti detto, a guardarlo così.
Mai conosciuto ragazzo più educato.”
Catherine
represse un altro sorriso. Almeno non
sono l’unica a pensarla così. “Cosa puoi dirci, David?” chiese al coroner,
mentre Nick prendeva un campione di sangue dalla pozza che si era formata sul
materasso.
“È
morto dissanguato, senza dubbio. Dovrò lavarlo, prima di dirlo ufficialmente,
ma sembra che questa sia l’unica ferita” spiegò, indicando un sottile taglio
sul polso sinistro. “Si è tagliato con il bordo di questa fotografia, credo”
aggiunse, indicando la mano destra della vittima.
Nick
guardò l’immagine riprodotta sulla pellicola. “John Lennon” osservò.
“Il suo
musicista preferito” spiegò Catherine, zoomando sulla mano e scattando ancora.
Lesse il retro della fotografia. “’Ieri
tutti i miei problemi sembravano lontani, adesso sembra che siano qui per
restare’.”
“La sua
canzone preferita?”
“Sì. Lo
era.”
Catherine
guardò ancora una volta il corpo senza vita di Larry LaVelle, poi, senza
aspettare il permesso del coroner, gli chiuse gli occhi e gli raddrizzò gli
occhiali sul naso. Nick la guardò riporre la macchina fotografica. Il loro
lavoro era finito. Non c’era altro che potessero fare, per Larry LaVelle.
***
Bussò
alla porta dell’ufficio di Grissom, e senza aspettare il permesso aprì la
porta. “Larry LaVelle si è suicidato” annunciò di fretta, preparandosi a
richiudere subito e tornare nel proprio ufficio.
Tenendo
gli occhi fissi sul rapporto che stava leggendo, la richiamò indietro.
“Catherine.”
“Sì?”
“È
arrivata una lettera per te” le rispose, porgendole una busta sigillata.
“Di
chi?”
“Non lo
so” disse, sempre senza alzare gli occhi.
“Arriva
dalla prigione della contea. Devo aspettarmi che sia stata letta almeno da tre
addetti alla corrispondenza del carcere?”
“No, da
qualche mese la posta dei detenuti deve essere mantenuta privata.”
“È
sua?” chiese, sottintendendo il nome di Larry.
“Non
leggo la corrispondenza degli altri, Catherine, è un reato federale. Dimmelo
tu, se la cosa ti fa sentire meglio.”
Catherine
lasciò l’ufficio senza dire altro, richiudendosi la porta alle spalle e
studiando la calligrafia che aveva vergato il suo nome e l’indirizzo del
Dipartimento. A metà strada tra l’ufficio di Grissom e il proprio mandò al
diavolo Hodges, ancora deciso ad avere una sua opinione sul destino di Larry
LaVelle. Impegnata a studiare il francobollo, non si accorse di essere stata
salutata da Mandy.
Sola
nel silenzio del proprio ufficio, lacerò la busta con il tagliacarte e lesse i
quattro fogli che componevano la lettera senza nemmeno sedersi. Prima di
ricominciare, si sedette alla scrivania, appoggiando i fogli sul piano liscio.
Per la terza lettura, decise di accendere la lampada da tavolo, assicurandosi
una visione migliore del testo. Quasi non si accorse di aver iniziato a
piangere.
Cara signora Willows,
cinque giorni fa le mie speranze di
lasciare per sempre questo mondo sono andate in fumo. Non l’ho vista in aula il
giorno del verdetto, e devo ammettere che in un primo momento la cosa mi ha
fatto dispiacere: speravo di vedere almeno un viso gradito in tribunale.
Immagino che fosse impegnata con il lavoro, per questo non si è fatta vedere.
(Credo sia solo una bugia che mi racconto per non pensare che invece lei non
abbia voluto presenziare al verdetto.)
Certamente in questi giorni avrà avuto
notizie della mia condanna, ma ci terrei a parlargliene dal mio punto di vista.
(Nessuno pensa mai al punto di vista del condannato, vero? No, mai. Non un
giornalista che abbia chiesto un’autorizzazione per parlare con me.) La giuria
ha stabilito che la giusta pena per me fosse convertibile in otto ergastoli
(per come la vedo io, mi hanno condannato a passare questa e le mie successive
sette vite in carcere), anziché liquidabile con una semplice iniezione. Per
quanto mi riguarda (e per quel che può valere l’opinione di un pluriomicida),
avrei preferito morire. A nessuno è mai importato molto di me, dunque perché
continuare a respirare la stessa aria di persone che non mi sopportano (e per
le quali, lo ammetto, nemmeno io ho mai provato una forte simpatia)?
Il guardiano che mi ha svegliato nelle
ultime cinque mattine è molto gentile, inizia sempre la ronda dalla mia cella e
mi lascia il suo giornale, e quando passa a riprenderlo, a ronda finita, glielo
restituisco dopo aver letto le notizie che mi riguardano, la pagina degli
spettacoli e i fumetti. (Adoro i fumetti, e lei?) Questa mattina non ha ancora
finito il suo giro, è scoppiata una rissa mentre trasferivano qualcuno in fondo
al corridoio, l’hanno chiamato per farsi aiutare e non è ancora tornato, quindi
ho ancora il giornale sotto gli occhi mentre le scrivo.
Questa mattina hanno pubblicato una lunga
intervista alle famiglie delle vittime, occupa le prime sette pagine del ‘Las
Vegas Review-Journal’ (ce n’è una unica per Tony e Tom LaMarca, e una unica per
Saffron e Blaine. Per Willy Bancroft c’è soltanto un trafiletto alla fine della
pagina dedicata alla signora Hobson, visto che non aveva famiglia.). So che
molti diranno che non ho il diritto di commentare nemmeno i risultati delle
partite universitarie di football, ma essere condannato al carcere a vita non
mi priva del diritto, comune a tutti i cittadini, di rendere nota la mia opinione
su quanto ho letto.
Penso che i signori Johnson, i genitori di
Saffron e Blaine, abbiano parlato senza cognizione di causa: hanno detto ogni
sorta di falsità contro di me, accusandomi di essere un deviato, un malato di
mente e un criminale che merita di penzolare dalla forca. Eppure, fino a sei
mesi fa nemmeno sapevano della mia esistenza. Si dichiarano distrutti dalla
morte dei loro figli, ma a nessuno è venuto in mente di specificare che, dopo
avermi respinto perché non le piacevo, Saffron ha messo in giro un sacco di
voci orribili sul mio conto (la meno scioccante riguarda la mia presunta
passione fisica per certe categorie di animali); e a nessuno è venuto in mente
di ricordare che Blaine era uno dei tre ragazzi che sette mesi fa mi hanno pestato.
Penso che per i signori LaMarca, i genitori
di Anthony e Thomas, sia stato piuttosto facile scaricare tutta la colpa su di
me, facendomi passare come un criminale. Certo, è più facile puntare il dito
contro un pluriomicida, invece di voltarsi e guardare cosa succedeva nella
propria famiglia. Credono forse che Anthony sia diventato il gran tuffatore che
era soltanto per talento? Certo, se è possibile aumentare la propria massa
muscolare del duecento per cento in soli sei mesi – andiamo, fino a un anno fa era
la riserva della squadra, e improvvisamente è diventato il numero uno? E
credono forse che Thomas trascorresse i pomeriggi in biblioteca a studiare?
Certo, forse quando non era in giro con la sua ghenga a pestare gente per conto
di Tyler.
Tyler Mackenzie – ecco altri genitori che
hanno versato tutte le loro lacrime, e subito dopo puntato il dito verso di me.
E non a uno – non ad una sola persona, mai – è venuto in mente che è stato lui
a ordinare il mio pestaggio a Blaine Johnson, Thomas LaMarca e Roy Scherbel.
Tyler Mackenzie, il brillante capitano della squadra di baseball, non si è
comportato diversamente da un padrino di mafia – ma no, Tyler Mackenzie è
assolvibile, è stato trucidato dal disadattato di turno, quindi che tutte le
sue colpe siano cancellate!
Anche la famiglia di Roy Scherbel ha
scaricato la sua rabbia e la frustrazione per la mia mancata condanna a morte.
Mi hanno molto colpito gli insulti di sua nonna nei miei confronti: Roy si è
sempre vantato del fatto che suo nonno fosse un militante del partito nazista.
Forse la morte di sei milioni di ebrei conta meno della morte di dieci
americani comuni?
Ho ucciso anche Adam e Ryder – non avrei
voluto, davvero. Se potessi tornare indietro, non torcerei loro un capello.
Sono stati buoni con me in tutti questi anni, e anche i loro genitori sono
sempre stati buoni con me. Hanno sempre trattato gli amici dei loro figli come
i figli stessi: quando andavo a casa di Adam, diventavo colombiano anch’io;
quando andavo a casa di Ryder, diventavo polacco anch’io. Non c’erano
differenze tra noi – se non che loro avevano dei genitori e dei fratelli, e io
no. Se potessi tornare indietro, perdonerei Adam e Ryder. Hanno avuto paura, il
pomeriggio in cui Blaine, Thomas e Roy mi hanno trascinato dietro la palestra
per pestarmi. Lei non ci crederà, signora Willows, ma mi sono fatto un esame di
coscienza. (Sì, capita anche ai pluriomicidi rei confessi che hanno evitato la
pena di morte di riflettere sul proprio comportamento.) Mi sono fatto un esame
di coscienza, e mi sono detto: “Larry, tu che cos’avresti fatto se fossi stato
al posto di Adam e Ryder?”. E lo sa che mi sono risposto, signora Willows? Mi
sono risposto: “Avrei fatto la stessa cosa, mi sarei comportato esattamente
come Adam e Ryder. Sarei scappato a gambe levate, perché ognuno di quei tre era
ben più grosso di noi tre messi insieme, e c’era solo da farsi del male.”Lo so,
signora Willows, sarei stato un codardo. E ‘codardi’ è la prima cosa che ho
pensato di Adam e Ryder dopo essermi reso conto che mi avevano lasciato solo a
prenderle di santa ragione. (Non ho mai capito perché si dica ‘di santa
ragione’: che c’entra Dio con il pestare qualcuno?)Vorrei tanto poter chiedere
scusa di persona ai signori Murciano e ai signori Jerkewitz. (Non chiedo di essere
perdonato, no. Vorrei solo poterli guardare negli occhi mentre chiedo loro
scusa.)
Dicono che ognuno di noi si lasci dietro un
grande rimpianto, mentre si avvicina alla morte: il mio è quello di aver ucciso
i miei migliori amici, e due persone che non avevano alcuna colpa. Mi dispiace
di aver ucciso Willy Bancroft e Glynnis Hobson, erano due brave persone: so che
al signor Bancroft piacevano i fumetti (non ho mai conosciuto un adulto che li
amasse quanto lui), quindi ogni tanto scambiavo con lui i miei (lui ne aveva un
sacco degli anni Settanta, roba che avrebbe fatto impazzire i collezionisti.
Tanto per sottolineare il mio passato da ragazzo perbene, ci tengo a dire che
gli ho sempre restituito i suoi in ottimo stato, e che li ho sempre restituiti tutti.),
e so anche che aveva sofferto tantissimo quando è morta sua moglie, dieci anni
fa (non avevano figli, soltanto un vecchio cane che non stava più in piedi). E
anche la signora Hobson era buona, salutava sempre tutti con un sorriso. So che
aveva tre figlie e che suo marito l’aveva lasciata (ho vomitato, quando mi sono
reso conto che ho lasciato quelle tre povere ragazze senza nessuno che badasse
a loro), e che aveva un sacco di problemi di soldi. (Mi piacerebbe tanto
parlare anche con le sue figlie, domandar loro scusa. Non so che cosa mi sia
passato per la testa quando l’ho uccisa.)
Sa, signora Willows, credo che la giuria ci
abbia visto giusto, quando ha pensato che confinarmi qui fosse la punizione
peggiore per me. Odio questo posto. Non mi fraintenda, ci sto bene. Dormo a
sufficienza, sono pulito e mangio bene, e nonostante i miei peccati vengo
trattato abbastanza umanamente. Il fatto è che io pensavo che… ecco, pensavo
che qualcuno si sarebbe ricordato di me, anche se sono un reietto e sono lontano
dal mondo. Almeno mia madre, io pensavo… pensavo che almeno lei sarebbe venuta
a trovarmi. Almeno una volta in questi cinque giorni, ecco, io pensavo che
qualcuno sarebbe venuto qui, anche solo per dirmi “Ciao, come stai?”. E invece
sono cinque giorni che aspetto, invano, che qualcuno si ricordi di me. Sarò
sincero, quando ho deciso di uccidere Saffron e gli altri, ho pensato che in
questo modo, forse, qualcuno si sarebbe finalmente accorto di me. Invece, tutti
continuano a parlare di me, ma nessuno viene a parlare con me. (Andiamo, non si
sono nemmeno presi il disturbo di andare a parlare con mia madre, per cercare
di capire che tipo fossi, come possa essermi venuta in mente una strage
simile.)
Sa, signora Willows, non credo che arriverò
alla fine di questa settimana. Non credo che passare qui il resto della mia
vita cancellerà le mie colpe – nonostante tutto, andrò comunque all’inferno.
(Buffo, a questo proposito mi viene in mente una battuta di uno dei miei film
preferiti, “Rambo”. Il colonnello che l’ha addestrato ad un certo punto dice
“Quello che voi chiamate inferno, lui lo chiama casa”. Lui sta parlando di
Rambo, ma in fondo è come se stesse parlando di me. La mia vita è sempre stata
un inferno, l’inferno è sempre stato casa mia.) Ho vissuto all’inferno, e
l’inferno è dove andrò da morto. Perché aspettare? Sì, leggendo lei penserà “Io
sarei venuta a trovarti, Larry, io non mi sarei dimenticata di te”, però non
potrei mai chiederle di venire a trovarmi qui dentro. Lo so, lei lavora con la
morte, ha a che fare con la morte e con le perversioni della mente umana ogni
santo giorno, ma non potrei mai chiederle di trascorrere a contatto con la
feccia anche il suo tempo libero.
Lei è troppo buona, signora Willows. Troppo
buona per un povero reietto come me.
Non ho ancora deciso quando mi giustizierò
– forse stanotte, forse la prossima. Di certo prima che le arrivi questa
lettera. In ogni caso, mi sono permesso di destinare a lei i miei pochi averi e
i miei effetti personali – stimo lei più di mia madre, signora Willows, e la
prego di esaudire le mie ultime volontà (che elencherò nella prossima pagina).
Addio, signora Willows. Lei mi è stata più
vicina di chiunque altro, anche se le sembrerà di non aver mai fatto
abbastanza.
Con affetto,
Larry
Io sottoscritto Laurence “Larry” LaVelle,
nel pieno possesso delle mie facoltà
fisiche e mentali, dispongo che all’atto della mia morte (in qualunque momento,
luogo e modalità essa avvenga) i miei effetti personali, depositati nel
magazzino del carcere di massima sicurezza di Henderson, contea di Clark,
Nevada, vengano restituiti alla signora Catherine Willows, detective di terzo
livello del Dipartimento di Polizia Scientifica di Las Vegas, contea di Clark,
Nevada, che con la presente nomino mia erede universale. Desidero che alla
signora Willows vengano consegnati anche tutti gli oggetti presenti nella mia
vecchia stanza, situata al secondo piano del civico 1432 di Green Mile Road,
dove fino a sei mesi fa ho convissuto con mia madre, Yvonne LaVelle, alla quale
non desidero lasciare nulla, tranne il mio risentimento per non essere venuta a
trovarmi nemmeno una volta durante gli ultimi due mesi della mia detenzione.
Alla signora Willows chiedo di vendere ogni
singolo oggetto di cui verrà in possesso (tranne i miei manufatti in legno, che
appartengono a lei, e il mio coltellino svizzero, che vorrei fosse sepolto con
me, chiuso nel mio pugno destro), e di donare il ricavato alle figlie della
signora Hobson, che per colpa mia non hanno più la loro amorevole mamma. Se
disgraziatamente le signorine Hobson non dovessero accettare quel denaro, prego
la signora Willows di destinarlo in beneficenza (lascio a lei libera scelta
sulle cause da sostenere – personalmente, mi piacevano i cani, dunque non mi
dispiacerebbe se fosse qualche canile ad avere quei soldi).
In fede,
Laurence LaVelle
“È sua,
dico bene?”
Catherine
annuì, senza riuscire a staccare gli occhi dalla grafia minuta che aveva
riempito quattro pagine. “Sì, è di Larry.”
Grissom
si avvicinò. “Che dice?”
“È di
due giorni fa. C’è il suo testamento” aggiunse, mostrando l’ultimo foglio.
“Dice
che stava per uccidersi?”
“Già.”
“Quel
ragazzo ti stava a cuore, vero?”
“Ha
fatto delle cose orribili, ma non era una persona malvagia. Vorrei che la gente
riuscisse a capirlo.”
“Non
puoi cambiare l’opinione della gente, Catherine. Puoi solo sperare che con il
tempo la gente si dimentichi di lui. A quel punto, lui non sarà più un
pluriomicida, o un ragazzo fuori di testa. Non sarà più nessuno, per gli altri.
Sarà qualcuno solo per te, e a quel punto potrai pensare a lui come meglio
credi.”
Catherine
sospirò. In più di dieci anni di servizio, non si era mai avvicinata tanto a
capire un colpevole. “Non ricordavo che farsi coinvolgere fosse così doloroso.
Posso uscire prima?”
“Permesso
accordato. Che devi fare?”
“Andare
a prendere gli effetti personali di Larry, andare a casa sua. Mi ha nominata
sua esecutrice testamentaria.”
“Non
poteva scegliere meglio.”