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Autore: mamie    05/07/2012    2 recensioni
Riguardando qualche puntata di Last Exile mi è venuta voglia di scrivere questa piccola storia, un quadretto familiare dedicato a Mullin e Dunya. Vi avverto che gronda melassa da tutte le parti :D
"Dunya guardava i suoi due uomini che tornavano per la cena, illuminati dal tramonto, e ogni volta si inteneriva. Si spaventava anche, un po’, ringraziando per quel bellissimo dono che aveva ricevuto e ricordando ogni volta quanto fosse stata vicina a perderlo."
Genere: Fluff, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Dunya Scheer, Mullin Shetland
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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 DONI
 
Dunya guardava i suoi due uomini che tornavano per la cena, illuminati dal tramonto, e ogni volta si inteneriva.  Si spaventava anche, un po’, ringraziando per quel bellissimo dono che aveva ricevuto e ricordando ogni volta quanto fosse stata vicina a perderlo.
- Eccomi, mamma! – gridò il piccolo, con tutto l’entusiasmo che sprizzava da lui come un fuoco d’artificio.
- Fila a lavarti le mani Alex! – rispose.
- Vai a lavarti anche tu, guarda come sei ridotto! – esclamò poi ridendo mentre suo marito le passava un braccio attorno alla vita per scoccarle un bacio.
- Domani cominciamo a mietere – la informò lui quasi con lo stesso entusiasmo del bambino.
Aveva imparato in fretta che il sudore e la fatica della terra erano migliori del sudore e della fatica delle battaglie, e l’oro del grano maturo valeva molto di più dell’oro sterile delle medaglie. Il vecchio fucile giaceva da tempo inutilizzato in un armadio, insieme al suo, e Dunya sperava con tutta se stessa che restassero lì ad arrugginire per sempre.
I suoi doni.
Il suo mondo.
 
Si era svegliata di colpo ed era scesa in cucina a cercare un bicchiere d’acqua. Acqua pulita, ora ce n’era sempre, ogni giorno. Anche questo le pareva un dono miracoloso. Qualcosa per cui dover ringraziare ogni volta che se la sentiva, fresca e dolce, scendere per la gola.
Mullin si affacciò anche lui sulla porta, con un’espressione un po’ preoccupata.
- Non ti senti bene?
Lei si girò a sorridergli.
- Sto bene. Avevo sete. Comincia a fare caldo.
Era sempre così ferocemente protettivo con lei.
 
- Io ti proteggerò.
- Parli come se potessi farlo davvero.
 
L’incubo solito l’aveva svegliata. Ogni tanto le capitava ancora di fare quel sogno, ma a lui non l’aveva mai raccontato. Non voleva ricordargli le cose tristi.
Il sogno, più un ricordo per la verità, cominciava sempre nello stesso modo. Rivedeva la carneficina dell’ultima battaglia, i corpi riversi tutto intorno, sentiva le urla dei feriti e gli scoppi orrendi degli spari che la assordavano. Aveva perso il fucile e si stava affannando a recuperarlo quando tutto ad un tratto era sceso il silenzio. Un silenzio irreale, terribile, un silenzio più orrendo del rumore assordante di prima.
L’aveva chiamato e cercato e poi l’aveva trovato, pallido e coperto di sangue e immobile. Allora aveva gridato e aveva pianto vedendo ancora una volta frantumarsi tutte le esili speranze che il suo piccolo cuore aveva osato proteggere.
A questo punto si svegliava sempre e le ci voleva qualche momento per ricordare dove fosse, che lui era lì accanto a lei che dormiva, che quella volta il destino le aveva fatto un regalo inatteso.
 
- Questo è ancora vivo.
Nella nebbia nera della sua disperazione quelle parole l’avevano sferzata facendole alzare il capo.
- Portatelo in infermeria.
Aveva spalancato gli occhi di colpo, smettendo per un attimo di respirare, come se il tempo avesse fatto uno scatto e si fosse fermato.
- Ehi, ragazzina, stai indietro.
Gli aveva afferrato la mano. Era fredda, ma lei ci si era aggrappata come se fosse stato l’ultimo filo che la tratteneva dal cadere in un buio senza fine. Non l’aveva più lasciata per tutto il tempo che c’era voluto ad arrivare all’ospedale e neanche quando il dottore le aveva detto di allontanarsi e aveva cominciato a trafficare con bisturi e pinze e altre cose orribili. L’aveva tenuta stretta per tutta la notte mentre le infermiere venivano a misurargli la febbre e a cambiargli le lenzuola e le rivolgevano sorrisi mesti sussurrando fra loro, pensando di non farsi sentire, che non sarebbe arrivato al mattino.
Ricordava ogni secondo orribile di quella notte, la luce fioca delle lampade, i passi ovattati degli inservienti, qualcuno che si lamentava nella branda in fondo allo stanzone, l’odore disgustoso di sangue e disinfettanti, il buio che sembrava strisciare fuori dagli angoli fino ad inghiottire ogni cosa.
Ricordava il primo raggio di luce che l’aveva colpita dalla grata della finestra aperta e il canto di un passero, assurdamente felice, nella prima aria del mattino.
E gli occhi di lui che si aprivano e la sua bocca che riusciva, nel pallore del viso sofferente, a piegarsi in un sorriso e a sussurrare il suo nome.
Dunya.
 
Anche lui si era preso un bicchiere d’acqua dal secchio della cucina. Poi l’aveva presa per mano e riportata a letto cominciando a giocherellare con le ciocche spettinate dei suoi capelli.
Lei aveva cominciato a ridacchiare.
- Non hai detto che domani dobbiamo mietere?
- E allora?
- Dobbiamo alzarci presto.
- E allora?
 
E allora? L’indomani non li aspettava un campo di battaglia annegato nel sangue, ma uno splendido campo di grano maturo. Li aspettava la fatica, e il sudore, e la preoccupazione del futuro che non è mai limpido e ragionevole come lo si vorrebbe. Li aspettava la speranza di tanti altri anni buoni, di vita, di cose che crescono, di bambini che si fanno grandi, di pace.
I ricordi… quelli non se ne sarebbero andati. I compagni persi per strada, la paura del buio, le notti interminabili passate aggrappati ad un fucile: sarebbero rimasti lì e avrebbero continuato a fare male, come vecchie cicatrici. Ma piano piano sarebbero stati sommersi da altri ricordi, più dolci.
Dunya allungò le labbra per un bacio e si immerse ridendo nell’amore del suo nuovo, meraviglioso mondo.
 
  
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