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Autore: Sherezade    21/01/2007    4 recensioni
"Silenziosamente mi alzai, mi infilai in bagno, accesi la luce e mi guardai allo specchio.Ero sempre io, alta, magrissima, brufolosa, con la pelle nivea, i capelli castani e gli occhi grigi, ma c’era qualcosa di diverso. Non so se fosse la luce che avevo negli occhi o il sorriso, sta di fatto che quella notte non vidi il trampoliere sgraziato che odiavo tanto, ma vidi Virginia, una ragazzina che pian piano si stava trasformando in donna. Dopotutto se un ragazzo bello e ricercato come Russell mi aveva preferito a Claire e a mille altre ragazze formose e perfette qualche pregio dovevo pur averlo… Ripensai alla promessa che gli avevo fatto e sorrisi tra me. In quel momento decisi che non avrei più accampato scuse, non mi sarei nascosta dietro l’alibi della severità di mio padre per non affrontare la vita, ma avrei fronteggiato le mie paure e le avrei vinte una ad una."
Come un amore può cambiarti la vita... Storia dell'incontro tra una timida quindicenne e un futuro divo.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Premessa

Premessa.

 

Chiedo immensamente scusa ai lettori di “Un nuovo giorno” che sono in trepidante attesa del nuovo capitolo per questa “divagazione”, ma questa ff ha una sua storia, e davvero non ho potuto fare a meno di scriverla…

I fatti sono questi; circa due settimane fa, chattando con la mia sorellina virtuale Ioly, discutevamo il progetto di una ff da scrivere a quattro mani, e avente come protagonista il giovane Russell Crowe ( e la scriveremo, non temete, questa è una promessa! XD)

Appena chiusa la chat nella mia mente si è formata l’immagine di una ragazzina di quindici anni e un nome: Virginia. Orbene, dopo essersi insediata nella mia testa la piccola e tenace Virginia ha iniziato a tormentarmi ad ogni ora del giorno e della notte, incitandomi a scrivere la sua storia.

Invano l’ho supplicata di lasciarmi in pace, dato che sto preparando un esame molto impegnativo e ho davvero pochissimo tempo…

La mia ospite si è limitata a starsene zitta e buona mentre studiavo, ma appena mollavo i libri era lì, pronta alla carica. Per farla tacere ho deciso di cercare su Internet la biografia di Russell Crowe, tanto per farle capire che la storia che lei voleva scrivessi era inverosimile… E ho scoperto che, all’età di diciassette anni, Russell Crowe faceva davvero l’animatore in un villaggio turistico al largo di Auckland, in Nuova Zelanda.

A questo punto Virginia è tornata alla carica, e a me non è rimasto altro che sedermi davanti al pc e aprire il documento Word… E non ho fatto altro, Virginia dettava talmente in fretta che ho completato tutto in meno di due giorni!

Quindi se qualcosa non vi piace io declino ogni responsabilità… Prendetevela con Virginia!

                                 Ringraziamenti.

Il primo e più sentito ringraziamento va a Ioly, alla quale questa ff è dedicata… Grazie per avermi fornito l’ispirazione e per avermi regalato la tua amicizia.

Ringrazio di tutto cuore le mie due meravigliose beta reader, Kellina e Sissi alias Clopina: grazie per i preziosi consigli e per il vostro sostegno costante.

A questo punto credo di aver parlato anche troppo, vi lascio alla mia ff! E mi raccomando, se avete cinque minuti lasciatemi una recensione, anche negativa!

 

 

 

RICORDI.

 

 

 

 

 

Sunvillage, Auckland , gennaio 1981.

 

La hall del villaggio era strapiena di villeggianti. Io ero raggomitolata su una poltrona di vimini, mentre i miei genitori prendevano accordi alla reception e mio fratello Salvatore “esplorava il territorio”, come diceva sempre lui.

   Proprio di fronte a me c’era uno specchio gigante. Sospirai e mi voltai dall’altro lato, non volevo vedere quant’ ero squallida nel mio prendisole a fiorellini…

   All’epoca avevo quindici anni, ero magrissima, alta e sgraziata, un trampoliere tutto gambe. Non bastasse, avevo anche i brufoli, la pelle più bianca dell’universo, capelli di un castano indefinito e occhi grigio topo. Infine, orrore degli orrori, portavo il pomposo nome della mia nonna paterna: Virginia. Quanto lo odiavo, quel nome…

   Lo odiavo perché mi sembrava più adatto ad una vecchia che ad una quindicenne, e poi perché mi ricordava mio padre e la sua severità tutta d’un pezzo, da bravo siciliano qual’era. Eh già, il sangue non è acqua, come diceva sempre nonna Virginia… Perciò mio padre, anche se viveva in Australia da quando aveva cinque anni, continuava a comportarsi come un siculo DOC. All’atto pratico significava che per lui era inconcepibile che io, la sua preziosa bambina, mi vestissi con abiti succinti, mi tagliassi i capelli corti o mi truccassi. Ovviamente uscite e amici maschi erano tassativamente fuori discussione… Tutto questo, sommato alla mia patologica timidezza, faceva sì che mi ritrovassi sempre isolata.

   Da bambina avrei dato tutto quello che avevo, comprese le mie bambole ed il mio triciclo, per chiamarmi Alyssa, Janet, Judy, Julie o Mary come le mie compagne di classe,e soprattutto per avere i loro genitori permissivi… Siccome però mi ero resa presto conto che per i genitori non potevo farci nulla avevo deciso di fare qualcosa almeno per il nome, così mi ero accorciata il mio pomposo Virginia nel più esotico Ginny.

   “Virginia, Salvatore! Venite, andiamo nel bungalow!”

Una sola persona al mondo insisteva nel chiamarmi Virginia, come quando ero una mocciosa di pochi anni… Mio padre.

   Io e mio fratello, che all’epoca era un attraente diciassettenne coi tratti mediterranei di papà, ci alzammo obbedienti e ci incamminammo dietro i nostri genitori.

    “E’ davvero bellissimo qui, sono sicuro che vi troverete benissimo!” esclamò felice mio padre, guardandosi intorno.

   Effettivamente quel bungalow era davvero grazioso, con i letti in legno chiaro e le finestre che davano direttamente sull’oceano… Forse quella vacanza di una settimana in Nuova Zelanda non sarebbe stata uno strazio totale.

   “Bene, venite qui voi due!” intimò mio padre minaccioso.

   “Virginia, fai la brava e obbedisci a tua madre e a tuo fratello. Salvatore, bada a Virginia e alla mamma, intesi? E niente follie, ora sei tu l’uomo di casa!” disse.

   Quell’anno, contrariamente a quello che accadeva di solito, mio padre non avrebbe passato le vacanze con noi: avrebbe passato l’estate a lavorare a Camberra, dove il suo studio di architetti aveva appena inagurato il progetto di un nuovo teatro. Ci avrebbe raggiunto a fine settimana per riaccompagnarci a Sidney, dove avremmo trascorso il resto delle vacanze, come ogni anno. Quell’anno ci trovavamo in quel villaggio della Nuova Zelanda, situato al largo di Auckland, solo perché mio padre aveva partecipato alla progettazione e la direzione gli aveva offerto una settimana di vacanza gratis.

   Appena papà fu uscito Salvatore corse a mettersi in costume da bagno, poi disse: “Vado in piscina!” e si dileguò.

    Io invece mi accomodai sul letto, presi un libro e mi misi a leggere.

   “Tu non vai in piscina, Ginny?” mi chiese mia madre.

Io scossi la testa: non avevo nessuna voglia di mettermi il costume da bagno, che non avrebbe fatto altro che evidenziare la mia terribile magrezza, e di espormi al pubblico lubridio. Tanto sapevo già cosa sarebbe successo: nessuno mi avrebbe degnato di uno sguardo, se non qualche ragazzo per chiamarmi “stecca” e qualche anziana signora per dirmi : “Ma mangia un po’ di più, cara, sei tutta ossa!”, ed io me ne sarei rimasta inchiodata sulla mia sdraio, senza osare alzarmi per non mostrare al mondo il mio piattissimo sedere e col rischio di beccarmi una dolorosissima scottatura, dato il candore niveo della mia pelle. Meglio, molto meglio rimanere tappata nel bungalow… Lì almeno nessuno mi avrebbe presa in giro, non mi sarei dovuta preoccupare di fare brutta figura e non mi sarei ustionata.

 

************************************

 

    “Ginny, ascolta che programma fichissimo ho in mente: stasera andiamo a mangiarci una pizza e poi al locale del villaggio, suona un gruppo ganzissimo!” esclamò Claire con voce eccitata, piombandomi in camera.

   Malgrado avesse solo un anno più di me, Claire era il mio esatto opposto: a sedici anni era già una donna fatta e finita, con gambe lunghe e tornite, seno prosperoso, lunghi capelli corvini e occhi verdi e lucenti come smeraldi. Inoltre i suoi genitori, australiani purosangue, erano molto più permissivi dei miei, così Claire poteva girare in minigonna e magliette aderentissime e addirittura truccarsi. Accanto a lei mi sentivo sempre un brutto anatroccolo… Eppure malgrado tutto questo era la mia migliore amica. Ormai da anni dividevamo lo stesso banco a scuola e facevamo anche le vacanze insieme, dato che le nostre famiglie erano diventate amiche.

    Sospirai.

“No, davvero, stasera no… Ho il ciclo e non mi sento bene!” inventai lì per lì.

   Claire mise su il broncio, odiava essere contraddetta.

A quel punto intervenne mia madre.

    “Ginny, smettila di accampare scuse! Stasera tu uscirai con Claire!” esclamò all’improvviso uscendo sul terrazzino dove io e la mia amica stavamo prendendo il sole.

    Strabuzzai gli occhi: mia madre che mi obbligava ad uscire?

   “Mamma, ma io…” iniziai titubante, ma lei mi interruppe subito.

   “Ginny, insomma! Non fai altro che lamentarti che tuo padre ti impedisce di fare quello che vuoi, che non ti permette di vestirti come vorresti, che ti considera ancora una mocciosa… E ora che tuo padre non c’è che fai? Passi le giornate tappata in casa? Sono tre giorni che esci solo per venire in spiaggia con me al mattino! Per l’amor del Cielo, hai quindici anni, non novanta!”

   Aveva ragione lei… Il vero problema, a quanto pareva, non era papà con i suoi metodi educativi obsoleti. Il problema ero io e la mia maledettissima paura del giudizio altrui.

   Provai ad accampare qualche altra scusa, ma mia madre, col suo pratico spirito anglosassone, le smontò una per una.

   E così quella sera mi ritrovai con Claire seduta ad un tavolino  del locale del villaggio, una graziosa capanna col tetto di paglia e con un grosso cartello sull’ingresso in cui campeggiava la scritta: “The club”.

    Mia madre mi aveva costretta a indossare un bell’abitino e mi aveva anche permesso di truccarmi leggermente. Dopotutto lei era di origini inglesi, perciò disapprovava un po’ i metodi educativi di papà. L’unica cosa che dovetti prometterle fu che sarei tornata entro la mezzanotte e sarei rimasta sotto l’occhio vigile di Salvatore, che si era accampato qualche tavolo più in là del nostro con un gruppo di ragazzi con cui aveva fatto amicizia. Lui non aveva di certo i miei problemi di insicurezza, anzi aveva ereditato da mia madre il carattere esplosivo. Come dicevo tra me e me nei miei momenti di sconforto Salvatore aveva ereditato il meglio dei nostri genitori, io il peggio.

   Il gruppo che suonava era composto da quattro elementi e aveva un nome stranissimo: si chiamava Roman Antix. Anche il genere di musica che facevano era particolare, una specie di rock mischiato al country e al pop, ma il motivo per cui la mia amica mi aveva trascinato a sentirli non era di certo la loro musica, e neppure il loro talento… In effetti cantavano maluccio, ma erano giovani e molto carini. In particolare uno dei due chitarristi aveva colpito la fantasia della mia amica: era un ragazzo alto, magro, abbronzato, dai corti capelli castani e dai bellissimi occhi azzurri. A dire il vero non è che i suoi occhi fossero proprio azzurri… Cioè, da quella distanza sembravano più grigi, ma si intuiva anche una sfumatura di verde e un tocco di oro.

    Mentre Claire si sdilinquiva in sorrisini e mossettine alla volta del chitarrista, io tenevo gli occhi fissi a terra, per evitare di incrociare lo sguardo pieno di scherno di qualche ragazzo, dato che accanto alla mia spumeggiante amica di solito facevo la figura dell’oca.

    Finalmente la musica finì, ed io tirai un sospiro di sollievo: quel chitarrista era sì carino, ma cantava davvero da cani, almeno a mio parere! E poi tutto quel rumoreggiare mi aveva fatto venire un gran mal di testa…

   Stavo per afferrare Claire e trascinarla verso i nostri bungalow, quando vidi il chitarrista avvicinarsi al nostro tavolo.

   “Ciao ragazze, vi è piaciuto il concerto?” ci chiese sorridendo.

    Aveva davvero una gran bella voce, morbida e vellutata, e i suoi occhi erano ancora più belli visti da vicino. La sua pelle abbronzata e spruzzata di lentiggini aveva una piacevolissima sfumatura dorata, e  l’incisivo spezzato che si intravedeva quando sorrideva gli dava un’aria buffissima.

   “Sì che c’è piaciuto, sei bravissimo!” tubò subito Claire, sporgendosi verso di lui. Il ragazzo però la ignorò e si voltò verso me.

   “Allora, ti è piaciuto il concerto?” mi chiese di nuovo.

Avrei voluto dileguarmi, già mi imbarazzava terribilmente parlare in pubblico, figurarsi farlo davanti a due occhi azzurro verde che mi fissavano impertinenti… Ma dovevo dire qualcosa, quel ragazzo sfrontato vestito come un rocker di tutto rispetto non pareva intenzionato ad andarsene senza una risposta.

    “Carino…” bofochiai senza alzare lo sguardo.

Lui mi passò due dita sotto il mento e mi costrinse ad alzare la testa.

   “Hai dei bellissimi occhi… Non tenerli fissi a terra. Mormorò piano.

    Avvampai, mentre Claire tossicchiava e si contorceva sulla sedia nel tentativo di farsi notare.

    “Non ti mangio, sai? Non c’è bisogno di arrossire… Non avrai paura di me, occhi belli!” scoppiò a ridere il chitarrista.

    Quel complimento mi fece piacere, mai nessuno mi aveva detto che i miei occhi erano belli. Azzardai un timidissimo sorriso, ma proprio in quel momento l’altro chitarrista del gruppo gli fece un cenno e lui disse: “Devo andare… Spero di vederti in giro!”

Io rimasi immobile sulla sedia, senza osare neppure respirare troppo forte. Nell’aria sentivo ancora la sua presenza…

    

      “Allora, ti sei divertita ieri sera?” mi chiese mia madre mentre si stendeva sull’asciugamano.

   “Sì…” risposi vaga io, poi rimasi un attimo indecisa su come sdraiarmi: pancia o schiena? Mostrare il mio patetico piattume sul davanti o il mio ossutissimo sedere? Alla fine decisi per la seconda opzione, mi sdraiai a pancia in giù e presi dalla mia capiente sacca da spiaggia “Il signore degli anelli” di Tolkien, la mia passione.

    Mi accingevo appunto ad iniziare a leggere quando una specie di trillo annunciò l’arrivo di Claire.

   “Ginny, vieni in acqua, devo dirti una cosa!” urlò prima di gettarsi a capofitto tra le onde. Addio pace… Sapevo benissimo che se l’avessi ignorata non avrei avuto tregua, perciò mi conveniva seguirla. Con un po’ di fortuna dopo qualche minuto avrei potuto inscenare un mal di testa e ritornarmene in pace al mio amato libro.

    “Ginny, ti ricordi il ragazzo di ieri sera, il chitarrista? Quello che si è avvicinato al nostro tavolo?” mi disse Claire eccitata appena mi tuffai in acqua.

   “Sì?” chiesi facendo l’indifferente, mentre il mio cuore aveva iniziato a fare le capriole al pensiero di quei meravigliosi occhi e di quella voce profonda.

   “Beh, ho scoperto che lui e l’altro chitarrista fanno anche gli animatori, oggi pomeriggio faranno uno spettacolo di mimi! Ci andiamo, vero?” continuò la mia amica.

   “CHEEE???? Stai scherzando, spero! Ieri ci ho fatto la figura della scema, non ho nessuna voglia di rincontrarlo!”  esclamai inorridita.

   Claire mi squadrò furibonda.

“Uffa, Ginny! Ma che pizza che sei! E va bene, ieri sera hai fatto una figuraccia… E allora? Devi solo rilassarti e vedrai che andrà tutto bene! E poi a me quel ragazzo piace, e siccome mia madre non mi manderà mai da sola allo spettacolo tu verrai, che ti piaccia o no, chiaro?” concluse minacciosa.

   Invano supplicai, piansi e scongiurai… Claire era un osso duro, e quando si metteva in testa una cosa non c’era nulla che la smuovesse. E così quel pomeriggio mi ritrovai seduta sugli scalini del teatro del villaggio, costruito sullo stile degli antichi anfiteatri romani.

    Ad essere sincera dovetti ammettere che quel tipo se la cavava decisamente meglio come attore che come cantante… Dopo pochi minuti, infatti, mi dimenticai completamente delle mie paure e mi ritrovai a seguire affascinata i suoi movimenti. Quando lo spettacolo finì ci fu uno scroscio di applausi, ed io ritornai improvvisamente sulla Terra: erano già passate due ore!

   Feci per svignarmela, ma l’irriducibile Claire mi afferrò per un braccio e disse: “Vieni, scendiamo a salutarlo!”

   In quel momento l’avrei volentieri strangolata, ma dovetti fare buon viso a cattivo gioco: mica potevo ammazzarla in pubblico, no?

   E così mi ritrovai di nuovo di fronte a lui.

Claire iniziò subito a fargli i complimenti, con tutto il suo repertorio di ancheggiamenti, sbattiti di ciglia e mossettine varie. Io invece me ne rimasi zitta e immobile, come se fossi fatta di sale.

   Ma non ti piacciono proprio i miei spettacoli, occhi belli?” sentìì una voce ironica rivolgersi a me e alzai lo sguardo…

    Lui era lì, davanti a me, con i suoi stupendi occhi ridenti, i capelli scompigliati dal vento e la maglietta che metteva in evidenza il suo fisico magro, ma tonico.

    Volevo parlare, dirgli che era stato davvero bravissimo… Ma la lingua mi si era incollata al palato e non c’era verso di scollarla. Riuscii solo ad esibirmi in una smorfia patetica che avrebbe dovuto essere un sorriso, mentre lo stomaco mi si aggrovigliava. Accidenti, ma perché mi comportavo così? D’accordo, ero timida… Ma davanti a lui mi sentivo addirittura ritardata mentale!

   “Senti, ma non è che stasera andate a mangiare alla pizzeria del villaggio? No, perché anche noi mangiamo lì…” disse Claire mettendosi fra noi.

   Lui scosse la testa.

“Spiacente… Stasera lavoro al Bingo, chiamo i numeri… Ma se volete potete venire al falò che il villaggio organizza ogni venerdì sera!”  disse facendole l’occhiolino.

    Poi si voltò verso di me, mi sollevò il viso come aveva fatto la sera prima e mi disse: “Alzalo ogni tanto questo faccino… E sorridi, non hai che da guadagnarci!”

   Poi si voltò e se ne andò.

 “Accidenti, che sfiga, non possiamo andare al Bingo! Non ci fanno entrare siamo minorenni… Ma lo rincontreremo di certo nel villaggio, e poi andremo al falò!” esclamò Claire.

    Io la guardai storta, non avevo nessunissima voglia di correre ancora dietro a quel tipo che, tra l’altro, doveva essere notevolmente più grande di noi!

   E poi, considerai mentre tornavamo ai nostri bungalow e Claire parlava a raffica,  avevo notato benissimo l’occhiolino che aveva fatto a Claire, conoscevo la mia amica e sapevo come sarebbe finita: lei aveva puntato la preda e avrebbe fatto di tutto per averlo, e lui… Lui non si sarebbe fatto pregare, dopotutto Claire era bellissima. I complimenti che mi aveva fatto probabilmente erano solo frasi di circostanza, come animatore probabilmente si sentiva in dovere di essere carino con tutte, o forse era solo uno di quei tipi che ci provano con tutte… Una cosa era certa: nessun ragazzo sano di mente avrebbe preferito Claire a me, perciò era meglio non farsi illusioni.

    Era un film che avevo già visto, conoscevo perfettamente anche il finale, quindi decisi di lasciare ai due attori le luci della ribalta. Io dopotutto non ero che una comparsa… I trampolieri coi brufoli non hanno mai fatto le attrici protagoniste.

   Per i successivi due giorni cercai in tutti i modi di defilarmi, passavo la mattinata incollata a mia madre e i pomeriggi in camera con la scusa che non potevo prendere troppo sole, altrimenti mi sarei ustionata.

   Eppure, chissà come, quel ragazzo spuntava sempre in tutti i posti in cui c’ero anch’io. La mattina lo trovavo spesso in spiaggia, aiutava i bagnini oppure si concedeva qualche momento di relax in spiaggia, nel pomeriggio poi era sempre in giro per il villaggio, se uscivo a fare una passeggiata potevo stare tranquilla che l’avrei trovata sul ponte che collegava i bungalow alla spiaggia oppure in giro con una sigaretta tra le labbra e il suo inseparabile amico, l’altro chitarrista del gruppo, al fianco. Dietro di loro, poi, c’era sempre un codazzo di ragazze che si sdilinquivano e si perdevano in mossettine e smorfiette per farsi notare.

   Che sciocche, ridursi così per un uomo… Che cosa ci trovassero in lui, poi, non lo capivo davvero. Sì, era un bel ragazzo, aveva dei bellissimi occhi ed una voce stupenda, ma per il resto, a ben vedere,  mi sembrava un galletto come tanti. Non valeva proprio la pena di provarci, mi dicevo, dentro di sé deve avere il vuoto cosmico… O forse ero solo troppo insicura per provare a conquistare il ragazzo più ambito del villaggio e preferivo battere in ritirata, da brava vigliacca qual’ero.

  

*************************************

 

    “Ginny, sei pronta? Dobbiamo andare o faremo tardi!” da dietro la porta chiusa mi giungeva la voce isterica di Claire.

    Mi guardai nello specchio a figura intera e decisi che quella sera non sarei uscita per nessun motivo al mondo: mi ero messa il mio vestito più carino, quello che ammorbidiva un po’ i miei spigoli e che mi faceva sembrare gli occhi quasi blu, mi ero legata i capelli e truccata leggermente, ma il risultato mi sembrava comunque patetico.

   “Ginny, sorellina, esci da lì? Mi devo preparare anche io!” tuonò Salvatore picchiando sulla porta.

   “Io… Non mi sento bene, davvero… Andate voi, poi domani mi racconterete…” provai a balbettare, ma mi giunse subito la voce imperiosa di Claire.

   “VIRGINIA LENTINI!!! ESCI SUBITO DA LI’ O GIURO SU DIO CHE PRIMA TI AMMAZZO E POI TI TOLGO IL SALUTO!!!”

    “Dai, tesoro, esci, sono sicura che sarai bellissima!” le fece eco mia madre.

   “Ginny, per la miseria, se non esci da lì butto giù la porta a calci e ti trascino fuori per i capelli!” urlò Salvatore, evidentemente seccato.

    Tre contro uno… Che potevo fare? Non mi restò altro da fare che aprire la porta ed uscire fuori dal bagno.

   “Accidenti, come sei carina! Stasera farai strage di cuori!”sorrise mia madre.

   “E’ vero, stai davvero bene… Quasi quasi sono invidiosa!” ridacchiò Claire.

   “Oh, finalmente ti sei schiodata!” esclamò Salvatore con la sua solita delicatezza da bufalo, poi mi guardò e disse: “Niente male davvero, sorellina… Datemi cinque minuti e vi accompagno!”

   Mi sedetti sul letto e giunsi le mani, sperando che quella serata passasse in fretta, o perlomeno che non ci fosse lui!

   Ma quella sera il Cielo doveva essere sordo alle mie accorate preghiere. Appena arrivammo in spiaggia, infatti, lo vedemmo subito: lui era lì, accanto al fuoco, e suonava la chitarra.

   Beh, perlomeno cantava un po’ meglio di quanto avesse fatto quella prima sera…

   Claire mi afferrò per un braccio e mi trascinò davanti a lui.

    “Ciao, Russell!” disse “Siamo arrivate!”

Chissà come aveva fatto a scoprire il suo nome… Di certo in quei giorni in cui io ero rimasta barricata nel bungalow si era data molto da fare!

   Russell sorrise, poi mi guardò e disse: “Oh, finalmente tieni il viso alto!”

   Avvampai e mi affrettai ad abbassare lo sguardo, mentre lo stomaco mi si contraeva in una morsa: chissà perché mi faceva quell’effetto, poi… Forse per quel suo sguardo sempre diretto e sfrontato, per quel ciuffo ribelle che gli cadeva sulla fronte e che gli dava un’aria così sbarazzina… O forse per la sicurezza che ostentava e che mi faceva sentire piccola e sciocca, io che non riuscivo neppure a sostenere uno sguardo troppo a lungo.

   Ci accomodammo sulla spiaggia, accanto a Salvatore e ad i suoi amici, e Claire iniziò subito a scherzare con loro. Io avrei voluto rimanermene sulle mie, ma quei ragazzi erano davvero simpatici, cos’ iniziai a rispondere alle loro battute e pian piano mi rilassai.    

   Allora forse aveva ragione mia madre, non era così difficile stringere amicizia con qualcuno…

    All’improvviso mi sentii toccare una spalla, mi voltai e mi trovai davanti lo sguardo scanzonato di Russell.

   Per lo spavento feci un balzo, e lui sorrise divertito.

“Scusami, piccola, non volevo spaventarti… Volevo solo chiederti se ti va di venire con me in un posto!”

   “Io??? Ma non so… Non posso, devo stare con Salvatore!”  mormorai tutto d’un fiato.

    Ma quel vigliacco di mio fratello, invece di aiutarmi, mi fece un gesto e disse: “Vai pure, basta che non vi allontanate troppo, e tornate presto!”

   A quel punto fui costretta a seguirlo. Lui mi aiutò ad alzarmi e mi accompagnò in un angolo un po’ appartato, poi si sedette sulla sabbia.

   “Bene, finalmente soli” disse “Come ti chiami?”

“Ginny…” balbettai.

   “Ginny? E’ il tuo nome?” mi chiese lui.

Cosa potevo fare? Non potevo di certo dirgli che mi chiamavo Virginia, mi avrebbe preso in giro a vita!

    “Sì, mi chiamo Ginny… E tu sei Russell, vero?” gli chiesi a mia volta, riacquistando un po’ di coraggio.

   Annuì, poi rimanemmo in silenzio per parecchi minuti. Si sentiva solo il lontano mormorio dell’oceano, lento e costante come il respiro dell’infinito. Quella melodia antica riuscì a calmarmi, presi a respirare con lo stesso ritmo del lento sciabordio delle onde e dimenticai le mie ansie.

   Perché mi hai portata qui?” chiesi dopo un po’.

“Semplice: volevo parlare un po’ con te senza quell’ochetta della tua amica intorno, e senza gente a disturbarci!”

    “Che dici?” mi inalberai “ Claire è una ragazza dolce e intelligente, e tu le piaci!”

Mi morsi subito la lingua: ma che mi stava succedendo? Non era da me perdere il controllo in quel modo e tradire un segreto! Adesso Claire mi avrebbe uccisa…

   “Sì, forse le piaccio” concesse lui “ Stai tranquilla” aggiunse subito vedendo la mia espressione terrorizzata “ Non le dirò che me l’hai detto! A dire il vero lo avevo capito da solo, sono cinque giorni che mi da il tormento! Ma non voglio parlare di lei, ora, voglio parlare di te!”

   Lo guardai con gli occhi sgranati: voleva parlare di me? Sapeva di piacere a Claire e non gliene importava nulla? Ma chi era quel ragazzo?

    “Non capisco… Se sai di piacere a Claire perché non l’hai portata qui?” balbettai.

   Lui sbuffò impercettibilmente.

Perché non mi piace… E’ solo una bella bambolina, tutta smorfie e mossettine. Di tipe come lei ne posso avere quante voglio, devo solo allungare una mano e scegliere!”

   “E allora perché hai portato me qui?” chiesi.

Lui si voltò e mi guardò negli occhi. In quel momento il suo sguardo non era sfrontato come sempre, c’era nei suoi occhi un fondo di dolcezza e nostalgia che mi toccò l’animo.

   “Perché tu invece mi piaci… E’ un mese e mezzo che lavoro qui, e ti giuro che non ho mai incontrato una come te.” Mormorò.

   Deglutii. “Perché, io come sono?”

Sei vera. Non ti nascondi dietro mille smorfie, non ti atteggi a superdonna. Sei semplicemente te stessa, con le tue paure e le tue incertezze, com’è giusto che sia alla nostra età, come vorrei poter ancora essere anche io! ”

   Ma di che stava parlando?

“No, scusa, che vuoi dire? Guarda che io compirò sedici anni tra un mese, tu sei molto più grande, è normale che tu sia molto più sicuro di me!”

   Lui scoppiò a ridere, poi mi fece una sconcertante rivelazione.

   Ho sedici anni… Ne compirò diciassette ad aprile. Non sono poi così vecchio, non trovi?”

   Cosa? Era più piccolo di Salvatore? Non riuscii a trattenermi e scoppiai a ridere.

   Che c’è di ridicolo?” mi chiese lui.

In effetti non c’era nulla da ridere, ma non riuscivo a calmarmi! Forse ero solo nervosa, perché ora che sapevo che Russell aveva solo un anno più di me mi sentivo ancora più a disagio… Lui, infatti, aveva già l’aria di un uomo maturo, mentre io sembravo ancora una bambina.

   Alla fine mi ricomposi e mi scusai.

Lui scosse la testa.

   “Non ti scusare… A dire il vero non sei la prima che scoppia a ridere quando scopre che sono solo un ragazzino! Comunque c’è anche un altro motivo per cui ti ho chiesto di venire qui con me…”

   Il suo sguardo divenne malinconico.

“Qual è?” gli chiesi curiosa.

    “Oggi è il compleanno di mia madre, e non mi andava di dividere questo momento con tutta la combriccola dei ragazzi, volevo stare un po’ da solo con qualcuno che mi potesse capire davvero…” disse guardando l’orizzonte.

   Vidi una lacrima scorrere furtiva sulla sua guancia, e in quel momento non mi sembrò più l’uomo sicuro di sé che mi intimidiva tanto, ma lo vidi come quello che in realtà era, un ragazzo di sedici anni che si era cucito addosso una corazza da duro per nascondere le sue fragilità.

   “E’ molto che non la vedi?” gli chiesi poggiando una mano sulla sua.

   “Un mese e mezzo, da quando lavoro qui. E, credimi, non pensavo che mi sarebbe mancata tanto…” sospirò.

   “Beh, dai, fra un paio di mesi l’estate sarà finita e tornerai a casa, no? Non devi andare a scuola?” lo incoraggiai.

   Lui scosse la testa.

“No. Ho deciso di lasciare tutto, odio studiare. Voglio suonare, ma non posso pretendere che i miei mi mantengano. Perciò quando finirà l’estate andrò a Sidney con Darren, e qualcosa c’inventeremo…”

   Il suo sguardo si era indurito, e il suo viso si era come trasformato: era tornato l’uomo sicuro di se. Capii allora cosa lo rendeva così diverso dagli altri… Si era caparbiamente attaccato ad un sogno, ed era disposto a tutto per non lasciarlo andare via. Era della razza degli artisti, quegli individui capaci di volare alto sulle ali della loro passione. Io invece ero una normale quindicenne… In quel momento capii anche un’altra cosa: per quanto io gli potessi piacere e lui mi attraesse non lo avrei avuto mai, ne io, ne Claire e neppure nessuna delle ochette che gli ronzavano intorno. Noi eravamo creature di terra, lui era una di quelle anime elette fatte della stessa essenza delle stelle. Dentro di lui c’era un soffio di infinito e libertà che nessuno mai avrebbe potuto ingabbiare. Nessuno lo avrebbe posseduto davvero, lui sarebbe stato per sempre solo suo.

   Rimanemmo di nuovo in silenzio.

“Sarà meglio che andiamo, altrimenti mio fratello si preoccuperà…” mormorai dopo parecchi minuti.

   Lui si voltò, mi prese il viso tra le mani e poggiò le sue labbra sulle mie.

   All’inizio rimasi rigida, non ero mai stata baciata… Poi pian piano mi rilassai e iniziai ad assaporare il sapore aspro della sua bocca.

   Tirò fuori la lingua e la passò leggermente sulle mie labbra, fino a che le schiusi e lui iniziò a giocare con l’interno delle mie labbra e con la mia lingua.

   Mi prese tra le braccia ed iniziò ad accarezzarmi lentamente la nuca, poi scese lentamente lungo il collo mentre io aspiravo avidamente il profumo della sua pelle.

   Aveva un odore particolare, profumava di sigarette, del fumo del falò e di acqua di mare, era un aroma aspro e genuino che mi stordì.

    All’improvviso sentii che dentro di me si muoveva qualcosa, qualcosa che non conoscevo… Era un calore sconosciuto che partiva dallo stomaco e si irradiava ad ogni fibra del mio corpo.

    Mi scostai all’improvviso, spaventata da quelle nuove e violente emozioni che sentivo in me.

   Lui mi guardò un attimo in silenzio, poi mi prese di nuovo tra le braccia e mi sussurrò: “Sei bellissima…”

     Il suo respiro era affannoso, e quando lui mi poggiò la testa sul suo petto sentii il suo cuore battere violentemente.

Nessuno mi aveva mai detto quelle cose, nessuno mai mi aveva fatto sentire il suo desiderio per me, nessuno mi aveva fatto mai comprendere con tanta chiarezza il potere della mia femminilità e la capacità seduttiva del mio corpo… Nessuno mi aveva mai fatto sentire così donna.

   Rimanemmo abbracciati per un tempo che a me parve eterno, mentre sulla nostra testa brillavano mille stelle e accanto a noi l’oceano cantava la sua canzone millenaria, poi lui si alzò.

   “E’ davvero meglio tornare, rischiamo che tuo fratello arrivi qui e mi faccia la pelle…” disse porgendomi la mano.

   Annuii, poi mi alzai e lo seguii in silenzio.

Non parlammo, sapevamo entrambi che non ce n’era bisogno. Quello che era successo era qualcosa di prezioso, le parole lo avrebbero solo sciupato.

    Mi riaccompagnò al mio posto, sorrise a Claire, poi prese la sua chitarra e si allontanò.

   Che ti ha detto? Siete stati via più di un’ora!” disse Claire. Era evidente che era un po’ gelosa,  avrebbe voluto appartarsi lei con Russell.

   Farfugliai qualcosa, poi inscenai una violenta emicrania e mi chiusi nel mutismo. Per fortuna pochi minuti dopo Salvatore si alzò in piedi sentenziando che era tardi, ed io fui più che felice di seguirlo.

   Quella notte tardai ad addormentarmi, nella mia mente c’era solo Russell e le meravigliose sensazioni che aveva risvegliato in me.

 

***************************************

  

 Il mattino dopo arrivò mio padre, era sabato e la domenica mattina saremmo partiti molto presto.

   Ovviamente non era assolutamente pensabile uscire la sera con lui presente, ma al pomeriggio riuscii a sgattaiolare fuori con la scusa di una passeggiata. Mi diressi subito al ponte sulla spiaggia.

   Lui era lì,  appoggiato al  parapetto, lo sguardo perso verso l’orizzonte, la sigaretta penzoloni tra le labbra e il ciuffo castano che gli cadeva sulla fronte. Era solo, per fortuna, non c’erano ne il suo amico chitarrista ne il codazzo delle oche che li seguivano sempre.

    Mi fece una tenerezza infinita, per un attimo lo rividi proprio come l’avevo visto la sera prima: un ragazzino di sedici anni che si atteggiava ad uomo fatto per rimanere attaccato al suo sogno, e percepii di nuovo il soffio di infinito che si portava dentro.

    “Russell…” dissi avvicinandomi.

Sobbalzò come un bimbo colto in flagrante, poi mi vide e sorrise.

    “Ciao, Ginny… Come va? Mi stavo rilassando un po’ in previsione del concerto di stasera… Verrai, vero?” mi chiese.

   Scossi la testa.

“Non posso… E’ arrivato mio padre, e non mi farà mai uscire la sera. Sai come sono i padri, è apprensivo… E comunque domattina parto prestissimo. Volevo salutarti.”

   Vidi un lampo di delusione passare nei suoi occhi, poi annuì.

    “Capisco… Beh, allora buona fortuna per tutto.

“Chissà, magari un giorno ci rivedremo… Abito a Sidney, sai? Perciò, se tu sei sempre dell’idea di venire laggiù, magari ci incontreremo per strada!” risi.

    Lui si strinse nelle spalle.

“Chissà… Tutto può essere.” Rispose lui, facendo un gesto vago.

   Sapevo benissimo che non sarebbe mai successo, io e lui facevamo parte di due mondi diametralmente opposti, e di certo lui non avrebbe mai frequentato i quartieri altolocati, che invece erano il mio mondo.

   Rimanemmo di nuovo in silenzio, appoggiati al parapetto a guardare l’oceano che accarezzava dolcemente la spiaggia con le sue onde.

    “Ginny… Mi prometti una cosa?”  disse lui all’improvviso.

   “Dipende da cosa si tratta… Non voglio fare nulla di illegale, sappilo!” esclamai, spaventata dalla serietà con cui aveva parlato.

   “No, tranquilla… Devi solo promettermi che la smetterai  di avere paura anche della tua ombra, e che d’ora in poi andrai nella vita a testa alta. E’ un delitto tenere un viso e due occhi come i tuoi puntati a terra… E poi la paura è una pessima consigliera, ci tarpa le ali e ci impedisce di volare alto.” Sorrise prendendomi tra le braccia, poi mi baciò di nuovo.

   Non fu il bacio pieno di passione e sensualità della sera prima, questa volta fu una dolce carezza.

   “Prometto…” dissi quando ci staccammo.

Guardai l’orologio: era tardi, dovevo assolutamente tornare al mio bungalow prima che mio padre venisse a cercarmi.

   “Addio, Ginny…” Mormorò Russell.

Io corsi via, poi ad un tratto mi voltai e ritornai da lui.

   “Virginia… Il mio nome è Virginia, Ginny è solo un diminutivo. Dissi tutto d’un fiato.

   Lui sgranò gli occhi.

“Mi spieghi perché accidenti devi storpiarti un nome così bello? Virginia è molto più originale e musicale di Ginny…”

   Nessuno mi aveva mai detto che il mio nome era musicale, ma sentendolo pronunciare dalle sue labbra iniziai ad amarlo un po’ anch’io.

   “Addio, Russell…” dissi, poi corsi via.

Tornai al bungalow e mi misi a letto presto con la scusa di una violenta emicrania, ma non riuscivo a dormire… Silenziosamente mi alzai, mi infilai in bagno, accesi la luce e mi guardai allo specchio.

   Ero sempre io, alta, magrissima, brufolosa, con la pelle nivea, i capelli castani e gli occhi grigi, ma c’era qualcosa di diverso. Non so se fosse la luce che avevo negli occhi o il sorriso, sta di fatto che quella notte non vidi il trampoliere sgraziato che odiavo tanto, ma vidi Virginia, una ragazzina che pian piano si stava trasformando in donna. Dopotutto se un ragazzo bello e ricercato come Russell mi aveva preferito a Claire e a mille altre ragazze formose e perfette  qualche pregio dovevo pur averlo… Ripensai alla promessa che gli avevo fatto e sorrisi tra me. In quel momento decisi che non avrei più accampato scuse, non mi sarei nascosta dietro l’alibi della severità di mio padre per non affrontare la vita, ma avrei fronteggiato le mie paure e le avrei vinte una ad una. Dopotutto la sera del falò non era stato difficilissimo fare amicizia con il gruppo di Salvatore, quindi perché non provarci? Forse non ero un’artista come Russell, non avevo in me quel soffio d’infinito, ma anche io avrei potuto fare qualcosa di grande se lo avessi voluto, e lo volevo con tutte le mie forze.

 

 

 Los Angeles, marzo 2001

 

    Guardo la mia piccola Alyssa nel suo lettino: è così dolce mentre dorme! Non sembra proprio quel demonietto biondo che mi fa ammattire tutto il giorno… A volte mi chiedo se è normale che una bambina di tre anni abbia tanta energia, o se per caso io non abbia dato alla luce un piccolo robot alieno!

   Le do un bacio sulla fronte, spengo la luce e ritorno in salotto. Stasera Kaspar, mio marito, non c’è, è fuori Los Angeles per discutere un’importante progetto. Spero che lo approvino, sarebbe un grosso successo per il nostro studio di architettura.

   Potrei mettermi a lavorare… Ma sono troppo stanca per applicarmi su quei dannati disegni, meglio un po’ di tv comodamente sdraiata sul divano. Ai disegni ci penserò domani, mentre Alyssa sarà all’asilo.

   Accendo la tv e faccio un po’ di zapping, finché mi sintonizzo sul canale che sta trasmettendo la notte degli Oscar. Decido di fermarmi, sono davvero curiosa di sapere chi sono i vincitori, anche perché tra i candidati c’è una mia vecchia conoscenza…

    Stanno premiando la miglior interpretazione maschile. Sul palco Hilary Swank, inguainata in un abito color oro, sta leggendo i nomi dei tre candidati.

   Scende il silenzio sul Kodak Theatre… 

E poi la Swank pronuncia la fatidica frase:

   “The winner is… Russell Crowe, for “Gladiator”!”

Ed eccolo lì, Russell, vestito Armani ( anche se le passamanerie sulle maniche mi fanno pensare che il maestro sia stato colto da un momento di buio cosmico mentre cuciva l’abito), con un ciuffo di capelli arricciato sulla fronte, che si alza in piedi e abbraccia la sua accompagnatrice ( piuttosto bruttina, a dire il vero… Che si sia convertito al genere “bambolina scema tutta mosse”? Almeno Claire era più bella…).

   Ho visto il film al cinema, come quasi tutti, e sono davvero felice che abbia vinto perché se lo meritava, è stato semplicemente divino. Evidentemente ho l’occhio lungo, lo avevo sempre detto io che il suo mestiere era quello dell’attore…

    Per tutta la durata del film ho cercato di ritrovare in quel fiero soldato qualcosa che mi ricordasse il ragazzo che vent’anni or sono mi insegnò a credere nei sogni, ma non c’era nulla che me lo ricordasse, quell’uomo sullo schermo era un perfetto estraneo.

   Invece questa sera, mentre sale frastornato le scale del palcoscenico e si accinge a ricevere il premio più prestigioso del mondo lo riconosco, ha lo stesso sguardo di quella notte, quando si appartò con me perché non voleva farsi vedere dagli altri mentre piangeva di nostalgia per sua madre… Lo sguardo dolce e malinconico di un ragazzino timido che si nasconde dietro una corazza di forza e sicurezza.

   Certo, questi vent’anni non sono passati invano, e ci hanno cambiato molto: lui si è irrobustito, i suoi capelli si sono scuriti e quando parla noto che l’incisivo spezzato è sparito, ora ha una chiostra di denti perfettamente bianchi e squadrati.

   Anche io sono diversa da quella ragazzina timida che vent’anni fa conobbe lui, il tempo ha addolcito gli spigoli del mio corpo, ha cancellato i brufoli e soprattutto mi ha regalato la sicurezza in me stessa che non avevo.

   C’è voluto tempo e fatica, ma oggi non sono più Ginny, la quindicenne spaventata che si chiudeva in bagno e accampava scuse per non andare alle feste, che si sentiva sempre sciocca e che non sapeva cosa voleva dalla vita.

  Ora sono Virginia, una donna di trentacinque anni serena ed appagata, uno stimato architetto, la moglie felice di Kaspar e l’amorevole mamma di Alyssa. Non ho rimpianti, la mia vita è esattamente come l’ho voluta.

   Eppure mentre Russell ringrazia i suoi genitori con voce commossa per averlo aiutato a diventare quello che è sento una lacrima scendermi giù per la guancia.

    Piango di nostalgia per la ragazzina timida e impacciata che fui  e che vive ancora ben nascosta dentro me, per il ricordo di quel mio primo, dolcissimo e inconfessato amore, ma piango anche di felicità perché la vita mi ha regalato più di quanto non osassi sperare.

   Sapete, se siete cresciuti nei sobborghi di Sydney o Auckland, o di Newcastle come Ridley o Jamie Bell, o nei sobborghi di qualunque posto, allora sapete che un sogno come questo puo' sembrare vagamente ridicolo e completamente irragiungibile. Pero' questo momento e' direttamente collegato a quelle fantasie dell'infanzia. E per chiunque si trovi completamente svantaggiato e deve far affidamento unicamente sul suo coraggio... sappiate che e' possibile.”

   Russell conclude così il suo discorso, ed io capisco che anche lui non è cambiato, è rimasto lo stesso sognatore inguaribile che era a diciassette anni, quella frase non è pura retorica.

   Mentre Russell scende i gradini del teatro io lo ringrazio mentalmente per avermi fatto capire che anch’io valevo qualcosa, e mi auguro che i soldi e il successo non spengano mai il soffio di infinito che si porta dentro.

   Ma sono sicura che è impossibile, non si possono spegnere le stelle….

 

   
 
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