The Scientist ~
{ I’m
going back to the start }
Avevi
cambiato faccia già per dieci
volte, il giorno in cui lei ti ha conosciuto.
Avevi
cambiato faccia solo otto volte, il
giorno in cui tu hai conosciuto lei.
«Dimmi la
verità. Quand’è stata davvero la prima volta che ci siamo incontrati?»
Come up to meet you, tell you I’m sorry
You don’t know how lovely you are
I had to find you, tell you I need you
Tell you I set you apart
Rose
era quasi sicura che quella porta non ci fosse, il giorno prima.
Se ci fosse stata, qualcuno se ne sarebbe
accorto. Qualcuno l’avrebbe fatto notare a tutti, no?, che nel corridoio
del primo piano del liceo del quartiere si aprivano non due ma tre aule. Qualcuno che non fosse una
studentessa svogliata attardatasi in classe per discutere lungamente con un
noioso insegnante di fisica riguardo l’ennesima di una lista di
insufficienze più o meno gravi.
Eppure eccola lì, impossibile sbagliarsi.
Il giorno prima il muro era liscio e bianco e oggi puff!,
spuntava una porta di legno scuro. Una porta molto più elegante di
quelle che c’erano sempre state, a onor del vero. Rose la osservò
in silenzio per qualche minuto, spostando il peso da un piede all’altro,
masticando scrupolosamente un chewing-gum ormai insapore e stritolando in una
mano la cinghia della cartella e nell’altra la verifica ricoperta di
taglienti segni rossi. Diciassette anni di cinema e televisione la trattenevano
dal muovere un passo di più, ma altrettanti anni di impulsiva
curiosità tenevano i suoi occhi costantemente fissi sulla porta.
«Non dovrei aprirla.» Si
guardò intorno. «Non dovrei aprirla.» Nessuno in vista.
«Non dovrei aprirla. Non dovrei aprirla. Non dovrei aprirla.»
In tutta sincerità, faticava a figurarsi
un serial killer in fuga o un mostro a cinque teste che si annidassero in una
scuola superiore alle cinque del pomeriggio, magari per prendersi un tè
con il custode prima della sua ultima ronda. Non poteva essere una cosa
pericolosa. Strana sì, ma non
pericolosa. E se anche lo fosse stata – beh, aveva in mano la settima
insufficienza del trimestre, e ciò si traduceva comunque nella
prospettiva di una settima strigliata da parte della mamma, culminante con
l’ormai celebre slogan “non combinerai mai niente nella vita, sei
proprio come... proprio come...” un termine di paragone che non veniva
mai. A ben pensarci, forse era meglio rischiare un incontro ravvicinato con il
mostro a cinque teste. Perlomeno sarebbe stata un’esperienza nuova.
«Non dovrei aprirla» si disse ancora
una volta, quindi fece un passo avanti e l’aprì.
Oltre la porta di legno scuro c’era
un’aula più o meno identica a tutte le altre aule della scuola,
tanto che Rose dovette battere le palpebre un paio di volte e domandarsi se semplicemente
non avesse mai fatto caso a quel trascurabile dettaglio delle tre porte in
fila. L’ambiente era solo un po’ più deserto e al contempo
un po’ più affollato, ma forse era solo l’effetto
complessivo delle file e file di banchi vuoti disposti in un semicerchio
concentrico fino al cuore della stanza. Ad ogni modo, il tizio che si aggirava
sfarfallando attorno alla lavagna, brandendo un gessetto con aria ispirata e
ricoprendo il quadro nero di calcoli fitti e indecifrabili – ecco, quello era sicurissima di non averlo mai
visto in vita sua.
Sarebbe stato difficile non notare una persona
del genere. Forse era il suo abbigliamento, o il tono di voce con il quale
blaterava tra sé, o la naturalezza con la quale trattava ogni centimetro
di spazio come se fosse suo e suo soltanto; prese singolarmente potevano
risultare caratteristiche del tutto umane,
ma dopo una semplice occhiata all’insieme Rose fu certa che, nel caso in
cui lo avesse già conosciuto, non si sarebbe dimenticata facilmente di
lui.
«Avanti, avanti!» la invitò
in quel momento lo sconosciuto, senza smettere di piroettare e scribacchiare.
«La porta è aperta. Aperta come l’insieme dei numeri
infiniti, che però verranno scoperti solo tra molti, moltissimi anni,
figuriamoci, in questo decennio non sanno neanche cosa sia la particella di
Dio! O meglio, non lo sanno ancora, il che rende il tutto più
accettabile ma non meno demoralizzante, almeno dal mio personalissimo punto di
vista, e quindi suppongo che questa semplice equazione non avrà
assolutamente alcun senso per te, o mio silenzioso amico che mi stai alle
spalle.»
Rose era rimasta sulla soglia, una mano ancora
sulla maniglia, a bocca aperta, a tentare di capire qualcosa di quel contorto e
velocissimo discorso – e fu una sorpresa quando di colpo l’uomo in
papillon si voltò, la vide e cadde un silenzio lungo e inaspettato.
Inaspettato come il modo in cui lui la guardò.
Era stata Rose ad aprire una porta che il giorno
prima non c’era e ad interrompere le assurde meditazioni di uno strano
tipo, eppure era lo strano tipo in questione ad avere l’aria di aver
appena visto un fantasma.
Rose chiuse la bocca. Su una cosa almeno non
c’erano dubbi: quello lì
non era un professore. Era troppo giovane, tanto per cominciare. E poi nessun professore al mondo porta il papillon.
Riprese a masticare.
«Scusa, ma tu da che pianeta vieni?»
Al suo sarcasmo lo sconosciuto,
inspiegabilmente, sorrise. Beh, sorrise
– più che altro s’illuminò come un albero di Natale,
si fece strada tra le file di banchi e si avvicinò a lei con passo agile
e saltellante. Rose fece istintivamente un passo indietro, solo per ritrovarsi
con le spalle alla porta, chiusa. Non ricordava di averla chiusa.
«Eccoti lì» declamava intanto
l’improbabile personaggio, «Rose Tyler. La meravigliosa, mordace,
maturanda Rose Tyler!» Rose sgranò gli occhi, mentre l’altro
si fermava a due passi da lei, si chinava a studiarla portando le mani sulle
ginocchia e arricciava il naso come per annusarla. «Perché mi
aspettavo che avessi i capelli sciolti? Non fraintendermi, mi piacciono i
codini. I codini sono fighi. Come i papillon. Ignorami, devo smetterla di farmi
aspettative sui capelli della gente.»
Rose aveva smesso di nuovo di masticare, sempre
più scioccata di fronte a una così confidenziale parlantina.
«Mi conosci?»
L’uomo parve colto di sorpresa, ma un
istante dopo tornò a sorriderle come alla cosa più bella che
avesse mai visto in tutta la vita. Rose non poté non pensare che
dopotutto aveva un bel sorriso.
«Hai in mano una verifica di fisica, Rose
Tyler. Sopra c’è il tuo nome scritto a chiare lettere.» Rose
abbassò gli occhi sul foglio stropicciato chiamato in causa.
«Detto tra noi, mi piace la tua calligrafia. Hai una y molto elegante; lo dico sempre io, non c’è niente di
elegante come una y ben fatta.»
Rose si chiese se per caso non fosse un pazzo. «Non hai perso tempo in
convenevoli, quindi sei mordace. A giudicare dalla tua altezza e dal livello di
cedimento della tua cartella, direi che presto sarai troppo grande per questa
scuola, il che fa di te una maturanda. E sei
meravigliosa.»
Rose non riuscì a sopprimere un
sorrisetto. Con questo aveva decisamente acquistato punti.
«A quanto pare hai un grande spirito
d’osservazione.»
«Abbastanza per intuire che ti serve
qualche ripetizione di fisica, se non vuoi che stasera a tua madre salti una
vena.»
Rose avrebbe voluto chiedergli cosa gli faceva
pensare che a sua madre importasse qualcosa della sua istruzione o del suo
futuro, ma immaginò che lui avrebbe accennato alle sue unghie
mangiucchiate o a occhiaie che non si era accorta di avere e lasciò
perdere. Ridacchiò soltanto, incredula ma divertita.
«Ok, adesso parliamo seriamente. Chi
diavolo sei tu?»
«Non hai ancora capito?» Il tipo
fece una mezza giravolta su se stesso e allargò allegramente le braccia
verso di lei. «Sono il tuo tutor!»
Rose lo fissò. Tutto sommato, doveva
essere proprio un pazzo.
Si era dimenticata completamente del fatto che
quella porta non ci fosse, il giorno prima.
Tell me your secrets and
ask me your questions
Oh, let’s go back
to the start
Il Dottore la stringe
forte e per un attimo, un attimo solo, Rose si sente al sicuro, sente che anche
questa volta andrà tutto bene. Ma poi sopra la sua spalla rivede Peter
Alan Tyler, l’uomo che non è morto e che non morendo ha cambiato
tutto il corso della storia, e di nuovo il peso di ciò che ha fatto le
si riversa addosso, costringendola a nascondere il viso nella giacca di pelle
del Dottore.
«Sono
stata così stupida. È come se fossi voluta tornare indietro per
assicurarmi che lui non mi avrebbe delusa... quando invece so benissimo che
sarei stata io a deludere lui.»
Il Dottore
non la lascia andare e sale con la mano a sfiorare la pelle più
sensibile del suo collo, facendola rabbrividire. «Non ci serve una dose
extra di sensi di colpa, sai.»
Rose ride
amara sul suo petto, che profuma di antico e di buono. «Ma guardami! Non
ho un lavoro, non ho finito gli studi... Non sono stata capace neanche di
salvargli la vita come si deve, senza provocare la fine del mondo!»
Il Dottore
resta a lungo immerso in un meditativo silenzio, e Rose pensa che stia cercando
il modo di salvarla, di salvarli tutti, come fa sempre – almeno
finché non lo sente parlare.
«Davvero
non hai finito gli studi?»
Si ritrae
appena e lo guarda. Cerca di capire se non la stia prendendo in giro. Ma in
quegli occhi azzurri e attenti c’è solo uno stupore sincero, e
Rose ride di nuovo, meno amaramente, perché anche alla fine del mondo
è impossibile non ridere se si è con il Dottore. Lei lo sa bene,
perché ci sono già stati, alla fine del mondo – ed è
finita con loro due che si dividevano un pacchetto di patatine.
«Il
nostro bisogno di soldi si è rivelato più forte
dell’impegno del mio tutor personale.»
«Capisco.»
Il Dottore accenna una scrollata di spalle, guardandola con l’aria
dell’adulto che spiega l’ovvio a una bambina. «Non è
comunque un buon motivo per credere che l’avresti deluso.»
Rose non
risponde. Sorride e lo abbraccia di nuovo, grata a tutte le leggi dello spazio
e del tempo che le hanno concesso di incontrarlo e di essere qui e adesso insieme
a lui. Non soltanto perché questo le ha permesso, tra le altre cose, di
rivedere Peter Alan Tyler e fargli capire che sua figlia è e sarà
sempre fiera di lui.
Se non
fosse così assurdo, penserebbe che il Dottore e l’uomo in papillon
che si faceva chiamare ‘professor Smith’ siano la stessa persona.
I was just guessing at
numbers and figures
Pulling the puzzles
apart
Questions of science,
science and progress
Do not speak as loud as
my heart
Rose
corse ad aprire la porta di legno scuro con un sorriso a trentadue denti.
Era diventata una scena ordinaria, anche se
nessuno se ne accorgeva mai. Nessuno a scuola aveva mai dato segno di vedere
quell’aula con i banchi in semicerchio e nessuno sembrava notare neppure
il fatto che Rose ci passasse almeno due ore ogni giorno dopo le lezioni. La
mamma e Mickey non le avevano mai chiesto il motivo dei suoi frequenti e
ingiustificati ritardi – cosa stranissima soprattutto da parte di Mickey.
E nessuno tra gli insegnanti aveva mai menzionato, anche solo di sfuggita, un
collega di nome John Smith. Era come se per il mondo John Smith e la sua aula
misteriosa e le sue bizzarrissime lezioni di fisica non esistessero, come se
tutto ciò esistesse solamente per Rose Tyler. E a lei – per quanto
strano, folle e del tutto insensato – stava benissimo così.
«Ci sei?» strillò. Erano
passati tre mesi e ancora non riusciva a chiamarlo ‘professore’.
Lui le aveva rifilato quell’appellativo con l’aria di chi teneva
per sé un segreto, e in circostanze normali una piccola parte di Rose
l’avrebbe fatta diffidare da un uomo assurdo con le toppe sui gomiti
della giacca e il papillon che le
forniva di sé un nome palesemente falso; ma tutto il resto del suo
essere se ne fidava ciecamente. Così, anche se non riusciva a chiamarlo
‘professore’, lo chiamava tutte le volte che poteva. Anche se non
ce n’era bisogno, perché lui era lì, era sempre lì,
ad aspettarla.
Quel giorno non sembrava diverso dagli altri, e
infatti, non appena Rose si chiuse la porta alle spalle, lo strano tipo
voltò la schiena alla lavagna con una specie di svolazzo e
l’accolse con le braccia aperte e il sorrisone che le rivolgeva ogni
volta.
«Sempre!» rispose, come
d’abitudine; la sua voce si perse tra i capelli di Rose che gli era
saltata al collo.
Girarono insieme sul posto come due bambini,
ridendo forte, e neppure in quel momento lei si stupì che nessuno li
sentisse e venisse a dir loro di andar via. Poi John Smith, o qualunque fosse
il suo vero nome, la posò a terra scrutandola da capo a piedi.
«Allora, Rose Tyler, aggiornamenti.»
«Ho preso la mia prima A in
assoluto!» esclamò Rose eccitata, senza staccare le mani dalle sue
spalle.
Lui fece una faccia a dir poco scandalizzata.
«Come sarebbe, una A? Si può migliorare! Si deve migliorare!»
«Ma che stai dicendo?» Rose
scoppiò a ridere. «È il massimo! Nessuno ha mai preso A con
il professor Bigby fin da quando lui si è
trasferito in questa scuola! La mamma mi raddoppierà la paghetta! E
Mickey mi guarda come se fossi un’aliena!»
Quelle parole ebbero un effetto sorprendente
sull’uomo in papillon, che s’illuminò più di quanto
non avesse mai fatto e si chinò per prenderla di nuovo in braccio e
coinvolgerla in una delle sue strampalate giravolte, gridando qualcosa che
suonò come «eccola, la mia ragazza, la mia ragazza aliena! Chi ha
paura del lupo cattivo?», e Rose non capì il senso di
quell’entusiasmo esagerato, non ci capiva assolutamente niente,
però cavolo, anche questo le
stava benissimo così. Prima di risentirsi il terreno sotto i piedi lo
circondò ancora con le braccia e gli rise un «grazie» sulla
punta del naso, e prima di rendersene conto aveva chiuso gli occhi e lo stava
baciando.
Lui smise subito di dare di matto.
S’immobilizzò, cosa insolita da parte sua, e Rose ne approfittò
per stringersi più forte a lui e dimostrargli che non aveva la minima
intenzione di lasciarlo andare. John Smith si divincolò appena, rispose
al bacio con un impeto smorzato dalla sorpresa, ma poi improvvisamente la
depositò di nuovo a terra e balzò indietro come se lei
l’avesse morso, ansimando.
«Io non... Tu non... Cosa accidenti... Non
farlo mai più!»
Rose si rese conto solo allora del proprio
ardire, scoprendosi anche lei ansante e sconcertata. Non aveva davvero, davvero programmato di fare nulla del
genere. Cioè, non che non ci avesse fantasticato sopra un paio di volte,
perché il professor John Smith era proprio adorabile e la faceva ridere
tanto ed era indubbiamente una persona molto meno comune di Mickey – e
anche più bravo a baciare, in effetti. Non che non volesse bene a
Mickey, intendiamoci. Ma con lui, con quell’uomo che nessun altro a
Londra sembrava neppure conoscere, le pareva di non trovarcisi neanche
più, a Londra. Sentirlo
parlare era come volare in una galassia lontana e sorprendere la sua
espressione assorta, così assorta ogni volta che pensava che lei non lo
guardasse, parlava al cuore di Rose in una lingua che non aveva bisogno di
parole. Le sembrava di conoscerlo da sempre e non aveva la minima idea del
perché. E no, certamente non perché lui era il miglior insegnante
non-insegnante che avesse mai avuto.
Quello che c’era adesso negli occhi
dell’uomo in papillon non l’aveva mai visto; sembrava terrorizzato,
e al tempo stesso infinitamente triste, e questo non l’aiutava a
schiarirsi le idee improvvisamente confuse.
«M-mi dispiace. Io non...»
«Non cambierai mai! Gli anni passano,
avanti e indietro, ma tu sei sempre la stessa maledetta adorabile
incosciente!» Si passò le mani tra i capelli con aria vagamente
isterica. «Scusami, Rose, cerca di capirmi. L’ultima persona che mi
ha baciato è la donna che probabilmente mi ucciderà. O mi
sposerà. E non posso essere sicuro che una cosa escluda l’altra,
comunque. Ma questa è un’altra storia, ignora tutto ciò che
ti ho appena detto. Qui il punto è che tu» e le puntò contro un dito, cercando di darsi un
contegno, senza accorgersi di avere il colletto in disordine e il cravattino
tutto storto, «tu non puoi permetterti di baciare me, Rose Tyler. Non questo me. Non in questo flusso
temporale. Altrimenti tutto quello che sto facendo sarà stato inutile e
pericoloso; ma tu sei una ragazza intelligente e io so che mi capisci,
sì?»
Rose lo guardò fisso, senza osare
rispondere di non aver capito neanche una parola – né confessare
che era proprio questo a piacerle di lui, a farle venire voglia di baciarlo
ancora e ancora e ancora.
«Chi tace acconsente. Brava ragazza»
sospirò John Smith con aria sollevata. E Rose realizzò che una
tale concitazione poteva significare una cosa sola.
«Che c’è? Non ti
piaccio?» mormorò, sperando di non suonare come la classica
ragazzina triste che si è presa una cotta impossibile per il suo
professore preferito.
L’uomo in papillon abbassò gli
occhi verdi su di lei e per un attimo nel suo volto ci fu solo tristezza, una tristezza
infinita e antica quanto il mondo, una luce di doloroso affetto che Rose non si
sarebbe mai aspettata di vedere e che le fece battere il cuore più
forte.
«Rose...» bisbigliò,
«posso abbracciarti?»
Si fissarono per un attimo, e quello successivo
lei si ritrovò tra le sue braccia.
«Perché non puoi semplicemente
smettere di essere così meravigliosa?» gemette lui, accarezzandole
i capelli e facendola sorridere. «Senti, non posso spiegarti tutto. In
realtà non posso spiegarti niente. Niente che non sia riconducibile a un
grafico o a un’equazione, e sfortunatamente io non rientro in parametri così semplici. Ma posso dirti
una cosa» sussurrò ancora, stringendola forte, così forte
che Rose pensò che lui non
volesse lasciarla andare mai più, «mi sa che ho fatto un bel
casino.»
Rose non osò chiedergli nulla. Si
limitò a premere la guancia sul suo petto, chiedendosi distrattamente
come mai il suo corpo la ingannasse al punto da farle credere di sentir battere
il cuore di John Smith nel punto sbagliato.
Non lo sapeva ancora, ma quel giorno fu
l’ultima volta che la porta di legno scuro si aprì per lei.
Tell me you love me,
come back and haunt me
Oh, and I rush to the
start
Il Dottore continua a
incolparsi per ciò che è successo, per averla portata in un posto
assurdo che non dovrebbe nemmeno esistere, e Rose non lo sopporta. Allora cerca
di farlo ridere come lui fa di solito con lei, parlandogli di case e di mutui e
di noiose esistenze umane che non saranno mai adatte a uno come il Dottore, in
nessun universo possibile o impossibile.
«Potrebbe
essere divertente» lo stuzzica, ridendo del suo scuotere furiosamente la
testa.
«Non
pensarci neanche, Tyler. Non potrei mai vivere circondato da quattro mura. Il
TARDIS ne ha trecentoventisette e riesco a sentirmi
in trappola persino lì. E poi, se davvero tu riprendessi gli studi non
avrei neanche il conforto della tua compagnia.»
Rose si
sente sciogliere, gli stringe la mano sul piccolo tavolo che li divide
dall’equipaggio e dal resto dell’universo – e
all’improvviso le torna in mente una cosa che vorrebbe dirgli da secoli,
forse da sempre, anche se alla fine non è questo il segreto più importante che
vorrebbe confidargli.
«Sai,
c’era una persona che desiderava ardentemente
che io mi diplomassi.»
Il Dottore
le rivolge lo stesso sguardo di quando inforca gli occhiali e comincia a
snocciolare congetture. «Stai parlando di Jackie?»
Rose
ridacchia. «No, lei era felicissima quando ho mollato tutto e ho
cominciato a portare uno stipendio fisso in casa. Sto parlando di un uomo. Di
un ragazzo, diciamo.»
«Senza
offesa, ma Mickey non mi sembra proprio il tipo da avere a cuore la cultura
della sua ragazza. Sospetto che da te si aspettasse tutt’altra
cosa.»
«Oh,
smettila!» ride lei, fingendo di colpirgli la mano, ma trasformando
più o meno volontariamente lo schiaffo in una carezza. «Non
è Mickey. Era una persona del tutto folle.
Un giorno è sbucato dal nulla, letteralmente, coi suoi discorsi senza
senso e il suo tremendo cravattino, e si è offerto di farmi da tutor. Mi
sembra di averti parlato di lui, quando...»
«Sì,
mi ricordo.» Il Dottore le stringe affettuosamente la mano, impedendole
di proseguire, e Rose sa che stanno pensando entrambi al giorno in cui suo
padre è morto due volte e vorrebbe abbracciarlo forte per il rispetto
che ha di lei. «Ma a quanto pare ha fallito.»
«Sì,
beh... Non per colpa sua. Lui credeva così tanto in me. Dio, non so
neanche cosa me lo faccia pensare – so che è così e
basta.» Rose prende fiato. Guarda il Dottore dritto negli occhi.
«Non l’ho più visto, da allora, ma in realtà penso di
averlo sempre aspettato. Avevo diciassette anni e ne ero innamorata persa.
Diceva di chiamarsi John Smith.»
Il sorriso
del Dottore svanisce a poco a poco. Una sorpresa silenziosa, che in parte Rose si
aspettava e nella quale in parte ha sperato, gli fa spalancare gli occhi
– quegli occhi bruni, diversi da quelli che lei ha conosciuto, quelli che
l’hanno convinta che l’impossibile potrebbe anche essere possibile
e che forse dopotutto è vero che il Dottore e l’uomo in papillon
sono la stessa persona.
«Dottore...»
esordisce, ancora incerta su come proseguire, come chiederglielo, ma uno squillo del suo cellulare fa
sobbalzare entrambi.
Nobody said it was easy
Oh, it’s such a
shame for us to part
Nobody said it was easy
No one ever said it
would be this hard
All’improvviso
com’era apparso, era sparito.
Nel corridoio del primo piano del liceo del
quartiere c’erano di nuovo due sole porte, quelle che c’erano
sempre state. Era inutile chiedere agli insegnanti o ai suoi compagni; nessuno
l’aveva mai visto, nessuno si era mai accorto dell’esistenza di un
uomo in bretelle e papillon che diceva di chiamarsi ‘professor
Smith’ e che le sue ripetizioni di fisica le aveva riservate soltanto a
lei.
Rose non perse subito le speranze. Percorse e
ripercorse quel corridoio almeno un milione di volte, ogni giorno dopo le
lezioni, com’era sempre stato, quasi aspettandosi che ancora una volta la
porta di legno scuro comparisse all’improvviso – e allora lei
l’avrebbe aperta sorridendo, avrebbe gridato «Ci sei?», gli
sarebbe corsa incontro, e «Sempre!» si sarebbe sentita rispondere,
prima di tornare a volare insieme a lui.
Ma il muro restava liscio. Inesorabilmente
bianco. Anche se Rose vi si fermava di fronte ogni giorno, stringendo in mano
verifiche di fisica ricoperte di taglienti segni rossi, masticando chewing-gum
insapori, bisbigliando incessantemente la sua domanda.
«Ci sei?»
Lui non rispondeva più.
All’improvviso com’era apparso, era sparito.
«Era come te. Era
proprio come stare con te.»
«Rose...»
«No, Dottore,
dimmi la verità. Quand’è stata davvero la prima volta che ci siamo
incontrati?»
Avevi
cambiato faccia già per dieci
volte, il giorno in cui lei ti ha conosciuto.
Avevi
cambiato faccia solo otto volte, il giorno
in cui tu hai conosciuto lei.
Eppure
se n’è accorta lo stesso, che l’hai guardata sempre con gli stessi occhi.
I’m going back to
the start.
Spazio
dell’autrice
Tre
giorni fa guardo finalmente l’episodio 6x13 di Doctor Who. Sento Eleven
spiegare cosa ha fatto mentre rimandava di vivere il fatidico 22 aprile 2011.
Lo sento dire “aiuto Rose Tyler a
studiare”. E vado letteralmente in estasi. ♥
Essenzialmente
con questa storia ho voluto descrivere un po’ di quei missing
moments, ma (al solito!) ho strafatto e ho finito con
l’inserire tremila riferimenti più del necessario. Vado subito a
spiegarveli perché io sono buona, in fondo.
-
A rendere inosservata a tutti tranne che a Rose la porta misteriosa è un
banalissimo filtro percettivo apposto da Eleven per
tenere il resto del mondo lontano;
-
Il mantra di Rose “Non dovrei
aprirla” si ricollega all’episodio 2x11. Ho immaginato quel suo
cercare di fermare se stessa come un tratto caratteristico, da rappresentare
anche in un contesto di due/tre anni precedente ai suoi viaggi con il Dottore;
-
“Scusa, ma tu da che pianeta vieni?”
è invece un omaggio al cartoon Due
Fantagenitori, che mi è venuto spontaneo
XD;
-
Il primo brano al presente è ambientato nell’1x08, per
l’esattezza subito dopo il dialogo tra Nine e Rose “Dimmi che ti dispiace.” –
“Mi dispiace. Mi dispiace davvero.”;
-
La parte in cui Eleven parla dell’ultima donna
che lo ha baciato è un evidente riferimento a River;
-
Il secondo brano al presente è ambientato nella 2x08, quando Ten e Rose parlano del da farsi ora che sono incastrati
senza TARDIS nella base sottostante il buco nero, subito prima che Rose riceva
la telefonata ‘indemoniata’. Rose pensa soltanto adesso di chiedere
al Dottore se lui e John Smith siano la stessa persona perché non poteva
farlo prima (con Nine), non sapendo ancora della sua capacità di
rigenerarsi;
-
Il fatto che Eleven di punto in bianco non torni
più da Rose è dovuto al fatto che, dovendo decidersi ad
affrontare ciò che lo aspetta (dal suo punto di vista siamo nella 6x13),
non gli è rimasto il tempo di salutarla, e anche se inespresso è
proprio questo suo ‘abbandono’ il motivo per cui Rose decide di
mollare gli studi e cominciare a lavorare come commessa;
-
Il muro, quel maledetto muro, è un preludio della 2x13. Immagino
sappiate tutti il perché.
Beh,
spero di aver detto tutto, e che
questa roba non vi sia parsa semplicemente un miscuglio di, uh, cose.
La
canzone che accompagna tutto il testo è l’omonima The scientist
dei Coldplay. ♥
Hope you liked
it.
Aya ~