Capitolo 1: Johnny
Mi svegliai
di botto. Come se qualcuno mi avesse tirato una secchiata
d’acqua fredda
addosso. Mi girai nel letto e mi accorsi di non essere solo.
“Ma che cazzo..?”
borbottai, scoprendo le coperte dall’intrusa.
“Buongiorno” mi disse, sorridendo
e dandomi un bacio. Dovevo essere completamente strafatto se mi ero
portata a
letto quella ragazza. Bionda ossigenata, magra da far schifo
così come il suo
tatuaggio appena sopra il sedere raffigurante hello kitty. Era
completamente
nuda e non aveva problemi a girare per la mia stanza senza niente
addosso.
“Scusa, ma ho un vuoto. Non ricordo il tuo nome”
farfugliai, accendendomi una
canna. “Eppure stanotte lo gridavi, il mio nome”
rispose maliziosa. Alzai un
sopracciglio. Non ricordavo lei, il suo nome e la notte di sesso,
presumibilmente selvaggio, passata insieme. Si rivestì e mi
prese la canna
dalle dita. “E’ per questo che hai problemi di
memoria” disse spegnendo la mia
canna nel posacenere sul mio comodino. Guardai lei e guardai
ciò che rimaneva
dello spinello. “Direi che è ora che tu te ne
vada” dissi velenoso, trattenendo
la rabbia. “Eri più divertente ieri
sera” disse ridendo. Mi baciò sulla fronte
e uscì da casa mia. Guardai la sveglia: le otto e venti.
L’ultima volta che mi
ero svegliato così presto avevo cinque anni ed era natale.
Preparai un’altra
canna e l’abbandonai sul comodino. Andai in bagno a farmi una
doccia, per
levarmi dalla pelle il profumo di quella tizia, che stava iniziando a
diventare
nauseante. Sotto il getto dell’acqua calda provai a fare
mente locale su cosa
fosse successo la notte prima: ero uscito con i miei amici alla
piazzetta, una
serata tranquilla a base di alcol e canne. Solita routine. Ma poi,
cos’era
successo? Forse Teo aveva proposto di andare a ballare. Doveva essere
così per
forza dato che mi ero ritrovato a non ricordarmi nulla della sera
precedente.
Uscii dalla doccia e asciugai i capelli con un asciugamano. Aprii la
finestra
della mia stanza nel momento in cui mi accesi lo spinello. Mi buttai
sul letto
ad occhi chiusi. Il sole era nascosto da una coltre di nuvole, tipico
di
Milano. Mi persi tra i canti degli uccelli e i battiti del mio cuore,
che si
facevano sempre più lenti a causa della sensazione di calma
che mi aveva
pervaso. Ma la calma durò poco dato che il mio fottuto
cellulare aveva preso a
squillare. “Chiunque tu sia, non sono in vena di stronzate.
Quindi prega per te
che sia una cosa seria” sbraitai verso il mio telefono.
“Buongiorno anche a te!
Volevo solo informarti che ci siamo persi Cisca” la voce
alcolizzata di Dani mi
riportò per un attimo alla sera prima, quando la mia
migliore amica era
talmente strafatta e ubriaca che si era improvvisata farfalla e si era
buttata
contro una macchina parcheggiata fuori dalla discoteca solo per vedere,
a
quanto diceva, cosa si provava ad essere schiacciata da
un’auto. “In che senso
l’avete persa?” chiesi preoccupato. “Eh,
vallo a capire. E’ come se si fosse
volatilizzata nel nulla” mi rispose ridendo il più
deficiente dei miei amici.
“Dove cazzo siete?” chiesi prendendo una maglietta
dall’armadio in tutta
fretta. “In paradiso!!” urlò quel
coglione. “Johnny, sono Teo. Siamo
esattamente davanti al Duomo” Ringraziai Dio che almeno uno
di quegli imbecilli
fosse ancora parzialmente sano da darmi una risposta sensata.
“Arrivo” e chiusi
la conversazione senza nemmeno salutare. Il corpo di mio padre era come
al
solito abbandonato sul divano, privo di sensi e circondato da lattine
di birra
e bottiglie di alcol. Capii all’istante da chi avessi preso.
Uscii di casa
sbattendo la porta e presi a correre verso la stazione. Cisca non mi
faceva mai
stare tranquillo. Era dalla seconda elementare che mi prendevo cura di
lei. Non
era una tipa collaborativa ed era incline a mettersi nei casini. Come
sparire
senza dire una parola a nessuno. E come al solito ero io che dovevo
trovarla.
Arrivai a Cadorna, scesi dal treno e presi a correre verso il Duomo.
Per un
fumatore come me, correre era un gran problema. Feci circa quindici
pause da
Cadorna Al Duomo. Raggiunsi i miei amici stremato. Erano seduti sugli
scalini,
proprio davanti al Duomo. “L’avete
trovata?” chiesi letteralmente spompato.
“Chi?” chiese Meno. Erano messi uno peggio
dell’altro. Lollo si era
addormentato con una sigaretta accesa in bocca, Simo si teneva la testa
e ai
suoi piedi si estendeva una pozza di vomito, Gip diceva parole senza
senso e
rideva da solo come un povero idiota. “Cisca, porca
puttana!” gridai tentando
di attirare la loro attenzione. “L’hai
trovata?” chiese con voce sognante Meno.
“Meno, chiuditi quella cazzo di fogna che ti ritrovi al posto
della bocca o
giuro su Dio che ti spacco la faccia” sbraitai verso quello
che rimaneva del
mio amico. Lui si grattò la testa e prese a legarsi le
stringhe delle scarpe e
a scioglierle immediatamente dopo. “Johnny, sei
arrivato!” mi girai e vidi Teo,
correre verso di me. “E’ saltata fuori quella
deficiente?” chiesi speranzoso.
“No, e sto iniziando a preoccuparmi. Ho provato anche a
chiamarla al cellulare,
ma non risponde” disse guardandomi. Sbuffai e mi scompigliai
i capelli. Milano
Centro non era Quarto Oggiaro. “L’ho
trovata!” gridò Dani correndo verso di
noi, trascinando una ragazza per il braccio che tentava di fare
resistenza. “Ti
sembra Cisca, coglione?” gli chiese Teo, indicando la ragazza
spaventata che
non assomigliava nemmeno lontanamente alla nostra amica sperduta.
“Oh, non è
lei?” chiese con espressione stupida.
“Bhè, vuoi scopare con me?” le chiese,
ricevendo in cambio un sacco d’insulti dalla povera
malcapitata. “Vado a
cercarla” li informai “Teo prova a vedere su via
Torino, magari sta alle
Colonne” ordinai al più sano dei miei amici.
“D’accordo” disse prima di
trascinarsi dietro Dani. Odiavo il centro. C’erano
così tanti fighetti
stracolmi di soldi
che mi veniva la
nausea. “Scusa, hai visto una ragazza bassa, occhi azzurri e
capelli castani?”
chiesi a una ragazza bionda e alla sua amica. Lei mi guardò,
squadrandomi dalla
testa ai piedi. Tipica sanbabilina con la puzza sotto il naso.
“Mi sembra una
scusa un po’ troppo banale per attaccare bottone con
me” disse giuliva, facendo
ridere la sua amica. “Ma vaffanculo” le dissi,
prima di ricominciare a correre.
“Sfigato!” mi gridò contro in tutta
risposta. Percorsi tutta la via, arrivando
a piazza San Babila. Ma non la trovai. “Dove cazzo
sei?” bisbigliai prendendo
il cellulare. Il telefono squillava. Ma lei non rispondeva. Tornai sui
miei
passi, sconsolato e preoccupato. Feci pochi metri prima di accorgermi
di una
piccola figura seduta per terra, davanti alla vetrina del negozio della
Disney.
Aveva il cappuccio della felpa che le copriva la faccia. Ma era lei.
L’avevo trovata.
Mi avvicinai e mi inginocchiai di fianco a lei. Le sollevai il
cappuccio e lei
mugugnò qualcosa. Stava dormendo. “Cisca,
svegliati” dissi, scuotendola per la
spalla dolcemente. Lei aprì gli occhi e si guardò
intorno. Aveva il trucco degli
occhi sbavato che la faceva assomigliare a un piccolo panda. “Mi fa male il
culo” disse semplicemente,
cercando di alzarsi. “Spero sia solo perché ti sei
addormentata per terra” le
dissi ridendo aiutandola a mettersi in piedi.
“Coglione” rispose sorridendo.
Mandai un messaggio a Teo, informandolo di aver trovato Cisca sana e
salva.
“Che ci facevi lì?” le chiesi mentre
tornavamo dagli altri. “Avevo detto agli
altri di giocare a nascondino. Ma nessuno mi ha trovata”
disse, con voce rauca
prima di accendersi una sigaretta. “Io l’ho
fatto” le dissi passandole un
braccio sulle spalle e attirandola a me. “Come
sempre” disse aggrappandosi alla
mia maglietta. “Hai scopato stanotte?” mi chiese
aspirando dalla sigaretta. “La
ragazza che ho trovato nel mio letto stamattina, ha detto di
sì” dissi. Lei
rise. “Stai messo proprio male se non ti ricordi nemmeno
delle trombate che
fai” mi rimbeccò divertita. “Potresti
pensarci tu a non farmi scordare una
scopata” “Cos’è? Dovrei
filmarti mentre scopi?” chiese buttando la sigaretta.
“No,
potresti trombare con me. Quello sarebbe indimenticabile” la
punzecchiai. “Ma
se non hai mai avuto il coraggio di baciarmi!”
esclamò lei. “Se ti baciassi
adesso?” le chiesi malizioso, sfidandola. “Prima ho
bisogno di una canna” disse
lei. Le passai il mio pacchetto di sigarette, strategicamente riempito
di
spinelli già fatti. “Ti amo, lo sai
vero?” mi disse prendendo una canna dal
pacchetto e accendendola. Se solo fosse stato vero. Ero innamorato di
lei dalla
seconda elementare: era successo esattamente cinque secondi dopo averla
conosciuta. Ma eravamo inevitabilmente diventati amici. Alle volte la
sognavo
di notte. Impazzivo per i suoi occhi dannatamente chiari e dannatamente
belli.
Cisca non era una ragazza come le altre. Forse perché era
cresciuta in un
gruppo di soli maschi. Di giorno non era per niente femminile, ma di
notte,
quando andavamo a ballare, diventava un’altra, una ragazza
maledettamente sexy
che avrebbe fatto cadere ai suoi piedi chiunque. Mi dava fastidio
quando i
nostri amici le facevano commenti, il più delle volte
volgari, quando prendeva
le sembianze di creatura meravigliosa. Si ammazzava di canne, quasi
quanto noi.
Quando andavamo a ballare aveva l’abitudine di calare
comprando da Squà, il
rifornitore ufficiale delle serate dei Magazzini, dato che io mi
rifiutavo di
darle le mie. Non era una ragazza fine ed elegante. Ma Cisca era fatta
così.
Piaceva a me e piaceva a tutti. “Dove cazzo eri
finita?” la voce di Teo mi
risvegliò dal mio contemplamento sulla mia migliore amica.
L’abbracciò stretta,
facendola scomparire. “E’ il tuo cellulare o sei
contento di vedermi?” chiese
Cisca ridendo. “Scusa, non mi sono fatto la mia solita sega
mattutina” rispose
Teo tastandosi i pantaloni. “Se ti arrapi con Cisca che
è un manico di scopa,
sei messo proprio male” esclamò Dani. In tutta
risposta lei alzò il dito medio
e andò a sedersi vicino a Meno, che non aveva smesso di
allacciare e slegare le
stringhe. “Sta proprio in botta” dissi a Teo, che
guardando il nostro amico
scoppiò a ridere. “Andiamo a fare
colazione?” chiese Gip, dando una pacca sulla
spalla a Lollo. “Io passo. Dato che sono sveglio, vedo di
andare a fare un po’
di grana” dissi. Cisca si alzò “ E dai,
Johnny! Ci vai dopo!” tentò di
convincermi. Ma i soldi avevano la precedenza. Sbuffò
imbronciata, capendo che
non avrei accettato nemmeno con tutte le moine del modo. “Che
due coglioni che
sei!” brontolò Simo, scuotendo una scarpa sporca
di vomito. “Ci vediamo dopo in
piazzetta” li salutai e mi allontanai da loro, sentendo
comunque i loro schiamazzi,
così come tutta Milano.
Avere diciotto
anni e spacciare era
un bel cazzo di problema. Nessuno mi prendeva sul serio. Tutti
pensavano che li
volessi fregare. Coi drogati non si scherza. Basta pesare male una dose
e sono
cazzi. I drogati, quelli veri, quelli che sarebbero disposti a
barattare la
propria madre per una dose, sono i peggiori individui su questo fottuto
pianeta. Avevo iniziato aiutando Squà ai Magazzini. Ma sulla
strada era
un’altra cosa. Vedevo gente diversa, di qualsiasi
età e classe sociale, venirmi
incontro e chiedermi eroina, cocaina, pasticche, fumo. Una volta era
capitata
una vecchia che si lamentava di quanto i prezzi fossero aumentati da
quando era
giovane. Voleva uno sconto, ma non glielo feci. I soldi mi servivano.
Mia madre
si ammazzava di lavoro dalla mattina alla sera e mio padre era un
povero
ubriacone a cui non gliene fregava un cazzo della sua vita e di quella
degli
altri. “Ehy, Johnny” un ragazzo si era parato
davanti a me. “Filo, ciao”
risposi, sapendo già cosa volesse. “Stasera ci sei
ai Magazzini?” gli chiesi.
“Non ce l’hai ora l’essenza?”
“No,
sto andando a comprare. Ma stasera avrò tutto” lo
tranquillizzai. “D’accordo.
Allora ci vediamo stasera”
disse, prima
di darmi una pacca sulla spalla. Odiavo il contatto fisico con i miei
compratori. Avevo sempre paura che mi potessero ficcare un coltello
nella
schiena e fottermi tutta la merce.
L’aria
dannatamente inquinata di Milano
era come una botta di joint per i miei polmoni. Tornai a casa, a Quarto
Oggiaro, per prendere i soldi. Alzai il materasso.
Duemilacinquecentosettantacinque euro meticolosamente legati con un
elastico di
Cisca. Per un comune ragazzo di diciotto anni sarebbero stati
sufficienti per
campare sei mesi. Ma per me non erano abbastanza. Quei soldi sarebbero
duplicati
entro il mattino successivo. Mio padre era ancora in coma sdraiato sul
divano.
Uscii di casa e andai al Dirocco,
un
palazzo abbandonato e quasi del tutto abitato da abusivi. Salii al
terzo piano
e bussai alla porta alla mia sinistra. Non mi rispose nessuno, come
tutte le
altre volte. “Sono Johnny” dissi. Sentii le diverse
mandate della porta
blindata scattare. Rocky mi sorrise. Era un omone di centoventi chili
di
muscoli e nervi. Ma non era cattivo con chi non lo faceva arrabbiare.
Mi
accompagnò nel salotto dove era imbastito un vero e proprio
mercato della
droga. “Quanto hai?” mi chiese appoggiandosi al
muro e accendendosi una
sigaretta. “Circa duemila testoni” risposi
porgendogli il mazzo di soldi.
“Serviti pure” mi sorrise, sventolandosi la
mazzetta davanti agli occhi.
C’erano i soliti assaggi. Ma ormai di Rocky mi fidavo. Presi
tutto ciò che mi
occorreva, controllando la lista che mi ero meticolosamente preparato
qualche
giorno prima, dando un nome diverso al tipo di roba che mi serviva.
L’essenza
era l’MDMA, i pasticcini erano le pasticche, il nero era il
fumo. Riempii lo
zaino che mi ero portato dietro. “Vado a chiamare Rambo e ti
accompagno a casa”
“No, tranquillo. Tanto devo beccarmi con gli altri in
piazzetta” “A quando la
consegna?” “Stasera ai Magazzini”
“Solita ora?” chiese, anche se già
sapeva la
risposta. Annuii e lui mi sorrise. Salutai Rocky, poco prima che diede
una
botta di coca. Uscii dal mercato e mi diressi in piazzetta. Mi ero
sempre
chiesto chi avesse dato quei soprannomi idioti a quei due energumeni
che
rifornivano mezza Lombardia. Ai Magazzini mi conoscevano tutti.
Proprietari
compresi. A loro davo una percentuale di guadagno su quello che vendevo
e in
cambio mi facevano spacciare tranquillamente. Più io
spacciavo, più guadagnavo,
più la loro percentuale aumentava. Uno scambio equo di
favori. A pippare
cocaina erano i ragazzi della Milano Bene, quelli ricchi, quelli di San
Babila
e dintorni. Gli altri si limitavano a pasticche, acidi, francobolli,
erba e
fumo. Squà
batteva sulla pista, io
invece ero fisso ai cessi. Ognuno aveva i suoi clienti. Non
c’era tanta
concorrenza o competizione, perché il guadagno
c’era sempre. Appena mi sedetti
sulla panchina, intravidi gli altri venirmi incontro. Teo portava sulle
spalle
una sfinita Cisca, che in mano teneva una piccola busta.
“Prendi la moribonda”
mi ordinò Teo, indicando la mia migliore amica. Presi Cisca
in braccio e la
portai a casa. Abitava davanti alla piazzetta. Salii le scale
dondolando la mia
amica tra le braccia e ridendo quando apriva gli occhi e mi faceva la
linguaccia senza dire una parola. Presi le sue chiavi di casa attaccate
con un
moschettone alla catena dei suoi pantaloncini. I suoi erano al lavoro.
La
portai nella sua stanza e la sdraiai sul suo letto. Mi trattenne per la
mano,
intrecciando le sue dita affusolate nelle mie. “Ti ho preso
una brioches” mi
disse ad occhi chiusi. Mi sedetti sul suo letto e aprii la busta di
carta che
non aveva mollato un attimo. “Avevo fame e le ho dato un
morso” disse, aprendo
gli occhi con fare colpevole. “Facciamo a
metà?” le chiesi. I suoi occhi si
illuminarono come se fossero alimentati di luce propria. Divisi la
brioches al
cioccolato e le porsi la sua metà. Trangugiò la
sua parte in pochi morsi,
chiaro segno che era ancora fatta. Si accese una canna e mi disse
“Facciamo
metà?” e mi sorrise. Non so cosa mi trattenne dal
non saltarle addosso. Forse
la paura che mi avrebbe tirato un pugno e una testata. O forse solo la
paura di
essere respinto. Mi passò il resto della canna. Il filtro
non era nemmeno
umido. Non capivo come facesse a non lasciare una traccia di saliva sui
filtri
di sigarette e canne. Io quando fumavo, inevitabilmente finivo per
limonarmi il
filtro. E ogni volta che passavo a Cisca uno spinello o una sigaretta
si
lamentava. Diceva che le dava fastidio fumare attraverso la bava di
qualcun
altro. “Hai comprato?” mi chiese, spezzando il
silenzio. Annuii mentre tiravo
lentamente dalla canna. “La prossima volta mi ci
porti?” Ecco che ricominciava.
“Per la millesima volta no. E queste idee del cazzo nemmeno
dovrebbero passarti
per l’anticamera del cervello fumato che ti
ritrovi” le sibilai, stringendo il
suo piccolo polso tra le mie dite. Sbuffò sconfitta, come
ogni volta. Se
l’avessi portata con me, Rocky o Rambo o entrambi
l’avrebbero sequestrata e
stuprata selvaggiamente per ore. Ne ero certo. Si sdraiò sul
letto, prendendo a
guardare maniacalmente il soffitto della sua stanza. Finii lo spinello
e mi
sdraiai di fianco a lei. “Sei la persona più
importante della mia vita” disse,
continuando a guardare il soffitto. Quando stava in botta, iniziava i
suoi
discorsi stranamente dolci, che la facevano aprire completamente e che
buttavano giù la sua aria da dura. Le baciai la testa,
perdendomi tra il
profumo di albicocca che i suoi capelli emanavano. “Davvero
dico sul serio. Se
tu non ci fossi, che ne sarebbe di me?” mi chiese puntando i
suoi occhi
glaciali arrosati dalla fattanza su di me. Non sapevo mai cosa
risponderle,
quando guardavo i suoi occhi. Mi bloccavo come un povero idiota.
Iniziò a
ridere. “Che espressione da deficiente”
continuò tra le risate. “Ah, grazie”
dissi prima di morsicarle la guancia. “Ahia,
cazzo!” esclamò ridendo. Si pulì
la guancia contro il mio torace e si accoccolò su di me.
“Quanto sei secco!
Sento tutte le costole” disse, tastandomi con la mano
l’addome. Cercai di
calmarmi. “E piantala di toccarmi!” le allontanai
bruscamente la mano. Lei si
alzò leggermente e prese a fissarmi. “Era una
cessa quella che ti sei scopato”
disse sorridendo. “L’ho notato stamattina. Tu
comunque potevi fermarmi” “Avrei
voluto vedere la tua faccia! E comunque anche a me all’inizio
sembrava
passabile” continuò ridendo “Solo che
poi mi sono resa conto che non mi
assomigliava per niente” finì tornando sul mio
torace. “E questo che significa?”
le chiesi, cercando di apparire indifferente.
“Niente” rispose semplicemente,
tornando a guardare il soffitto. Qualcosa stava cambiando tra di noi.
Lo sapevo
io e lo sapeva lei. E non era stata la fattanza a parlare al posto suo.
Quella
era Cisca. “Mi sono dovuto fare una doccia con strofinamento
per togliermi il
suo cazzo di profumo di dosso” dissi, accarezzandole i
capelli. “Cos’era? Eau
de troiet?” chiese ridendo. Risi anch’io. Non
l’avrei sostituita con nessuno al
mondo. A costo di reprimere la voglia di averla mia, sbattendomi tutte
le
puttanelle di Milano e dintorni. La sentii piano piano addormentarsi su
di me.
La scostai leggermente e le diedi un bacio sulla fronte. Uscii da casa
sua e
raggiunsi gli altri in piazzetta. I miei amici mi guardavano come se
fossi un
eroe tornato dalla guerra. “Te la sei sbattuta alla
fine!” esultò Dani,
ingroppando una donna immaginaria. “Ma che cazzo
dici?!” sbraitai. “Bene, mi
dovete dieci euro a testa” esclamò vittorioso
Meno, allungando una mano verso
gli altri. “Siete proprio dei coglioni” dissi
ridendo. Era così palese che
volevo farmi Cisca? A quanto sembrava sì, dato che perfino
quegli idioti ci
avevano scommesso dei soldi. “Stasera si va ai
Magazzini?” chiese Dani a
nessuno in particolare. “Io devo andare per forza”
risposi accendendomi una
sigaretta. “Chi viene a farsi una birra con me?”
chiese Simo. “Non hai vomitato
abbastanza?” gli ricordò Teo. “Nel mio
stomaco c’è sempre spazio per una cazzo
di birra” rispose ridendo Simo. Per quanto fossero un gruppo
di coglioni, erano
la mia famiglia. Ci conoscevamo tutti da quando eravamo piccoli.
Odiavamo tutti
Quarto Oggiaro perché sapevamo che a causa del nostro
quartiere non avremmo
combinato mai un cazzo nella vita. Ma ci andava bene, allo stesso
tempo. Avevo
lasciato la scuola appena capii che spacciare portava guadagno. Mia
madre ci
era rimasta male, perché avrebbe voluto solo il meglio per
me. Ma guadagnare
soldi facili era più importante che studiare. Non mi ero mai
pentito della mia
scelta. A parte Lollo e Dani, che lavoravano nella pizzeria dello zio
di Lollo,
tutti gli altri andavano a scuola. Cisca, Teo e Simo stavano allo
scientifico ed
erano nella stessa classe. Gip e Meno, invece, facevano il
professionale.
Nessuno di loro era un grande genio, ma almeno ci provavano. Ero io ad
incazzarmi con Cisca quando prendeva insufficienze, perché
ai suoi genitori non
gliene fregava un cazzo. Gli adulti di questo posto di merda pensavano
ai cazzi
loro, a portare il pane a casa. Non fregava a nessuno se ci drogavamo,
se tornavamo
a casa alle undici di mattina dopo una serata devastante. Ognuno viveva
la sua
vita come meglio credeva. Questo era Quarto Oggiaro. Ed era per questo
che
odiavamo e amavamo il nostro quartiere. Mandai un messaggio a Cisca
dicendole
di farsi trovare pronta per le nove e mezza. Sapevo che avrebbe dormito
tutto
il giorno e che come al solito ci avrebbe fatto fare tardi. Andammo al
Giglio,
il bar più pidocchioso di tutto Quarto, anzi di tutta la
Lombardia. Peppino, il
proprietario, ci conosceva tutti. “Birre?” chiese
solamente. Ci fu un urlo di
gruppo ad acconsentire alla sua domanda. Lui rise e ci versò
da bere in boccali
grandi. “Come vanno gli affari, Johnny?” mi chiese
il proprietario in disparte.
“Abbastanza bene” “Un cliente mi ha
chiesto se vi potete incontrare domani
sera” “Ci si può fidare?”
chiese, malfidato come sempre. “Lo sai che dei miei
clienti ti puoi fidare” mi rispose, pulendo un boccale con
uno strofinaccio.
“Se mi assicuri che non è uno sbirro in
borghese..” cominciai, ma lui mi interruppe.
“Quale sbirro in borghese entrerebbe nel mio bar?”
disse ridendo. Anche lui
sapeva quanto il suo bar risultasse schifoso. Ed effettivamente tutti i
suoi
clienti non mi avevano mai dato problemi. “Cosa
vuole?” gli chiesi,
intenzionato a fare l’affare. “Una partita da
100” “Cazzo!” esclamai, quasi
strozzandomi con la birra. “E’ strapieno di soldi.
Penso faccia l’imprenditore”
spiegò Peppino. “Digli che ci sto. Ma voglio i
soldi sull’unghia. Niente sconti
o pagamento a rate” “D’accordo”
finì l’uomo, andando poi a servire un altro
bicchiere di grappa a un ubriacone mezzo sdraiato sul bancone.
“Devo andare”
informai i miei amici. “Ancora?” chiese Teo,
finendo la sua birra. “Il dovere
chiama!” esclamai uscendo dal bar. Dovevo tornare al Dirocco.
Salii al terzo
piano e bussai ancora una volta alla porta alla mia sinistra.
“Sono Johnny”
ripetei. La porta si aprì. Questa volta ad accogliermi
c’era Rambo. “Ho un
ordine da fare per domani” “Grosso?”
“Una partita da 100” dissi sorridendo.
“Porca puttana!” ruggì Rambo,
accompagnandomi al mercato. “La grana?”
“Domani
sera” dissi, sperando non si incazzasse.
“Johnny..” iniziò. Ma io lo interruppi
“Andiamo, Rambo! Vi ho mi fregati? Lo so benissimo che con
voi non si scherza.
Ma, cazzo! Questo è proprio un affare!” tentai di
convincerlo. “Fammi parlare
con Rocky” disse prima di sparire in una stanza, chiudendo la
porta alle sue
spalle. Poco dopo tornarono entrambi. “Cinquanta adesso e
cinquanta alla
vendita” “Cazzo, Rocky!” “Se
preferisci niente, dillo subito” sbraitò Rambo. Li
guardai un attimo e poi accettai. “Mettetemeli da parte.
Vengo a prenderli
domani sera” “Lo sapevo che eri
intelligente” disse Rocky, dandomi una pacca
sulla spalla. Mi congedai e uscii dal Dirocco. La sera dopo avrei
guadagnato
tanta di quella grana che avrei potuto fare qualsiasi cosa, perfino
smettere di
spacciare per un pò.
Tornai a casa e
pulii il soggiorno
dalle lattine di birra e dalle bottiglie vuote che mio padre aveva
lasciato. In
casa non c’era e immaginai fosse andato dalla puttana del
quartiere, Sonia. Lei
faceva la puttana in casa. Quando ero più piccolo mio padre
aveva provato a
convincermi ad andare da lei per perdere la verginità. Ma
scopare una donna che
si era fottuto anche lui, mi disgustò. Poi iniziai ad andare
a ballare e
scoprii che se volevi sbatterti qualcuna, potevi farlo tranquillamente.
L’unica
differenza tra Sonia e le ragazze discotecare era il fatto che loro non
si
facevano pagare. Quindi tanto di guadagnato. Mi preparai un panino, con
i pochi
ingredienti che la mia dispensa offriva. Il frigo era completamente
vuoto, come
ogni giorno. Ma dopo la vendita di cocaina che mi aspettava per la sera
successiva avrei riempito il frigo ogni sera. Avrei comprato un regalo
a mia
madre, anzi l’avrei sotterrata nei regali. Sorrisi e diedi un
morso al panino,
che sapeva di cartone. Buttai quello schifo nella pattumiera e andai a
sdraiarmi sul divano. Aprii una lattina di birra e accesi la
televisione. Se
non fossi nato a Quarto probabilmente la mia vita sarebbe stata
diversa. Magari
non sarei diventato uno spacciatore per mantenermi e per non essere di
peso a
mia madre, che si ammazzava di lavoro. Accesi una sigaretta e
controllai il
cellulare. Venti messaggi non letti. Persone che nemmeno sapevo chi
fossero,
avevano il mio numero di cellulare e tutti quanti mi facevano la stessa
identica domanda: “Stasera ci sei ai Magazzini?”.
Non risposi a nessuno. Avevo
sede fissa ai cessi dei Magazzini e tutti lo sapevano. Il sabato sera
era il
giorno che più preferivo:
guadagnavo
quasi il doppio di quanto facevo in una settimana. All’inizio
ero stupito di
quanta gente si drogasse in discoteca. Poi non ci feci più
caso. Mentre i miei
amici si distruggevano di droghe e alcol, io mi rintanavo nei cessi a
fare
affari. Non ero un grande patito di musica house, elettronica o simili.
Ballavo
solo quando Cisca mi trascinava fuori dai cessi, quasi a fine serata. E
anche
se ero stordito dalla droga e dalla musica, mi sentivo sempre un
completo
idiota. Con le tipe però me la cavavo meglio rispetto al
ballo. Ne avevo
scopate di tutti i tipi: alte, basse, magre, in carne, fighe e cesse.
Una volta
strafatto mi bastava fossero ragazze. Non mi importava della loro
faccia, del
loro carattere o della loro famiglia. Scopavo come un coniglio e non mi
lamentavo. E a parte qualche rara eccezione, nessuna di loro si era mai
lamentata. Mandai un altro messaggio a Cisca, ma non rispose: chiaro
segno che
era ancora in coma. Chiusi gli occhi e provai a dormire, ma il
cellulare iniziò
a suonare. “Pronto?” chiesi al mio interlocutore
dal numero privato. “Sei
Johnny?” mi chiese una voce maschile.
“Sì” risposi semplicemente.
“Fatti
trovare stasera ai Magazzini che ti devo massacrare di
mazzate” ringhiò lo
sconosciuto. “Scusa, ma chi cazzo sei?” chiesi
ridendo. “Ti sei scopato la mia
tipa stanotte” gridò fuori di sé,
mentre io continuavo a ridere. “Se la tua
tipa è una zoccola dovresti menare lei, non me”
“Figlio di puttana, ti faccio
un culo così appena ti becco” “Allora ci
vediamo stasera ai Magazzini” risposi
spavaldo. Chiusi la conversazione. Ero abituato a quel genere di
telefonate.
Scopavo sì, ma la maggior parte delle volte con ragazze
già occupate che non
riuscivano a tenere le gambe chiuse. Chiamai Teo, che stranamente
rispose
immediatamente. “Chi è?” chiese
rincoglionito. “Sono Johnny. Preparati perché
stasera si fa rissa” “Porca troia,
ancora?” “A quanto pare la tipa di stanotte
era già impegnata. Tu avverti gli altri”
“E Cisca?” “Sarà talmente
sballata che
non si accorgerà di niente” risi e chiusi la
telefonata. Cisca odiava quando
facevamo rissa. Diceva che sembravamo un gruppo di scimmioni senza
cervello e
che solo gli incivili si mettevano le mani addosso. Nemmeno io amavo
picchiare
la gente, ma se proprio mi ritrovavo costretto da una minaccia
telefonica, di
certo non mi tiravo indietro. Chiusi gli occhi e finalmente riuscii ad
addormentarmi senza che nessuno mi rompesse i coglioni.
“Porca
troia, Johnny! Vuoi rispondere
a quel cazzo di cellulare?” la voce ubriaca di mio padre mi
svegliò,
riportandomi alla realtà di merda che odiavo.
“Pronto?” chiesi con voce
impastata. “Stronzo! Ti vuoi muovere?!”
ululò Dani dall’altro capo del
telefono. “Ma che ore sono?” chiesi,
stropicciandomi gli occhi. “E’ tardi,
finocchio!” gridò prima di attaccare.
Lanciai il telefonino sul tavolino già cosparso di lattine
di birra vuote. Mi
scompigliai i capelli. “Vedi di mettere a posto o la mamma si
incazzerà come
una belva” dissi a mio padre, alzandomi dal divano.
“Ma vaffanculo” fu la sua
risposta. Alzai gli occhi al cielo e andai in bagno a lavarmi la
faccia. Uscii
di casa correndo e raggiunsi gli altri in piazzetta. Come avevo
previsto Cisca
non era ancora scesa. “Era ora cazzone” disse
ridendo Simo, appena mi vide.
“Stavo dormendo” mi scusai. Citofonai a casa di
Cisca. “Ti vuoi muovere?” le
chiesi sentendo la sua voce. “Arrivo, cazzo!”
esclamò esasperata lei. Scese
poco dopo. Sua madre si affacciò dalla finestra e le
gridò “Vedi di non fare
tardi, Chiara!” “Ma non mi rompere i
coglioni” fu la sua lapidale risposta,
mentre alzava il dito medio verso la finestra da cui sua madre si era
affacciata. “Cazzo, qualcuno ha una canna?” chiese
isterica. Gli passai la mia
che fumò velocemente. “Abiti
qua davanti
e sei sempre l’ultima, testa di cazzo” le disse
Dani. “Non mi rompere le palle
anche tu, per favore” ringhiò Cisca. Dani e Cisca
si sopportavano a malapena.
Tutti i giorni eravamo costretti a sorbirci i loro scambi di opinioni
che quasi
sempre finivano ad insulti pesanti.
Ci
incamminammo verso la stazione e aspettammo il treno. Cisca e Meno si
erano
divisi le cuffiette dell’Mp3 di lui per spaccarsi i timpani
con i CyberPunkers.
Gip, Lollo, Simo e Dani avevano iniziato una gara di sputi, nemmeno
avessero
cinque anni. “Ho conosciuto una tipa”
esordì Teo a bassa voce. “Era ora” lo
sfottei. “Coglione. E’ carina, almeno dalle foto
sembra carina” “Foto?” chiesi
senza capire. “Facebook” chiarì.
“Cristo, su Facebook! Sei proprio uno sfigato”
dissi ridendo. “Ma vaffanculo! Lo sai che ho problemi a
rimorchiare le ragazze
in discoteca o per strada!” disse dandomi un pugno sulla
spalla. Era vero. Teo
era un povero pirla senza palle che se vedeva una tipa che gli piaceva,
rimaneva ore e ore a fissarla senza nemmeno provare ad avvicinarsi.
“E’ di San
Babila” disse, come liberandosi da un peso.
“Fanculo! Mi prendi per il culo!”
esclamai ridendo. Ma lui non scherzava. “San Babila? Ti sei
rincoglionito?” “Mica
me la devo sposare!” “Ho capito. Ma dai, San
Babila!” ululai incredulo. Chiuse
il discorso accendendosi una sigaretta e cadendo in un silenzio
innaturale.
Quando arrivammo davanti all’entrata dei Magazzini, mi
separai dai miei amici.
Aspettai che Rocky e Rambo mi consegnassero lo zaino stracolmo di droga
ed
entrai per l’entrata laterale. Salutai Amir, il buttafuori di
colore, che ogni
tanto mi chiedeva qualche botta di coca. Era simpatico. Lo sfottevo
sempre per
come parlava e lui rideva quando lo imitavo. Aspettai che gli altri
entrassero
e presi Cisca da parte “Non ti sballare troppo”
“Va bene, paparino” disse
ridendo. “Dico sul serio. Vacci piano stasera”
“Fanculo, Johnny” disse velenosa
prima di girarsi e raggiungere Simo in fila per i drink. Sbuffai
incazzato ed
entrai nei cessi. Fui accolto da una marea di gente. La serata era
appena
iniziata, ma erano già tutti pronti a sfamare la loro voglia
di sballare. “Ma
se uno volesse pisciare?” chiese un ragazzo occhialuto
entrando nel bagno
stracolmo. “Puoi usare il bagno delle donne. Lì
è pieno di gente che piscia”
rispose il ragazzo davanti a me prima di ingoiare tre pasticche appena
comprate
dal sottoscritto. L’altro alzò le mani in segno di
resa “Mi tocca uscire fuori”
borbottò prima di sparire al di là della porta
dei cessi. Come avevo calcolato
gli affari andarono bene. Ero arrivato a quota milleduecento euro in
sole due
ore. “Sei tu Johnny?” chiese un ragazzo alto quanto
me, latino e pompato di
steroidi. “Chi mi cerca?” chiesi strafottente,
riconoscendo la sua voce.
“Coglione di merda, ti aspetto fuori”
“Dovrai aspettare. Io sto lavorando” gli
dissi, indicando il mio zaino e la fila di gente che si apprestava a
comprare.
“A fine serata, davanti all’entrata”
sbraitò. “Come ti pare” dissi pesando
una
dose di coca. Uscì dal bagno e un ragazzo mi chiese
“Rissa?” “Ho scopato la sua
tipa” risposi ridendo. Ci fu un coro di applausi e fischi.
“Spero ne sia valsa
la pena” disse un altro in fondo alla fila. Sorrisi, pavone.
Altri fischi. “E’
buona?” mi chiese un ragazzo, indicandomi con un cenno la
coca. “Se non fosse
buona, non la venderei” risposi scocciato. Odiavo quando la
gente mi faceva
quel tipo di domande. Era come se mettessero in dubbio la mia parola. E
non
c’era cosa che più mi infastidiva. Poco a poco la
gente diventò sempre meno.
Alle quattro e mezza ero arrivato a quota cinquemila euro.
“Vuoi
venire a ballare?!” la voce
squillante di Cisca mi raggiunse. I pochi rimasti si girarono a
guardarla come
un branco di allupati. “Arrivo” le risposi. La
seguii con lo sguardo, mentre
barcollando usciva dai cessi. “E’ la tua
tipa?” mi chiese un ragazzo. “No”
risposi “Ma che non ti venisse in mente di provarci,
chiaro?” sottolineai
velenoso. “D-D’accordo”
balbettò quello. Mezz’oretta dopo avevo finito
tutto.
Lo zaino era completamente vuoto e avevo incassato la bellezza di
cinquemilatrecentoventi euro. In una sola serata. Portai il mio zaino
ad Amir,
che lo ripose nel guardaroba dei proprietari, e mi buttai alla ricerca
dei miei
amici. Meno e Cisca ballavano insieme, sopra il palco riservato
all’animazione.
Ma nessuno li fece scendere, perché la serata era quasi
giunta al termine.
Lollo e Dani erano senza maglietta completamente ubriachi e saltavano
come
conigli a ritmo di musica elettronica. Teo e Gip erano in compagnia di
un
gruppo di ragazze fighette, ma nessuna era particolarmente scopabile.
Andai da
Squà e mi feci dare un cartone. Lo misi sulla lingua e
aspettai che facesse
effetto. Raggiunsi Gip e Teo. Presi una ragazza a caso e la portai a
ballare.
Lei si strusciava su di me, come se fossi stato un palo da lap dance.
Con la
coda dell’occhio vidi una cannuccia vicino al mio naso. Mi
girai e vidi Cisca
che brandiva la cannuccia di plastica come una bacchetta magica.
“Stai
smandibolando come un cazzo di lama” gridò vicino
al mio orecchio per farsi
sentire. Presi la cannuccia e me la misi in bocca. Lasciai che la
sconosciuta
ballasse da sola e mi concentrai sulla mia migliore amica. Il trucco
come al
solito era sbavato, si muoveva a ritmo di musica saltellando. Tra le
dita aveva
una sigaretta. Mi guardò ridendo. Risi anch’io,
senza capire il motivo. Il
cuore pulsava nel petto a causa dell’acido che avevo preso.
Sentivo il suo
piccolo corpo su di me. Ma anche se stavo in totale trip, riuscii a
reprimere
gli istinti da uomo delle caverne. Lei tornò sul palco, da
Meno, facendosi
aiutare da un ragazzo a salire. A me toccò occuparmi della
ragazza lap dance,
che tornò alla carica. “Vuoi scopare?”
le chiesi, indifferente, urlandole
nell’orecchio. Lei mi guardò un attimo, poi si
avvicinò e gridò “Va bene”.
Era
così facile. La portai nel bagno degli uomini, completamente
vuoto. La spinsi
in un cesso e chiusi la porta. Mi si buttò letteralmente
addosso, ansimando
vogliosa. Quel cazzo di trip mi aveva sfasciato, dato che tentai di
ingropparla
senza slacciarmi i jeans. Fu lei a slacciarli. “Come ti
chiami?” le chiesi,
anche se non me ne fregava un cazzo. “B-Bianca”
mugugnò lei, graffiandomi la
schiena. Non dissi più nulla. Provò a baciarmi,
ma mi scansai. I baci erano
riservati alle ragazze importanti, non di certo alle sconosciute
trombate nei
cessi dei Magazzini. “Porca troia, Johnny! Vi si sente da
fuori!” gridò Gip
entrando in bagno. “Vuoi farmi finire in pace,
coglione?” sbottai ansimando.
“Muoviti Johnny! Ho una fame della madonna!”
esclamò ridendo Cisca,
raggiungendo Gip in bagno. “Ma che cazzo! Volete
uscire?” sbraitai senza
contegno. “Tu dovresti uscire!” disse ridendo Meno.
La ragazza davanti a me era
in totale imbarazzo. Quella trombata si era trasformata in una riunione
di
gruppo. “Scusa” dissi, cercando di sembrare gentile
nei confronti di quella
tizia. Lei si tirò su il perizoma e io uscii dal cesso.
“Ho finito, contenti?”
ruggii verso i miei amici. “Mi sono incastrata!”
disse ridendo Cisca seduta in
un lavandino. Scoppiammo tutti a ridere.
“Aiutatemi!” esclamò lei piangendo dal
ridere. Gip la tirò fuori dal lavandino, la prese in braccio
e uscì dal bagno
correndo e gridando “Le si sono rotte le acque!” Io
e Meno li raggiungemmo
fuori, seguiti da Teo, Dani e Simo.
“Stronzo!”
un ragazzo mi fermò per il
braccio “Ti ricordo che ti devo ammazzare di botte”
disse minaccioso. “Ah,
grazie per avermelo ricordato” risposi ridendo. Non mi resi
conto del pugno che
mi colpì in piena faccia. Spinto da una forza sovrumana,
dovuta al cartone, lo
atterrai con un pugno sullo stomaco e una ginocchiata sul naso.
“Te lo ripeto:
se la tua ragazza ti fa le corna è colpa sua, non
mia” dissi con fare
vittorioso, dando un calcio al suo corpo a terra e una feroce pedata
sulla
faccia. Lo sentii piangere, mentre con una mano si asciugava il sangue
che dal
naso gli stava imbrattando il mento e la maglietta. Raggiunsi i miei
amici, che
avevano assistito alla scena ridendo. Tutti tranne lei, che evitava di
guardarmi. Non disse nulla. Dani mi diede una pacca sulla spalla
esultando come
se avessimo vinto i mondiali di calcio. “Brioches o
kebab?” chiese Teo
guardandoci. “Kebab, cazzo!” gridò Gip,
seguito da tutti noi. “Morirò un giorno
o l’altro per colpa di tutta la merda che mi fate
mangiare” disse ridendo Simo.
Cisca camminava davanti con Meno, dividendo le solite cuffiette.
“Se vi
prendete per mano e iniziate a cantare delle canzoni di Natale, vi
scambieranno
per due aiutanti di Babbo Natale” gridò Dani ai
nostri due amici, sfottendoli
per la loro bassa statura. Di tutta risposta entrambi alzarono il dito
medio,
senza girarsi a guardarci. Effettivamente sembravano due bambini visti
di
spalle. Arrivammo all’Istanbul pochi minuti dopo. Era
stracolmo di gente e il
kebabbaro stava letteralmente avendo una crisi isterica. Ma
riuscì a servire
tutti, noi compresi. Stavo per addentare il mio kebab, quando Cisca mi
prese
per un braccio e mi trascinò lontano dagli altri.
“Non farlo più” disse
guardando a terra. “Ok” risposi sorridendo.
“Hai rischiato di farmi prendere
male” disse attorcigliandosi una ciocca di capelli attorno a
un dito. “Mi
dispiace” dissi, realmente dispiaciuto. Sospirò e
mi guardò dritto negli occhi.
“Ora mi fai dare un morso al tuo kebab?” chiese
ridendo. Sospirai sconsolato e
gli porsi il panino. Addentò un pezzo aprendo le sue fauci.
“Un pezzo, cazzo!
Non tutto!” brontolai ridendo, cercando di staccarla dal mio
cibo. Si sbrodolò
addosso, come una ragazzina. Ma anche con la bocca coperta di maionese
e
ketchup era meravigliosa per i miei occhi strafatti. Si pulì
con la manica
della felpa, risultando poco femminile come al suo solito.
“Sei una cazzo di
selvaggia” le dissi ridendo. “E tu sei un cazzone
egoista” rispose dandomi un
buffetto sulla spalla. La abbracciai e la tenni stretta a me.
“Nemmeno io
saprei cosa fare senza di te” le confessai. Lei
alzò la testa, iniziando a
fissarmi. “Lo so” rispose ghignando. Tornammo dagli
altri abbracciati. “Che
facciamo?” chiese Meno, prima di dare un sorso alla sua
birra. Appoggiai il
mento sulla testa di Cisca e proposi “Torniamo a Quarto e
andiamo allo
Schleiber a smaltire la fattanza?” Gli altri erano
d’accordo. Tornammo a
Cadorna e prendemmo il treno che ci avrebbe riportati a Quarto.
Scendemmo dal
treno e correndo come dei poveri pazzi arrivammo al Parco.
“Dani che cazzo fai?
Guarda che è aperto!” gridò Lollo
all’altro deficiente che aveva iniziato ad
arrampicarsi sul cancello. Quello prese a ridere e tornò
sulla terra-ferma.
Corremmo all’interno del parco gridando e ridendo. Ci
sdraiammo sull’erba a
guardare l’alba sopra le nostre teste. Mi accesi uno spinello
e dopo un paio di
tiri lo passai a Cisca. Una
canna ci
stava proprio. Chiusi gli occhi e mi sentii come sollevare da terra.
C’ero solo
io. Non sentivo niente intorno a me: nessuna voce, nessun canto di
uccelli,
nessuna macchina di passaggio. E
i miei
amici dovevano essere messi esattamente come me.
Sentii qualcosa
colpirmi la gamba.
Aprii gli occhi e venni quasi accecato dal sole. Una palla, ecco cosa
mi aveva
colpito. Cercai di focalizzare dove fossi. “Puoi
ridarmela?” gridò un bambino,
alzando un braccio e indicando il pallone con l’altra mano.
Mi alzai di
controvoglia e diedi un calcio al pallone spedendolo vicino al
ragazzino.
Guardai a terra. Stavano tutti dormendo. Raschiai la voce e mi
stiracchiai
platealmente. Presi fiato e gridai a pieni polmoni “Sveglia,
coglioni!” Meno
scattò sull’attenti guardandosi intorno con aria
spaesata. Dani se
uscì dicendo “Spegnete quel cazzo di
Sole!” e riparandosi gli occhi con un braccio. Teo, Lollo,
Simo Cisca non
davano segni di vita. Mi avvicinai
a Teo e gli gridai in un orecchio “Buongiorno, testa di
cazzo!” Ma non si
mosse. Al suo posto rispose Simo “Che cazzo gridi? Vammi a
prendere una birra
piuttosto!” Meno iniziò a ridere. Dani prese per i
piedi Cisca e iniziò a
trascinarla per il prato ridendo. “Ma che cazzo
fai?!” sbraitò lei, tentando di
aggrapparsi all’erba per dare fine a quel trascinamento.
“Sei più leggera di
quanto pensassi” le gridò divertito.
“Dani, cazzo! Mi sta venendo da vomitare!”
esclamò ridendo Cisca. “Dai un calcio a questi due
coglioni” ordinai sorridendo
a Simo, indicando Teo e Lollo. Si beccò una vagonata di
insulti da parte dei
due malcapitati. Dani riportò Cisca da noi, sempre
trascinandola. “Posso trascinarti
fino a casa?” le chiese avvicinandosi a lei. “E io
posso tirarti un calcio nei
coglioni?” rispose lei ghignando. A quella minaccia lui le
lasciò i piedi e la
aiutò ad alzarsi. “Ma che ore sono?”
chiese Lollo a nessuno in particolare. “Le
cinque e venti del pomeriggio” rispose Teo guardando
l’ora sul telefonino.
“Siamo proprio un gruppo di sfigati” disse Meno,
stropicciandosi la faccia. “Ci
vediamo dopo in piazzetta?” chiesi a tutti. Gli altri
annuirono e ci salutammo,
tornando ognuno a casa propria.
Quando entrai in
casa, capii che
c’era mia madre dall’odore di detersivo e
candeggina nell’aria. “Johnny, ma si
può sapere dove sei stato?” mi chiese, infatti,
mia madre uscendo dalla cucina.
“Ero da Cisca con gli altri” risposi, mentendo. Lei
mi guardò, incrociando le
braccia sotto al seno. “Hai fame? Ti preparo
qualcosa?” mi chiese tornando in
cucina. Anche se avessi risposto di no, mi avrebbe fatto da mangiare in
ogni
caso. Mi sedetti su una sedia, guardandola farmi un panino. Sorrisi,
ricordando
quante volte da piccolo mi ero perso a guardarla farmi da mangiare.
“Sei
bellissima, mamma” le dissi sorridendo. Lei si
voltò e mi guardò incredula “Oh,
mi fa piacere che tu te ne sia accorto finalmente!”
scherzò, spostandosi una
ciocca di capelli castani dietro l’orecchio. “Dico
sul serio, mà” continuai a
sorriderle. “Stai iniziando a spaventarmi, Johnny. Non
è che vuoi qualcosa?”
disse, guardandomi di sottecchi. “Ma che! Era tanto che non
te lo dicevo. Ma se
ti infastidisce tanto non te lo dirò mai
più” dissi, fingendomi imbronciato.
“Mangia il panino, scemo” disse porgendomi il
piatto. “Domani sera ti voglio
ancora più bella” le dissi addentando il panino.
“E come mai?” mi chiese,
lavando il coltello. “Ti porto fuori a cena in uno di
ristoranti più eleganti
di Milano” dissi ridendo. Lei si voltò
immediatamente e mi guardò senza capire.
“Domani Gabriele e Leo mi pagano. E questo mese ho preso di
più del solito,
dato che gli affari ai Magazzini sono andati bene” dissi
sorridendole. Lei si
portò una mano sul viso, visibilmente orgogliosa. Mi sentii
quasi in colpa
nell’averle rifilato quella cazzata. A lei avevo raccontato
che ero stato
assunto come barman ai Magazzini, per giustificare i soldi che lo
spaccio mi
procurava. Ovviamente
le avevo detto che
la paga era di circa mille euro, che erano anche troppi per un barman
alle
prime armi. Ma ci aveva creduto e l’aveva resa orgogliosa.
“Bene, allora avrò
l’occasione di sfoggiare il vestito che tu e Chiara mi avete
comprato per il
mio compleanno” disse entusiasta. Le sorrisi ancora. Cisca mi
aveva trascinato
per negozi per trovare il regalo giusto per il compleanno di mia madre,
un paio
di mesi prima. Aveva scelto un vestito blu, semplice. Niente di che, ma
di
certo meglio del rutto che le aveva propinato mio padre alla fine della
cena. A
mia madre piaceva Cisca perché diceva che era una ragazza
fuori dal comune. La
cena del suo compleanno l’avevano preparata insieme. Fu quel
giorno che iniziai
a fantasticare su un’ipotetica storia tra me e la mia
migliore amica. “Lavori
anche stasera?” mi chiese mia madre, riportandomi alla
realtà. Annuii finendo
in un boccone quello che rimaneva del mio panino. Mi alzai da tavola e
andai in
bagno a farmi una doccia per togliermi l’odore di alcol e
canne che mi si era
attaccato addosso. Poche ore e sarei diventato fottutamente ricco.
Rimasi sotto
il getto dell’acqua mezz’ora abbondante a pensare a
cosa ne avrei fatto di
tutti quei soldi. Uscii dalla doccia e mi vestii frettolosamente.
Salutai mia
madre con un bacio sulla guancia e uscii di casa. Camminai ridendo come
un
coglione fino ad arrivare al Giglio. Il bar era aperto sette giorni su
sette.
Entrai salutando tutti, come se fossi stato un fottuto re. Vidi Peppino
e mi
avvicinai. “Stasera alle nove e mezza” disse solo.
“Fatti trovare qui davanti”
continuò. “Dammi una birra!” esultai
battendo un pugno sul bancone. Lui prese a
ridere “Questa la offre la casa, come augurio per un futuro
migliore” disse
spillando la birra nel boccale più grande. Bevvi tutto
d’un fiato, felice come
una pasqua. I soldi mi soddisfacevano più del sesso
occasionale. Ma era solo
per il fatto che per tutta la vita ero stato un poveraccio. Uscii dal
locale
sorridendo, ad occhi chiusi per sentire l’aria fresca
colpirmi in pieno volto.
Quando aprii gli occhi vidi una macchina avvicinarsi al bar. Alla guida
c’era
il ragazzo che avevo menato la sera prima. Non feci in tempo a
muovermi. Vidi
solo che mi puntava contro qualcosa, continuando a guidare. Poi un
colpo, due,
tre. Diventai un bersaglio umano. E tutte e tre le volte riuscii a
colpirmi in
pieno. Se fosse stato ad un Luna Park, gli avrebbero regalato un orso
gigante.
Accelerò e mi lasciò disteso a terra. Gola, petto
e ginocchio. L’aria si fece
più pesante. C’erano grida intorno a me, ma
sentivo solo un rantolo soffocato.
In quel momento non vidi tutta la mia vita passarmi davanti, o comunque
i punti
salienti. Vidi solo i suoi occhi. Gli occhi azzurri di Cisca.
Johnny: Club Dogo –
All’inferno
Salve a tutti!
Se siete
arrivati fino a qui,
complimenti! :D
Avevo
pubblicato, tempo fa, una
storia. Questa storia. Solo che era vista solo dal punto di vista di
Cisca. E
dato che non mi piaceva poi molto (e non piaceva nemmeno al popolo di
EFP) ho
deciso di rivisitarla. Ogni capitolo sarà raccontato da un
unico personaggio,
per raccontare le diverse esperienze, gli amori ecc.. Sono partita da
Johnny, perché
con lui ho dato voce a quasi tutti i miei personaggi, alcuni dei quali
nemmeno
vi accorgerete di aver già letto. Iniziamo con le
spiegazioni: perché Quarto Oggiaro?
Non lo so,
sinceramente. Mi sembrava il luogo adatto dove localizzare i
protagonisti. E’
definito un quartiere malfamato, pericoloso (paragonato al Bronx
americano) e
volevo rendere la storia il più reale possibile, raccontando
di un posto che
esiste, che c’è. Volevo parlare della
“mela marcia” di Milano. Poi:
cosa sono i Magazzini? I Magazzini
(in verità si chiamano Magazzini Generali) è una
discoteca di Milano, poco
frequentata dai ragazzi della Milano Bene, che preferiscono andare al
Borgo o
all’Hollywood (per intenderci, dove vanni i VIP). Esiste il Dirocco? Ah, no. Questa
è un’invenzione. Che sappia io,
non frequentando certi giri, non esiste un posto dove si possa fare la
spesa di
droghe (del tipo che vai lì, come Johnny, con una lista XD).
E’ ispirata a una storia vera? Assolutamente
no. Sono tutti personaggi inventati di sana pianta.
Mi scuso
veramente per il linguaggio
alle volte pesante e strapieno di parolacce, ma lo ripeto: ho cercato
di
rendere i miei personaggi il più realistici possibile e si
sa che quando uno ha
diciotto anni e apre la bocca, usciranno circa quindici parolacce in
una frase
di venti parole. Contate che poi parlo di mezzi tossici XD
Vediamo di
chiarirvi un po’ le idee:
l’essenza
è l’MDMA (in poche parole
è il principio attivo sintetizzato dell’ecstasy);
le cale
o il verbo calare
indicano le pasticche e quindi l’impasticcarsi; i francobolli
non sono quelli delle lettere, ma sono in sostanza degli acidi che si
leccano
(esattamente come i francobolli postali); i cartoni sono gli acidi.
Quando Johnny
parla di “partita
da 100” si riferisce a una partita di
cocaina. Ora, io non so quanto
possa costare una partita di cocaina quindi sulla parte dei soldi sono
volata
con l’immaginazione XD Stesso discorso vale con il suo
guadagno in discoteca:
non ho fatto calcoli, sono cifre approssimative e del tutto casuali
(che gli
spacciatori non me ne vogliano.. XD), ma mi sembravano passabili.
Comunque tutto
questo serve a sottolineare a quanto Johnny tenga al denaro,
perché come dice
lui non ne ha mai avuto.
Lo Schleiber
è un parco di
Quarto Oggiaro: ho scoperto della sua esistenza grazie a Wikipedia XD
Perfetto, se
c’è altro che non vi è
chiaro chiedete pure :D
Baci,
CookieKay :D