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Autore: Sylphs    07/07/2012    10 recensioni
Questa è una storia di mia invenzione che si ispira a grandi linee ad uno dei miei romanzi preferiti, "Il Fantasma dell'Opera". Irene, ragazza distratta e persa nel suo mondo, si trasferisce insieme al padre nella sperduta Heather Ville, una residenza recentemente ristrutturata a seguito di un misterioso incendio. Nel corso del suo soggiorno in quell'oscuro palazzo, si rende lentamente conto di avvertire una presenza intorno a sè che una notte, all'improvviso, decide di manifestarsi a lei...attratta dalla magia e dal romanticismo della situazione, la giovane si farà trascinare suo malgrado in una spirale di follia, di morte e di pericolo, per lei e per tutti coloro che ama. Spero che qualcuno leggerà, sarebbe importante per me!
Genere: Dark, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Amore di sangue'
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OLTRE LE APPARENZE

 
 
 
 
 
 
La sensazione di avere un livido in ogni parte del corpo, e un torpore forte, soporifero, che certamente era dato dallo choc precedente. Queste furono le emozioni che accompagnarono il rinvenimento di Irene, la quale, che al momento di perdere i sensi aveva creduto di morire, e l’aveva quasi sperato, si riprese distesa sul proprio letto, nella stanza dove prima era barricata, ben rimboccata sotto le coperte e con una pezza imbevuta d’acqua sulla fronte. Allorché aprì gli occhi e riprese a pensare, rammentò immediatamente la lotta avvenuta prima e venne presa dal terrore. Cosa le era accaduto? Come aveva risentito di quell’orribile avvenimento? Ora come ora stare distesa le offriva sollievo e non percepiva ferite gravi, ma ricordava di aver battuto la testa e intorno al naso percepiva un odore metallico. Sollevò una mano dolorante e se la portò alle narici. Quando la scrutò, vide che le dita con cui aveva toccato erano sporche di sangue. Si spaventò terribilmente e si mosse sul materasso.
“Non muoverti, è meglio” le disse dolcemente una voce raschiante che ebbe il potere di terrorizzarla ancora di più. Con un urlo strozzato girò la testa sul cuscino e vide Raphael, lo stesso Raphael che l’aveva quasi uccisa, in piedi sulla sponda del letto con un batuffolo zuppo in mano, e un’espressione di rimorso e di apprensione dipinta sul volto marcio. Si irrigidì tutta e si raggomitolò sotto le coperte: “Tu…tu sei un bruto!” lo accusò con voce fioca. Se ora era ridotta in quel modo, era solo colpa sua. Lui chinò il capo e annuì, pronto ad accettare, una buona volta, qualunque insulto: “Perdonami” disse semplicemente. Questo era veramente assurdo e Irene proruppe in una risata di scherno: “Perdonarti! Mi hai fatto cose terribili e ora mi chiedi di perdonarti! Perché non mi hai uccisa, eh? Perché non hai finito il lavoro?”
Raphael restò a testa china, forse per la vergogna, o per evitarle il dispiacere di vederlo, o per tutte e due le cose: “Tu hai provato a scappare”.
“E con questo?! Era naturale che lo facessi!”
“Perdonami” ripeté lui, implorante: “Non volevo. Io non ti farei mai del male. Io ti amo”.
“No, tu non mi ami affatto!” urlò lei che s’era prontamente ripresa: “Oltre che un mostro, Raphael, sei completamente pazzo! Sono finita nelle mani di un pazzo psicopatico! Hai gli sbalzi d’umore! Una volta sei gentile e mi inviti a ballare, un’altra mi sbatti a terra e quasi mi soffochi! Io non posso vivere così! Prima o poi, oh, sì, prima o poi perderai del tutto il controllo e mi ammazzerai davvero!” si mise a sedere e fece per alzarsi dal letto e andare in qualunque posto, ma lontano da lui. Quando la vide che si rizzava Raphael spalancò gli occhi e le corse incontro: “No! Sta ferma! Ti sentirai peggio!” le giunse accanto e con delicatezza la prese per le spalle, aiutandola a ristendersi. Irene rabbrividì al contatto con quelle mani, ma era troppo debole per opporre resistenza e lasciò che la rimettesse a letto e che le risistemasse le coperte, con una cura, un’amorevolezza assai peggiori a sopportarsi della brutalità di poco prima.
Raphael le tamponò il naso che perdeva sangue col batuffolo, benché lei si torcesse invano tentando di sfuggirgli, poi le accarezzò i capelli: “Povera Irene…”
“Non toccarmi” sibilò lei. Stavolta non avrebbe sopportato il suo momento d’amore. Non con la consapevolezza che ce ne sarebbero stati altri di follia. Raphael fece la sua solita smorfia addolorata e, di colpo, gli occhi gli si riempirono di lacrime. Era la prima volta che lo vedeva piangere. Grosse gocce d’acqua colavano dalle iridi incolori e solcavano le guance putrefatte, rigandole: “Perdonami” singhiozzò lui. Le appoggiò pesantemente la testa in grembo e la fanciulla sussultò, quando sentì quella cosa pesante e malfatta che le premeva sul ventre.
“Io sono fatto così” sussurrò Raphael, la voce che giungeva soffocata dal grembo di Irene: “Mi sto sforzando di cambiare, con tutto me stesso, e ti giuro, Irene, ti giuro, sono molto diverso dall’uomo che ero prima che tu arrivassi qui. Ma…ma non riesco ancora a cambiare del tutto. Quando ti ho vista a quella finestra non ci ho visto più…oh, ma sono riuscito a fermarmi in tempo, ci sono riuscito! Solo tre mesi fa sarebbe stato impossibile. Sei tu che mi stai cambiando. Se solo mi amassi, poi, sarei un’altra persona del tutto! Mi ami?” sollevò il capo e la guardò fissamente per diversi istanti. Tutta la faccia gli si contrasse: “No, non mi ami! È così orribile, così orribile a sopportarsi, lo sai? Prima di amarti, stavo così bene!”
“E io!” commentò lei con un’inflessione disperata.
“No, lasciami finire. Odiavo tutti, non provavo rimorsi, ero fatto di pura malvagità, perché così mi aveva reso mio padre. Ma ora, Irene! Ora vorrei solo essere l’uomo che tu vuoi. Io desidero solo la tua felicità”.
“E allora lasciami andare!”
Lui parve infastidito, come se fosse costretto ad ascoltare l’ennesima volta parole buttate al vento. Le ignorò: “Davvero, mio tesoro, io voglio solo il tuo bene. La tua felicità è la mia e ogni tuo sorriso è una perla rara e magnifica. Oggi ho perso il controllo, ma non succederà più. Non alzerò mai più le mani su di te. Eh? Oh, mi amerai, Irene, ne sono sicuro. Prima nemmeno sopportavi la mia vista, mentre adesso lasci che ti stia così vicino e non distogli lo sguardo da me. Il tempo fa miracoli! Presto, vedrai, andrai oltre le apparenze e mi amerai come mi amavi prima”.
Irene si stupiva di tanta sicurezza. Con un volto simile, lei non avrebbe mai affermato certe sciocchezze ad alta voce e con quel tono risoluto. Ma forse lo faceva per convincere anche se stesso, per rassicurarsi e darsi una giustificazione di tenerla prigioniera. Essere divenuta la sua ossessione non le aveva portato altro che guai, e non poteva negare di avere svolto, lei stessa, una parte determinante in tutta la faccenda. Non solo non l’aveva denunciato quando aveva preso a parlarle nella notte, ma gli aveva giurato eterno amore e aveva detto di sì alla sua proposta di matrimonio. Certo, non l’aveva ancora visto in faccia, né aveva assistito a quello che era capace di fare, ma non poteva dire d’essere stata ipnotizzata, né incantata, né soggiogata: aveva fatto tutto da sola. S’era messa da sola le fette di prosciutto sugli occhi. La realtà era ben difficile da accettare, adesso.
E su una cosa Raphael aveva ragione: s’era un poco abituata alla sua vista. Guardarlo le provocava sempre un forte senso di repulsione, ma perlomeno non provava la voglia impellente di scappare o di distogliere lo sguardo. Quel volto, per ributtante che fosse, le era ormai familiare. Osservare quella bocca ghignante e rovinata, quel naso a fessura, quella pelle violacea era un’esperienza sgradevole, ma sopportabile. Ma questo certo non l’avrebbe portata ad amarlo, nemmeno tra cent’anni.
“Irene” riprese Raphael dopo un poco. Aveva cessato di piangere e s’era asciugato le lacrime bruscamente. Le prese le mani, benché lei le tenesse rigide e tentasse di ritrarle, e le strinse: “La felicità ce la costruiamo da soli. Finché tu ti convincerai d’essere infelice, sarai infelice. Se invece impari ad apprezzarmi, a vedermi come mi vedevi prima, subito cambierà tutto. Tornerà tutto come prima! Se solo usassi la tua immaginazione, e vedessi oltre le apparenze, io tornerei bellissimo, e Heather Ville si riempirebbe di luce”.
“Sono stanca degli inganni” replicò lei. Raphael le rivolse il suo sorriso storto: “Quali inganni? Se tu lo vuoi, sarà tutto vero. Vero per noi. Ricordi quanto adoravi Heather Ville? Quanto amavi esplorarla e contemplarne le meraviglie? Quanto ti piacesse viverci dentro, al sicuro dalle dicerie della gente della tua città? Ricordi con quanta ansia aspettavi la notte per potermi parlare, quanto conforto ricavavi dalla mia voce? Ricordi nel salone da ballo all’ultimo piano, quella sera, quando danzammo insieme e io ti baciai? Tu avevi gli occhi chiusi e ricambiasti il bacio. Ricordi tutto questo?”
La ragazza venne percorsa da un brivido. Ricordava. D’improvviso ricordava tutto con estrema chiarezza. Ricordava quelle sensazioni, quel sentirsi stregata, avvinta da Heather Ville e dal suo proprietario senza volto, e soprattutto ricordava quella particolare sera, come se la stesse rivivendo. Ricordava la cena, il vino che lui le aveva versato tre o quattro volte, la scala buia, il salone, le candele, quel ballo folle e scatenato, e infine il bacio. Allora le era piaciuto. S’era abbandonata estatica tra le braccia di lui e aveva gioito di essere la sua promessa sposa. Lo immaginava bellissimo e tenebroso sotto al drappo che gli nascondeva il viso, e le sembrava di non poter desiderare di più. Era come…ubriaca.
“Quei tempi possono tornare” sussurrò lui, persuasivo. Con gesto timido le scostò una ciocca di capelli dalla fronte, e stavolta lei non si ritrasse, anzi, lo lasciò fare docilmente: “Dipende tutto da te. Se andrai oltre le apparenze, tutto questo, tutto ciò che è accaduto da quando entrasti nella stanza della fornace, svanirà. Ricominceremo da dove eravamo rimasti. Saremo io e te, R e Irene. Per sempre”.
Nuovamente Irene fu scossa da un fremito. Perché aveva provato, sì, aveva provato una fitta di desiderio. Improvvisamente, voleva che le cose tornassero come prima. Certo, era ancora abbastanza lucida da avere di fronte quell’orrenda maschera demoniaca, ma un angolo recondito della sua mente, invece, le suggeriva di ascoltarlo e di dargli retta. Non aveva forse, un tempo, adorato il suono della sua voce, non s’era lasciata ammaliare dall’ampollosità delle sue parole, dal suo tono suadente? Non era forse andata contro tutto e tutti, pur di obbedire ai suoi desideri? Aveva sloggiato Tommaso in modo anche piuttosto villano, aveva ignorato suo padre, e, soprattutto, aveva rifiutato Stephan dimostrando un’assoluta mancanza di tatto. E tutto questo senza la minima esitazione. Probabilmente allora era convinta che ne valesse davvero la pena.
“Sì!” esclamò Raphael trionfante, vedendo che lei era dubbiosa: “Sì, Irene! Tornerà tutto come prima! Saremo così felici! Tu sarai la padrona di Heather Ville, ogni tuo desiderio sarà un ordine, e ti farò vivere tutto il mistero e l’avventura che brami!”
Oh, sì, giusto. Lei amava il mistero. Amava la varietà e la vita piena di sorprese e di rischi. Parigi…cosa c’era di rischioso a Parigi? E in Stephan, cosa c’era di rischioso in Stephan? Era così prevedibile, anche nel suo modo di amarla. L’aveva baciata una sola volta, e per tutto il tempo che era rimasta da lui, in preda al terrore, l’aveva lasciata chiusa in casa e tutto il tempo se ne era andato in giro cercando i biglietti per il volo. Aveva sempre anteposto il dovere, il darsi da fare, ai sentimenti di lei. Ogni volta che lei aveva avuto qualche problema, che era rimasta chiusa in se stessa, non aveva mai notato nulla, perso com’era in quel suo mondo fatto di piccole cose abitudinarie, e del lavoro di meccanico cui, in fondo, aveva dedicato la vita. Checché ne dicesse, sarebbe sempre stata seconda al lavoro. L’avrebbe lasciata sola, per correre dietro ai suoi numerosi impegni. Non era stata che il pretesto per mettersi a lavorare sodo. Stephan era troppo innamorato del suo lavoro per custodire nel cuore un affetto che gli fosse alla pari.
“No! Cosa sto pensando?!” si chiese inorridita: “Non posso lasciarmi incantare di nuovo! Devo ricordare il corpo di Tommaso…il volto di Raphael…quello che mi ha fatto solo poche ore fa!”
Raphael si alzò in piedi e le porse la mano: “Vieni con me, Irene. Ricominceremo tutto da capo. Basta solo che tu vada oltre le apparenze. Dimenticheremo tutte le cose orribili che sono accadute e torneremo ad essere quelli di prima”.
Lei esitò. Cosa poteva fare? Cosa le diceva il cuore? La testa le gridava una cosa, il cuore un’altra. A chi doveva dare ascolto? Ma in fondo, perché non seguirlo? Tanto era ormai condannata a rimanere prigioniera lì per il resto della vita, passarla struggendosi e piangendo sarebbe stata, alla fin fine, una completa stupidaggine. Forse, per una volta, doveva andare al di là di quello che vedeva. Indugiante, allungò la mano tremante e la posò appena su quella di lui. Raphael sorrise trionfante e la tirò in piedi, e Irene si lasciò tirare, ancora dubbiosa.
Raphael la condusse per mano fuori dalla stanza da letto ed entrambi si immersero nel buio misterioso di Heather Ville. Lui, con un mezzo sorriso dipinto sul viso decomposto, prese da un ripiano un grosso candelabro acceso e con quello fece luce. Irene, che veniva letteralmente trascinata, si guardava intorno, timorosa, e le sembrava, sì, le sembrava di ritrovare un certo fascino in quelle stanze tenebrose e in quell’aria di morte. Heather Ville non le era stata mai ostile, anzi, l’aveva accolta sempre di buon grado, non le aveva mai riservato brutte sorprese. Stephan, solo la prima e unica volta che vi era stato, s’era squarciato la mano su uno spigolo, a lei non era mai successo nulla di simile. Se le capitava di scivolare, c’era sempre un mobile provvidenziale cui appoggiarsi, se non trovava qualcosa, eccola che cadeva come apposta e le si rivelava, se si imbatteva in qualche insetto, ecco che quello variava bruscamente direzione. Heather Ville era sua alleata, lo era sempre stata, e se ne rendeva conto solo adesso.
E in quell’oscurità, Raphael era meno rivoltante del solito, anzi, era persino sopportabile. Non le dava fastidio avere la mano nella sua, anzi, in qualche modo la confortava. Lui la portò alla porticina rimpiattata che conduceva al salone da ballo e la aprì, rivelando la ripida scala a chiocciola. Irene batté le palpebre, e le parve di essere tornata nel passato, di avere avuto un dejà vu. Come la prima volta, Raphael si mise dietro di lei e le prese i polsi, sorreggendola: “Non avere paura” le sussurrò all’orecchio, e davvero lei non poteva dire chi le stesse parlando, il se stesso coperto di allora, o quello scoperto di adesso: “Ci sono io”.
La spinse lievemente e le venne istintivo salire il primo gradino. Si muoveva come in trance, sospesa tra passato e presente, piena di dubbi e di desiderio, mentre saliva la scala a chiocciola e si avvicinava sempre più al luogo cui portava. Allorché sbucarono nel salone da ballo, Irene fu leggermente delusa: non era nient’altro che uno stanzone disadorno, lurido, buio, illuminato dalla luce funerea delle grosse candele, con un sinistro organo in un angolo.
Raphael parve leggerle nel pensiero: “Non è questo che stai vedendo. Guarda oltre le apparenze, Irene! Sono certo che ci riesci!” si mise al centro del salone e nuovamente le porse la mano: “Balliamo?”
Ancora una volta lei esitò. Non vedeva altro che un misero tugurio, e una specie di mostro. Cosa c’era da vedere? Però, se lo diceva lui…accettò la mano che le tendeva e subito lui l’attirò a sé, circondandola con le braccia. La ragazza rabbrividì allorché si vide stretta a quell’essere ripugnante, col volto a pochi centimetri dal suo. Raphael si chinò e con le labbra secche le sfiorò l’orecchio: “Non ci stai mettendo impegno. Guarda oltre le apparenze!”
Al che la fece girare su se stessa con un deciso moto della mano e Irene, frastornata, confusa, ruotò e alla fine si ritrovò di nuovo a fissarlo. Lui le sorrise, la prese una seconda volta tra le braccia e si lanciò in un ballo audace e scatenato. Si spostavano da una parte all’altra del polveroso salone, e faceva quasi tutto lui: da parte sua, la fanciulla più che altro si faceva trascinare e non opponeva resistenza, prigioniera tra le sue braccia. Se lui voleva che ruotasse su se stessa, ruotava, se la sollevava da terra e la faceva volteggiare, lo lasciava fare, era completamente inerte. Continuava a vedere lo scenario misero di prima, anche se era confuso a causa della velocità con cui ballavano. Il grammofono si era azionato senza bisogno di essere sistemato ed ora i grossi dischi si spostavano sul piatto e diffondevano ovunque una musica movimentata, forse Beethoven, o Mozart, non sapeva.
Raphael, tutto preso dall’atmosfera, con una giravolta la mandò giù e la resse in una sorta di prolungato casquet. Ora erano vicinissimi. Le rivolse un sorriso ambiguo e si chinò su di lei, ma Irene, d’impulso, gli mise una mano sulla bocca, bloccandolo. Lui parve deluso: “Guarda oltre le apparenze!” le intimò, stavolta col suo tipico tono di comando. Si raddrizzò e se la riallacciò tra le braccia, riprendendo a ballare.
E, improvvisamente, funzionò. Riuscì di nuovo a vedere “oltre le apparenze”. Le bastò desiderare che tutto questo cambiasse, e cambiò. Quando riaprì gli occhi, che aveva chiuso, restò a bocca spalancata: il desolante salone da ballo di prima s’era tramutato in una sala magnifica, dall’alto soffitto affrescato magnificamente, da cui pendeva un enorme lampadario pieno di candele accese, le pareti scintillavano dell’oro più puro, il pavimento era di lucido marmo bianco, e l’oscurità si era trasformata in un vago chiarore dorato.
Raphael non era più l’orribile mostro che aveva popolato i suoi incubi per tutto quel tempo, non era neanche il misterioso uomo coperto dal drappo nero delle prime settimane. Era un giovane alto, distinto e bellissimo, con il viso di un angelo, incorniciato da lucenti capelli neri, dai lineamenti così dolci e innocenti che sembrava un bambino. Le sorrideva, trionfante, e quel sorriso gli illuminava gli occhi chiari e profondi. Irene lo fissò, incantata e stupefatta. Era il principe tenebroso che aveva desiderato ardentemente tempo prima: era proprio lui! Era bello come un angelo, un angelo della notte. Sentì tornare prepotentemente tutto l’amore per lui, stavolta assai più forte.
Sorrise, trasognata, e anche lui sorrise. Le accarezzò i capelli e lei levò gli occhi al soffitto, percorsa da un fremito: “Sapevo che ci saresti riuscita” le bisbigliò. Quando ripresero a ballare, lo fecero entrambi, e con l’eguale foga. Irene, dentro quel salone scintillante, tra le braccia dell’uomo bellissimo che la amava, era ormai del tutto soggiogata, e si chiedeva come aveva potuto non desiderare questo. Tutto ciò che voleva adesso era di essere la sua sposa. Si muoveva con lui, erano una cosa sola, volteggiavano euforici sul pavimento di marmo, intrecciando le mani e i corpi in una forte stretta. Era fusa con lui, per sempre e sempre ancora, tutto il resto aveva perso importanza, era scomparso. C’erano solo loro due e quel salone.
Quando Raphael, il nuovo, splendido, angelico Raphael la mandò giù nuovamente, Irene era incantata. Le sorrise, ancora una volta si chinò lentamente su di lei, ma stavolta lei era pronta ad accogliere il suo bacio, anzi, non desiderava altro che questo. Che le loro labbra si incontrassero. Se lui l’avesse baciata ora, sarebbe stata sua per sempre, e quello che adesso vedeva non se ne sarebbe mai andato. Gli bastava avvicinarsi solo tanto così, e l’avrebbe avuta per sé. Avvicinò il viso al suo e la ragazza rimase ferma, aspettando che la baciasse, pronta a riceverlo. Ormai gli era così vicina che avrebbe potuto contargli le ciglia. Socchiuse le labbra e lui chiuse gli occhi. Era fatta…
Ma in quell’istante, in quello stesso, preciso istante che le loro labbra erano ad appena qualche millimetro di distanza, due piani in basso qualcuno riuscì a forzare il portone ed entrò come una furia in sala da pranzo, urlando, con voce angosciata: “Irene!”
Questo spezzò l’incanto, come uno spillone avrebbe fatto esplodere un palloncino teso al massimo. La ragazza sussultò, spalancò gli occhi e improvvisamente il sogno che la circondava svanì, riportandola nella cruda realtà: un cupo salone semibuio e pieno di sudiciume. Quello chino su di lei era il rivoltante scarto di natura di prima. Si scostò brutalmente da lui, lo spinse via e si voltò verso la porta, terribilmente agitata, invocando il nome dell’unica cosa che in quel momento per lei contava: “Stephan!”
“Irene!” ripeté la voce del ragazzo da basso. Era venuto a prenderla! Era venuto a salvarla! Immediatamente lasciò Raphael lì e corse fuori dal salone da ballo continuando a ripetere, piangendo di commozione: “Stephan! Stephan!”
Raphael rimase immobile in mezzo alla sala disadorna, annichilito, con un’espressione assente sul viso. Ci era andato così vicino…gli sarebbe bastato tanto così per realizzare l’unico sogno che si era concesso, ed avere Irene al suo fianco. E invece il giovane era venuto giusto in tempo per rovinare tutto, per lasciarlo solo, disprezzato, sofferente. Senza amore. Era troppo. Troppo perfino per uno come lui, che ne aveva incassate tante, e anche toste. In tutta la vita non aveva fatto altro che incassare e rimanere impassibile. Ma questo colpo era troppo violento, troppo ingrato perché sopportasse a sangue freddo. In petto gli crebbe un odio feroce e senza confini, un odio d’animale che si diresse immediatamente verso il giovane che gli aveva portato via l’unica cosa a cui voleva bene, riempiendogli il cervello di sangue. Aveva voglia di uccidere. Una voglia matta di uccidere. Girò gli occhi iniettati di sangue all’uscio, udì le voci commosse e felici dei due giovani che si ricongiungevano, e perse definitivamente la testa. Era stato un colpo troppo inaspettato, troppo tremendo.
“Bene” sibilò con voce minacciosamente calma e stanca, estraendo dalla giubba il suo piccolo pugnale d’argento e brandendolo alto nell’aria: “Se io non posso averla, allora nessuno l’avrà. Li ucciderò entrambi. Sarà la mia sposa…la mia sposa morta!”
 
Irene si fece i gradini a due a due, piena di sollievo e di gioia, con le lacrime che le rigavano il viso illuminato da un sorriso radioso, e mentre correva lesta verso la sala da pranzo al pianterreno, chiamava a squarciagola il nome del suo salvatore. Oramai era libera, Stephan era arrivato, non c’era più nulla da temere. Il cuore le scoppiava di felicità, in quel momento non pensava ad altro che a lui.
Lo avvistò mentre scendeva a precipizio la scalinata che portava alla sala da pranzo. Stava salendo le scale a sua volta, e non meno frenetico di lei, bello, coraggioso, dimesso, con pesanti occhiaie, un colorito pallido e i capelli nocciola arruffati, ma era lui, Stephan, il goffo, volenteroso, abitudinario Stephan, e Irene capì definitivamente, senza ombra di dubbio, che era lui il suo vero amore, e che voleva sposarlo, ed essere sua moglie, sopra ogni altra cosa. Fosse arrivato solo un minuto dopo l’avrebbe perduta per sempre. Invece si erano ritrovati. Finalmente le aveva dimostrato che la considerava al di sopra della sua razionalità, del suo lavoro: per la prima volta nella sua vita Stephan aveva dato retta al suo istinto, era partito senza la minima certezza, mosso solo dal suo amore, e aveva messo a repentaglio la propria vita per salvarla. Irene non aveva fatto altro che sottovalutarlo, ma adesso avrebbe rimesso a posto le cose, una volta per tutte.
“Stephan!” gridò, buttandogli con impeto le braccia al collo. Stephan la strinse a sé con tutta la forza che aveva e le accarezzò più e più volte i capelli, ridendo e piangendo insieme: “Irene…Irene…” erano entrambi al culmine della felicità, i loro occhi erano gonfi di lacrime, ma le loro labbra sorridevano, di commozione, sollievo e gioia pura, lui di averla ritrovata viva, lei di essere stata salvata. Stephan la sollevò da terra per la vita e la fece volteggiare, e Irene affondò il viso nella sua nuca, aspirando beata il suo odore familiare di muschio, sudore e del vapore delle macchine con cui faceva i conti tutti i giorni. Stephan era caldo, rassicurante, sempre uguale, sempre buono, e gentile. La sua normalità, che prima l’aveva allontanata, ora l’attraeva profondamente.
“Stai bene? Cosa ti ha fatto?” singhiozzò lui accorato, tenendola ancora abbracciata come se non riuscisse a separarsene. Irene sorrise tra le lacrime: “Sto bene, non preoccuparti. Oh, Stephan, tu…tu sei venuto! Credevo che questa volta ti fossi stancato di salvarmi la vita dopo che commetto una delle mie solite sciocchezze!”
Stephan rise: “Io non mi stancherò mai di salvarti, Irene. Anche se dubito di poter pretendere di dirti di restare in salvo, di tanto in tanto”.
“Sono fatta così” lo rimbeccò lei giocosa. Era così bello e normale scherzare di nuovo insieme, come una volta, quando tutto questo non era mai esistito: “Se mi vuoi, devi prenderti tutto il pacchetto, bello mio!”
“Allora mi prenderò tutto il pacchetto” le disse lui all’orecchio. Irene restò tra le sue braccia, felice e innamorata, col suo anello che le brillava all’anulare, la cosa più preziosa che avesse mai posseduto, e lui tra le braccia, la persona più cara che avesse mai avuto. Era tutto perfetto, finalmente, tutto perfetto.
Ma in quell’istante di pura perfezione, allorché aprì gli occhi e guardò da sopra la spalla del giovane, vide qualcosa che le gelò il sangue, la pietrificò e la precipitò nel più nero e soffocante degli inferni. Spalancò gli occhi, di colpo di nuovo pallida e terrorizzata, e vacillò, sentendosi mancare. Stephan se ne accorse, e, perplesso, si girò dalla parte dove lei stava guardando: “Ma cosa…”
Raphael veniva verso di loro, scendendo con passo greve e pesante la scalinata di legno, il pugnale d’argento alto nell’aria, impugnato da una presa salda, e il suo orrendo viso era completamente stravolto dalla follia, ogni minima increspatura disgustosa di quei lineamenti era contratta, i denti marci erano digrignati, e gli occhi pallidi gettavano bagliori infuocati come se sputassero fuoco. Era l’immagine stessa della follia, non c’era più traccia di gentilezza in lui, e si capiva, da ogni suo insignificante gesto, che era intenzionato a farli a pezzi tutti e due, con sadismo.
A quella vista terrificante Stephan perse il poco colore che gli restava, mentre Irene, terrorizzata, compì qualche passo indietro, si premette una mano sulla bocca e cacciò un urlo disperato, un urlo che invocava l’aiuto di Dio e di chiunque fosse disposto ad ascoltarlo in quel momento, l’urlo di una persona che sa di stare per morire, e non può rassegnarsene. Stephan la spinse immediatamente dietro di sé e lei si rifugiò dietro la sua schiena, senza più aria nemmeno per gridare. Il giovane le bisbigliò, con la voce malferma per la paura: “Stai indietro”.
Poi si rivolse, con coraggio ammirevole, al mostro folle e minaccioso che avanzava verso di loro: “Cosa vuoi ancora?! Lasciaci in pace!” si guardò intorno alla ricerca di una qualsiasi arma, ma non trovò nulla. Per tutta risposta, Raphael scosse la testa, con un fare quasi dolente, come se si considerasse un grave giustiziere venuto a fare qualcosa di spiacevole ma necessario: “Sono venuto a fare giustizia” con quale stanca calma pronunciava quelle parole, che si contrapponeva fortemente all’espressione che aveva in viso: “A te ti getterò nella fornace come meriti, ragazzo. Poi io e la mia sposa morta celebreremo il nostro matrimonio. Non temere, Irene, ti costruirò una bara davvero magnifica, un talamo nuziale come non si è mai visto! Da morta sarai ancora più bella, e poi, assai più bendisposta! Potrò accarezzarti e baciarti quanto vorrò, e tu mi lascerai fare da brava mogliettina, senza più strillare e lamentarti stupidamente”.
Irene urlò di nuovo, ancora più forte di prima. Stephan le strinse più forte il braccio, col cuore che gli batteva come un tamburo: “Ti prego” sussurrò: “Non ti abbiamo fatto alcun male. Lasciaci andare”.
“Lasciarvi andare?” si stupì Raphael: “Oh, no, no, non puoi venirtene fuori così dopo aver rovinato tutto. Ora è arrivato il momento che vi ammazzo. Vedo che avete paura. Oh, ma sarò rapido, non sentirete nulla. Non potrei mai fare del male alla mia sposa morta!”
Detto questo, stanco di quelle chiacchiere, il mostro si gettò verso di loro con un ringhio furioso e levò alto il pugnale, pronto a fare quanto promesso. Stephan, con una rapidità di riflessi pronta e reattiva, spinse una terrorizzata Irene di lato e lei cadde poco più in là, poi si buttò e rotolò lontano dalla traiettoria della prima pugnalata, che fendette l’aria dove prima erano loro due. Raphael fece una piccola smorfia di fastidio e si girò verso di loro: “Volete giocare? E va bene, giochiamo allora. Temporeggiare non vi salverà. Siete nel mio territorio, nella mia cara, fedele Heather Ville, e Heather Ville è dalla mia parte!”
Stephan digrignò i denti e afferrò Irene, che tremava ed emetteva rapidi e asmatici gemiti terrorizzati, tentando di rimetterla in piedi: “Presto, amore, alzati!”
Lei scosse la testa, piangendo. Aveva le gambe paralizzate dalla paura, era troppo scioccata per reagire. Stephan diede un’occhiata piena di panico a Raphael che tornava alla carica: “Irene, fallo per me!” gemette. La sollevò in piedi per le ascelle e stavolta lei, mezza morta, riuscì a reggersi in piedi. Il giovane le accarezzò il viso: “Brava, brava”.
Allorché il mostro vibrò un secondo colpo, Stephan scartò di lato agilmente, trascinando con sé un’inerte Irene, e lo mandò di nuovo a vuoto. Gli occhi ceruleo opaco di Raphael sprizzarono scintille.
“Scappiamo!” gridò Stephan. Sapeva che restare lì a schivare colpi era inutile, alla fine sarebbero stati uccisi entrambi. Dovevano tentare di guadagnare il portone spalancato. Prese Irene per la vita, si mise a correre e stavolta lei, che forse era stata scossa dal torpore causato dallo shock, corse con lui, mentre Raphael, dietro di loro, li inseguiva tranquillo, non particolarmente preoccupato della loro fuga. Infatti, quando i nostri due poveri giovani erano a pochi passi dal portone, quello, con un fragore infernale, si richiuse di colpo, imprigionandoli. Stephan mandò un grido di rabbia: “No!” batté i pugni contro il portone sbarrato, mentre Irene, accanto a lui, piangeva e scuoteva ossessivamente la testa, e ripeteva a fior di labbra: “È tutto inutile, tutto inutile…” 
“Vedo che le mosche si dibattono nella ragnatela” ghignò Raphael, divertito dai loro sforzi disperati di resistere.
A sorpresa estrasse da uno stivale un secondo pugnale, questa volta di avorio, e con un movimento abile e preciso lo tirò in direzione di Irene. La ragazza rimase ferma mentre le volava incontro fendendo l’aria con un sibilo letale, troppo sconvolta per reagire. Stephan ancora una volta urlò: “No!” e la buttò a terra con uno spintone che la mandò lunga distesa. La lama si piantò nel portone, dove rimase a vibrare sempre più lentamente. Se il ragazzo non avesse gettato a terra Irene, quell’arma le avrebbe trafitto la gola.
Raphael si fece avanti con un sogghigno terrificante sul volto di demone, brandendo il pugnale con entrambe le mani, e per la terza volta optò per un attacco corpo a corpo. Stephan, stavolta, non rimase inerte a subire. Ruotò su se stesso, evitò la lama e con uno sgambetto fece cadere il mostro. Mentre quello si affannava per rimettersi in piedi, sibilando maledizioni, il giovane si rivolse terrorizzato a Irene: “Scappa ai piani superiori, presto! Lo trattengo io!”
La fanciulla lo fissò con gli occhi sgranati: “Cosa?”
“Scappa, Irene! Subito!” le mise fretta Stephan. Lei però non si mosse: “Non posso lasciarti qui…”
“Merda, fa quello che ti ho detto! Me la caverò!” esplose il ragazzo al culmine dell’ansia. C’era un tal terrore nei suoi occhi castani, e aveva gridato l’imprecazione con una tal veemenza, che Irene subito gli ubbidì, e scoccandogli un ultimo sguardo disperato si mise a correre in direzione delle scale. Raphael, accorgendosene, urlò: “Non mi sfuggirai, Irene! Stanne certa! Conosco Heather Ville come le mie tasche, è inutile che ti nascondi!”
Irene emise un singhiozzo e cominciò a salire i gradini a due a due, incespicando e inciampando, dolorante, terrorizzata, sfinita, senza speranze, torturata dal pensiero di Stephan che affrontava Raphael al piano di sotto per darle il tempo di nascondersi. Ma dove avrebbe potuto nascondersi? Il mostro aveva ragione, non aveva scampo.
A meno che…mentre attraversava una delle tante camere oscure, si fermò di colpo e fissò l’enorme grata nera nel muro, che portava al nascondiglio di Raphael. Fu presa dall’orrore. No! Mai! Però…voleva vivere, voleva salvarsi, lo voleva talmente che non era più portata a farsi scrupoli di sorta. Stephan le avrebbe detto di farlo, se fosse stato lì. L’avrebbe fatto per lui. Si accostò al buco e si issò nel muro. Oltre il punto in cui era lei, accovacciata a gattoni, si diramava un buio totale, pervaso da un odore pungente di muffa e di morte. Rabbrividì. Ma ulteriori rumori di lotta al piano di sotto la convinsero ad infilarsi in quel cunicolo stretto e soffocante, premuta sopra, sotto e ai lati contro la pietra nuda e fredda, espirando e inspirando velocemente per assimilare la poca aria che circolava.
Non vedeva niente, strisciava orientandosi a caso, tastando il cunicolo in cui era schiacciata per vedere se eventualmente portava a un vicolo cieco o c’era qualche spigolo. Era liscio e umido, in alcuni punti sporco di una roba verdastra che sembravano piante notturne appassite. Le veniva da vomitare. Non respirava quasi. Il cunicolo ad un certo punto faceva una brusca curva, che la ragazza prese a fatica, spingendosi avanti coi gomiti e con le gambe rannicchiate. L’oscurità si rischiarò leggermente: c’era un altro buco che dava sull’esterno. Irene respirò aria più pura e sbirciò fuori: era sbucata nel bagno. Lo vedeva chiaramente, aveva una visuale perfetta dell’ambiente. Si soffermò qualche attimo, poi riprese a strisciare e anche quella debole luce svanì.
“Ma dove credo di andare?” si chiese sconsolata: “Resterò qui a strisciare mentre Stephan muore per me?”
Prese altre due curve, senza sapere dove stava andando, divorata dall’angoscia. Perché le era capitato questo? Lei era solo una ragazza che aveva fatto l’errore di amare troppo il mistero. Non avrebbe mai voluto arrivare a tanto. Non avrebbe mai voluto finire intrappolata in una casa ostile col ragazzo che amava e un mostro intenzionato a ucciderli. Era troppo irreale per essere vero. Persino adesso stentava a crederci. Come era potuto accadere? Come aveva potuto lasciare che accadesse?
Improvvisamente, mentre ancora strisciava goffamente nel cunicolo, la voce raschiante e lievemente affaticata di Raphael la pietrificò dov’era: “Irene?” domandò, da un punto molto vicino al muro dov’era lei, con un tono divertito e folle: “Dove sei, amore mio? So che sei qui intorno! Ora ti trovo, ora ti trovo! Vogliamo giocare a nascondino?”
Come diavolo aveva fatto ad arrivare così in fretta?! Cosa ne aveva fatto di Stephan?! Irene, in preda al terrore, si premette una mano sulla bocca per impedirsi di mettersi a urlare il nome del ragazzo, immobilizzata in mezzo al cunicolo buio e umido, senza osare pensare all’ipotesi che il mostro la scovasse. Doveva essere cauta, restare immobile e non farsi sentire, Stephan poteva essere ancora vivo, non tutto era perduto, se si tradiva in qualsiasi modo, anche con un respiro troppo rumoroso, avrebbe rovinato tutto. I suoi occhi spalancati e ciechi guizzarono al muro di sinistra da cui aveva sentito provenire la voce del mostro.
Lo udì aggirarsi lentamente fuori dal muro, compiere diversi giri su se stesso: “Vuoi giocare a nascondino, allora” disse malefico: “Benissimo, allora giocheremo a nascondino. Vediamo…sei sotto al divano?” la poverina, pietrificata nel cunicolo, con la mano sulla bocca, lo sentì chinarsi a controllare: “No, non sei sotto al divano. Forse…dietro la tenda?” un fruscio sinistro: “Neanche qui! Su, dammi un indizio, cara! Ti devi essere nascosta proprio bene, per darmi tutto questo filo da torcere. Non ti sarai mica chiusa nell’armadio?” il cigolio di un’anta aperta: “Un’altra volta acqua! Povero me, non vuoi proprio lasciarti trovare, eh? Ma non mi arrendo”.
“Che la buona sorte mi protegga” pensò Irene disperata e piangente, rannicchiata nel suo nascondiglio. Le sembrava già di vedere Raphael che la trovava e la trascinava fuori dal muro per la caviglia. E continuava ad essere angosciata per Stephan. Dov’era finito? Se fosse stato incolume certo non l’avrebbe lasciata in balia di quel pazzo. Se gli fosse successo qualcosa, non se lo sarebbe mai perdonato. Era stata lei a cacciarli in quella situazione.
“Uhm, forse sei da qualche altra parte” capitolò Raphael dopo aver accuratamente controllato la stanza su cui dava il cunicolo. Nel cuore di Irene si aprì una finestrella speranzosa. E infatti lo sentì uscire, e allontanarsi per il corridoio, e sorrise. L’aveva proprio scampata bella! Ora sarebbe andata a cercare Stephan mentre Raphael la cercava al piano di sopra, e in un modo o nell’altro sarebbero fuggiti. Rianimata da quella fortuna inaspettata, la ragazza ricominciò a strisciare in avanti, più velocemente che le riusciva, con un mezzo sorriso sulle labbra, e un coraggio improvviso.
Di colpo si trovò l’orrenda faccia ghignante di Raphael proprio davanti, e il mostro che la contemplava trionfante accucciato nel suo stesso cunicolo, davanti a lei. Le prese un tale colpo che non si trattenne più e urlò con tutta la potenza che aveva. Era spacciata. Sarebbe morta. Mentre urlava come un’ossessa e scalciava in quella stretta oscurità, Raphael allungò la mano adunca e gliela premette sulla bocca: “Trovata!”
“No! No! No!” mugolò la poverina da sotto la mano dell’aggressore, con gli occhi roteanti di terrore. Era obnubilata dalla paura, priva ormai di qualsiasi volontà. Raphael l’afferrò per i capelli lunghi, scompigliati, e la trascinò urlante e scalciante fuori dal cunicolo, strisciandovi con assai maggiore agilità di lei, come se fosse nato in quel posto. Allorché giunsero ad una cavità che dava su un ampio salottino, il mostro ne scivolò fuori e trasse a sé la povera Irene, le cui pupille furono morse dalla luce improvvisa come da una lama. Continuava a urlare, a scalciare furiosamente, ed era convinta di non aver mai provato un simile senso di soffocamento, neanche la prima volta che lui l’aveva aggredita.
“Volevi farmela, eh?” la rimbeccò Raphael torreggiando su di lei in tutta la sua maledetta deformità: “Volevi farmela col mio stesso trucco. Ma nessuno la fa a Raphael! Nessuno! Ed ora” disse dolcemente, sollevando il pugnale scintillante: “Ora morirai”.
Irene scosse la testa come un automa e urlò fino a farsi saltare tutte le vene mentre la lama luccicante, dopo essere rimasta sollevata con teatrale lentezza sopra al suo petto ansante, calava su di lei per privarla della vita.
“Nooo!” urlò improvvisamente una voce furiosa, poi Stephan, ansimante, coi vestiti a brandelli e una ferita alla spalla che aveva già riempito di sangue scarlatto la camicia, si gettò su Raphael con una luce di folle angoscia nello sguardo e lo abbrancò per il collo, allontanandolo disperatamente dalla ragazza. Il mostro spalancò gli occhi, sorpreso, e non riuscì a vibrare il colpo, barcollando all’indietro sotto il peso del giovane. Irene, incredula di essere ancora viva, smise di urlare e si sollevò faticosamente in ginocchio, fissando la scena.
Stephan, nonostante fosse ferito e visibilmente esausto, continuava a tenere l’altro strettamente avvinto e gli aveva immobilizzato la mano armata con una mossa salda. Raphael digrignò i denti, furibondo: “Maledetto!” cominciò a dare grandi scossoni per scrollarselo di dosso, agitandosi come un epilettico. Stephan, disperatamente aggrappato alla sua schiena ricurva, volse gli occhi pieni di sofferenza sulla ragazza seduta a terra: “Irene! Vattene!”
“Stephan!” singhiozzò lei straziata, senza fare come le aveva detto. Non poteva permettere che venisse ucciso. Non poteva permetterlo. Ma cosa poteva fare, lei? Era ancora più impotente di lui. La situazione era disperata, e anche se fosse scappata avrebbe solo ottenuto di prolungare la propria vita per qualche minuto. Dov’era la chiave mancante? Dov’era la soluzione?
Raphael si buttò contro la parete e in tal modo fece in modo che fosse Stephan a cozzarci contro, anziché lui. Il ragazzo emise un gemito di dolore e lasciò la presa. Scivolò a terra, privo di forza, come una bambola rotta, e lì giacque immobile e disperato. Il mostro sorrise trionfante e con un calcio lo girò pancia in su: “Sei patetico” sibilò: “Credevi davvero di potermi privare di ciò che mi appartiene? In confronto a me non sei niente!”
Stephan lo guardò con uno sguardo che non nascondeva la rassegnazione e il dolore che doveva provare. Era sdraiato alla sua mercé, inerte, ferito, sconfitto, e non gli restava che sperare in una fine rapida e indolore. Guardava il volto ributtante di Raphael, non il pugnale che l’altro aveva brandito per ucciderlo.
Irene assistette alla scena e non poté più sopportarlo. Era troppo. Andava al di là di ogni limite. Allorché Raphael sollevò il pugnale con entrambe le mani e si inarcò per vibrare il colpo, con una smorfia di furia sul viso, la ragazza corse verso i due, si gettò sul corpo riverso e sofferente di Stephan e lo coprì con il proprio, e rimase lì accucciata accanto al ragazzo che amava, decisa a morire assieme a lui. E quando le mani di Raphael ebbero una leggera esitazione, poiché lui non s’era aspettato il suo intervento, Irene sollevò su di lui i grandi occhi azzurri pieni di lacrime, e non erano più né terrorizzati né impauriti né sconvolti, erano franchi e tristi come al solito, luminosi e disperati: “Ti prego, Raphael!” sussurrò: “Non ucciderlo! Uccidi me, che ho dato inizio a tutto questo, ma tienilo fuori! Ti prego, Raphael!”
Raphael si bloccò, col corpo inarcato, pronto a colpire, e il pugnale a mezz’aria. Rimase fermo in quella posizione come una statua, respirando forte e rapidamente, mentre Irene, accucciata ai suoi piedi sopra a Stephan continuava a fissarlo coi grandi occhi spalancati: “Ti prego, Raphael” ripeté con voce implorante ma ferma: “Uccidi solo me!”
Il mostro non si mosse. La scena si era pietrificata ed aveva assunto una certa sua immobilità mistica che la faceva assomigliare all’immagine di un quadro. Persino le espressioni dei personaggi, quella ancora furiosa di Raphael, quella determinata e franca di Irene, quella sofferente di Stephan, erano come scolpite su quei tre visi così diversi tra loro. Tale immobilità restò tale per molto tempo. Fu Irene a parlare per prima, senza staccare gli occhi da quelli del mostro: “Raphael…” mormorò, ed era come un’invocazione, una flebile richiesta di aiuto.
Raphael, che era rimasto chiuso nella sua follia per tutto il tempo, insensibile ad ogni cosa che non fosse l’istinto omicida, improvvisamente udì quella parola che usciva dalle labbra tremanti della ragazza, e vide i suoi grandi occhi azzurri spalancati che lo fissavano da basso. Nel suo cuore qualcosa rispose, qualcosa che aveva tenuto sepolta sotto l’odio, il dolore e l’amarezza. Lentamente la smorfia rabbiosa che gli alterava gli ingrati lineamenti si allentò, scomparve, per lasciare il posto ad una stranissima espressione, che era un misto di stupore, di sofferenza e di affetto ritrovato. La mano che reggeva il pugnale tremò, poi lui, scosso da violenti tremiti, lo gettò sul pavimento e l’arma vi cadde con un tintinnio.
Irene seguì il breve volo del pugnale con uno sguardo stupefatto, quindi tornò a rivolgersi a Raphael con un’espressione interrogativa. Lui evitò i suoi occhi e si allontanò barcollando da lei e da Stephan, portandosi una mano al volto. Improvvisamente le gambe parvero non reggerlo più e si accasciò in ginocchio, senza forza, tremante, addolorato. Le spalle gli sussultavano, e aveva il viso nascosto tra le mani, e dalla bocca uscivano suoni soffocati, ma la ragazza impiegò alcuni minuti a capire che stava piangendo. Sì, piangeva, quel mostro, quell’uomo sventurato condannato dalla malvagità di suo padre, piangeva perché non avrebbe mai potuto ucciderla, perché lei l’aveva reso buono senza che lo volesse, senza neanche ricambiare il suo amore.
E Irene lo guardava piangere e non si rendeva conto appieno di avergli sciolto quel cuore di ghiaccio, da tempo indurito dall’amarezza e dal disprezzo altrui. Era semplicemente stupita che li avesse risparmiati, che avesse ritrovato la ragione. Stephan lo era ancora di più, non riusciva a crederci, temeva un tranello. Quando la fanciulla si alzò, cercò di trattenerla, ma lei lo placò con uno sguardo sicuro e avanzò verso Raphael. Tese la mano esitante: “Raphael…”
“Andate” singhiozzò lui senza cambiare posizione, dandole le spalle: “Andate via”.
Irene spalancò gli occhi: “Ci…ci lasci andare?” chiese, con un fremito di felicità e di speranza nella voce. Si voltò verso Stephan, che le restituì uno sguardo speranzoso. Raphael mosse la testa in su e in giù in un cenno d’assenso, accasciato a terra. La ragazza sentì lacrime di commozione pizzicarle gli occhi: “Oh, Raphael…”
“Andatevene!” urlò però lui con la voce orribilmente contratta dal pianto: “Andate via!”
Stephan si alzò faticosamente in piedi e raggiunse Irene. Le circondò le spalle con un braccio, protettivo: “Andiamocene” le sussurrò all’orecchio. Temeva che il mostro ci ripensasse. Lei, però, continuava a guardarlo che piangeva: “Ma…”
“Andatevene!” ripeté Raphael per la terza volta. Stephan la spinse fuori dalla stanza: “Su, andiamo, amore”.
Riuscì a trascinarla fuori, e nel mentre la portava via gli occhi azzurri di lei restavano fissi sulla figura accasciata e sofferente di Raphael, che l’aveva lasciata andare, che le aveva salvato la vita. Lui però non la guardava, non si toglieva le mani dal volto, poiché incrociare di nuovo quegli occhi limpidi che l’avevano placato nel suo momento di pura follia avrebbe accresciuto l’immenso dolore che provava ora, a lasciarla andare per sempre, a restare per sempre solo.
Allorché li udì uscire dalla stanza, allorché la perse del tutto, Raphael gettò indietro la testa pesante e malfatta e lanciò un alto grido di dolore. Dunque era quello, l’amore? Erano quelli i sentimenti? Se era così allora non esisteva medicina né peccato che potesse lenirli, né l’egoismo riusciva a trasformarli in qualcosa di sensato. Avrebbe potuto uccidere il giovane e costringere Irene a diventare la sua sposa, oppure avrebbe potuto togliere la vita anche a lei ma tenerla sempre con sé…ma l’amore, quel maledetto amore che così tante volte aveva contemplato dalla torre senza mai comprenderlo glielo impediva. L’aveva lasciata andare, e tuttora, che soffriva così tanto, che il cuore era straziato e dolorante, si rendeva conto di non poter fare altro. L’amore che provava per lei gli impediva di ribellarsi al destino ingrato, che aveva allontanato l’unica persona a cui avesse mai voluto bene.
Mentre se ne stava lì accasciato, e piangeva come non aveva mai pianto, captò un rumore di passi che tornavano indietro e sollevò appena il capo. Irene era lì, sulla soglia, intimorita e impietosita, e lo guardava coi suoi grandi benevoli occhi azzurri. Era tornata. Raphael sussultò e si alzò faticosamente in piedi, restituendole uno sguardo colmo di lacrime: “Irene…”
Lei gli sorrise tristemente e improvvisamente il mostro capì. Non era tornata davvero. Era solo venuta a dargli l’ultimo saluto, come sarebbe dovuto essere due giorni prima.
Per un lungo istante rimasero in piedi uno di fronte all’altra, a contemplare in silenzio, lui tanta grazia, lei tanta bruttezza. Raphael se la mangiava con gli occhi, dopotutto era l’ultima volta che la vedeva, era l’ultima gioia che gli era concessa. Irene esitò un istante, poi si sfilò l’anello d’argento con il motivo di rose inciso che portava all’anulare, regalo di Stephan, la cosa più cara che aveva, e glielo porse sorridendogli gentilmente, e guardandolo con una tenera gratitudine nello sguardo. Un dono d’addio.
Raphael, distrutto dal dolore, ma per la prima volta illuminato dalla leggerezza della bontà che gli aveva fatto compiere quel sacrificio, allungò la mano deforme e prese l’anello che lei gli porgeva. Nel farlo sfiorò le dita della ragazza e si permise di trattenerle la mano nella sua per qualche istante. Irene non la ritrasse, anzi, lasciò che gliela stringesse con disperazione. Raphael, che si beveva le lacrime che gli colavano sul viso, aprì le labbra e sussurrò: “Io…io ti amo” e per la prima volta era una vera dichiarazione, non erano parole che ripeteva per provare cosa si sentiva a dirle, non era un segno di possesso. Le stava solo aprendo il suo cuore. Quando l’ebbe detto, provò quella leggerezza, quel sollievo che prima aveva cercato a lungo e invano.
Irene ora piangeva a sua volta, le sue dolci lacrime scivolavano sulle guance rosee, le tremavano le labbra rosse. Gli si avvicinò, si sporse e lo baciò sulla guancia, su quella sua povera guancia, senza il minimo ribrezzo. Non baciava l’uomo misterioso delle sue allucinazioni, baciava lui, Raphael, il mostro, l’assassino, il folle. Lui aveva dovuto rinunciare a lei, perché finalmente si trovassero. Allorché le labbra della fanciulla si posarono sulla sua pelle, Raphael chiuse gli occhi e un fremito lo prese.
Poi Irene si staccò, lo guardò negli occhi e gli sorrise. Si allontanò nuovamente, e Raphael sapeva che stavolta non sarebbe più tornata. Rimase in piedi nella stanza, a guardarla andar via, piangendo, col suo anello infilato al mignolo della mano sinistra, poiché era troppo piccolo per le altre dita. Alla fine, quando la sua figura scomparve, il mostro sussurrò addolorato: “Addio…”
 
Non s’è mai riuscito a scoprire poi molto sui fatti che succedettero a questa vicenda. Stephan e Irene partirono per Parigi il giorno stesso, lasciando Giorgio in città, dato che non correva più alcun pericolo, e lì si sposarono e vissero fino alla fine dei loro giorni. Stephan si impiegò come meccanico e così realizzò i suoi più grandi sogni: avere un lavoro stabile, e una moglie che amava. Irene dal canto suo, irrequieta e volubile com’era, fece vari lavori: all’inizio partì come arpista, poi come pittrice di paesaggi oscuri e inquietanti, quindi come attrice. Non sfondò nel mondo del cinema, ma alcuni suoi film francesi furono molto apprezzati dal pubblico. Vi ricordereste sicuramente di lei, se avessimo voglia di svelarvi il suo nome d’arte. Ma non lo faremo.
Di Raphael Lawrence non si seppe più nulla. Irene, che era l’unica a conoscerne l’esistenza, portò il segreto nella tomba e non ne parlò mai, neanche con suo padre. Però, alcuni mesi dopo la partenza dei due giovani, capitò che un certo signor Ferrel, un agente immobiliare, notasse Heather Ville e la visitasse, interessato a ristrutturarla.
Al secondo piano, tuttavia, vide uno spettacolo insolito e macabro: una stanza completamente carbonizzata da un incendio probabilmente divampato da una grossa fornace che puzzava di carne morta. Sul pavimento giaceva il cadavere di un uomo parzialmente carbonizzato. Era impossibile definirne i lineamenti a causa delle bruciature, ma Ferrel notò che al mignolo della sinistra, ancora intatto, portava un anellino d’argento con un motivo di rose inciso e un nome: Irene.
 
FINE
 

 
  
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