Storie originali > Epico
Ricorda la storia  |      
Autore: Quainquie    12/07/2012    1 recensioni
Questo breve racconto è stato ispirato dalla figura di Ismene, sorella invisibile e disprezzata della celeberrima Antigone, protagonista della tragedia di Sofocle che tutti amiamo e conosciamo.
Mi è sempre parso ingiusto che Ismene non potesse avere la sua «fine della storia»: Mimnermo, unico autore antico a noi conosciuto che ne accenna, la vuole uccisa per mano di Tideo, padre di Diomede e alleato di Polinice nella guerra contro Tebe: poi, su Ismene, il silenzio. Silenzio, questo, che non mi è mai piaciuto; e neppure la fine che Mimnermo le ha tributato, perché mi è sempre sembrata così vaga e casuale, ingiusta per una figlia di Edipo, «l’uomo che gli dèi hanno odiato di più».
Per questi motivi ho desiderato dare ad Ismene una fine diversa: ed eccola qui, in carta e inchiostro.
Genere: Drammatico, Malinconico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Premessa

Questo breve racconto è stato ispirato dalla figura di Ismene, sorella invisibile e disprezzata della più celebre Antigone.

Mi sono sempre chiesta dove una giovane donna del genere – sola, senza protezione né famiglia, dimenticata e destinata ad essere un’eterna emarginata a causa di un destino del quale è incolpevole – possa andare, dove possa rifugiarsi e vivere il resto dei suo giorni. E mi sono sempre chiesta se alla fine, fra tutte angosce sopportate dalla stirpe di Edipo, quelle di Ismene – il rimorso, il ricordo – non siano le peggiori.

Inoltre mi è sempre parso ingiusto che Ismene sola non potesse avere la sua «fine della storia». Mimnermo, unico autore antico a noi conosciuto che ne accenna, la vuole uccisa per mano di Tideo, padre di Diomede e alleato di Polinice nella guerra contro Tebe (secondo quanto racconta Eschilo nei Sette contro Tebe): poi, su Ismene, il silenzio. Questo silenzio non mi è mai piaciuto; e neppure la fine che Mimnermo le ha tributato, perché mi è sempre sembrata così vaga e casuale, ingiusta per una figlia di Edipo, «l’uomo che gli dèi hanno odiato di più».

Per questi motivi ho desiderato dare ad Ismene una fine diversa, tentando di scrivere un racconto che rispecchiasse non tanto il mondo antico a cui Ismene appartiene, ma i pensieri, le sensazioni ed i collegamenti ad altre epoche e figure che la vicenda della stirpe di Edipo più in generale ha suscitato in me. Inoltre ho cercato di rendere un mio piccolo omaggio a ciò che – da amante del mondo classico – mi affascina e mi affascinerà sempre della tragedia greca: il suo valore universale e senza tempo, la sua capacità di raccontare la vicenda dell’umanità nella sua complessità sfaccettata di sentimenti e passioni, capacità che possiede un’esattezza ed una profondità ineguagliabili anche a distanza di secoli.

Vi auguro una buona lettura!

Quainquie

 

La vecchia Eugenia stava sempre seduta sotto il portico della dogana.

La sua figura grigia ed incartapecorita, curva come la lama di un falcetto, sembrava confondersi con la parete guastata dalle intemperie di un inverno che soltanto lei ormai ricordava.

Stava lì, acquattata sotto il portico, e davanti ai suoi occhi un po’ pazzi, come quelli dei contrabbandieri dalla faccia riarsa e dai piedi di iuta, passavano briganti e doganieri, spalloni e fuggiaschi, quelli delle montagne, che saccheggiano gli alpeggi quando le mandrie sono a valle.

La vecchia non parlava, o quasi. E non sembrava neanche vederle, quelle masnade di muncichi (1) e di poveri mostri che pullulavano nei nostri boschi e che s’arrischiavano a travalicare il passo solo a notte piena ed orfana di luna. Sembrava anzi avere un’espressione compassionevole, di chi sapeva cosa vuol dire indossare quei barbari calzari di sacco, che se non prestavi attenzione ti facevano capitombolare nei cespugli di rovo, che come spilli ti pungevano il viso, le gambe e gli occhi a tradimento, nel tuo girovagare forzato.

A pensarci bene, però, la vecchia non era stata sempre lì, abbarbicata come il muschio alle cortecce: c’era stato un momento in cui la panca era vuota come oggi. Poi Eugenia era comparsa dalla curva sotto il paese, con la carriola sbilenca come il suo sorriso e l’oca che le zampettava dinanzi.

Costanza era l’oca più grossa e proterva che si fosse mai vista in paese, con lo sguardo nero come il ribes, che baluginava risentito quando qualche buontempone tentava di spiumarle la coda. Eugenia e Costanza stavano inseparabili sotto il portico, in religioso silenzio d’attesa.

Quando i contrabbandieri comparivano dal dosso, nel cuore della notte, Eugenia sedeva lì, avvolta nella coperta di lana grezza, a parlottar tra sé. La guardia di turno udiva quella febbrile nenia lamentosa, un guaito quasi, ed allora usciva con il moschetto in spalla per controllar che fossero contrabbandieri e non briganti; e quando ne vedeva nel buio i sorrisi candidi e i piedi fasciati nei peduli, sollevando l’arma li incitava a far presto, ché la Nini aveva tenuta aperta la locanda aspettandoli. Allora la vecchia si faceva tutta zitta e l’oca prendeva a dare acuti starnazzi di sdegno e tristezza, come a voler dire: non è giusto, non è giusto, la Giustizia non lo consente.

A lungo Costanza ha vegliato il destino di coloro che valicano i monti, dice la Pia, la moglie del venditore di tabacchi. Ma è stata sacrificata anzitempo per il pranzo pasquale della guarnigione, puntualizza l’Agnesina, ma subito s’intromette la Mariuccia: povera bestia, povera bestia. E sì, conviene la Pia, perché la Nini il ripieno dell’oca mica lo sa fare come si addice all’occasione. Ma no, gnucca, si stizzisce la Mariuccia. L’Eugenia è la povera bestia, l’Eugenia, sola senza oca e senza sorella, sola al mondo, senza padre, né madre, né fratelli.

Eugenia, si è già detto, non parlava molto. Ma dopo la morte dell’oca il suo silenzio era scivolato in un borbottio inarrestabile.

Povera, povera Eugenia, ripete la Mariuccia, non ci sta più con la testa. Chi non confessa i suoi peccati a Dio, state certe che questa è la fine che fa, sentenzia la Nini. Ma state un po’ zitte, che non si sente mai quel che dice, la povera diavola, commenta l’Agnese spazientita. Forse è solo matta, commenta la Pia, forse sì.

Nessuno in fondo sapeva da dove mai venisse Eugenia prima di sbucare dalla curva sotto il paese come una fantasticheria. Per i maligni doveva aver qualche scheletro nell’armadio, uno di quelli gravi che ti fanno rimordere la coscienza: solo Antonio, il figlio della Pia, diceva di lasciarla stare, perché tutti hanno le loro disgrazie; ma non si poteva fare affidamento sulle parole di Antonio; dopotutto, da quando era tornato dalla guerra non faceva altro che star seduto alla locanda a scriver poesie e racconti, un guazzabuglio di parole che mai finiva e forse non è nemmeno finito adesso.

A volte Antonio parlava con Eugenia; lui parlava, lei taceva. A volte le si sedeva accanto sulla panca e se ne stavano lì per ore e giornate, zitti, a guardar la strada del passo disperdersi nella boscaglia. Né lui né lei avevano niente da raccontarsi, ma lui ad inventare storie e fandonie era bravo, prima di morire ne aveva riempiti taccuini interi, e ne aveva inventata anche una per Eugenia, di fandonia. La Pia l’aveva trovata scarabocchiata su dei tovaglioli, nel fondo del cassetto della scrivania, dopo che la vecchia era morta ed Antonio se n’era andato per far lo scrittore, qualunque cosa volesse dire, nella grande città che stava appena al di là della frontiera.

 

Eugenia in realtà non si chiamava Eugenia, ma aveva un altro nome, che nessuno però sapeva, tranne forse il segretario del comune, piccolo, pedante e fanatico della segretezza. Il padre di Eugenia era stato un tal Edipo – a questo punto del primo tovagliolo, il maestro De Lorenzi aveva dovuto rileggere per sei volte lo scarabocchio per essere sicuro di averlo capito; ma già le pettegole giuravano di aver sentito, prima della guerra, parlare di un distinto signore che viveva al di là del passo che s’era macchiato d’un peccato gravissimo, talmente grave che neanche le loro lingue biforcute potevano ripeterlo. Edipo, forse è straniero, o forse è un errore, aveva proposto il maestro De Lorenzi. Comunque fosse, Eugenia era figlia di un gran signore, sposato con una bella signora che proveniva da una delle famiglie più in vista della regione oltre il passo, una tale Gioconda – anche se il maestro giurava di aver letto Giocasta – che era già stata maritata e che aveva perso sia il marito che il suo unico figlio durante la prima guerra. Si era sposata con Edipo sul finire della guerra, e aveva comprato quattro figlioli, due maschi e due femmine; ma la buona donna era morta di crepacuore qualche anno più tardi, quando una sfortunata ed inspiegabile pazzia le aveva portato via il marito – ma le pettegole erano certe che egli si fosse ucciso per la vergogna a causa di un peccato impronunciabile – ed i due figli s’erano schierati in due file opposte in guerra, il più vecchio vestito di nero e l’altro di azzurro. Vittorio, l’azzurro, era sopravvissuto alla guerra in cui aveva ammazzato il fratello, e s’era ridotto a far il contrabbandiere per mantenere le sorelle, ch’erano rimaste al paese a far da domestiche presso uno zio, che aveva ereditato i possedimenti della loro madre buonanima.

Vittorio aveva battuto per anni il valico, con la bricolla piena di sigarette e riso, finché una notte s’era staccato dal gruppo d’altri a cui s’era accodato. La luce della luna piena bagnava i pianori del passo recitava un tovagliolo, ma era da Antonio inventarsi cose troppo sentimentali, perché aveva il cuore di mascarpa, aveva detto la Pia. Vittorio non se n’era rimasto quieto dietro i massi del valico, ma s’era arrischiato a tentare di superare il confine e le guardie, macchie scure sotto la luna, l’avevano inseguito fino all’alpe sopra la via del ferro. Forse era scivolato giù da uno dei precipizi, per schivare i colpi delle guardie, non si poteva saperlo allora, ma alla dogana del paese Vittorio non era più arrivato. Lo zio di Eugenia, appresa la morte di Vittorio dai pianti silenziosi delle nipoti che non avevano più visto il fratello risalire il sentiero al margine del bosco, col sorriso bianchissimo nel volto abbronzato e la bricolla a penzoloni, s’era sentito in diritto di non riconoscere più quel mascalzone impunito come suo parente. Se si era scelto di gettarsi giù da un dirupo, dopotutto non era affare dello zio, aveva osservato la Nini, e tutti gli altri avevano assentito.

La più vecchia delle sorelle, Antigone, deperiva ogni giorno di più a causa della morte del fratello. Con l’unica compagnia della sua oca Costanza, che le zampettava davanti allargando le ali, Antigone – o forse era Antonia, si era detto il maestro De Lorenzi, corrugando la fronte, sicuramente era Antonia, visto che Antigone non era nemmeno un nome – Antonia aveva deciso di risalire il passo per ritrovare e seppellire il corpo del fratello. E quando Eugenia tentava di dissuaderla dal fare sciocchezze, Antonia la accusava di essere la patronessa del loro zio tiranno, che voleva infangare la memoria del caro Vittorio: tirati pure indietro, le diceva, che io vado a morire sola.

Ma lo zio, una persona rispettabile, si opponeva ai tentativi di quella scapestrata e le aveva proibito di avventurarsi su per i sentieri che risalivano il bosco. Antonia, cocciuta come un mulo, aveva smesso di mangiare e, insensibile alle preghiere di Eugenia di mantenersi in forze, s’era lasciata deperire, senza smettere di tentare di rimontare verso il valico. E che allora muoia di stenti su quelle mulattiere disgraziate, e che nessuno cerchi di andarle in soccorso, aveva di certo tuonato lo zio, e così era andata. Eugenia, rimasta sola al mondo, senza padre, né madre, né fratelli, accusata di ingratitudine dallo zio, pentita di aver abbandonato la sorella ed il fratello, una sera aveva preso con sé Costanza, una carriola e un fagotto di cianfrusaglie, e aveva lentamente risalito il valico, e dopo giorni era comparsa dalla curva sotto il paese, con la carriola sbilenca come il suo sorriso e l’oca che le zampettava dinanzi, e s’era acquattata sotto il portico della dogana, e lì era invecchiata, forse aspettando che qualcuno comparisse dal dosso, forse un uomo dal sorriso bianchissimo nel volto abbronzato, o una donna proterva con gli occhi neri come il ribes.

S’interrompevano qui, in un tovagliolo spiegazzato, le parole di Antonio. Il maestro De Lorenzi si era convinto che quel birbante, che s’inventava baggianate tanto assurde, avrebbe dovuto essere punito a suon di bacchettate sulle mani, meglio quando lo aveva ancora sotto custodia tra i banchi di scuola. Ma non lo aveva fatto, ed ecco cosa se ne era ricavato!

Si dibatteva ancora sull’attendibilità di questa strampalata storia e di quel tovagliolo, quando Eugenia era morta una mattina sul presto. Era stata una delle guardie doganali a scoprirla tutta rannicchiata sulla panca, e con un’espressione storta che non restituiva a chi la guardava quella serenità che di solito hanno le persone che tornano alla casa del Signore dopo una vita lunga e onesta. Forse ha avuto solo una vita lunga, aveva commentato un doganiere, ma il reverendo Tamagni lo aveva zittito con un’occhiata torva, perché dei morti bisogna sempre parlar bene.

Sul muro della chiesa era stato affisso un annuncio funebre: la gente del paese che sapeva leggere un pochetto e che passava di là non poteva fare a meno di fermarvisi davanti. Ismene, detta “Eugenia”, dicevano le parole battute a macchina dal piccolo e pedante segretario comunale, con le e un poco mangiucchiate sul dorso. Ismene, che nome strano, dicevano le donne del vicinato quando qualcuno riportava loro dello strambo annuncio, un nome che non promette niente di buono. Per la Pia, quell’imbecille del segretario il nome non l’aveva mai saputo, e per fare il brillante l’aveva inventato, proprio come il suo figliolo buono ma perdigiorno si era inventato quella storia sulla vecchia prima di andarsene in città! E quel nome, Eugenia, la ben nata, era soltanto la fantasticheria di un augurio mai pronunciato e mai realizzato, questo era certo.

 

Ismene

Senza di te, che vita potrà mai essermi cara?

Antigone

Domandalo a Creonte, tu che sei la sua patronessa.

Ismene

Perché mi avvilisci così, senza vantaggio alcuno?

Antigone

Ma io soffro, io, mentre rido di te.

Ismene

Perché non posso, almeno ora, venirti in aiuto?

Antigone

Salvati. Non ti invidio se scampi alla morte.

Ismene

Ahi, sventurata che sono, mi sarà negata la tua sorte?

Antigone

Tu hai scelto di vivere, io di morire.

Ismene

Ma io ti ho spiegato le mie ragioni.

Antigone

Tu sembravi saggia a qualcuno, io a qualcun altro.

 

Soph. Ant. 548.557. Traduzione di Vico Faggi in Sofocle, Edipo Re, Edipo a Colono, Antigone, a c. di Simone Beta, Torino, Einaudi, 2009.

 

(1) Termine dialettale che indica i contrabbandieri.

 

So che non è uno dei miei pezzi migliori; ma da oltre due anni attende zitto zitto in uno dei cassetti più remoti della scrivania di essere letto. Spero che qualcuno lo legga e lo apprezzi; non spero in recensioni, anche se mi fanno piacere: tuttavia so che è un pezzo particolare e cervellotico, e che rischia di risultare più sgradevole che altro. Ci tengo a contestualizzarne la nascita: nel semestre primaverile del 2010, Dacia Maraini ha tenuto un interessante corso di letteratura italiana contemporanea presso l'Università di Zurigo dal titolo «L'influenza del mito classico nella letteratura italiana». Al termine del corso, la signora Maraini ci ha proposto di ideare, sulla base di un mito classico di nostra scelta, un racconto originale, focalizzato, se possibile, su personaggi poco indagati, marginali. L'esperienza è stata nuova, piacevole: in un'università dove di solito gli esami sono rigidi e frutto di studio mnemonico, veniva fornita allo studente l'opportunità più unica che rara di lavorare per amore della letteratura e della lettura. Così è nato questo racconto: e in virtù di questa bella esperienza (purtroppo un'unicum sinora) ho deciso di dividere con voi la mia modesta creazione.
Per chi avesse dubbi sulla lingua, mi affretto a dire che sono legittimi: essa è stata modificata per avere un'aderenza popolare al dialetto che si parla nella mia valle d'origine.

A rileggerci presto!
  
Quainquie 
 

 

  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Epico / Vai alla pagina dell'autore: Quainquie