Sedeva compostamente sulla comoda poltrona del treno. I suoi
occhi scivolavano dal paesaggio fuori dal finestrino al viso dei viaggiatori
che si trovavano di fronte a lui, senza fissare l’attenzione su nessuno di
essi. Per un attimo chiuse gli occhi e sprofondò nell’atmosfera ovattata della
carrozza, mantenuta ad un livello ideale di torpore grazie al riscaldamento e
artificiosamente silenziosa grazie al sistema di insonorizzazione. Curioso che
quella calma artefatta stridesse vistosamente con il suo stato d’animo più
profondo.
Les jeux sont
faits.
Oramai le scelte erano state fatte. Il punto di non ritorno
era stato raggiunto e sorpassato da un pezzo. L’aveva visto passare poco prima,
di sfuggita, fuori dal finestrino, accompagnato dall’ultimo respiro dell’ormai
agonizzante ipotesi di lasciar perdere.
Oh, i dubbi c’erano stati ovviamente. L’operazione era
rischiosa, prevedeva numerose variabili incerte ed un altissimo rischio di
fallimento. In poche parole, era irresistibilmente attraente. Era come puntare
tutto alla roulette, la gioia della vittoria sarebbe stata direttamente
proporzionale al rischio corso. Ma il rischio c’era comunque. Anche se aveva
tentato di minimizzarlo. Anche se aveva, con il suo complice, pianificato ogni
singolo dettaglio, con precisione quasi ossessiva. Planimetrie, timing, frasi
da dire. Tutto era scritto nel copione.
Ma nella compattezza del piano si insinuava il cuneo del
dubbio. Il dubbio che qualche dettaglio differisse dal previsto. E, come tutti
sanno, i cattivi che vogliono conquistare il mondo, falliscono sempre per dei
piccoli, stupidi, insignificanti dettagli.
La mistura di timore strisciante, eccitazione crescente e
degustazione della probabile vittoria era un calice di dolce veleno, una
bevanda dolceamara, che gli fluiva in corpo, gelida come una raffica di vento
in un cimitero durante una notte d’inverno, e gli scatenava brividi di paura,
misti a perverso piacere. Nei fatti, non aveva ancora compiuto il misfatto, ma
la risolutezza della sua mente non lasciava spazio a ripensamenti.
L’assassino è da considerarsi innocente finchè non affonda
il coltello nel petto della vittima? O forse lo è anche quando, con il sorriso
più disarmante del mondo le da il benvenuto, sollevato dal pensiero che prima
che sorga il sole avrà posto fine alla sua insopportabile esistenza? E se
succedesse qualcosa che gli impedisse di trucidarla? Sarebbe forse cambiato
qualcosa nella sua mente?
Queste, e altre domande, avrebbe potuto porsi il Probabile
Criminale che sedeva in un posto vicino al finestrino in un confortevole treno
di ultima generazione. Ma, tutt’altra era la girandola di pensieri che gli
fluttuava in testa. Un senso di ineluttabile fatalità si era impossessato di
lui. Dato che la sua mente aveva già deciso che sarebbe andata così, si comportava come se ciò non
dipendesse da lui. Era lo spettatore esterno ed obiettivo di sé stesso. Sarebbe
stato a guardare, a vedere come andava a finire. Ma il suo animo era a tratti
scosso da un senso di puerile trepidazione. Non differiva molto, in questo, dal
bambino che ruba le caramelle, ben sapendo che non può farlo, e attende in ogni
occasione un rimprovero, che probabilmente non verrà mai. Ma tra il bambino e
il Reo Futuro, vi era il solco degli anni, che modellano ed erodono la sincera
ingenuità primitiva. Con l’abilità dell’attore consumato, il viaggiatore
ostentava tranquillità ed indifferenza. Guardava gli altri passeggeri, di
sfuggita, senza interesse, come se fosse uno di loro. E loro ci credevano. Non
sapevano che su di lui gravava una colpa orribile e raccapricciante, anche se,
solo nel piano della realtà, ancora non commessa.
Se solo avessero saputo, se fossero venuti a conoscenza di tante
cose riguardo a quel passeggero, allora non l’avrebbero più guardato con tanta
tranquillità. Avrebbero gridato allo scandalo, avrebbero eretto tribunali
inclementi e sommari, con l’unico scopo di emettere il verdetto di
colpevolezza. E nella mente dell’Imputato, decine di altri personaggi – amici,
parenti, conoscenti, e soprattutto le innumerevoli istanze di sé stesso –
avrebbero popolato gli scranni di quell’assise immaginaria ove sarebbe stato
processato una volta per tutte. Non la sua colpa, ma lui stesso. Tutti i suoi
torti, tutti i suoi crimini, tutte le sue storture, sarebbero state brutalmente
messe a nudo dall’accusa, e allora lui non avrebbe potuto fare altro che
soccombere all’incalzare degli argomenti. E infine, dopo averlo sbeffeggiato e
deriso per tutte le sue debolezze, gli sarebbe stato comminato il massimo della
pena: il Disprezzo a Vita degli altri e di sé stesso.
Ma quando ormai la giuria sarebbe stata in procinto di
deliberare, avrebbe inaspettatamente fatto il suo ingresso l’avvocato
difensore. Nessun compenso avrebbe richiesto per svolgere il suo ufficio. Solo
amore. E una ad una, avrebbe smontato le accuse mosse all’imputato, e dove
invece esse avevano ragione di esistere, avrebbe chiesto alla corte di fidarsi
della capacità del suo assistito di redimersi. Con il suo sorriso, con le sue
parole talvolta criptiche, ma sempre incredibilmente giuste e armoniose,
avrebbe vinto una ad una le resistenze dei giurati più arcigni e avrebbe
ottenuto l’assoluzione.
Con questa prospettiva in mente, la gravità del crimine non
sussisteva. La redenzione sarebbe stata certa e quindi, non avendo niente da
perdere, perché non tentare? Quest’ultimo pensiero si accompagnò allo stridore
dei freni.
Scese dal treno e si diresse a passo deciso verso l’esterno: era
deciso ad arrivare puntuale all’appuntamento.