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Autore: Jaded_Mars    22/07/2012    2 recensioni
In una sera d'estate, durante la preparazione di una valigia, pensieri sulla musica e ricordi dell'America si susseguono in una conversazione con Todd Kerns.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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È il 21 luglio, sabato sera e sono a casa. Sola. I miei sono in vacanza, molti miei amici sono tornati a casa o partiti. Dalla strada arrivano  chiare e forti le risate degli adolescenti che prendono e vanno in bici lungo il viale alberato verso il parchetto, verso il divertimento.
Probabilmente questa è una delle peggiori estati di sempre.
Intendiamoci non è che faccia schifo al 100% in ogni suo singolo particolare, esco qualche volta, mi diverto, ho visto finalmente i Motley Crue live e bissato Slash, ho conosciuto persone interessanti,  però sicuramente non verrà ricordata tra le best ever.  Forse con affetto, fra qualche anno, quando l’ansia da tesi sarà solo un lontano ricordo e finirò a pensare nostalgicamente “Ah, l’estate ’12 quando scrissi la tesi dell’ultimo anno di università” mentre sgobbo come una schiava sulla scrivania di lavoro, rimpiangendo questi tempi infausti (ma che verranno visti come splendidi, ne sono quasi certa, grazie alla deformazione della memoria) e finendo ad immedesimarmi in quel video dei Groove Armada in cui la protagonista lavora come un automa e per poco non si mette a piangere al ricordo delle vacanze con le sue amiche ad Ibiza (My Friend, sì dai chi aveva 13 anni come me nel 2001 se lo ricorda per forza, era una delle canzoni più in rotazione quando MTV era ancora MTV).
Mi giro verso il pc e sospiro: “Antecedents and outcomes of consumer environmentally friendly behavior”, quel pdf mi osserva severo e minaccioso da almeno un’ora, da quando ho deciso di prendermi una pausa. “Sì sì adesso torno a concentrarmi, la finisco di divagare come sei pesante!” Ecco sono finita a parlare con pdf, cielo che assurdità. Non che sia la prima volta che parlo con oggetti, giusto poche ore fa avevo cantato buon compleanno ad Appetite For Destruction, gli ho fatto una foto e l’ho fatto suonare per intero, complimentandomi con lui per quanto sia sempre eccezionalmente fantastico e sopra le righe. A volte penso che ho quasi la sua età (oddio aiuto?) e che sono orgogliosa che Sweet Child O’Mine allietasse il mio primo agosto nell’estate dell’88, oppure che il concerto al Ritz sia stato fatto un mese esatto dopo che sono nata. Poter dire “io c’ero” anche senza cognizione di causa è una sorta di palliativo per il fatto di non esserci stata veramente, di non avere potuto vivere quello che gli allora ragazzi della mia età hanno provato, incalzati dalle note e dalle gesta di quella grande rivoluzionaria band. Insomma voglio dire, almeno esistevo, faccio parte della generazione degli anni ’80, quelli che sono nati nell’epoca giusta ma vivono in quella sbagliata, e forse anche nel posto sbagliato, ma questo è un altro discorso.
Credo che purtroppo la maggior parte della mia inquietudine attuale (sono una di quelle chiamate restless souls, spirito romantico in costante ricerca, a volte nemmeno so io di cosa, ma resta che abbia uno “spirto guerrier ch’entro mi rugge” tanto per citare il Foscolo di Alla Sera) sia realizzare che niente potrà mai battere California 2011, a meno che non si tratti di un California 20xx o un wherever/whatever 20xx che implichi preparare la valigia per un viaggio con una data di ritorno che non sia nello stesso mese in cui sia partita. Oppure che implichi la destinazione America. Ed ecco che sempre lì finiamo a parare.
Guardo la bandiera a stelle e strisce che penzola sopra la mia scrivania, leggermente smossa dalla corrente inusuale di questa sera.
L’America, Arlandria, i grandi Stati Uniti, terre di libertà dove tutti i vostri sogni possono diventare realtà. “Venghino siori, venghino, qui si regalano biglietti per la felicità.” Sembra che ti sussurrino richiamandoti dal lontano ovest, con il loro fascino esotico, sovraccaricato di tutte le nostre fantasie regalateci da anni di film e canzoni di quella terra che oramai ci sembra di conoscere di persona.
“I want you” diceva il vecchio zio Sam. “Eccomi” ho risposto io “Sono pronta.”
Ero pronta davvero, sono pronta a ripartire anche adesso, salire su un volo senza bagagli, con un biglietto di sola andata per andare a vivere sotto i ponti, perché anche i ponti hanno più fascino laggiù: Brooklyn, il Golden Gate, insomma c’è bisogno di dirlo? (Certo, se si potesse evitare sarebbe anche meglio ma tanto questa è solo tutta una ridicola iperbole.)
Ed è tutto vero, quello che dicono sull’America, sulle cose belle e brutte di quel paese tanto assurdo quanto fantastico.  
Credo che solo vivendoci si riesca a capire davvero il bello e il brutto di quel paese e prenderne il meglio. Non è tutto rose e fiori come ingenuamente si tende a pensare, ma lo diventa se si va col cuore aperto e con un minimo di ingenuità.
East Coast, West Coast, assurdo come stando da una parte desiderassi di andare dall’altra e viceversa. Ora sogno di essere in uno qualunque dei due posti, solo non dove sono ora.  Lì ho avuto la fortuna di vivere dei momenti indimenticabili, movie scenes: viaggiare in Mustang coi capelli al vento sulla Pacific Coast Highway verso Nord, Paradise City che suonava, la compagnia ottima, il sole che sbucava dalla nebbia oceanica oppure camminare sul Sunset Strip di sera, passando dal Whisky a GoGo al Viper Room giù fino all’House of Blues conscia di star visitando posti sacri, incontrare un uomo vestito da “Morte” e farci una foto davanti al Rainbow e finire per innamorarmi del commesso punk-skater del negozio di vinili (oh sì, in America ci si innamora pressoché una volta al giorno, se non multiple se ci si trova nel posto giusto al momento giusto), vedere Ben Stiller che gira un film dietro casa sulla 6th Avenue mentre andavo a prendere dei cupcakes da Magnolia Bakery, ballare sul bancone di un locale rock pieno di marinai sulle note di You Shook Me All Night Long in stile Coyote Ugly, scoprire di essere passata innumerevoli volte davanti al Morrison Hotel e realizzarlo solo dopo 2 mesi.
Ammetto che una delle cose che mi è piaciuta di più è stato vivere come Jack Kerouac on the road finendo in un ostello di hippie a San Diego nel quartiere dei fattoni ad Ocean Beach,tornando a dopo due giorni a Los Angeles piena di sabbia di La Jolla o passare di sabato sera sullo Strip con tutti infighettati e noi con un abbinamento improponibile di shorts, Converse, felpona universitaria sformata  capelli disastrati, scottatura da spiaggia e occhiali da sole in testa. 
Viaggiare in pullman da Boston a New York con lo zaino, il sole basso sull’orizzonte, i boschi verdi primaverili del Massachussets che circondano la intestate che si snoda verso sud, sola coi miei pensieri riesco ad afferrare cosa Axl intendesse quando cantava: “Yes I needed some time to get awayI needed some peace of mind, some peace of mind that'll stay. So I thumbed it. Now it's six in L.A.Maybe a Greyhound could be my way.” L’idea di prendere e partire per trovare la pace interiore altrove. Fatto. E ci sono riuscita.
Ricordo anche il divertimento di un tassista che se la ghignava sotto i baffi mente ci stava portando a casa una sera e noi che parlavamo tranquillamente appellandoci come the drug addicted, the pimp, the barbie, the alcoholic beggar and the penniless, progettando future collaborazioni per lo script di un film di improbabile successo per poi finire a cantare Another One Bites the Dust con lui che ci alzava il volume al massimo tirando giù i finestrini e cantando con noi. Vai a capire i freaks che ci sono negli Stati Uniti.
Un po’ te ne rendi conto  e sai che ci sono, nascosti da qualche parte, poi però quando te li trovi davanti tutti insieme come nella metropolitana o per le vie di New York ti chiedi se sei su Punk’d, quando capisci che è tutto vero non puoi che finire per amare quella sottile pazzia che è insita in tutte le persone che vivono in quella giungla.
Perché, se la leggenda è fondata, il nero che aveva accolto Axl a New York urlandogli “Welcome to the Jungle” aveva ragione da vendere. Quella città è una giungla, c’è di tutto per tutti i gusti, se c’è un posto in cui è impossibile non trovarsi bene è proprio la City. È talmente immensa, brulicante di vita che hai la perenne consapevolezza di trovarti in un posto e starti perdendo mille altre cose altrove.  
A New York i sogni diventano realtà, questo lo posso confermare, hai l’impressione di potere fare tutto e non fermarti mai, probabilmente è l’aria che rende euforici, vitali o in perenne corsa. 
Squilla il telefono,“Out Ta Get Me” che interrompe le mie divagazioni nostalgiche. È mamma che si preoccupa di sapere come sto. Sto benone, sommersa di fogli, appunti, libri e papers di sabato sera in piena estate ma tutto procede alla grande. “Ricordati la valigia!” mi intima da chilometri di distanza con quel tono a metà tra l’ammonimento e la raccomandazione che solo le mamme sanno avere.
Ah già la valigia. Ho talmente poco in testa che fra qualche giorno devo andare in vacanza che nemmeno me ne ricordavo, per fortuna che c’è lei. Fosse stato per me nemmeno avrei prenotato il viaggio, tanto sono ligia al dovere. Cinque giorni via … come? Cosa dici caro Peattie? No, non preoccuparti non mi dimentico che devo ancora finire di leggere un tuo capitolo (Ken Peattie è il senior lecturer in strategic management alla Cardiff Business School, nonché autore di uno dei ventordici libri che sto usando per il fatidico lavoro finale,  è uno composto e serio, non gli piacciono troppe distrazioni e in questo momento non sono propriamente la concentrazione in persona.)
Comunque insomma questa valigia s’ha da fare no?
L’avevo riposta e ricoperta di plastica solo un mese fa, è impregnata di America anche lei a modo suo, passando dal LAX al JFK ai  vari taxi se l’è vista un po’ anche lei. “Sei felice di rivedermi? Io mica tanto, non ho voglia di riempirti  adesso, oggetti ci entrate da soli?” Scruto insistentemente con la fronte aggrottata dalla concentrazione tutte le cianfrusaglie allineate ordinatamente nell’angolo libero della scrivania aspettando che si muovano per telecinesi. No eh … beh ci ho provato.
Ho voglia di ascoltare qualcosa, sono le dieci di sera è un po’ tardi per fare casino. Però non si può preparare un bagaglio senza musica, è quasi impossibile, non c’è concentrazione altrimenti. In quell’istante sento un’auto che passa dalla strada: un tunza tunza che non riesco ad identificare sparato col volume a palla entra prepotente in camera. Effettivamente realizzo che nonostante sia tardi per la musica alta tutto sommato sono ancora tutti svegli, e anche se non la ascolto in cuffia ma dalle casse non darei fastidio a nessuno. E poi ho dei conti in sospeso col vicinato, contando le innumerevoli sere anni addietro in cui ho maledetto le ore di tortura che mi infliggevano costringendomi a sorbire senza interruzioni canzoni di dubbio gusto mentre studiavo per gli esami o anche solo cercavo di dormire (parliamoci chiaro, non si può dormire con Gigi D’Alessio o la Pausini che cantano lacerandosi le vesti… fa irritare e basta.)
In fin dei conti il massimo di musica tunz tunz che metto su sono Deadmau5 o i Bloody Beetroots, qualche volta succede che passi la Skrillex, ma insomma non sono orrori al pari di quelle punizioni sonore dei vicini, o almeno io la voglio vedere così. In linea di massima quando metto a tutto volume la musica, la gente potrebbe pensare che in realtà siano le selezioni musicali dei miei genitori piuttosto che le mie, visto che ho un gusto piuttosto vintage al riguardo, tre quarti dei gruppi che piacciono a me o non ci sono più perché si sono sciolti o perché qualcuno è morto o perché son troppo vecchi per suonare. Uno scenario idilliaco per sentirli suonare live, no? Ecco diciamo che il novanta per cento di ciò che ascolto è catalogabile in decadi ’60-’70-’80, dal ’90 in poi è un po’ come il deserto dei tartari. Su su Dave, non offenderti, non ho detto che non ascolto musica contemporanea, ma lo sai che la mia preferita è quella vecchia (Dave è geloso che gli preferisca Jimmy Page, ha dovuto convincerlo a suonare con lui a Wembley per dimostrare di essere all’altezza, ma non ce n’era bisogno, gli voglio bene dal ’99 quando l’ho visto in Learn to Fly).
Però stasera sono in vena di qualcosa di recente.
 In realtà sono in vena di qualcuno di recente. Voglio ascoltare uno alto alto, coi capelli neri lunghi e gli occhi azzurro ghiaccio, uno che chiamano “the Vegas Vampire” e che ho scoperto a New York.
Wicked Game, massì perché no, mi piace un sacco quella canzone, l’originale di più devo ammettere, ma lui la canta così tanto bene che è irresistibile. A dire il vero lui canta tutto bene, non ho ancora sentito niente di suo che non apprezzi (sarà che sono obnubilata dalla nebbia della passione che distorce il mio giudizio critico…).
Avete presente quell’instant love che ti prende a prima vista appena vedi qualcuno e non capisci più niente, come se avessi appena avuto un’epifania, l’illuminazione divina e un colpo in testa allo stesso tempo? Ecco a me è successo con Todd Kerns, la sera del concerto di Slash. Ah che sera pazzesca, quella.
Alle cinque del pomeriggio fuori dall’Irving Plaza a far la fila con altri fan educati, tutti amici e compagni di scuola quarantenni di Slash o dell’età dei suoi figli, io ero l’outlier del gruppo in sostanza assieme ad altri quattro gatti. Ero in stato di anticipazione, felice, nonostante avessi donato un rene per andare a vedere quel concerto, completamente fuori budget e già sold out, ah i miei colpi di testa, grazie irrazionalità senza di te non avrei incontrato e stretto la mano al mio super eroe e complottato per fregare la security con l’elfo, senza di te non avrei visto Todd.
Fu il secondo ad entrare sul palco, io ho sempre avuto occhi solo per Myles e fondamentalmente ero lì per Slash ma poi l’ho visto da vicino e BOOM, tutti sono spariti non sussisteva più confronto. Ricordi che sei stato il primo a sorridere quella sera? Al bambino davanti a me con il cilindro come Slash? 
“E Myles? Hai visto Myles che ha fatto?E Slash cosa non é” Eh? Chi ? Cosa? Io ero catalizzata su di te sai, Todd caro, come ti muovevi, come suonavi, come interagivi col pubblico, fantastico, avevi più energia di una carica di dinamite. Poi sei finito per cantare Dr Alibi e son rimasta a bocca aperta, eri un’esperienza completamente nuova per me e mi hai incantato. Certo Slash è The Master non si discute, ma forse lo vedo talmente come un super eroe da così tanti anni che sta un gradino sopra, è meno umano e più mito. Tu sei umano Mr Dammit, almeno per me. Ad ogni modo sei definitivamente entrato nelle mie grazie sbaragliando la concorrenza consolidata quando il riccio se n’è uscito con l’idea di farti cantare Out Ta Get Me a Milano. Signur, che minuti. Todd cantale tutte tu le canzoni dei Guns, ti stanno a pennello come a nessun altro (sì a parte al Rosso si intende), sei ruvido a sufficienza da riuscire a farle tue e farle alla grande.
 
“The world was on fire and no one could save me but you” canti con quella voce bassa che è un piacere ascoltare. Oh davvero? Mi fai sentire speciale se mi dici queste cose, Todd. “It's strange what desire will make foolish people do.” Su questo però hai ragione, il desiderio, di qualsiasi genere, fa commettere pazzie alle persone che già sono leggermente instabili, ne sappiamo qualcosa vero?
Io dal canto mio ti dico che “I'd never dreamed that I'd meet somebody like you” sul serio, sei stato un fulmine a ciel sereno che m’ha colpito come da tempo immemore non mi succedeva, grazie che mi regali queste emozioni quotidianamente dal 22 maggio.
Sono così tanto presa che ho iniziato la mia opera di evangelizzazione con il mondo, tutto questo per te, questo non è quasi amore?
Te intanto continui a cantare le tue sofferenze da wicked game con la chitarra seduto sulla mia scrivania energico ed addolorato, mentre io ho l’uragano Kathrina che è appena passato per la stanza, buttando all’aria metà del mio guardaroba sul letto. Cosa scelgo adesso da portare via, è un dilemma.
 
“I just wanna remind everybody that this is Las Vegas, Nevada, and is Saturday night. The perfect night in the perfect place to get hot double bad decisions with all your best friends tonight.”  
Ma devi proprio ricordarmelo anche tu che è sabato sera e io sono a casa come una pantofolaia? Grazie della delicatezza. Però, come hai ragione Todd! Las Vegas è il posto migliore al mondo per folleggiare e fare le peggio stronzate come se non ci fosse un domani. Il problema che mi sconsola è che sapendo fin troppo bene di cosa parli, la smania di andarci in questo preciso istante cresce a dismisura. Ero lì un anno fa esatto, sai? Nella tua città del peccato, per fortuna tu stavi in tour sennò il pensiero di non averti visto mi avrebbe perseguitata, anche se sarebbe stato un mangiarsi le mani retroattivo, visto che all’epoca nemmeno ti calcolavo.
 Sembrava di essere arrivati in un paradiso di finzione, stravizio e caldo. Non ricordo a memoria di avere mai così tanto ringraziato della temperatura da 41° e del vento desertico bollente che spirava sui marciapiedi come quando ho messo piede nella Fabulous Las Vegas.  Perché è giunto il momento di dirlo: fa freddo in California la sera a luglio, fa freddo! Sfatiamo questo mito del caldo, portatevi il felpe e giacche, o gelerete in gonnelle e sandali.  Arrivare a Las Vegas è equivalso a tirar fuori i vestiti leggeri, e lasciare a casa qualsiasi raccomandazione di ogni genere, chi era pronto a cuccare, chi a finire svenuto per via dell’alcool chi aveva intenzione di giocare finchè non avrebbe vinto un po’ di soldi, alla fine tutti volevamo solo divertirci. Giocare nei casinò, passare con disinvoltura dal Bellagio e al Venetian, bere il margarita più buono di sempre alle sei di sera finalmente in abito corto smanicato,  vivere una notte da leoni al Caesar’s Palace e un giorno da sbronzi in hungover al pool party del Tao finendo in limousine come delle celebrità.
Che giorni assurdi.
 
No, no aspetta un attimo Todd, ripeti un secondo? “I will be your alibi. I will tell your mum, your dad, your husband, your wife that you hung out with the Sin City Sinners ‘till 11 o’clock in the morning. So let me take on all your guilt, and all your shame.”
Ho capito bene? Ti offri di coprire tutti i miei peccati? Certo che però se parli in questo modo, guardandomi con quegli occhi, son più lieta di accettare senza indugi. Dove mi porti? A casa tua in piscina? Certo che ti ci vedo sai,  a chiamare mia mamma per dirle “Signora non si preoccupi, sua figlia è stata con me.”  dopo una notte che sono scomparsa quando ero uscita per andare ad un innocente concerto. Sicuramente non ti ringrazierebbe, anche se magari se glielo dicessi di persona potrebbe anche lei essere conquistata dalla tua personalità, non è da escludere, ma non ti illudere, questo avverrebbe solo dopo un bel fanculo.
Ho bisogno di tornare nella tua città Todd per passare un week end dimentica del mondo intero, tanto quello che succede a Las Vegas resta a Las Vegas, ho bisogno di ripassare su la Ciniega vedendo un ragazzino riccio in bici e immaginando che sia Slash, camminare sulle stesse strade un tempo battute da Patti Smith e dai Ramones costeggiate di edifici di mattone con le scale anti incendio a vista e i ragazzi seduti a parlarci e fumare, andare in bici sulla Broadway sopravvivendo alle guide spericolate dei taxisti indiani e pakistani, contemplare per ore il cielo più limpido e azzurro che abbia mai visto o passare un’ora in riva all’Atlantico roboante e in subbuglio, a pensare a quanto siamo uguali nella nostra irrequietudine.
Alla fine, gli Stati Uniti diventano una droga, non dico che sia così per tutti, alcuni li schifano profondamente, ma credo sia questione di feeling, io son sempre vissuta con l’idea che quello era la mia terra,  quando finalmente ci sono andata ho trovato conferma alle mie ipotesi. Insomma ho sentito di avere trovato il mio posto nel mondo dal primo istante in cui ho messo piede in aeroporto. Sono il posto a cui appartengo al di là della nazionalità, non mi sono mai trovata così a casa come in America.
Forse perché alla fine quello è un paese senza vere radici proprie in fin dei conti è nato dall’incontro di varie culture ed ha accolto gli stranieri da sempre, facendoli suoi.
Lì sono riuscita a trovare me stessa, ad essere me stessa e a sentirmi in piena sintonia col mondo e se ci penso così spesso a quello che ho vissuto là è perché è equivalso ad avere compresso esperienze di anni in pochi mesi. E io ci ho lasciato parte di me, sono fisicamente qui, ma il mio cuore è rimasto oltre oceano, a casa.
New York soprattutto, è speciale. Quando si parla di lei come una persona sembra di essere imbecilli o esagerati eppure adesso mi sembra quasi normale farlo perché se vissuta in un certo modo la città diventa un’entità viva, reale, se la gestisci bene la città diventa tua e tu diventi della città, che, in uno scambio equo, ti abbraccia, ti culla, ti rende felice.
Ma anche Los Angeles per quanto sia un grande parcheggio, un insieme di quartieri indefiniti e le sue strade deserte (le freeways no, quelle son sempre tremendamente incasinate,praticamente mezza popolazione losangelina si incontra lì) ha quel quid di speciale che la rende unica, e Las Vegas nella sua finzione artificiosa e di plastica è puro genio. San Diego, Boston, Newport, Huntington… vorrei vedere l’Alabama e New Orleans hanno  quel non so che di affascinante che non voglio perdermi, potrei portarci questi pantaloncini, sarebbero comodi per il road trip.
Chiudo la zip della valigia tirando un sospiro di sollievo e Dammit canta Paradise City assieme a Lexxi Foxx e Satchel. Ti ci porterei volentieri, sai, sarebbe bello fare un viaggio assieme, penso ci troveremmo bene.
Comunque hai visto Todd? Tra una chiacchiera e l’altra sono riuscita a sistemare tutto, finalmente.
Grazie della compagnia e delle belle parole, mi hai aiutata a far passare il tempo più in fretta.
Adesso però devo tornare a scrivere la tesi, anche se forse visto che è l’una è il caso che vada a dormire, sono un po’ stanca. Ci vediamo domani stesso posto, stessa ora ok? Così mi canti ancora qualcosa e se vuoi mi racconti una storia o mi passi un altro po’ della tua saggezza che ti han trasmesso gli dei a loro volta.
Ah e hai ragione, “God bless America.” 

   
 
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