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Autore: franciii    28/07/2012    5 recensioni
“Ah come la città!”.
[...]
“No, come la sindrome”.
Storia classificatasi prima al contest "Trova la tua citazione e stupiscimi" indetto da Wrathy.
Genere: Erotico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Lo studio della dottoressa Williams era largo, e dava direttamente sul parco. Le grandi finestre facevano entrare sempre luce limpida e pulita. Le pareti erano coperte di ogni genere di libri, dai romanzi ai testi scolastici.

Erano ormai mesi che Max andava in quello studio, mesi passati nel più totale silenzio. Mai si erano scambiati più di due parole, lui non voleva parlare e lei era disposta ad aspettare. Dopo tutto il suo lavoro consisteva anche in questo. Aspettare. Lasciare che ogni paziente, ogni uomo, si prendesse il proprio tempo.

Ogni giovedì era uguale. La dottoressa guardava fuori dalla finestra con lo sguardo vacuo e Max girava per la stanza, come un animale in trappola, ogni tanto si soffermava sui libri, ne prendeva qualcuno e lo sfogliava.

Lei era una donna normale, aspetto anonimo quasi, tranne che per gli occhi, scuri e pressanti ed eternamente spalancati, come se ogni cosa fosse una sorpresa, ed era giovane ma possedeva qualcosa di antico nei gesti. Max a volte si incantava a guardarla, a guardare il movimento che faceva per scostarsi i capelli dal viso, per bere quel tè che la sua segretaria le portava alle cinque in punto.

Max invece aveva superato da poco i diciotto anni, ma ne dimostrava la metà. Aveva il viso delicato che hanno certi ragazzi efebici, il corpo minuto e sottile che pareva bastasse un soffio di vento a romperlo. Gli occhi invece erano duri e impenetrabili, ma nascondevano un carattere sensibile e tremendamente insicuro.

Era un giornata uggiosa quella, pioveva. Le grandi finestre erano rigate dalla pioggia.
Max , gli occhi sempre duri e tristi. Jane lo sguardo lontano, sorrideva di tanto in tanto, persa in qualche ricordo.
Fu in quel giorno che lo disse.

“Stoccolma”.

La dottoressa sussultò spaventata e lo guardò con gli occhi spalancati come quelli di una cerbiatta. Lo faceva sempre. Ad ogni rumore forte o imprevisto, lei si spaventava. Poi con una risata si dava della sciocca. Lo fece anche quel giorno, ma poi guardò con vivo interesse Max.

“Ah come la città!”. Ci era stata, forse aveva trovato finalmente qualcosa di cui parlare. Quegli incontri la distruggevano. Il non potere penetrare dentro la barriera creata dal ragazzo, la faceva sentire una fallita sia come dottoressa sia come donna.

Continuava a sorridere.

“No, come la sindrome”. Di poche parole il ragazzo. Nessuna emozione sembrava trapassare quella voce, nulla sembrava toccarlo.

Il sorriso svanì dalle labbra di lei. Le parole erano ancora sospese nell'aria ma arrivò un colpo di vento e le mandò via. A lei parve di sentirle sparire. Provò un viscerale impulso di allungare una mano per bloccarle.

La sindrome di Stoccolma...non era stata diagnosticata come vera malattia mentale, ma spesso ne aveva sentito parlare. In questo caso però c'era qualcosa che non quadrava: i sintomi, se così potevano essere chiamati, non erano quelli giusti.

La curiosità le rodeva dentro, le faceva mordere le labbra e torturarsi le mani. Ma avrebbe aspettato. Non poteva chiedere più di quello che il ragazzo gli aveva detto.
Infatti Max rigirò la testa e continuò a fissare il vuoto come se nulla fosse, totalmente immerso nel proprio mondo.

Così fece anche la dottoressa e poi anche quella seduta finì. Aveva smesso di piovere.

Jane, appena il ragazzo uscì, si tolse le scarpe con il tacco alto e slegò i lunghi capelli legati in una coda alta, li scosse con una mano e chiamò la sua segretaria. Si fece portare un caffè espresso, all'italiana.

Dopo averlo bevuto in un solo sorso, iniziò a camminare in cerchio seguendo i moti del tappeto per terra, la aiutava a riflettere. Seguire una linea materiale, le faceva seguire la linea immateriale dei suoi pensieri. Mentre pensava arrotolava in bocca la lingua che si era scottata poco prima con il caffè.

Quando il ragazzo era venuto da lei con sua madre, la donna le aveva detto semplicemente che il figlio aveva solo bisogno di qualcuno con cui parlare, qualcuno che lo ascoltasse. La Williams aveva accettato perché in fondo anche quello era il suo lavoro.

Dopo un paio di settimane si era decisa a chiamare la madre per dirle che era solo una perdita di tempo e denaro, il ragazzo non avrebbe parlato, non con lei almeno. La madre però non volle sentire ragioni, disse che i soldi erano i suoi e ci poteva fare quello che voleva. Iniziò però a chiamare dopo ogni seduta per sapere se ci fossero stati dei cambiamenti, così diceva lei. Ogni volta Jane dava una risposta negativa.

Jane stette nello studio ancora per un'ora poi decise di uscire, per quel giorno infatti non aveva altri appuntamenti. Non andò subito a casa, ma al parco sotto l'ufficio. Si sedette su di una panchina ad osservare. Mamme e bambini, coppiette, amici.

Le era sempre sembrato affascinante il modo in cui gli altri esseri viventi portavano avanti la loro vita senza che lei interferisse su di essa, probabilmente nessuno si sarebbe accorto di lei, nessuno l'avrebbe ricordata, ma comunque lei era stata parte della loro vita, una parte minima certo ma in quello spettacolo che era la vita anche le comparse erano fondamentali.

L'aria umida che le si appiccicava ai capelli era nauseante, ma lei non si alzò. Non ancora, era troppo intenta a guardare come una bambina stesse cercando disperatamente di attirare l'attenzione della madre, mentre questa, ignara, parlava con le amiche.

Quando il freddo si fece troppo intenso si alzò lentamente e si avviò verso casa, ovviamente a piedi, perché il dolore che le scarpe troppo alte le stavano facendo provare era sublime tortura.
A casa l'aspettava solo un gatto, lo prese in braccio e lo baciò sulla punta del naso. Senza nemmeno cambiarsi (o togliersi le scarpe) si stese sul divano. Il tavolino di fronte a sé pieno di fogli. In quello intitolato “Max”, scrisse Stoccolma?

Si addormentò con il gatto in braccio e il cappotto umido.
Dormì bene quella notte, dormiva sempre bene di Giovedì.

Al mattino si svegliò con le ossa rotte e la bocca putrida. Il gatto se ne era andato.
Si tolse tutti i vestiti e rimanendo in intimo andò nella propria camera, davanti allo specchio. Ispezionò ogni centimetro del proprio corpo con sguardo severo e compiaciuto insieme. Si guardò fino a quando riuscì a prendere preso piena conoscenza di sé, di ciò che era, solo allora si allontanò dal proprio riflesso e andò a lavarsi, diede da mangiare al gatto, lo baciò di nuovo e si gettò nella mischia della città.

Una nuova giornata era cominciata e come iniziarla se non con un caffè...
Il cielo era grigio, pesante quasi, ma la pioggia quel giorno non cadde.

Il giovedì seguente puntuale come al solito Max si presentò.

“Ciao Max, accomodati”.

“Salve dottoressa, grazie mille”.

La routine era nell'aria, piacevole come sapere che ogni dannata sera ci sarebbero state le estrazioni della lotteria, e chissà magari nella sorda routine delle otto di sera, qualche fortunato avrebbe spezzato la propria per sempre.

C'era qualcosa di diverso in Max, qualcosa che andava per oltre il nuovo taglio di capelli. Aveva una strana luce negli occhi. Però il ragazzo non fece nulla.
Jane si mise allora ad aspettare (com'era diventata brava a farlo ultimamente!) e si preparò mentalmente a perdersi nei propri pensieri.

Quel giorno i fortunati furono loro.

“È successo un anno e mezzo fa, in vacanza studio”. Fu quasi irritata, Jane, quando lo sentì parlare. Perché non poteva stare zitto? Perché non poteva fare come al solito? Perché...
“Mia madre aveva deciso di mandarmi in questo posto per farmi fare nuove amicizie, nuove esperienze. La durata era di un mese. Mi venne una paura atroce come quei bambini che si aggrappano alle sottane delle mamme quando queste li lasciano a scuola. Avevo paura, lo ammetto, di non vederla più...mi sentivo però anche ridicolo, perché chi a quasi diciassette anni non ha voglia di scappare dalla propria famiglia?”
E per la prima volta Jane pensò che in quel ragazzo non ci fosse nulla di speciale se non una tenace timidezza e un lieve complesso dell'abbandono; quanto si sbagliava la piccola Jane...

Tenne per sé il proprio commento e con la testa lo incitò a continuare.

“C'era il mio gruppo e quello dei piccoli. Ovviamente i piccoli vennero affidati a noi. Che organizzazione vero...-roteò gli occhi nel dirlo e la bocca gli si piegò in una smorfia disgustata. Jane però faceva finta di prendere appunti e quindi non se ne accorse- La prima settimana la passai a lagnarmi con gli animatori e con mia mamma, a cui potevo telefonare una sola volta al giorno ...”

Continuò a parlare di quanto quella settimana fosse stata orribile e di come avrebbe voluto tornare a casa. Jane non riusciva più a sopportare il suono di quella voce, così banale poi, che riempiva la stanza. E cosa c'entrava la sindrome di Stoccolma?

Alzando gli occhi verso l'orologio appeso al muro, Jane si accorse che il tempo era scaduto. Per la prima volta dovette interrompere il ragazzo.

“Il tempo è scaduto...”, lo disse dolcemente, con quel sorriso che solo le donne sanno fare. “Sono davvero entusiasta del fatto che tu sia riuscito ad aprirti, e ti prego, ti prego, vieni da me giovedì prossimo con questa stessa voglia di parlare!” Se avesse fallito come psicologa si sarebbe dedicata al teatro.

Il ragazzo non rispose, ma annuì convinto e dopo aver salutato andò via.

Jane sospirò portandosi una mano alla testa. Era delusa doveva ammetterlo, si aspettava di più da Max, non che gli dispiacesse che il ragazzo non presentava alcun grave disturbo, però dietro tutti quei mesi passati in silenzio, pensava che ci fosse qualcosa di più.

Ad interrompere il filo dei suoi pensieri fu il trillare del telefono.

“Studio della dottoressa Williams posso aiutarla?”, la voce della sua segretaria era squillante e sicura come al solito e si sentiva anche attraverso la porta chiusa della stanza dove visitava le persone. “Certo gliela passo subito!”.

Entrò nello studio e fece quel gesto. Quello che ormai da mesi voleva dire: Mamma di Max al telefono!

Jane sospirò di nuovo e alzò la cornetta del telefono.

“Salve signora Kant. Si, suo figlio è appena uscito. Si, si, si...certo! Oggi? Beh oggi abbiamo fatto progressi, il ragazzo si sta finalmente aprendo. Guardi non posso dirlo, segreto professionale...va bene signora non si agiti, mi ha parlato del campo estivo...si quello esatto! Già...”, la conversazione proseguì con una serie di risposte a monosillabi da parte della dottoressa e di interessantissimi dettagli del viaggio di andata verso il campo estivo da parte della signora Kant.
Allora disse qualcosa che colpì l'attenzione di Jane.

“Ah...dopo il campo estivo dice? Beh non posso esserne sicura, devo chiedere prima al ragazzo. No signora, io posso fare solo supposizioni. Certo la terrò aggiornata. Arrivederci!”. Sbatté il telefono e si massaggiò l'orecchio arrossato.

La donna aveva detto che la chiusura, se così si poteva chiamare, di Max era iniziata dopo il campo estivo, certo poteva aver influito sul comportamento del ragazzo, ma fino a che punto ancora non poteva saperlo. Glielo avrebbe chiesto il giovedì successivo.




“Era il settimo, o forse il sesto, giorno di vacanza e tutti lì sapevano che non vedevo l'ora di tornare a casa, i ragazzi più grandi avevano iniziato a prendermi in giro e a farmi scherzi di ogni tipo. Tranne uno ragazzo, si chiamava David, non che facesse qualcosa per difendermi, si limitava solo a fissarmi”, raccontò e nel pronunciare il nome del ragazzo le labbra gli si erano increspate in un sorriso dolce.
“Comunque il settimo giorno mi si avvinò senza nessuno dei suoi amici al seguito....

Il ragazzo gli si avvicinò con le mani in tasca e gli occhiali da sole a coprirgli gli occhi.

“Oggi nessuno ti prende in giro piccoletto?”, disse con tono divertito. Max lo guardò con fare di sfida e con le braccia conserte.

“Non sono piccolo, ho soltanto due anni in meno di te!”, rispose Max a tono. Il ragazzo lo guardò con una finta ammirazione.

“Come mai così coraggioso oggi? Di solito di limiti a piagnucolare e ad implorare che venga la tua mammina a prenderti”. Notò David, che si era tolto gli occhiali da sole mostrando a Max i suoi occhi color piombo. Non era vero che Max implorava la madre di venire a prenderlo, non si era ancora abbassato a tanto, ma a volte nel buio del letto piangeva.

Max si morse il labbro. Non lo sapeva neanche lui il perché, quel ragazzo però gli ispirava una strana e insana fiducia e sebbene ne avesse paura, sapeva di poter osare un po' di più con lui. In risposta a David però scrollò solo le spalle.

“E se io ti proponessi un accordo? Io faccio in modo che tu possa chiamare tua madre due volte al giorno e che i ragazzi ti lascino in pace e tu in cambio fai qualcosa per me...”, propose sorridendo in tralice e in modo accattivante.

“E tu cosa ci guadagni in tutto questo? Non siamo neanche amici...”, osservò Max con gli occhi socchiusi che squadravano il volto di David cercando di capire qualcosa di quell'assurda situazione.

“Te l'ho detto, tu in cambio dovrai fare delle cose per me!”, mentre parlava aveva alzato una mano e afferrato io mento di Max, gli aveva girato poi il volto a destra e a sinistra. Max si liberò dalla stretta di scatto, non gli piaceva lo sguardo soddisfatto del ragazzo

“Quali cose?”, chiese. La fiducia provata fino a quel momento momentaneamente dissolta.

Gli occhi di David scintillarono di malizia e Max capì cosa intendeva per “delle cose”. Spalancò gli occhi, spaventato e indietreggiò. David però gli afferrò il braccio e se lo tirò contro. Ridacchiando della reazione di Max gli leccò il collo, piano. Max si divincolò e riuscì a liberarsi dal braccio di David.

Si passò una mano sul collo per pulirselo e David scoppiò a ridere gettando la testa mora al sole. Poi tornò serio.

“È un no questo?”, chiese, senza più nessuna ombra di divertimento nello sguardo.

“Certo che è un no! Io non sono un traviato come te, mi fanno schifo queste cose!”, urlò disgustato.

David si rimise gli occhiali e si passò una mano fra i capelli.

“Bene Max, io la mia offerta l'ho fatta. Sono sicuro che queste tre settimane di vacanze saranno un spasso per te”. Detto questo se ne andò così com'era venuto.

Max lo fissò camminare piano e raggiungere i suoi amici in spiaggia. Rabbrividì pensando alla lingua del ragazzo sul suo collo e correndo andò verso le docce.

Jane fissava Max con la bocca leggermente aperta e gli occhi sbarrati.

“Lui voleva offrirti la sua protezione in cambio di favori sessuali?”, chiese in un fil di voce. Max non sembrava minimamente sconvolto per quello che aveva raccontato, aveva l'aria solo di uno che non vedeva l'ora di finire il proprio racconto, come se questo stesse premendo forte contro la sua gola.

“Meno male che tu hai rifiutato. Insomma sarà pure stata un'estate d'inferno, ma dagli scherzi con il dentifricio ad un ricatto sessuale c'è un enorme differenza!”.

“Ho resistito solo due giorni, due maledettissimi giorni...”, ricominciò a raccontare e la dottoressa spalancò così tanto gli occhi che Max ebbe paura che gli sarebbero potuti cadere.

Resistette due giorni soltanto. La sera precedente i ragazzi avevano dato il meglio di loro con gli scherzi e lo avevano rinchiuso a chiave dentro uno dei bagni all'aperto. Erano venuti a salvarlo gli animatori ore dopo, quando ormai lui si era fatto completamente ghermire dalla paura.

In cuor suo sapeva che la mente di quell'ultimo scherzo doveva essere stata quella di David e anche degli scherzi orribili dei giorni precedenti – un ragno enorme nel letto, i suoi vestiti privati di alcune loro parti fondamentali e via dicendo- però quando si ritrovò al limite della sopportazione, fu proprio da David che corse, fu proprio nel suo bungalow che si gettò con le lacrime agli occhi.

Appena entrò dentro e i ragazzi lo riconobbero iniziarono a prenderlo in giro, David però li zittì tutti e li mandò via. Rimasero solo loro due.

“Cosa vuoi? Hai già cambiato idea?”, domandò David, la voce fredda e pungente. Max si limitò ad annuire, non fidandosi della propria voce. Davide scese dal letto dove era sdraiato e gli si parò davanti, gli alzò il mento e lo fissò dritto negli occhi.

“Ti ho fatto una domanda ad alta voce e mi aspetto una risposta a voce altrettanto alta”. Max cercò di liberarsi, ma la stretta di David questa volta era troppo forte, voleva almeno chiudere gli occhi, ma qualcosa nel volto di David gli fece capire che non sarebbe stata una buona idea.

“Sono stanco di tutti questi scherzi e po-”, uno schiaffo veloce ma doloroso gli mozzò le parole.

“Non è quello che ti ho chiesto. Io ho domandato se tu avessi cambiato idea!”, disse in un modo che era perversamente dolce, come se stesse addestrando un cucciolo particolarmente stupido. Max da parte sua si era paralizzato, come gli era venuto in mente di andare da quel tizio? Ma sempre quel qualcosa sul volto del ragazzo che aveva di fronte gli disse che ormai era troppo tardi.

“Si...ho cambiato idea...posso ancora accettare il patto?”, chiese e questa volta fu bravo perché David lo ricompensò lasciandogli il volto e dandogli una carezza lieve sulla testa, forse fu grazie al tono che aveva usato o forse per lo sguardo che implorava di non fargli male.

“Si che puoi accettare il patto. Quindi tu Max giuri di fare tutto quello che ti dirò di fare in cambio di una protezione?”, chiese con tono fintamente solenne.

“Lo giuro...?”, rispose Max con quella che pareva più una domanda che un'affermazione.

“Bravo Max! Ora passiamo subito a quello che voglio io, ma prima...Max tu hai mai dato un bacio?”, domandò mentre gli girava attorno per osservare ogni suo dettaglio. Le guance di Max si incendiarono, però almeno per questa domanda la risposta era semplice.

“Si...anche più di uno”. Non lo disse per vantarsi, ma solo per dire la completa verità. Un guizzo divertito passò negli occhi di David.

“Più di uno? Sei un donnaiolo allora, scommetto che chi ti ha baciato lo ha fatto per pietà! Ma guardati, se non fosse che hai il pisello sembreresti una femmina”, lo derise. Max arrossì di umiliazione e abbassò lo sguardo. “Ma va bene lo stesso, anzi può rendere le cose interessarti. Non ti chiedo se hai fatto sesso perché la tua faccia dice tutto. Credo che mi toccherà insegnarti le basi prima di avere quello che voglio”.

E gliele insegnò davvero le basi, prima con la teoria e poi con la pratica. Partirono da una cosa semplice come un bacio fino ad arrivare ad usare davvero la bocca e le mani per qualcosa, come diceva David, di più utile che parlare e gesticolare.

Non fu una cosa rapida e indolore. Max sbagliava spesso, parlava quando non doveva farlo e aveva troppa paura di quel ragazzo. Si beccò molti schiaffi, pochi sul viso e molti sul sedere. Però David mantenne la promessa, poté chiamare due volte al giorno sua madre e tutti smisero di infastidirlo.

Nonostante gli errori, era parere di David che Max avesse un talento naturale per un certo genere di cose. Ogni sera Max doveva presentarsi alle nove in punto da David, lui lo ispezionava e lo rispediva indietro se qualcosa non era di suo gusto, dalla piega dei capelli, al colore delle mutande. Quella volta Ma si presentò impeccabile.

“Sei stato bravo questa volta, hai anche messo quei jeans che ti avevo consigliato. Bravo, ti meriti un premio. Scegli tu quale”, sentenziò David seduto sul letto, con Max inginocchiato davanti a lui. Ovviamente il premio non doveva dare piacere a Max, ma a David, però ormai dare piacere a David era darne anche a se stesso.

Così Max non ebbe alcun indugio, voleva fare una cosa dalla prima volta che gli era stata mostrata. Non gli era concesso di toccare David senza il suo permesso, ma pensò di poterlo fare ora visto che poteva scegliere un premio. Il ragazzo di fronte a lui non lo picchiò e Max la prese come una cosa positiva.

Sempre in ginocchio gli slacciò la cintura e poi i pantaloni e li calò assieme all'intimo fino alle ginocchia del proprietario, fissò il sesso di David con un'espressione leggermente estatica e quasi famelica. Lo toccò piano temendo di venire punito, ma prese più coraggio quando David gli accarezzò i capelli, Max a questo punto chiuse gli occhi- aveva imparato ad adorare quel gesto-, e diede un bacino sulla punta di quel membro che pian piano andava risvegliandosi. Provò una sensazione di feroce piacere nel pensare che David di stava eccitando grazie a lui.

Continuò quel gioco di mani e baci finché l'erezione non gli svettò fra le mani, solo allora ci si gettò sopra con un gemito mentale. Non vedeva l'ora di farlo, sentire quel membro premergli contro la gola ad ogni spinta. Sentì le mani del ragazzo fra i capelli che gli diceva quanto fosse diventato bravo e si eccitò come mai gli era capitato prima.

Forse David era di umore particolarmente buono quel giorno, perché quando venne lo ripagò con dei gemiti forti e terribilmente carnali. Max lasciò andare il membro non più duro e si leccò le labbra, David lo sollevò da sotto le ascelle e se lo mise a sedere sul letto. Max amava quando lo trattava come se fosse una bambola, la sua bambola o come un bambino piccolo che necessitava di una severa disciplina. Quando David lo congedava, Max correva nel suo letto si masturbava rapidamente, venendo mentre nella sua testa David lo prendeva con forza e senza alcuna cura, senza alcuna...

“Dovrei concederti premi più spesso sai...sei particolarmente bravo nel succhiare”, disse David, quello vero non quello dei suoi sogni che però lo prendeva con altrettanta voracità, e lo baciò, quasi Max venne in quel momento...

“Continuò così per tutta la vacanza, lui ordinava e io ubbidivo. Io sbagliavo e lui mi puniva. Io ero bravo e lui mi premiava”, finì di dire Max, la cui bocca era ormai asciutta.

Jane aveva perso l'uso della parola. Il piccolo, perché all'epoca era piccolo, Max era stato usato come giocattolo sessuale e lei invece di correre a chiamare la polizia era ancora lì perché c'era qualcosa che gli premeva chiedere.

“Max perché me ne hai parlato solo adesso, dopo tutti questi mesi di terapia? E perché tua mamma dice che dopo quell'estate ti sei chiuso in te stesso?”, chiese con delicatezza, nonostante volesse sbraitare.

“Perché David mi è venuto a prendere la settimana scorsa e io avevo voglia di dirlo a qualcuno...”, rispose con una vocina piccola piccola, da bambino quasi. “Ho smesso di parlare con mia madre solo perché David alla fine di quell'estate mi ha detto che se ne avessi parlato con mia madre non mi avrebbe più voluto con sé! Capisce? Credo di aver fatto male a parlarne con lei, però lei non lo dirà a nessuno vero?”. Come poteva promettergli una cosa del genere? Però di fronte agli occhi lucidi del ragazzo non poté che annuire.

“Solo un'ultima cosa, che c'entra la sindrome di Stoccolma in tutto questo?”, domandò, credendo di sapere già la risposta.

Max la guardò come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

“Io lo amo, dottoressa Williams , ogni volta che lui mi fa del male il mio amore cresce, accetto ogni sua punizione con un piacere che lei non potrà mai nemmeno immaginare, lui mi ha rapito da me stesso e io gli sono grato per questo...a volte però vorrei non averlo mai incontrato, a volte fa male, non al corpo, ma alla mente. Certe volte vorrei non rispondergli quando mi chiama”, ammise poi, con le guance infiammate di vergogna.

“E perché non lo fai?”.

Max fece un sorriso storto e ironico nelle lacrime e fu con voce suadente che disse: “Un bambino scottato ama il fuoco”.

Quasi Jane scoppiò a piangere nel sentire quella frase, ma si trattene e chiese dove fosse David in quel momento, lui le rispose che era in un albergo in centro città e che anche lui stava andando là. Buffo come il ragazzo fosse così disponibile e così pieno di fiducia.

Finita l'ora del loro appuntamento settimanale Jane quasi cacciò Max, che dopo aver confessato e gli disse che si sarebbero visti la settimana prossima.

Chiamò la sua segretaria e si fece fare il numero della polizia perché a lei tremavano troppo le mani.

“Pronto polizia? Sono la dottoressa Jane Williams, ho uno studio di psicoanalisi in centro, vorrei sporgere denuncia contro...”. Spiegò tutto alla polizia e poi chiese di venire informata riguardo agli sviluppi di quell'indagine che si era appena aperta.

Quel giorno si fece portare a casa in taxi e, per la prima volta di giovedì da quando aveva in cura Max, dormì male.




David non venne arrestato per mancanza di prove e perché Max negò tutto. David scomparve e non si fece più sentire né vedere, Max cadde in una profonda depressione. La madre del ragazzo tentò di ricontattare la dottoressa Williams, ma tutti i numeri in suo possesso non erano più attivi, e fu costretta a mandare il suo unico figlio in un ospedale specializzato dopo il tentato suicidio di quest'ultimo.

In quando a Jane, se si osservava bene, la si poteva trovare seduta su una panchina in uno dei parchi della città. Aveva gli occhi stanchi la piccola Jane, stanchi e spalancati e mentre gli altri continuavano a vivere e a recitare nel loro spettacolo, Jane faceva da semplice spettatrice.




Note:
Salve! Questa storia è stata scritta per un contest e com mia somma gioia sono arrivata prima! Qui sotto vi riporto il commento alla storia!
Spero vi piaccia e che decidiate di lasciare un commento ^^
[EDIT 28 Agosto: Come una cretina mi sono dimenticata di dire che la frase che avevo scelto di utilizzare per il contest è la seguente: "Un bambino scottato ama il fuoco", di O. Wilde! Scusate davvero la mia distrazione >.<]
A presto,
Fra :3

Commento:

stile 10/10
Ho davvero amato il modo in cui ha trattato l'argomento, prima attraverso gli occhi di Jane poi tramite i fashback di Max, veramente un' ottima scelta stilistica, in grado di trasportare il lettore nella storia un po' perversa tra Max e David.
Originalità 20/20
Un tema non originale al cento per cento, ma che tu hai trattato in modo particolare, trattando prima la "freddezza" della dottoressa, che vorrebbe che Max continuasse a tacere, ma allo stesso tempo curiosa di sentire di cosa vuol parlare. davvero ottima anche la caratterizzazione dei personaggi.
Gradimento personale 10/10
Questa storia mi ha davvero affascinata, sia per l'argomento da te scelto, che non è dei più facili, ma che tu hai saputo trattare veramente bene, sia per lo stile utilizzato, veramente una storia che cattura il lettore già dalle prime righe.
Citazione 5/5
La citazione da te utilizzata mi è molto cara, per cui devo ammettere che ero molto curiosa di scoprire come avevi deciso di utilizzarla, e devo dire che hai scritto un vero capolavoro, la frase è perfetta, non stona affatto, anzi, nel contesto appare quasi come una provocazione.
Complimenti!

45/45
  
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