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Autore: Gan_HOPE326    17/02/2007    9 recensioni
Per ogni eroe che assapora la vittoria, altri cento mordono la polvere...
Per ogni nome scritto a lettere d'oro negli annali, altri mille vengono dimenticati...
Genere: Drammatico, Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Lamento per un eroe dimenticato

Una fanfiction che volevo scrivere da tanto tempo, e che finalmente vede la luce. Ho sempre desiderato raccontare Dragonball da un punto di vista diverso, quello di un terrestre ignaro delle vicissitudini dei nostri eroi preferiti. Delle persone comuni tutto ciò che Toriyama ci fa vedere è che sono (con tutto il rispetto…) una massa di isterici sempre pronti a darsi alle urla e al panico più incontrollabile al minimo segno di pericolo; io, invece, volevo mostrare come, nel suo piccolo, pure un normale essere umano possa essere un eroe, anche se tristemente destinato all’oblio. La storia si ambienta in una città di cui non conosciamo il nome, durante i giorni della crisi di Majin-Bu. Leggete e commentate!

 

Lamento per un eroe dimenticato

Di Gan_HOPE326

 

Per ogni eroe che assapora la vittoria, altri cento mordono la polvere…

Per ogni nome scritto a lettere d’oro negli annali, altri mille vengono dimenticati…

 

Pensaci bene: non dev’essere poi così male. Diventerai piccolo, rotondo e morbido. Una cosa semplice e carina. Poi, dolcemente, senza più sentire nulla, né dolore né paura, ti scioglierai, e sparirai. Ci sono modi molto peggiori di morire. Potresti finire buttato a terra, senza più gambe né braccia, condannato a morte certa, eppure con ancora in corpo quelle poche gocce di sangue che ti permetteranno di sopravvivere altri dieci minuti, dieci minuti in cui potrai assaporare fino in fondo il più atroce dolore della tua vita. Perché, non illuderti, è questo che ti attende sul campo di battaglia, non ci sono sconti se decidi di giocare il tutto per tutto. E prima della battaglia, la paura, la tensione, l’angoscia, la trepidazione per lo scontro imminente. Perché vuoi affrontare tutto questo? Puoi evitarlo. Fa’ come tutti gli altri, vivi sereno e ignorante questi ultimi giorni, e quando verrà il momento finirà tutto subito.

Te l’ho detto, non dev’essere poi così male, diventare una caramella.

 

Il bar era immerso nella penombra, a rischiarare l’ambiente erano solo i pochi raggi di sole che filtravano dalla tenda di perline dell’ingresso, e la surreale luce bluastra e intermittente del televisore. Kim, il barista, puliva boccali lerci con uno straccio altrettanto sudicio. Sullo schermo compariva la stessa immagine da giorni, lo studio del telegiornale dal quale un anchorman recitava una lunga litania di bollettini di guerra. Afferrava i fogli che gli porgevano e li leggeva uno dopo l’altro con voce atona, senza emozione. Era stanco e disperato; tutto il mondo, in quei giorni, era stanco e disperato.

-         Si segnalano almeno ventitremila decessi nella zona numero 43. Distrutti i villaggi di Daisy Hill, Tower Town e Dawn. L’attacco a North City, invece, avrebbe causato almeno tre milioni duecentoventiquattromila morti, secondo le stime del governo centrale… L’esercito ci informa ora che Majin-Bu sarebbe in volo verso ovest, coordinate 43.332.98… gli abitanti delle zone che si trovano lungo questa rotta sono pregati di evacuare i centri urbani senza farsi prendere dal panico.

-         Bah, almeno non sta venendo qui. – borbottò Kim. Aveva già rinunciato da un bel pezzo alle sue pulizie, e ora guardava la televisione senza troppo interesse.

Si udì un tintinnio, e le perline davanti all’ingresso si scostarono.

-         Oh, Takashi, sei tu! Cosa ti serve? Posso offrirti…

-         Solo una bottiglia d’acqua, grazie.

Ad entrare era stato un ragazzo sulla ventina. Una zazzera arruffata color rosso fuoco, fisico asciutto ma dai muscoli tesi, vestiti laceri e sporchi. Frugò un secondo nelle tasche dei pantaloni e ne estrasse qualche moneta che lasciò tintinnare sul bancone. Kim rise:

-         Per quello a cui mi serviranno, puoi anche tenerle!

Takashi non disse niente, si limitò a spingere con decisione il denaro in direzione dell’altro. Più che una preghiera affinché Kim lo accettasse, il suo sembrava un ordine. Il barista si decise e intascò i soldi.

-         Oh, capisco, so come la pensi. Ecco la tua acqua.

Takashi afferrò la bottiglietta e la infilò in una larga tasca dei pantaloni, poi si incamminò verso l’uscita. Era giunto a metà strada quando si ritrovò faccia a terra, dritto contro il pavimento di legno. Si rialzò senza dire una parola. Accanto a lui stava l’unico altro avventore del locale, un alcolizzato dalla risata sguaiata che non faceva altro che ingozzarsi di liquori dalla mattina alla sera e dare fastidio agli altri clienti. Era stato sicuramente lui a fare lo sgambetto a Takashi, e ora si era messo a sbraitargli contro:

-         Acqua! Devi essere proprio un coglione, sbarbatello! Morirai nel giro di qualche giorno, e pensi a bere ACQUA? Dovresti goderti di più la vita!

Il ragazzo non si scompose, rispose con serafica calma:

-         Come hai detto, sono giovane. Non vedo perché dovrei morire così presto.

-         Cazzo, ragazzino, sei ancora più stupido di quanto pensavo! Majin-Bu! Majin-Bu ci farà fuori tutti! E’ arrivata la fine del mondo! Spassiamocela finché siamo in tempo, che fra due giorni saremo tutti all’inferno!

-         E’ certamente un posto adatto per te. – commentò Takashi. Non aveva perso la calma, ma la sua voce non aveva più l’apparenza innocente di prima, e adesso era fredda come il ghiaccio. – Io non ho intenzione di fare da pasto per quel mostro. Se ci fossero più uomini veri e meno…

Lanciò un’occhiata all’ubriacone e sputò le sue parole con un disprezzo indicibile.

-         …meno topi di fogna che al primo segno di pericolo si imboscano in qualche buco a sbronzarsi, forse combatteremmo per il nostro futuro, invece di attendere il macello da brave pecore.

-         EHI, STRONZETTO, MA CHI TI CREDI DI ESSERE PER PARLARMI CON QUEL TONO?

Il provocatore perse del tutto la calma e si gettò con furia disordinata contro Takashi, che non mosse un dito e finì di nuovo a terra. Questa volta, rialzandosi, sentì qualcosa scorrergli contro la gamba, un liquido fresco. La bottiglia d’acqua si era rotta nella caduta. Il ragazzo, allora, si portò davanti al suo aggressore, che lo fissava quasi divertito.

Con il primo pugno, Takashi lo colpì dritto allo stomaco. Quello si piegò in due dal dolore, e il ragazzo non dovette nemmeno sollevare il braccio per sferrare un secondo colpo, alla bocca. Kim scosse la testa, sconsolato, come chi assiste ad uno spettacolo che conosce fin troppo bene, e prese un'altra bottiglia d’acqua da sotto il bancone, che porse a Takashi.

-         Prendila, forza, e stavolta non pagare. Offre la casa, come risarcimento danni.

Takashi annuì e intascò la bevanda, poi uscì dal bar. L’ubriacone, sollevatosi dalla pozzanghera di sangue e vomito che aveva appena finito di riversare sul pavimento, lasciandoci dentro anche un paio di denti, lo fissò con occhi iniettati di sangue, come quelli di un cane rabbioso.

Non lo perse di vista un istante.

 

Pochi spettacoli sono più desolanti di quello di una città fantasma. Quando la vita della metropoli era al suo culmine, tu che ci abitavi imprecavi per il troppo traffico, per i semafori sempre troppo rossi e troppo poco verdi, per i borseggiatori, per l’inquinamento. Guardala ora. Le strade deserte implorano di essere percorse, usate, calpestate, mentre ai loro bordi i pochi semafori che ancora sono alimentati dall’elettricità lampeggiano al vento i loro inutili segnali. Adesso il loro verde, il colore della speranza, è solo un insulto. Nessuno cerca di derubarti, perché il denaro non serve più a nulla. Puoi respirare tutta l’aria pura che vuoi, ma dentro ci sentirai l’odore dei calcinacci che già si staccano dai palazzi. Questo è un cadavere, un enorme, pesante, putrido cadavere di ferro e cemento che si sta decomponendo a pancia all’aria. Contro cosa vorresti combattere? Contro colui che è stato capace di fare questo? E non credere che sia solo qui, ormai è dappertutto la stessa storia, in tutto il mondo. Le poche città che, come questa, hanno avuto la fortuna – fortuna? Certo, come no… – di non essere distrutte sono state abbandonate, la gente è sfollata nelle campagne. Sono rimasti solo quei pochi così stupidi da credere che l’occasione di darsi allo sciacallaggio sia un buon motivo per rischiare la vita, e quelli che non avevano modo di andarsene, come te. Lo so, lo so, se tu avessi voluto avresti potuto andar via… da solo te la saresti cavata, vivendo per strada e mangiando quel che si trova. Ma tu…

…tu non sei solo, giusto?

 

Da sola, chiusa nel magazzino, la bambina aveva paura.

Aveva paura del buio, nel quale si potevano nascondere tutte le peggiori minacce che la mente potesse immaginare, e aveva paura di quell’unico, sottile raggio di luce che passava dalle assi inchiodate all’ingresso, troppo poco per illuminare l’ambiente, abbastanza per riempirlo di innumerevoli e terrificanti ombre.

Aveva paura di ogni minimo rumore, ogni scricchiolio insolito o sibilo causato dal vento, e aveva paura del silenzio, inquietante promessa di chissà quali spaventosi rumori futuri, o, peggio, di altro silenzio.

Aveva paura, soprattutto, dei topi. Piccoli maledetti roditori nascosti chissà dove, infilati nei loro buchi, da dove squittivano e grattavano. La bambina ne era sicura, stavano solo aspettando che lei si addormentasse, poi sarebbero venuti a mangiarla. Si sarebbero avvicinati piano... timidi, sulle prime, certo… poi avrebbero cominciato a rosicchiarla, lentamente, dalle dita dei piedi…

-         Molly, sono tornato!

-         Tak, fratellone!

Le assi si schiodarono con un rassicurante fragore, la luce inondò violentemente lo scantinato e sulla soglia apparve Takashi. La bambina corse ad abbracciarlo. Si vede che la paura aveva a sua volta paura di suo fratello: perché dopo averlo visto era fuggita via, veloce veloce, senza lasciarsi dietro la minima traccia.

 

-         Ecco l’acqua. Avevi sete, giusto?

Molly annuì con decisione, afferrò la bottiglietta e se ne scolò almeno mezza con avidità. Una volta dissetata, però, partì all’attacco.

-         Si può sapere dov’eri finito? Sei stato via per una vita!

-         Ma … -  disse Takashi, divertito – saranno stati al massimo dieci minuti!

-         Questo lo dici tu! Chissà dove vai a spassartela, vero? E io qui, tutta sola!

C’era da mettersi le mani nei capelli. Molly aveva solo otto anni, e già era terribilmente difficile tenerle testa. Pensare cosa sarebbe diventata da grande metteva i brividi. Il ragazzo cercò di ragionare con lei, ma non riusciva proprio a trattenere le risate:

-         Guarda che se hai paura di restare sola non posso farci nulla! Ti assicuro che portarti là fuori sarebbe molto più pericoloso… e poi, scusa, ti ho lasciato la radio apposta, perché ti facesse compagnia. Che ne hai fatto?

-         Ma certo! La radio! Eccola, senti un po’…

La bambina, sempre furiosa, afferrò una radiolina a transistor e smanettò un poco con la manopola della sintonia. Dagli altoparlanti uscì fuori un suono stonato che in origine doveva essere stato musica, ma adesso ricordava più che altro i rantoli di un moribondo. La diagnosi era infausta: batterie irrimediabilmente scariche. Takashi passò in difesa:

-         Ehi, lo so che non ho potuto procurarti le batterie, ma cosa credi? Sono una merce molto rara, non ce n’è quasi più! Ma se preferisci passerò il tempo a cercare quelle anziché “inutile” cibo…

-         Tutte scuse. – tagliò corto Molly.

Sdegnosa e imbronciata, si voltò di lato, decisissima a non rivolgere più la parola al fratello almeno per il resto della giornata. Raccolse da terra un mucchietto di stracci legati assieme che in quei giorni usava cullare a mo’ di bambola, l’unica cosa rimastale che avesse la parvenza di un giocattolo. Mormorando una ninnananna per la sua bambina di stoffa, si adagiò su un mucchietto di sabbia e calcinacci insospettabilmente morbido. Dopo un po’, Takashi non sentì più la sua voce, e si voltò a controllarla. La trovò addormentata con la bambolina tra le braccia. Le posò un bacio sulla fronte e uscì fuori per allenarsi.

 

C’era un blocco di cemento in mezzo alla strada. Si era staccato da un cornicione qualche giorno prima, durante uno dei molti innaturali terremoti che avevano scosso la città, in realtà echi delle lontane esplosioni causate da Majin-Bu, ed era rimasto conficcato nell’asfalto, piantato in terra e lanciato verso il cielo con i suoi quasi tre metri di altezza. Di fronte a questo insolito monolito, Takashi si preparava ad iniziare i propri esercizi, respirando profondamente e riscaldando i muscoli delle braccia.

Sferrò un pugno contro il cemento.

Colpisci, per diventare più forte.

Un altro colpo, ancora più violento.

Colpisci, per diventare più veloce.

E ancora, ancora, ancora pugni, sempre più rapidi. Le mani cominciarono a sanguinargli, la pelle lacerata dall’urto con il ruvido calcestruzzo, ma Takashi continuò il suo attacco.

Colpisci, per dimenticare quello che ti porti dentro. Per dimenticare quello di cui ti vergogni, quello che fai di tutto per nascondere agli altri, che vorresti celare persino a te stesso. Tu vuoi dimenticare noi: vuoi dimenticare i tuoi dubbi. Non ti importa del dolore, tu vuoi il coraggio di proseguire su questa strada impossibile che hai imboccato, e la forza per andare avanti. Tu non sai se potrai uccidere Majin-Bu, vero? Certo, eri il migliore della tua palestra; certo, il tuo sensei ti ha più volte fatto i suoi personali complimenti; e certo, l’anno scorso al torneo dei giovani combattenti hai addirittura battuto Videl, la fortissima figlia di Mister Satan. E a che cosa ti servirà, adesso, tutto questo? Questa è la guerra, qui non ci sono arbitri, qui si vince o si muore. Ti riempi la testa di belle parole, vuoi difendere la tua dignità di essere umano, vuoi dimostrare di essere qualcosa di più di uno cioccolatino da mangiare. Ma ci vuole la forza, per sostenere le tue idee. Tu ce l’hai? Non lo sai, non lo sai, ti tormenti nel cercare una risposta. Quant’è potente davvero Majin-Bu? L’hai visto anche tu cosa è capace di fare: tu ci riusciresti? Distruggere una città? VOLARE?

-         Ci riuscirò – mormorò Takashi a denti stretti, e intanto continuava a sferrare i suoi micidiali pugni, rovinandosi le mani contro il duro blocco di cemento.

Negli ultimi giorni, lo sentiva, qualcosa stava cambiando dentro di lui. Aveva imparato la concentrazione, e attraverso il dolore che provava durante quei massacranti allenamenti aveva raggiunto il vuoto mentale. E allora aveva cominciato ad accorgersene. Dapprima, come una scintilla che brilla un attimo nel buio, gli era apparsa la farfalla che batteva le ali alle sue spalle. Un leggero tremolio nella pressione dell’aria, niente di più, ma l’aveva percepito. Poi i fogli di carta che il vento trascinava sull’asfalto a qualche metro di distanza, poi i vetri che lassù, all’ultimo piano di un grattacielo, tintinnavano impercettibilmente. Era come una seconda vista; ne era certo, questa era la vista interiore di cui favoleggiavano le leggende sugli antichi maestri di arti marziali. La vista interiore, e dopo sarebbe venuto il ki, l’energia spirituale.

-         Ci riuscirò – ripeté tra sé e sé. Era quella la via, la via per volare, la via per distruggere le città, o i nemici, con solo un gesto della mano.

E se non sei all’altezza? O credi che Majin-Bu sia un bamboccio inesperto? E’ come quel blocco di cemento che ti ostini a usare come punching-ball. Non importa quanto forte, o quanto duro, lo colpirai, non riuscirai a farlo crollare. Esso si erge davanti a te come un muro insormontabile. E’ il tuo limite, è il confine che non oltrepasserai mai. Rassegnati, una buona volta, rannicchiati in un angolo e aspetta la morte, e non soffrirai.

-         Preferisco soffrire! – urlò Takashi, lanciando tutta la propria frustrazione in una serie furiosa di pugni contro il monolito davanti a lui – Preferisco soffrire, e combattere, e morire in battaglia, piuttosto che andarmene in silenzio come tutti gli altri! Noi abbiamo vissuto su questo pianeta per milioni di anni! Abbiamo costruito città e nazioni! NON PUO’ FINIRE COSI’!

Si fermò, ansimando per il terribile sforzo, e lasciò cadere le braccia lungo il corpo. Dalle mani gocciolava sangue rosso vivo, e dal volto scendevano lacrime colme di amarezza.

-         Questo blocco di cemento – mormorò tra i singhiozzi – io giuro che lo romperò.

Se ne sei convinto…

Vedremo se si romperà prima il cemento o le tue mani.

 

-         Vieni fuori, dai, ti ho sentita. Lo so che sei sveglia.

Molly uscì dal magazzino con passo incerto, stropicciandosi gli occhi e facendo smorfie per smuovere la bocca impastata.

-         Scusa, ma tu come hai fatto ad accorgertene? – chiese con curiosità.

-         Dal respiro. Quando dormivi era più lento, poi è accelerato e quindi…

Molly fissò suo fratello come se avesse avuto davanti un pazzo. Poi scoppiò a ridere:

-         Mi prendi in giro! Nessuno può sentire il respiro di un altro da così lontano!

-         Ma no, ti giuro che è vero!

-         See

La bambina corse accanto a Takashi e si sdraiò sull’asfalto, a guardare il cielo. Si accorse dello stato pietoso delle mani del ragazzo e gli chiese che fosse successo.

-         Ah, niente… - disse lui, con noncuranza – Ci sono andato un po’ troppo pesante con gli allenamenti, non è grave. Piuttosto, tu che hai? Mi sembri strana.

Molly non rispose per un bel pezzo, perché fissava con aria sognante le nuvole che cambiavano forma e giocavano con il vento. Sembrava impossibile ma, persino in quei giorni terribili, qualcosa era riuscito a donarle una serenità che sembrava appartenere al passato.

-         Ho fatto un sogno. – disse infine – Ho sognato quel guerriero.

-         Quale?

-         Ricordi quando compariva quel mago, quello che diceva di essere il capo di Majin-Bu?

Takashi annuì. Eccome se lo ricordava. Per qualche giorno un esserino disgustoso e verdastro si era infilato nelle menti di tutti i terrestri, proiettando le immagini delle terribili catastrofi provocate dal mostro rosa. Poi era sparito, ma le devastazioni erano continuate, così nessuno ci aveva badato molto. Era una piccola stranezza nel quadro di un incubo ben più assurdo e grande, inutile prestarci attenzione.

-         Quando quel tizio è comparso l’ultima volta – continuò Molly – ci ha fatto vedere un combattimento, e c’era un guerriero fortissimo, che diventava biondo, e poi i capelli gli si allungavano fino alla cintura... ecco, ho sognato lui. Mi prendeva in spalla, e mi portava in volo su tutto il mondo. Era bellissimo, era tutto lontano e piccolo, e io salutavo tutte le persone che vedevo. Poi ho pensato che era pericoloso volare così, perché si poteva incontrare Majin-Bu, e l’ho detto al guerriero, e lui sai cosa mi ha risposto?

-         Cosa ti ha risposto?

-         Mi ha risposto: “Majin-Bu l’ho sconfitto io, non devi preoccuparti. E’ tutto finito.” E le città erano di nuovo perfette, tutti erano felici, ballavano e cantavano…

Takashi sorrise alla sorellina e distolse lo sguardo, per non lasciarle vedere quanto quelle semplici parole di bimba gli avessero fatto male. Davanti ai suoi occhi si stendeva la città in cui era nato e cresciuto, ormai in ginocchio, sull’orlo della rovina. No, persino se Majin-Bu fosse stato sconfitto, ammesso che fosse possibile, nulla sarebbe mai più tornato come prima. Ci sarebbe voluto un miracolo. Dall’altro lato della strada, un tizio vestito di stracci aveva infranto la vetrina di un negozio abbandonato con un mattone e stava trafugando tutto quello che poteva con mani avide. Quando si accorse che Takashi lo fissava afferrò la refurtiva e fuggì via, temendo che qualcuno lo potesse privare del suo misero tesoro. In quella goffa e precipitosa corsa quasi tutti i frutti del suo saccheggio finirono a terra. Takashi abbassò gli occhi, a guardare le proprie mani insanguinate.

Non esistono eroi, non esistono guerrieri pronti a rischiare la vita per la Terra.

Inutile sperarci.

Puoi contare solo su te stesso.

-         Quel guerriero… – disse a bassa voce, pensieroso – …quel guerriero non riuscirà a battere Majin-Bu.

-         E perché, scusa? – esclamò Molly, piccata.

Takashi scoppiò all’improvviso in una risata, rompendo la gravità del momento:

-         Che domande! Perché quando arriverà sul campo di battaglia io l’avrò già ridotto in cenere, quel brutto ciccione rosa!

Molly rise a sua volta, rassicurata dalla spavalderia del fratello.

Alle sue spalle, nascosto tra i mucchi di rifiuti, qualcuno osservava la scena.

Due occhi iniettati di sangue.

Come quelli di un cane rabbioso.

 

-         Nooo, Tak! Non se ne parla!

-         Dai, Molly, non fare i capricci! Se ti dico che è meglio che tu rimanga qui…

-         Non ci resto di nuovo da sola nel magazzino! Non voglio!

La disputa era cominciata dieci minuti prima, e non accennava a risolversi. Takashi aveva le proprie ragioni, e si era dilungato a spiegare come ci fosse bisogno di trovare altro cibo, prima che venisse tutto razziato dagli sciacalli, e come fossero assolutamente necessari anche fiammiferi, accendini o qualunque altra cosa che potesse servire ad accendere il fuoco, dal momento che non avevano nulla del genere. Aveva anche accennato alla possibilità di cercare delle batterie per la radio, sperando di far cedere Molly con quella lusinga, ma inutilmente. La bambina si era intestardita sulle sue posizioni, e aveva deciso che non avrebbe mai e poi mai acconsentito a rimanere ancora nel silenzio dello scantinato, in mezzo al buio e ai topi.

-         Meglio morta! – esclamò con sincero trasporto.

 Suo fratello sospirò profondamente, e lei capì di averla avuta vinta. Ringalluzzita, smise immediatamente con i capricci e restò impettita e trionfante a fissare Takashi.

-         dentro a prendere la tua bambola, se vuoi portartela dietro, e poi andiamo insieme. – disse il ragazzo con rassegnazione, alzando gli occhi al cielo.

Molly non se lo fece ripetere due volte, e si infilò nel buio del magazzino. Ancora cercava il suo giocattolo, un po’ a tastoni perché i suoi occhi si erano abituati troppo alla luce intensa dell’esterno, quando alle sue spalle udì il rumore delle assi che si richiudevano sull’ingresso. Non riusciva a crederci. Suo fratello l’aveva chiusa là dentro con l’inganno.

 

Takashi aveva preso quella decisione in fretta, e ora ne era quasi nauseato. Aveva la folle paura di aver distrutto per sempre la fiducia che Molly riponeva in lui. Ma non avrebbe potuto fare altrimenti. L’avrebbe liberata di lì a poco, adesso doveva fare qualcosa di importante, e lei non poteva essere presente.

Aveva mentito, naturalmente. Non avevano bisogno né di cibo né di fiammiferi.

Le batterie?

Di quelle, probabilmente, non ne esistevano più di funzionanti su tutto il pianeta.

-         Vieni fuori. – disse chiaramente, in modo che la sua voce si potesse udire anche da lontano.

Nessuno rispose.

-         Vieni fuori, ho detto. – insisté. – So dove sei, e so chi sei. Ci osservi da un paio di ore, nascosto dietro quel cumulo di immondizia. Il tuo respiro è tanto forte e disordinato da assordarmi, e la puzza del tuo alito giunge fino a qui, dal momento che non hai avuto l’accortezza di metterti controvento. Immagino tu desideri prenderti una rivincita per quella faccenda del bar, giusto? Fatti sotto, se credi di essere alla mia altezza, e facciamola finita.

E stavolta le parole di Takashi non restarono inascoltate. Vistosi scoperto, l’intruso abbandonò il suo nascondiglio. Era l’ubriacone di prima, con la bocca e la maglia intrise di sangue ormai rappreso, che adesso fissava insistentemente Takashi e ghignava, avvicinandosi al ragazzo con i pugni stretti.

-         Dimmi come ti chiami. – chiese Takashi, atono.

-         Il mio nome è Kaito. – rispose quello, sprezzante – Signor Kaito, per te. Sto per darti una bella lezione di educazione, sbarbatello, vedrai che te ne ricorderai…

Il ragazzo non si scompose minimamente. Quell’uomo non gli faceva né paura né rabbia, ormai, solo pena. Per quanto gliene importava, avrebbe preferito lasciarlo andare. Però, se insisteva ad essere tanto molesto… il mondo era diventato molto selvaggio, negli ultimi giorni. L’unica legge vigente era quella del più forte.

-         Ascolta, Kaito. – sentendosi chiamare per nome, il balordo sobbalzò e si infuriò ancora di più, ma Takashi lo ignorò completamente. – Al bar, la lezione te l’ho data io. Credi di poter fare di meglio? Vattene, lasciami in pace, e vivrai. Non amo l’idea di doverti uccidere, ma non voglio nemmeno dovermi guardare di continuo da una minaccia come te. Quindi, vattene ora.

Mentre Takashi parlava, Kaito gli si era avvicinato parecchio. Quando il ragazzo ebbe concluso il suo discorso, l’ubriacone, in tutta risposta, tirò un fendente con un coltellaccio che gli era spuntato fuori dalla manica. Con un abile movimento del corpo Takashi schivò la lama; non riuscì però a evitare che l’acciaio lo sfiorasse, lasciando una sottile striscia rossa sulla sua guancia.

-         La prossima volta ti becco in pieno, stronzetto! Non ti sentire chissà chi solo perché sai tirare qualche pugno!

-         Non ci sarà una prossima volta. – mormorò il ragazzo.

Mosse un braccio come per lanciare un pugno a girare, da destra; quando Kaito si mise istintivamente in guardia per incassarlo, però, Takashi attaccò sul fianco sinistro. Afferrò il polso dell’avversario, una rapida rotazione, e il coltello era nelle sue mani. L’altro indietreggiò spaventato. Senza nemmeno rendersi conto di come fosse successo, aveva perso la sua arma. Si mise a urlare insulti e minacce dimostrando tutta la sua frustrazione, e Takashi non poté non provare un leggero senso di euforia, quello stesso che lo prendeva ogni qualvolta che qualcuno era costretto ad ammettere le sue capacità dopo una dimostrazione pratica. Certo, stupire quell’imbecille che aveva più alcool che sangue nelle vene non era una cosa troppo difficile…

-         Maledetto! Cosa credi di fare adesso, eh? Mi hai fregato il coltello con uno sporco trucco! Se tu non avessi quell’arma, ora te la farei vedere!

Irrecuperabile. Avrebbe mai capito come stavano davvero le cose? Takashi decise di prendersi un’ulteriore soddisfazione.

-         Il coltello? Credi che mi serva un’arma per avere la meglio su di te? Allora non hai capito proprio niente. , prendi.

E lo gettò a terra, con noncuranza. Kaito si sentì ancora più offeso da tanta arroganza, ma raccolse comunque il proprio coltello, perché aveva cominciato a rendersi conto di che razza di avversario aveva di fronte.

Si lanciò all’attacco, per tre volte, gridando e mulinando selvaggiamente la lama, per tre volte vide Takashi praticamente sparire, quasi farsi evanescente, sotto i suoi fendenti, per tre volte ricevette un preciso calcio che lo rispedì a terra, lontano dal suo avversario.

La quarta volta fu diversa. Aspettò molto, prima di partire nella propria folle corsa, camminò lentamente in tondo, ghignando e soppesando il coltello, che si passava da una mano all’altra. Poi scattò, come già aveva fatto prima, ma non parve dirigersi verso Takashi.

-         Cos’è, sei tanto ubriaco che non riesci a puntare verso di me? – lo derise il ragazzo.

Decise che stavolta l’avrebbe finito, era durata abbastanza. Poi sentì alle proprie spalle qualcosa che, nel calore della battaglia, col sangue che gli era andato alla testa per l’eccitazione, non aveva notato. Un altro respiro, piccolo, delicato.

E spaventato.

E capì che Kaito non aveva sbagliato direzione, aveva solo cambiato obiettivo, si stava dirigendo verso…

-         MOLLY! ATTENTA!

Ma la bambina, appena uscita dal magazzino, che nella fretta Takashi non aveva potuto chiudere per bene, era troppo terrorizzata dalla vista di quell’uomo che le correva incontro, feroce, per poter muovere un solo muscolo. Toccò a suo fratello intervenire.

 Kaito ebbe come l’impressione di sbattere contro un muro. Più veloce di quanto non fosse mai riuscito a essere, Takashi gli aveva sbarrato il cammino, e l’aveva fermato. Ma aveva dovuto pagare un prezzo.

 Il suo avversario scoppiò in una risata:

-         Alla fine ce l’ho fatta, sbarbatello! Ora abbasserai la cresta!

Il ragazzo sorrise con amarezza. Sì, decisamente, la cresta doveva abbassarla. La sua arroganza stupida gli era costata fin troppo cara. Permettere a quel balordo di continuare a giocare con il suo coltello invece di farlo fuori subito era stata una pazzia. Chinò la testa a guardarsi il ventre, e lo vide, il coltello, nemmeno troppo grande, spuntare fuori dalla carne in cui era conficcato solo per metà. L’altra metà non aveva bisogno di vederla, la sentiva. Dentro lo stomaco, dove bruciava come le fiamme dell’inferno. Takashi sapeva abbastanza di anatomia per capire che quella era una ferita mortale. Forse in un ospedale avrebbero potuto curarlo, ma gli ospedali avevano smesso di funzionare da parecchio, ormai. Dal momento che le cose dovevano andare così…

Afferrò il manico del coltello con entrambe le mani, e tirò. Sentì qualcosa che dentro si lacerava. Tirò ancora più forte. Il dolore gli dava il capogiro, ma riuscì a restare in piedi; il sangue sgorgò a fiotti; e, infine, si ritrovò in mano l’arma che l’aveva colpito. Kaito era terrorizzato da quello spettacolo tremendo. Takashi stava in piedi, davanti a lui, con lo sguardo di un demone, la chioma rossa che pareva fiammeggiare per i riflessi che il sole vi proiettava, in mano una lama intrisa del suo stesso sangue, e adesso si avvicinava, riusciva persino a camminare, come un cadavere vivente.

Senza che il balordo riuscisse a fare un movimento, tremante com’era, sentì l’acciaio del coltello, non più freddo ma caldo del sangue che l’aveva macchiato, premere contro il collo. Balbettò confusamente delle preghiere, implorò il suo avversario.

-         Ti prego, non sgozzarmi… lascia quel coltello… non uccidermi…

Takashi sorrise, ma attraverso il sangue che ormai gli aveva coperto anche la faccia il suo parve piuttosto un ghigno mostruoso.

-         Il coltello? Te l’ho già detto prima, bastardo… 

Sprezzante, lasciò cadere quell’inutile pezzo di metallo.

-         …NON MI SERVE UN’ARMA PER AMMAZZARTI!

Il suo pugno colpì Kaito in pieno petto, e sotto le nocche Takashi sentì lo sterno che si sgretolava, le costole che si piegavano, ma non si fermò. Urlando come una belva, continuò la propria corsa, trascinando con sé l’avversario, dritto verso l’alto, indistruttibile blocco di cemento che si ergeva in mezzo alla strada, maledetto, insuperabile limite, da colpire con tutta la rabbia possibile. Il corpo di Kaito si schiantò contro il monolito e il cuore, premuto tra il pugno di Takashi e il duro cemento, gli si spaccò in corpo, facendogli sputar via un fiotto di sangue, e la vita con quello.

Così lo scontro ebbe fine, e tornò il silenzio.

Il vincitore giaceva a terra, esausto per il terribile sforzo sostenuto e ferito mortalmente; il vinto pareva solo uno straccio insanguinato appoggiato ad un blocco di cemento, un blocco che si stava crepando, percorso da sottili linee spezzate e ramificate, un blocco che, infine, si sgretolò in polvere e calcinacci e collassò su sé stesso, in una nuvola grigiastra e sporca.

 

Hai visto? Hai visto dove ti ha portato la tua maledetta testardaggine? E tu che pensavi di poter sconfiggere Majin-Bu! E invece, guardati, fai pena, ridotto in fin di vita da un miserabile senza spina dorsale. Avresti dovuto rinunciarci fin da subito. E adesso, senza di te, cosa farà Molly, eh?

La bambina era rimasta paralizzata dalla scena a cui aveva assistito, e solo dopo qualche minuto riuscì a correre dal fratello. Aveva dimenticato completamente tutto il risentimento che provava verso di lui per essere stata imprigionata a tradimento, ora era solo spaventata al vederlo giacere in quello stato, sull’asfalto. Sembrava non riuscisse più nemmeno a muoversi.

-         Tak! – esclamò, giungendo al suo fianco – Tak! Come stai, mi senti? Che ti succede?

-         Non… non ti preoccupare, mi rimetterò. Non è così grave.

Le mentì perché non sapeva cos’altro fare. Sentiva la morte che gli si allargava in tutto il corpo, partendo da quel brutto buco in pancia. Come poteva spiegare una cosa del genere a sua sorella, in quel poco tempo che gli restava? Spiegarle che l’avrebbe lasciata sola? Che lei avrebbe dovuto cavarsela in un mondo impazzito, che probabilmente sarebbe morta anche lei, di lì a poco, uccisa da Majin-Bu, o da qualche altro balordo come Kaito, o dalla fame? La voce che aveva sempre rifiutato, il dubbio che lo rodeva ormai da giorni, ora ritornava più prepotente che mai, e Takashi doveva ammettere che aveva ragione. Il suo fallimento gli bruciava persino più dell’atroce ferita che lo stava uccidendo: peggio che un perdente, si sentiva ridicolo. Come poteva qualcuno tanto inesperto da farsi ridurre in quello stato da un semplice balordo sperare di sfidare Majin-Bu? E la povera Molly

-         Sta’ tranquillo! – disse la bambina, distogliendolo dalle sue amare riflessioni – Sei stato bravissimo a difendermi da quel brutto ceffo! Ora ci penserò io a te. Finché non guarirai, sarò il tuo angelo custode.

Gli sorrise cercando di ridargli un po’ di allegria.

-         Non sono ancora forte come te, ma vedrai che lo diventerò.

Takashi la guardò negli occhi, e capì che sua sorella non era una bambina come le altre. Aveva assistito a quella scena spaventosa e non aveva neanche pianto; forse la sua forza d’animo era persino superiore a quella di lui. Sarebbe cresciuta, non avrebbe più avuto paura del buio e dei topi, e si sarebbe trasformata in una donna incredibile. Attraverso le sue pupille, gli parve di poterla già vedere, dolce e potente come il vento e il mare. Lei sarebbe riuscita dove lui aveva fallito, un giorno.

La voce dei dubbi tacque. Finalmente, Takashi ne era sicuro. La strada che aveva scelto era quella giusta, e l’umanità non sarebbe mai stata piegata, finché qualcuno avesse continuato a portare quel fuoco nell’anima.

 

Altrove. Esistono luoghi più alti delle montagne, delle nuvole, più alti dell’aria in cui volano le aquile, o persino le nostre macchine di metallo, aerei e razzi, con tutta la loro potenza, luoghi che non è possibile raggiungere. In uno di questi luoghi, in quel momento, si decidevano le sorti del mondo.

Majin-Bu era impaziente, e voleva combattere subito. Ma i ragazzi avevano bisogno di qualche altro giorno (anzi, bastava qualche minuto, purché si servissero della Stanza dello Spirito e del Tempo. Solo qualche minuto!) per allenarsi e giungere alla perfezione nella tecnica della fusione. Piccolo cercò disperatamente un altro modo, ma non lo trovò. Il piano che aveva ideato era tanto freddo da apparire cinico, eppure l’unico possibile.

-         Sulla Terra – disse – ci sono ancora parecchie persone. Perché non ti diverti un po’ con loro, mentre aspetti che arrivi il tuo avversario?

Majin-Bu gli rispose con uno dei suoi imperscrutabili sguardi da ebete, poi cominciò a passeggiare in tondo lungo il bordo del Santuario.

Contava.

Un milione, due milioni

-         Che fa? – chiese Yamcha.

Dieci milioni, undici milioni

-         Perché cavolo gira qua e là? – esclamò Bulma, spazientita e nervosa.

Trentasette milioni, trentotto milioni

Majin-Bu completò la sua passeggiata.

-         Ha fatto un giro completo intorno al Santuario. – osservò Crili.

La cosa forse più inquietante di quell’essere perfido era il suo modo di agire spesso incomprensibile. Non esisteva una logica nella sua crudeltà, solo follia.

Quarantaquattro milioni di esseri umani ancora vivi. Si poteva fare. Majin-Bu alzò una mano luminosa al cielo, e ne uscirono sciami di serpenti di luce, che di fronte agli occhi inorriditi dei presenti schizzarono ovunque nel firmamento, si sparpagliarono, puntarono decisi verso la superficie. Quarantaquattro milioni di raggi di luce, e ciascuno portava la morte.

E il massacro ebbe inizio.

 

Sebbene sentisse la fine ormai vicina, e il dolore fosse praticamente insopportabile, Takashi riusciva ancora a trattenere le urla; anzi, nemmeno un gemito era uscito dalle sue labbra, per amore di Molly. Quella situazione era già molto dura per lei, e non voleva metterla ulteriormente alla prova. La bambina, adesso, era andato a prendere la bottiglia d’acqua di prima, per offrire al fratello quella che era rimasta, sperando di dargli un po’ di sollievo. Lui avrebbe voluto dirle di non sprecarla così, perché tanto a lui non serviva, ma non poteva farlo senza rivelare la verità. Stava giusto appoggiando le labbra all’orlo della bottiglietta quando si accorse che sua sorella guardava in alto, con la testa buttata all’indietro, come se ci fosse qualcosa di strano.

Takashi si sforzò di vedere oltre la nebbia che gli stava scendendo sugli occhi, e le vide. Innumerevoli, bellissime strisce di luce che si intrecciavano in nodi e balletti nel cielo, violacee, abbaglianti. Non aveva mai visto nulla di tanto spettacolare. Strano a dirsi, doveva essere un’illusione ottica, gli parve che due di quelle luci si dirigessero proprio verso di loro.

-         Guarda – mormorò Molly, estasiata – ci sono le stelle cadenti…

-         Esprimi un desiderio. – disse Takashi.

 

 

FINE

 

 

 

 

 

 

 

  
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