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Autore: Beauty    09/08/2012    10 recensioni
Nel mondo delle favole, tutto ha sempre seguito un preciso ordine. I buoni vincono, i cattivi perdono, e tutti, alla fine, hanno il loro lieto fine. Ma le cose stanno per cambiare.
Quando un brutale omicidio sconvolge l'ordine del Regno delle Favole, governato dalla perfida Regina Cattiva, ad indagare viene chiamato, dalla vita reale, il capitano Hadleigh, e con lui giungono le sue figlie, Anya ed Elizabeth. Attraverso le fiabe che noi tutti conosciamo, "Cenerentola", "Biancaneve", "La Bella e la Bestia"..., le due ragazze si ritroveranno ad affrontare una realtà senza più regole e ordine, in cui niente è come sembra e anche le favole più belle possono trasformarsi nel peggiore degli incubi...
Inizia così un viaggio che le porterà a scoprire loro stesse e il Vero Amore, sulle tracce della leggendaria "Pietra del Male" che, se nelle mani sbagliate, può avere conseguenze devastanti...
Il lieto fine sarà ancora possibile? Riusciranno Anya ed Elizabeth, e gli altri personaggi delle favole, ad avere il loro "e vissero per sempre felici e contenti"?
Genere: Dark, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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The Fairytale Department

 

New York, ore 8:30 a. m.

 

Richard Hadleigh aveva sempre detestato il suo ufficio. Sin dalla mattina impestava un nauseabondo puzzo di sigaro e di caffè, senza contare che il Dipartimento Favole era proprio a due passi dalla mensa, sicché anche l’odore di cavoli bolliti e detersivo per i piatti voleva la sua parte. I muri erano scrostati e dal soffitto ci pioveva dentro, senza contare che la signora addetta alle pulizie, non appena giungeva in prossimità di quella zona, veniva colta da un improvviso attacco di panico e fuggiva sempre prima di venire contaminata dalla sporcizia che regnava sul pavimento.

Non occorreva essere Nostradamus per indovinare che, in tutta la centrale di polizia, il Dipartimento Favole era considerato come la ruota bucata del carro.

Hadleigh si chiedeva spesso a cosa fossero serviti un diploma e cinque anni di accademia, se il suo destino era stato quello di ammuffire per quasi vent’anni su una sedia con l’unico compito di…ricostruire la casa ai tre porcellini!

Il capitano si tolse di dosso il pesante cappotto invernale, specchiandosi nel vetro della finestra rigato da gocce di pioggia. Aveva quarant’anni, i suoi capelli castano scuro erano striati qua e là da fili grigi, ma questo era anche disposto a sopportarlo. Quello che non riusciva a spiegarsi era come mai il suo viso fosse sempre come ricoperto da un velo grigio, perché quelle lievi rughe intorno agli occhi fossero un segno evidente di quella stanchezza che si portava dietro giorno dopo giorno…

La verità era che, a quarant’anni, si sentiva un completo fallito. Quando era diventato poliziotto, ed aveva cominciato a lavorare alla centrale, fresco di accademia, neanche conosceva l’esistenza del Dipartimento Favole. Erano stati i suoi superiori a spiegarglielo, quando l’avevano collocato lì. Si trattava di una sezione molto particolare, gli aveva spiegato l’allora cinquantenne capitano Fraser. Al suo sguardo incredulo, il suo mentore aveva risposto spiegandogli che tutte quelle fiabe, sì, quelle stesse fiabe che i nostri genitori ci raccontavano da piccoli, e che lui stesso leggeva alle sue figlie prima di andare a letto, erano vere.

Cenerentola, Biancaneve, Cappuccetto Rosso, i tre porcellini…erano tutti personaggi reali, proprio come lo era lui. Ma non vivevano lì, nel loro mondo. Era una terra completamente separata da quella umana, era un regno dove tutto doveva, rigorosamente, procedere secondo determinate regole, e l’ago della bilancia non poteva mai pendere da una parte opposta a quella stabilita.

Ed era per questo che loro del Dipartimento Favole erano così importanti, aveva concluso Fraser con un sorriso bonario, dandogli una pacca sulla spalla. Il loro compito era proprio mantenere l’ordine nel mondo delle favole e, indirettamente, anche in quello reale.

Superato il primo momento di stupore, Hadleigh aveva anche scoperto che era piacevole, lavorare in quel reparto. O almeno, lo era stato, finché anche lui era stato giovane, finché la vita non aveva cominciato a sferrargli dei colpi troppo duri perché potesse ritrovare la propria spensieratezza.

Si era presto reso conto che il suo lavoro non era come quello degli altri poliziotti; i suoi colleghi, loro sì, si prodigavano per mantenere l’ordine nella società, per portare giustizia lì dove non c’era. Mentre lui – lui e l’altro suo collega, Jones, un ciccione di trent’anni buono solo a bere e ad ingozzarsi di ciambelle – se ne stava a marcire in uno squallido ufficio di New York per uno stipendio da fame, trascorrendo giornate tutte uguali che prendevano una breve piega colorita nella pausa caffè o nelle futili chiacchierate con altri colleghi. Era ben raro che gli accadesse di trovarsi a risolvere qualche caso: la bilancia pendeva sempre dalla parte giusta. Che ci si poteva aspettare, da un mondo in cui i personaggi delle favole regnavano sovrani? Non c’erano reali problemi, solo piccoli ed inutili guai che, comunque, alla fine davano a tutti il loro solito, melenso lieto fine.

Ma la sua situazione lavorativa non era la cosa che lo preoccupava di più. Sapeva di essere un fallito, ormai era tardi per rimediare, non si aspettava più niente dalla vita e conduceva le sue giornate con l’unico obiettivo di arrivare alla pensione con il minor numero di incidenti possibili. Il vero problema erano le sue figlie.

Si vergognava di quello che era diventato, per loro, perché tutt’e due dovevano sopportare un padre del genere, sempre assente e di cui non sapevano praticamente nulla. Il Dipartimento Favole era un reparto segreto della polizia – un po’ come una C. I. A. dei sette nani! –, fatto che lo obbligava a mentire persino alle due persone che amava di più al mondo. Se qualcuno glielo domandava, loro rispondevano che il padre era un poliziotto, ma non avevano idea se si occupasse di multe piuttosto che di omicidi. Non che loro si fossero mai prese la briga di approfondire la questione; tutti e tre passavano l’intera giornata fuori casa, chi in un posto chi in un altro, e si vedevano a malapena la mattina a colazione e la sera all’ora di cena. Le due ragazze non parlavano molto con lui, né Hadleigh sapeva mai bene che cosa dire a quelle due giovani donne che, un tempo, erano state le sue bambine.

Non era sempre stato così; quand’erano piccole, stavano sempre con lui, si divertivano un mondo a giocare con il padre e ad ascoltare le favole che lui raccontava loro la sera prima di addormentarsi.

Ora, però, le cose erano cambiate.

Complice anche quello che la loro madre aveva fatto, prima di sparire, entrambe avevano smesso di credere alle favole e al lieto fine. Non erano più delle bambine piccole, si disse il capitano, con una morsa di tristezza nel cuore. Ora Anya aveva diciotto anni, ed Elizabeth sedici. Era passato il tempo delle favole.

- Ehi, che muso lungo!- biascicò il suo collega, Jones, con un sorrisone sul volto grasso.

Hadleigh sollevò un angolo della bocca, abbozzando un sorriso tirato.

- Che c’è? Sei uno di quelli che la pioggia li butta giù di morale manco gli fosse morto il gatto?- incalzò Jones.

- Sono un po’ meteoropatico, lo ammetto…- mormorò il capitano, sperando che questo bastasse a zittire il suo collega. Speranza vana.

- Pensa che anche mia madre è così…Scemenze, a mio parere, se le cose vanno male, non è certo per il tempo…

- Già - buttò lì Hadleigh, tanto per dire qualcosa.

Jones non rispose, tirando fuori da un cassetto della scrivania un mazzo di carte.

- Partitella?- chiese, ammiccando.

- No, grazie, scusa ma non sono molto in vena…

- Pfff! Tu e la tua meteoropatia…

Hadleigh non rispose; stava per sprofondare di nuovo nei suoi pensieri, quando la porta dell’ufficio si spalancò di colpo. Il capitano si alzò istintivamente in piedi; poco dopo, il procuratore Crawford, un uomo alto e allampanato sulla sessantina, ma che dimostrava almeno ottant’anni, tanto era magro e pallido e i suoi capelli erano bianchi, fece il suo ingresso nell’ufficio.

- Procuratore - fece Hadleigh, in segno di saluto.

- Buongiorno, capitano…- gracchiò Crawford, sedendosi di fronte alla scrivania di Hadleigh, il quale lo imitò due secondi dopo.- Sono venuto per parlarle di una faccenda…

- Di che si tratta?- domandò Hadleigh, un po’ sorpreso. Possibile che nel Regno delle Favole fosse accaduto qualcosa di così grave da scomodare addirittura il procuratore?

- C’è stato un omicidio. Due persone.

Per Jones, la notizia arrivò come una doccia fredda; Hadleigh non si scompose.

- Signor procuratore, anche nel Regno delle Favole avvengono queste cose…- disse il capitano, pacato.- Basti pensare ad Hansel e Gretel, sono dei bambini eppure hanno spinto una strega nel fuoco, e…

- Non si tratta di un cattivo, capitano.

Le parole secche del procuratore ebbero il potere di zittire Hadleigh. Come, non si trattava di un cattivo? Era normale che un malvagio morisse, anche di morte violenta, ma che fosse un buono…

- Di…di chi si tratta?- domandò, sentendosi la gola secca.

- Cappuccetto Rosso e sua nonna.

Il tono calmo del procuratore lo spaventava; ora che sapeva che i personaggi delle favole erano reali, Hadleigh sentì che il cuore gli era balzato in gola. Una bambina era stata assassinata…! Gli tornò alla mente il tempo di quando raccontava la storia di Cappuccetto Rosso alle sue figlie, provando ad immaginare come sarebbe stato se gli avesse letto questa macabra versione alternativa…

- Si sa chi le ha uccise?- gracchiò.

- No, ma abbiamo un possibile sospetto…

- E di chi si tratta?

- Le spiegherò tutto a tempo debito, capitano, ma prima è meglio che lei veda il corpo. Venga stasera sul retro della centrale, siamo d’accordo?

- Sì…- balbettò il capitano.- Sì, certo…mi dia solo il tempo di avvisare le mie figlie…

 

***

 

New York, ore 17:00 p. m.

 

Anya gettò un’occhiata ad una delle ampie vetrate del Once Upon a Time Café, osservando le gocce d’acqua che s’infrangevano sul vetro. Era da una settimana che pioveva incessantemente, e benché la pioggia le piacesse, cominciava a sentire la mancanza del sole estivo. Erano soltanto ad ottobre, in fondo!

Sospirò, versando un altro po’ di caffè nel bicchiere di plastica e posandolo sul vassoio accanto all’insalata e alla bistecca al sangue. Si fece strada agilmente fra le sue colleghe, tenendo il vassoio in equilibrio sulle mani, fino a che non fu giunta al tavolo numero 7. Il cliente, un uomo sui cinquant’anni con un doppio mento da fare invidia ad un suino all’ingrasso, le lanciò un’occhiata voluttuosa, ma lei finse di non accorgersene, sistemandosi una ciocca ribelle dei capelli neri e mossi che era sfuggita dallo chignon, continuando a scribacchiare il conto sul taccuino.

- Hai fatto colpo, vedo…- ghignò Doris, un’altra cameriera, passandole accanto.

- Quando vorrò essere incoronata regina dei suini saprò con chi convolare a nozze…- ridacchiò Anya, riprendendo a lavorare. Aveva iniziato a fare la cameriera al Once Upon a Time Café da quando si era diplomata, nei giorni liberi dalle lezioni del college; l’orario era buono, cominciava alla mattina alle nove e terminava la sera alle cinque. Anzi, si disse gettando un’occhiata all’orologio, avrebbe dovuto già terminare da un pezzo. Bowen, il suo capo, continuava a saltellare da un tavolo all’altro gridando ordini a destra e a manca, che si sbrigasse, doveva andare a prendere sua sorella.

- Ehi, Anya!- fece una voce alle sue spalle, così all’improvviso da farla sobbalzare per lo spavento. I piatti sul vassoio tintinnarono barcollando pericolosamente, e la ragazza dovette fare del suo meglio per tenerli in equilibrio, guadagnandosi un’occhiataccia da parte di Bowen.

Voltò il capo. A parlare era stato un ragazzo sui venticinque anni, alto e muscoloso, con i capelli biondo cenere e la pelle abbronzata.

- Ciao, Gaston…- fece Anya, con un sorriso forzato. Gaston era un cliente fisso del locale; Anya, Doris e Juliet, l’altra cameriera, se l’erano visto comparire un bel giorno e da allora non se n’erano più liberate. Ben presto, avevano scoperto il perché di quell’assidua frequenza.

- Che fai di bello?- chiese il ragazzo con un sorriso a trentadue denti, appoggiandosi al bancone.

- Sto lavorando…- rispose Anya con ovvietà, sperando di toglierselo di torno.

Speranza vana.

- Ah…e che fai dopo?

La ragazza fece spallucce, posando il vassoio e iniziando a preparare un altro caffè.

- Intendo dopo il lavoro…- tornò all’attacco Gaston.

- Niente di particolare…

- Ah! Quindi stasera sei libera?

Ecco che ci riprova!

- Non ho detto questo - lo liquidò, riprendendo in mano il vassoio e avviandosi verso il tavolo 10. Contro ogni previsione, il ragazzo la seguì a ruota, e Anya notò con la coda dell’occhio che lo sguardo omicida di Bowen si era fatto molto più insistente. Maledizione, uno di questi giorni l’avrebbe fatta licenziare!

- Pensavo volessi venire in discoteca con me…Sai, ci sono anche i miei amici, e…

- Stasera proprio non posso, Gaston, scusami…- fece la ragazza, sbrigativa, servendo i piatti al tavolo.

- Allora domani?

- No, neanche domani, mi spiace.

- Sabato?

- Sono occupata, scusa. Bowen, il mio turno è finito, posso andare?- gridò, rivolta al suo capo. Questi non era affatto un tipo magnanimo, ma pur di far cessare quel teatrino che il ragazzo aveva messo su avrebbe anche spedito Anya fuori dal locale a calci, quindi non se lo fece chiedere due volte.

- Ma…ma…- balbettò Gaston, mentre Anya si liberava del grembiule e arraffava il cappotto e la borsa.

- Ci vediamo domani, ragazze!- gridò, uscendo in strada sotto la pioggia battente.

Gaston rimase un attimo interdetto, quindi le andò dietro.

Anya, già bagnata fradicia, non sapeva se stesse correndo così veloce per evitare di inzupparsi ulteriormente o per fuggire dal ragazzo. Santo cielo, ma cosa doveva fare per scollarselo di dosso una volta per tutte?!

Attraversò la strada a passo svelto, calpestando l’asfalto bagnato e colmo di pozzanghere con gli stivaletti troppo leggeri, e il ragazzo alle calcagna.

- Ehi, senti, ti posso parlare un momento?- urlò Gaston, cercando di sovrastare i rumori della pioggia e della metropoli.

- Mi spiace, ho fretta!- gridò Anya in risposta, raggiungendo il suo vecchio pick-up verde scuro ed entrandovi dentro con tale furia da ritrovarsi quasi distesa sul sedile. Chiuse la portiera, iniziando ad armeggiare con le chiavi, ma il motore quel giorno sembrava in vena di fare i capricci. Anya girò più e più volte le chiavi, ma il motore emetteva solo dei rumori striduli che morivano immediatamente sul nascere. Era un vecchio pick-up, il suo, l’aveva comprato a sedici anni per trecento dollari, usato e mezzo scassato, e già allora ci metteva venti minuti solo per accendersi. Un bel guaio, specialmente se avevi uno stalker alle calcagna!

- Ehi…- soffiò Gaston, appoggiandosi al finestrino.- Senti, se la sera non puoi, ci possiamo vedere dopo il lavoro. Che dici, ti offro una birra?

- Davvero, Gaston, scusami, ma proprio non posso. Devo andare a prendere mia sorella…

Girò nuovamente la chiave nella serratura; con sua immensa felicità, la macchina si decise a partire.

- Ma…

- Ci vediamo, Gaston!

Senza attendere risposta, Anya spinse la frizione e premette il piede sull’acceleratore, immettendosi nel traffico. Sbirciando lo specchietto retrovisore, scorse il ragazzo in piedi sotto la pioggia che guardava la macchina allontanarsi con l’aria di un cucciolo abbandonato.

La ragazza sospirò, abbandonandosi contro lo schienale.

Avrebbe anche evitato di trattarlo così, ma non c’era altro modo. Gli aveva più volte detto gentilmente che no, non era né sposata, né fidanzata, né tantomeno lesbica, ma semplicemente non interessata. Ma Gaston doveva avere un porcellino d’India in prognosi riservata al posto del cervello, se si ostinava a non capire. Beh, peggio per lui.

Lei aveva già abbastanza preoccupazioni, per potersi permettere di pensare anche ai guai di quella specie di scimmione scappato da un circo!

 

***

 

…quattro…cinque…sei…

Elizabeth s’impose di resistere, strizzando gli occhi e trattenendo ancora di più il respiro.

…sette…otto…nove…

Presto l’avrebbero tirata fuori; Jessica Stone e le sue compari facevano sempre passare dieci secondi, prima che lei morisse soffocata.

…dieci!

Allo scadere esatto del tempo, la stretta ai capelli si fece più violenta, ed Elizabeth estrasse la testa dal lavandino colmo d’acqua. Tossì, boccheggiando in cerca di un po’ d’aria.

- Allora, quattrocchi…- Elizabeth vedeva tutto appannato, ma riconobbe chiaramente la voce di Jessica Stone.- Ne hai abbastanza? Sì? Allora ripeti con me: io sono una fica bruna.

Elizabeth tentò di inghiottire più ossigeno possibile, prima che Jessica, digrignando i denti, facesse un segno alla sua compare Ursula, la quale aumentò la stretta ai capelli della vittima e le spinse nuovamente la testa nel lavandino.

La ragazza trattenne il fiato.

Uno…due…tre…

Non fece neanche un tentativo per tirare fuori la testa, o ribellarsi. Ci aveva già provato altre volte, ma non era servito a niente.

…quattro…cinque…sei…

Ursula era un’energumena dell’ultimo anno, grande e grossa, e lei una ragazza mingherlina senza alcuna speranza. Senza contare che oltre a lei e a Jessica ce n’erano altre tre; ne sentiva le risate sguaiate attraverso la bolla ovattata creata dall’acqua.

…sette…otto…nove…

Jessica Stone, Ursula Whales, Samantha Smith, Julia Hammonds e Anne Bancroft. Tutte ragazze dell’ultimo anno con un quoziente intellettivo pari a quello di una pulce, che però avevano dalla loro parte chi un fisico possente chi un carattere talmente violento da intimidire chiunque.

…dieci!

Ursula le tirò la testa fuori dall’acqua. Elizabeth tossì, senza fiato.

- Allora, troia, vediamo se hai capito - fece Jessica Stone.- Dillo: io. sono. una. fica. bruna.

Elizabeth inspirò a fondo, fissando l’acqua nel lavandino del bagno della scuola.

- Quanti giocatori di football ti sei dovuta scopare, prima che tua madre scoprisse di avere in casa un’altra puttana?- ringhiò.

Si sarebbe aspettata che le rificcassero la testa in acqua, ma non fu così. Jessica Stone ringhiò, sostituendo in un attimo la presa di Ursula ai capelli con la sua, e rifilando nel contempo un violento calcio nello stomaco ad Elizabeth.

La ragazzina finì accasciata sul pavimento sporco del bagno, contorcendosi dal dolore. Le altre ragazze risero sguaiatamente, guardandola strisciare al suolo. Poco dopo, si allontanarono. Elizabeth vedeva tutto appannato, ma sentì chiaramente la porta del bagno chiudersi con un colpo secco.

Inspirò profondamente, iniziando a tastare le piastrelle fredde e umide alla ricerca dei proprio occhiali. Glieli avevano strappati via dal viso un attimo prima di ficcarle la testa nell’acqua, così come avevano fatto con la cartella, e ora libri, penne e appunti erano sparsi sul pavimento. Muovendosi nella nebbia, riuscì a sfiorare con le dita la montatura degli occhiali, che repentinamente afferrò e si rimise sul naso. In un attimo, la vista annebbiata sparì, ed Elizabeth si ritrovò con la visione chiara e nitida del bagno femminile deserto. Portava gli occhiali da vista fin da quando era piccola, e senza quelli era praticamente cieca.

Gettò un’occhiata a tutti i suoi libri sparsi sulle piastrelle del pavimento. Beh, perlomeno quelli sembravano non presentare danni, si disse, iniziando a raccattarli da terra. Un tempo avrebbe pianto, ma ormai si era abituata alle prepotenze di Jessica e della sua gang. Aveva anche cessato di difendersi; ci aveva provato, ovvio, ma non era mai arrivata alle mani. Quelle cinque erano grandi e grosse, e lei un topolino con gli occhiali esile e mingherlino senza alcuna speranza. Ne aveva parlato con sua sorella, e lei era andata dritta dalla preside, ma poco era servito – se si escludeva l’occhio nero che le aveva procurato il giorno seguente.

Le era anche balenato per la mente di rivolgersi a suo padre, ma aveva immediatamente scacciato quell’idea. Papà era sì e no a conoscenza del fatto che lei andasse a scuola, figurarsi se avrebbe potuto fare qualcosa per i suoi problemi sociali. Sarebbe di sicuro cascato dalle nuvole, e avrebbe liquidato la faccenda con un paio di frasi annoiate, come faceva sempre per qualunque cosa. Gli voleva bene, questo sì, era suo padre e avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui - e anche Anya, ne era certa - ma non si poteva dire che lo sentisse molto presente nella vita sua e di sua sorella.

E dire che da piccola lo considerava il suo Principe Azzurro…

Sì, Principe Azzurro mancato!

Elizabeth ormai aveva smesso di credere al Principe Azzurro, o a chi per esso; certo, in segreto, lo aspettava ancora, ma disperava di poter mai trovare qualcuno che arrivasse sul suo cavallo bianco a portarla in salvo da quella sua vita di merda.

Già, perché la sua vita era veramente una merda, non solo a scuola, ma anche in casa. E suo padre non faceva nulla per migliorare la situazione. Chi si occupava di tutto era sua sorella.

Elizabeth aveva sempre desiderato essere come Anya, in tutti i sensi. Ad un primo sguardo, loro due potevano apparire come due gocce d’acqua; avevano entrambe i capelli neri – Anya mossi e lunghi fino alla vita, e lei lisci che le ricadevano sulle spalle –, lo stesso mento, e la forma degli occhi leggermente allungata. Ma a guardarle bene erano molto diverse: Anya aveva dei lineamenti più fini e maturi, era più alta e snella di lei, e aveva gli occhi verdi. Invece lei, Elizabeth, era una spilungona alta appena un metro e sessanta, con un fisico né grasso né magro, un viso ovale da bambina e due anonimi occhi castani semi nascosti da due occhiali spessi e rotondi.

Non solo nell’aspetto fisico, ma anche nel carattere: da quando sua madre li aveva lasciati e suo padre era sprofondato in una depressione molto simile ad un letargo, era sempre stata Anya ad occuparsi della casa e di loro. Elizabeth non riusciva a capire come facesse sua sorella, dopo ore passate a sbattersi dal lavoro in quel locale per portare a casa quattro soldi, a cucinare, lavare i pavimenti, tenere a bada quell’avvoltoio del padrone di casa che pretendeva ogni mese l’affitto anticipato, senza contare le lezioni al college…

L’unica cosa che detestava, in sua sorella, era la sua tendenza a cercare di sostituirsi a sua madre…

Elizabeth si riscosse all’improvviso. E che cavolo, aveva passato mezz’ora seduta sul pavimento del cesso a pensare a sua sorella, e non le era venuto in mente che sua sorella la stava aspettando là fuori da almeno mezz’ora!

Si risollevò dal pavimento, controllando di non essersi macchiata la camicetta bianca di sangue; mentre si avviava verso sentì il piede toccare contro qualcosa. Abbassò lo sguardo: aveva dimenticato un libro. Si chinò a raccoglierlo, esaminandolo con attenzione; era un libro di fiabe, l’aveva preso in prestito quasi per caso alla biblioteca. Da quanto tempo lo aveva lì?

Fece spallucce, uscendo dalla scuola e avviandosi di corsa sotto la pioggia battente in direzione del pick-up verde scuro di sua sorella.

 

Angolo Autrice: Ok, questo capitolo è un po’ palloso, ma abbiate pazienza, dal prossimo arriva un po’ di azione…E’ solo che mi sembrava il caso di presentare un minimo i personaggi, sennò non si sarebbe capito niente di questa cosa che già di per sé è abbastanza confusionaria…J.

Ah, nel caso ve lo steste chiedendo, il personaggio di Gaston può sembrare (già a partire dal nome) molto simile al cattivo Disney, ma vi anticipo che, benché avrà un ruolo rilevante, non avrà a che fare con La Bella e la Bestia…

Siccome so che nelle descrizioni faccio schifo, nel caso quelle di Anya ed Elizabeth non dovessero essere chiare, ecco qui delle immagini che potrebbero essere – solo per darvi un’idea, chiaramente non sono proprio uguali –, rispettivamente, simili alle due ragazze.

           


 

Dunque, ringrazio LadyAndromeda per aver aggiunto questa ff alle ricordate, Imalonewolf e Raffy240 per averla aggiunta alle seguite e per aver recensito, e _Francy per aver recensito.

Ciao a tutti, al prossimo capitolo!

Dora93    

  
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