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Autore: j_D    13/08/2012    7 recensioni
"Cox è rimasto lì, ad osservare quella macchina allontanarsi dall’ospedale, o forse il suo maledetto posto in cui ogni giorno affoga la sua voglia di vivere, a sperare che si fermasse o che semplicemente quel guidatore facesse qualcosa, qualsiasi cosa, per tornare indietro."
Una breve fan-fict da collocare dopo Il Mio Finale, come se fosse la vera conclusione della stagione 8.
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Percival 'Perry' Cox
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Una macchina si sta allontanando, forse verso la propria casa. Il suo guidatore sarà stanco, avrà passato un’altra giornata infernale di lavoro, schiacciato dai vari pazienti che si moltiplicano come microbi, dal proprio capo che non gli da tregua, o dai vari piccoli e devastanti avvenimenti di sempre. Eppure quella macchina continua, spedita, nel suo tragitto. Non si cura di quello che gli è successo oggi, ma di quello che gli capiterà dopo, che sia fra cinque minuti, che sia fra due anni. Magari quel guidatore è così determinato nel tornare a casa perché lo aspetta qualcuno come i suoi cari o qualcosa come una partita di hockey sul ghiaccio o una birra fresca. La cosa più importante è che quella persona sta correndo via da lì, da quel posto, con le luci della città ben accese a far da contrasto a buio della notte, e con la consapevolezza che quella macchina e quel tipo non torneranno mai più.
Un uomo è dentro un ufficio ubicato nello stesso luogo in cui quella macchina se ne era andata, l’ufficio presenta: un divanetto, delle poltrone, una scrivania con varie cartelle, carte, penne, matite, tazza del caffè, calcolatrici e computer portatili sopra di essa, dei quadri appesi alle mura color grigio chiaro e grigio scuro, dei mobili dove contenere i vari reso conti del mese e simili. Le finestre danno sul parcheggio da dove è partita la Toyota Prius azzurrina di prima e hanno delle tendine bianche, comode se devono nascondere qualcuno che osserva la zona esterna di quel posto. Sulla porta c’è fissata una targhetta che recita poche ma eloquenti parole:
“Dr. Percival Cox - Chief of Medicine”
Già, Perry Cox, è ancora là, dentro il suo ufficio, benché il suo turno sia finito, benché non ci siano straordinari o turni notturni. Cox è rimasto lì, ad osservare quella macchina allontanarsi dall’ospedale, o forse il suo maledetto posto in cui ogni giorno affoga la sua voglia di vivere, a sperare che si fermasse o che semplicemente quel guidatore facesse qualcosa, qualsiasi cosa, per tornare indietro. Perry Cox, l’uomo che non esterna le sue emozioni, che preferisce umiliare il prossimo, torturarlo, renderlo ridicolo. Un eccellente medico frustrato dalla sua situazione di precario equilibrio fra la felicità e la depressione. Sempre duro, pronto ad affondarti, a metterti alla prova. Ma a fin di bene: quel suo modo di trattare le persone nasconde una sua voglia di aiutare, di rendere migliore e soprattutto di insegnare a chiunque. Percival Ulisses Cox. Nessuno mai lo comprenderà mai a fondo, in tutto ciò che fa.
La luce è spenta, la stanza riesce ad essere illuminata dai lampioni del parcheggio del Sacro Cuore e dalla luce che entra dal corridoio, visto che la porta e semi aperta. La spalla sinistra appoggiata al vetro, gli occhi azzurri oramai spenti e persi nel vuoto, le occhiaie cariche della sua stanchezza, i capelli ricci in testa perennemente scompigliati. Il suo camice bianco è appoggiato alla sua poltrona, lo stetoscopio buttato sul divanetto. Il suo fisico è sempre tonico, pure con le rughe sul suo viso che indicano un’età abbastanza avanzata. La foto dei suoi figli in una cornice, appoggiata sulla scrivania: la simpatica canaglia Jack e l’adorabile piccola Jennifer Dylan. Vicino invece un’altra cornice, un po’ più grande della prima, con la foto della sempre bella Jordan, ex-innamorata-moglie di Cox. Chissà se tornerà in tempo a casa Perry per raccontare una favola delle sue al piccolo biondino, per accarezzare la sua bambina mentre dorme, per poter baciare la sua adorata ed odiata moglie. Il suo lavoro, o più in generale la sua vita, lo consuma, ma riesce ad andare avanti, sempre e comunque.
Un movimento netto, e Perry si stacca dal vetro, si guarda intorno. Si siede, ma a terra, come se non avesse voglia di essere felice. La testa batte con il piano d’appoggio del suo tavolo da lavoro, gli occhi fissano il soffitto bianco, per poi ritornare verso il basso della moquette, in una situazione di sconforto e tristezza. Non ha voglia di fare due delle cose che preferisce, ovvero parlare e bere. Vuole solamente scomparire nel suo mondo, nella sua testa.
<< Te ne sei andato. Io dovrei essere contento. Io dovrei essere la persona più felice del mondo in questo momento, dovrei correre per la strada nudo ed urlare dalla gioia prima che degli sbirri mi arrestino per oscenità pubbliche. Eppure no, per quanto in questi dannati otto anni tu mi abbia fatto sbraitare, mi hai fatto dubitare più volte della tua sessualità, delle tue competenze mentali e mediche, della tua professionalità e serietà, io non riesco a gioire del tuo addio. Hai sempre cercato in me quello che non ha potuto darti Dan, tuo fratello, o Sam, tuo padre. Volevi in me un padre, un fratello maggiore, che ti aiutasse e ti proteggesse. Tuo padre ci ha provato, ma per lui è stato difficile. Spero che riposi lassù. Nemmeno tuo fratello ce l’ha fatta. Spero che adesso, da come me lo avevi raccontato, e da come io ti avevo liquidato, si sia messo sulla retta via. Se lo merita Dan. Ricordo ancora quelle sue parole, fuori dall’ospedale. - Mi prometta che lei diventi il modello del mio piccolo fratello - .Mi aveva colpito la sua voglia di rendere la tua vita migliore, la sua capacità di farsi carico di te con tutti i suoi problemi. Tuo fratello ci tiene troppo a te quanto tu tieni ad ogni singolo paziente tuo. Non potevo rifiutare. E stavolta non c’entra il mio smisurato, enorme, fantastico ed infallibile ego. Sono un egocentrico per ogni stupidata, ma non lo fui in quel frangente. Ti ho chiamato con ogni epiteto offensivo e denigrante che ci potesse essere, ti ho torturato di più di quanto potesse mai fare quel folle dell’Inserviente, che tra l’altro da quando te ne sei andato si comporta ancora più stranamente di prima, e ho rifiutato ogni tuo gesto di amicizia, che sia un abbraccio o un semplice cinque alto. E tu sei arrivato da me e mi hai detto: Grazie, di tutto. Hai sempre conservato rispetto, amicizia, ammirazione per me. Ti sei sempre sentito il mio braccio destro, il mio aiutante numero uno per quanto io ti volessi più lontano possibile da me. Ma sbagliavo e ho sbagliato. Quando quella stupida aiutante ti aveva definito un medico “normale” mi sono sentito offeso nel animo, come se nessuno potesse comprendere quanto tu riesca ad essere grande ed efficiente rimanendo con i piedi per terra, nel tuo mondo di assurde fantasie. Ho provato ad insegnarti tutto quello che sapevo, e tu hai metabolizzato il tutto, dandomi addirittura consigli per migliorare. Definirti medico normale è come darmi uno schiaffo in faccia, come se tutto il lavoro che avessi fatto fosse stato inutile. Il miglior medico di questa fogna. Ti meritavi un altro ospedale, davvero. Peccato che era solo un tuo trucco per scoprire cosa pensavo di te, avrei preferito che non mi avessi sentito. E poi quell’abbraccio: mi sentivo morire, ti volevo cacciare via, ma non potevo. Te lo meritavi, meritavi quella stretta che tanto hai cercato da quando ti ho conosciuto. Ma non sono abituato a farlo e spero che tu non ne sia rimasto deluso; se mai dovessi confortare quella canaglia di mio figlio, potrei chiamarti per un consiglio. >>

Un piccolo sorriso si delinea sulla bocca di Perry, per poi scomparire come la luce di un fulmine. Un sospiro, e gli occhi di nuovo nel vuoto.

<<  Quando Ben è morto mi è crollato il mondo addosso. Quando quei tre pazienti sono morti sono crollato definitivamente. Nessuno mi comprendeva, nessuno eccetto te. Eri lì al funerale, anche se ti avevo accusato ingiustamente di un errore mio. Eri arrivato a casa mia per aiutarmi e mi avevi fatto un discorso che difficilmente dimenticherò. Ti ho ringraziato, ma credo che avrei dovuto fare di più. Ti ho aiutato a superare la morte di Sam, e devo dire che mi sono sentito orgoglioso di averlo fatto: Vederti felice in quel momento, quando io ho sempre sofferto la presenza dei miei genitori, mi ha fatto capire che tu non meriti il modo come io ho vissuto la mia di vita. Avrei dovuto fare ancora di più. Avrei, no, dovevo fermarti! Dovevo fare in modo di trattenerti qui, in questa maledetta fogna, in questo maledetto incubo. Dovevo fare in modo che il piccolo Sam potesse essere vicino a te e fare in modo che tu rimanessi qui. E non l’ho fatto. Perché riesco a sabotarmi come nessuno potrebbe, e ho fatto in modo che l’unica persona che potesse aiutarmi in momenti tristi come quelli passati in questi otto anni, se ne andasse. E’ colpa mia. Già mi immagino Turk che senza di te si sentirà senza una parte del suo corpo, Eliott che sarà distrutta dal fare avanti e indietro fra casa tua e lavoro, Carla che non avrà più una persona cara da aiutare. Ed io che non avrò più te fra i piedi, raccontando tante storie su come la mia vita sia felice senza di te, dimenticando di dire che sono baggianate solamente, schiacciate dalla verità che averti fra i piedi mi rendeva contento. Dal primo giorno, da quando mi avevi etichettato come una persona insensibile, ad ora, che mi hai lasciato con un abbraccio, è sempre stato un onore lavorare con te. Sei cresciuto come persona e come medico, avevi paura prima ad usare un bisturi, adesso invece fai delle diagnosi così precise ed accurate che difficilmente potrò tenerti testa. La tua folle mente, in qualche modo, ha convinto ha chiamare mia figlia Jennifer Dylan, con Jordan che ha acconsentito subito. Fra voi donne vi capite, ma quando la mia bambina mi chiederà perché ha avuto quel nome, sarò orgoglioso di spiegarle che sei stato tu a sceglierlo. Un giorno magari ci rivedremo, con le nostre mogli, con i nostri figli al seguito e i nostri amici ad accoglierci. O magari solamente io e te. E magari, ti risponderò a quel grazie di prima, se ne avrò il coraggio. Un giorno ti potrò dire quello che sto pensando adesso… >>

La mente finisce di pensare, si rifugia in altri luoghi, sconosciuti a molti di noi. I suoi occhi diventano lucidi, si assottigliano, si bagnano. Una riga trasparente attraversa la guancia fino alla sua mandibola dura, da maschio. Il suo viso oramai è chiaro: Perry Cox sta piangendo perché ha perso un altro amico. Nessuno stavolta lo può osservare, perché è un momento troppo importante. E’ il momento. La sua gola vorrebbe strozzarsi in quell’istante, vorrebbe non pronunciare quelle poche parole, ma il suo cuore apparentemente di pietra si scioglie, e lascia che le sue vere emozioni prendano il sopravvento. Un flebile suono viene emesso, impercettibile ma sincero. Avrebbe voluto che lui ci fosse lì in quel preciso istante.

<< Grazie di tutto J.D., mi mancherai. >>

I suoi occhi non piangono più. La sua anima si. Lentamente, quasi fosse bloccato dal lasciare il luogo in cui ha realizzato quella verità, si avvia alla porta, recupera le chiavi della sua Porsche dal cassetto della scrivania e si avvia verso lo spogliatoio, dove cambiarsi per poi tornare a casa. Un ultima occhiata al suo ufficio, come se sperasse di rivedere il suo caro amico per un’ultima volta, e deluso dalla mancata sorpresa, chiude la porta ed esce. Perry Cox è un uomo forte, e non dirà mai cosa gli è successo quella sera. Quella sua frase difficilmente arriverà al suo destinatario, anche se mentre la pronunciava, il guidatore della Toyota Prius sentisse quelle parole sincere, sorridesse e dicesse:

<< Mancherai anche a me, Perry. >>
  
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