Disclaimer: I personaggi di
Hetalia: Axis Powers non mi appartengono
Ma sono di proprietà di Hidekaz Himaruya ©
E io sono una persona orribile
.: Just
When The Earth :.
.: Is Ill
With Pain :.
Russia sapeva che per America non avrebbe fatto
differenza, pur tuttavia continuò nella propria ricerca, le ginocchia lise per
l’essere rimasto a terra troppo tempo, il volto arrossato per il ruggito gelido
della landa.
Si chinò su un di rocce e vi affondò il dito, cominciando
a scavare; il pietrisco graffiò in più punti il tessuto dei guanti,
lasciandogli in mano brandelli neri e sfilacciati. La pelle incrostata di
piaghe marroni finì col lacerarsi: gli slabbri trasudarono sangue, pus e altri
umori dall’olezzo insostenibile, ma la sola espressione che Russia si concesse
fu un rigido contrarsi della mascella. Poi più nulla, fino a quando non avvertì
il bacio fresco dell’acqua.
Raddrizzò la schiena, rovistò tra le tasche interne
del pastrano e ne estrasse una fiaschetta di metallo, la superficie un tempo
lucida, graffiata e macchiata di giallo sul tappo e sui fianchi.
Non sapeva quanto effettivamente quell’acqua potesse
definirsi pura. Le possibilità che
fosse già stata contaminata da un agente esterno o interno alla falda di
provenienza –Uno dei tanti cadaveri che marcivano con le bocche enfi ancora
affondate nel fango? Liquami provenienti dalle rachitiche fabbriche in disuso?
Scorie?- erano al di là dell’immaginabile. Ma non puzzava. Era già un buon
segno.
Quando ebbe finito l’opera di raccolta, Russia si
alzò in piedi e il vento gli ululò nelle orecchie; sembrava proprio il verso di
un lupo, uno di quei tanti che avevano abitato la vecchia foresta. Sarebbe
stato interessante confrontare i due suoni..fossero rimasti ancora dei lupi
sulla faccia della Terra con cui fare il paragone. I lupi si erano estinti, gli
uccelli avevano abbandonato il cielo, i pesci il mare.
Anche quella distesa si era ridotta ad uno scheletro
di viticci e rami ritorti, gonfia di polvere e gas. Nemmeno la baracca verso
cui Russia si stava dirigendo era riuscita a salvarsi, e sì che un tempo era
stata un rifugio di caccia dalle pareti tanto solide da sfidare l’inverno.
Ma i muri erano crollati, divelti dalla
deflagrazione, di loro non era rimasto che qualche mucchietto grigio; dove un
tempo c’era la canna fumaria si ergeva solo una montagnola nera, gibbosa, di
materiali disciolti e ripiegatesi più volte gli uni sugli altri fino alla completa
solidificazione.
Ormai era tutto fuorché un luogo accogliente, ma
Russia non aveva trovato altro posto dove poter nascondere America. Da chi o da
che cosa, non era importante. Tutto quello che contava era portarlo via. Aveva
sentito un bisogno fisico di metterlo
in salvo. Il terrore, la paura, l’urgenza, un rimescolarsi destabilizzante cui
aveva dato il falso nome di speranza.
Speranza.
Credeva di non averne più.
Non dopo la faglia di Sant’Andreas. Non dopo il
maremoto che aveva inghiottito la Florida, la California e ogni fascia costiera
incontrata sul cammino.
Doveva averne ancora un po’, da qualche parte. O
forse se l’era costruita da solo, per sé…e per l’America in ginocchio. Non
riusciva ancora a capacitarsi di tutto quello.
Non del baratro, non della guerra, non dei disastri.
Le Nazioni si erano alzate le une contro le altre in una ghironda di bombe e aerei
e mitraglie, facendo acrobazie su un traballante palco di cadaveri e alleanze.
E più andavano avanti in quella danza sfrenata, meno riuscivano a sentire un
rumore di fondo, un crepitio che in un crescendo di disastri erano esploso nel
grido di ribellione della stessa Terra.
I soldi e le armi avevano perso ogni senso, gli uni
incapaci di comprare la vita, le altre senza riuscire a conservarla.
Le Nazioni avevano cominciato a cadere.
E quello di America era stato il rombo più forte.
Ma che fosse o non fosse vera speranza, Russia lo
aveva portato via con la stessa determinazione e follia con cui Romano (Romano
dal volto butterato di vesciche e ustioni dell’Etna e del Vesuvio, Romano con
le labbra cianotiche e la pelle livida degli annegati Siciliani) si era gettato
nel Canal Grande a recuperare il corpo di Veneziano. Che avrebbe messo in salvo
il fratello lo aveva promesso a Seborga prima che Imperia e l’altipiano
venissero sommersi in un ruggito di spuma.
-Siamo arrivati?-
Russia, in ginocchio accanto ad un mucchio di
sterpi, si voltò; da sotto il bozzolo stantio di coperte e giacche strappate,
America aveva aperto gli occhi –Troppo grandi e lucidi per il volto smagrito e
grigiastro.
-Da- gli
sorrise.
Si avvicinò e gli mise una mano sulla fronte: la
febbre si era alzata ancora e lingue di sudore freddo colavano lungo le tempie;
fece passare le dita tra la ciocche stoppose, in un accenno di carezza. Non
fosse stato costretto a farvi l’abitudine, Russia si sarebbe persino stupito di
non sentire Nantucket solleticargli il palmo. Anche gli occhiali del Texas si
erano rotti da tempo.
Assottigliò le labbra.
Non era stato facile giungere fino lì. Era dovuto
sfuggire al controllo dei Superiori e chiedere a Francia –col corpo devastati
dall’esplosione delle centrali, i capelli radi e la pelle grinzosa- di
intercedere presso Inghilterra, perché gli prestasse un mezzo di trasporto per
arrivare in America. Forse era stata la perdita del piccolo Sealand, spazzato
via dalle onde, la notizia che i monsoni avevano trascinato via India nel
fango, o ancora la fine di ogni contatto con Australia… Inghilterra aveva
accettato.
Trasportare poi America oltre il nuovo stretto che
lo separava da Canada non era stato così difficile: beni di lusso quale farina
muffita e pane nero avevano pagato il traghettatore; l’amore fraterno aveva
dato loro rifugio.
America ebbe un tremito e Russia si fece scivolare
il pastrano dalle spalle, per poi posarlo sopra le coperte.
-Prenderai freddo, Nasone-
-Non è poi un clima troppo diverso da quello di casa
mia, da-
America non replicò.
-Sei dimagrito- mormorò, invece.
Russia non rispose, portandosi d’istinto un mano al
petto. Da sotto la maglia cadente poteva indovinare le costole senza difficoltà
e il sangue marrone impiastricciava il tessuto altrimenti bianco; la pelle era
tesa sulle braccia, quasi traslucida, il ventre era incavato, gli occhi
infossati entro le orbite violacee.
-Dove…dove siamo?- America dovette fare uno sforzo
immane per mettere insieme quella domanda. La voce grattò la gola, facendo
ruscellare altro sangue lungo i polmoni, e il petto vibrò per la troppa acqua
che stagnava nelle vie respiratorie.
-Siamo in Alaska-
-Descrivimela..-
Un sorriso si sollevò sugli zigomi affilati di
America. La guerra aveva reso slavati i suoi occhi, le scorie avevano portato
via loro ogni colore.
Russia sollevò lo sguardo, umettandosi le labbra
pastose con la punta della lingua: una distesa arida e secca si apriva fin dove
l’occhio riusciva a guardare; dalle fenditure e dalle spaccature della terra si
attorcigliavano viticci, spine e scheletri morsi dal vento, mentre monconi neri
di alberi disseminavano l’orizzonte grondante di luce oleosa, grezza, gonfia di
cenere. Il cielo grigio ferro vomitava ovunque pastoni roboanti di gas e polveri.
-E’ quasi la notte. C’è ancora dell’oro sulla cima degli
alberi, ma già sui rami più bassi stanno colando lacrime rosse; il cielo sta
lentamente scivolando nel buio e le prime stelle si accendono a segnare il
cammino della luna. Costoni di ghiaccio e di neve brillano e scintillano e
palpitano sotto il velo del tramonto, come un filo di gemme o una rete di perle
di corallo-
Russia abbassò lo sguardo e prese la mano di America.
Rimase in silenzio, senza sapere più cosa dire, cosa inventare, quasi la
carestia della steppa gli avesse inaridito anche l’anima. Tutti i ricordi, le
immagini, i colori..erano davvero svaniti? Perché richiamarli alla memoria era
tanto difficile?
Non riusciva più a ricordare il profumo della neve o
il sapore del vento, né la voce degli alberi e degli uccelli. Di che colore
erano gli occhi di America? Erano azzurri una volta, caldi come il sole. Era
una sicurezza intrinseca nel cuore di Russia, ma non sapeva più da dove derivasse.
Perché gli occhi di America avevano il colore smorto della sabbia e i raggi del
sole erano lame gelide conficcate nel braccio.
Avevano percorso la landa a cavallo tante di quelle
volte, che Russia era sicuro l’avrebbe ricordato per sempre. Ma che rumore
facevano gli zoccoli? E le bisacce sui fianchi della sella? Diventavano bianche
le froge del cavallo quando il galoppo si faceva troppo veloce?
No, non ricordava più nulla. Linee sfilacciate di
una composizione dimentica della forma originaria. Chiasso di voci indistinte,
girandole grottesche di sfumature dense come liquami.
Non gli era rimasto altro.
-Tanti anni in Alaska con te e non abbiamo mai visto
l’alba assieme- considerò America. Chiuse gli occhi con un sospiro fioco –Dimmi
com’è l’alba, Nasone-
-Il sole sorgerà domani- mormorò -Per entrambi-
-..Non so se sarò in grado di vederla-
Russia strinse più forte la mano di America.
Le dita di America si abbandonarono contro il suo palmo.
Note
Finali
Ecco, ora ripetiamo tutti insieme:
Nemeryal è una persona orribile.
Questa idea mi girava in testa da un
po’. E se qualcuno di voi ha letto “La Strada”,
può capire il perché. Il titolo è un verso della
canzone "Sword and Shiled" (Sister Hazel)...che poi tutta intera
è anche il significato portante della Fan fiction. Melt into me, don't you wanna be the one who last forever? I will be your everlasting.
…Bene, vado ad impiccarmi col cappio
del Cluedo.