Desclaimer: *preme
il pulsante del registratore* tutti i personaggi
citati ed usati in questa fanfic non sono miei, ma
appartengono prima a Sir Doyle poi a Moffatt e Gatiss. Non ricevo
soldi e/o favori di altro tipo per la traduzione di questo lavoro, né dall’autrice
né da altre persone.
Note:
seconda parte della serie di “Two Coffees”.
Ammetto di essere una poco di buono, in quanto non ho ancora finito di tradurre
a Lipantootie i commenti alla prima parte D8 però
gliene ho accennato, ed è commossa e felicissima di avere ricevuto cos’ tanti
apprezzamenti ♥ vi ringrazia tutti
quanti.
Qui il link alla serie
originale in inglese: Two Coffees One Black One With Sugar Please
Auguro a tutti voi una
buona lettura ;D
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Un’Epifania
è Solo un Modo Sofisticato per Capire che Sei un Idiota
– An Epiphany
is Just a Fancy Way of Realising You’re
an Idiot –
John
ha dormito nel letto di Sherlock per 101 notti. Le ha contate. Non
necessariamente in modo conscio, non necessariamente per uno scopo particolare,
ma tutte le notti il conto veniva in qualche modo scolpito nel suo cervello
come se non volesse farlo dimenticare. Cento-e-uno.
Se le notti fossero dalmata si sarebbe potuto fare una bella pelliccia, ed è
una metafora inutile quanto lo è il conto in primo luogo, ma è andato in giro
con quel numero in testa per tutto il giorno, chiedendosi se fosse l’inizio di
una qualche specie di ossessione.
Aveva
anche scritto un post sul blog in proposito, una singola linea con scritto
“101” che si era guadagnata solo un commento da Harry contenente nient’altro
che un poke.(1)
Sherlock
lo aveva visto, e Sherlock aveva colto il riferimento – compiaciuto –
informandolo del fatto da sopra il suo microscopio; il che era stato davvero
seccante per John, perché significava che Sherlock aveva tenuto il conto a sua
volta e cosa diavolo stava a significare?
È
anche estremamente consapevole di non aver dormito con nessun altro, in tutti
quei mesi. Aveva avuto qualche appuntamento, ma non erano mai andati al sodo.
Era anche uscito con la stessa ragazza un paio di volte, una piccola cameriera
dai capelli rossi e con un seno abbondante, ma Sherlock l’aveva terrorizzata
dopo una settimana o due, ovvero prima che John avesse avuto l’occasione di
pensare a come diamine cercare di spiegarle che dormiva regolarmente nel letto
del suo fastidioso coinquilino; felicemente, sia chiaro, spero che tu non pensi che sia troppo strano.
A
John piaceva dormire di fianco a Sherlock. A John piaceva addormentarsi di
fianco a Sherlock e a John piaceva svegliarsi di fianco a Sherlock e mentre
all’inizio lo aveva semplicemente fatto (di solito è la strategia migliore per
tutto ciò che riguarda Sherlock Holmes), si era trovato a pensare sempre più
spesso a cosa tutto quello significasse.
Le
poche notti in cui avevano dormito separati durante gli ultimi mesi erano state
sgradevoli, irrequiete, e provava un agio ed una sicurezza intensi nell’andare
a dormire sapendo che Sherlock era lì con lui.
Ovviamente,
la risposta di Sherlock non era stata d’aiuto. Non era mai stato un
dormiglione, ma era molto più propenso ad andare a dormire, in quei giorni, il
che, per John, era allo stesso tempo lusinghiero e terrificante. Anche nelle notti
più frenetiche del detective John andava a dormire nel suo letto e si svegliava
con Sherlock al suo fianco, scivolato chissà quando sotto lo coperte prima del
suo risveglio.
C’è
una sorta di domesticità in tutto ciò che comincia davvero a disturbare John, perché
insinua cose. Cose che, onestamente, non può dire che siano del tutto false.
Era
come se lui e Sherlock fossero finiti in una vera relazione, implicazioni e
tutto, senza decidere effettivamente di farlo, e Sherlock sembrava stranamente
compiaciuto di quella situazione, e John semplicemente non sa più cosa fare con
tutta quella faccenda. Si considera decisamente troppo vecchio per questo tipo
d’incertezze.
È
steso sul letto di Sherlock, mani dietro la testa, e ascolta i suoni che fa
Sherlock armeggiando in bagno. Ha ormai memorizzato la routine di Sherlock,
quasi la stessa ogni notte. Prima si lava la faccia e le mani, di solito con
l’acqua fredda, rubinetto aperto e l’acqua che scorre sul lavello di
porcellana. Poi si lava i denti per quello che John pensa sia un periodo di
tempo assurdamente lungo, facendo attenzione ad ogni singolo dente (ma, ad
essere sinceri, da quando lo conosceva Sherlock non aveva mai avuto bisogno di
un dentista). Poi si pettina i capelli. Non che John possa davvero sentirlo ma
sa che lo fa, probabilmente per togliere i rimasugli di gel che si mette
durante il giorno per tentare di tenerli in ordine. Infine c’è un momento di
silenzio, il rumore dello sciacquone, e ne esce sembrando stranamente
soddisfatto. È uno sguardo che John riesce a vedere solo quando sono insieme in
quel modo, e gli da’ delle sensazioni
che non è sicuro di come catalogare.
« Dobbiamo parlare » dice John alla stanza mentre Sherlock
scivola sotto le lenzuola.
« Di cosa? » chiede in un modo che fa capire sia a
malapena presente con la testa, ancora all’inseguimento di qualche pensiero
cominciato probabilmente mentre era davanti allo specchio a spazzolarsi i
denti.
« Di questo ».
Sherlock
sospira e si volta per fronteggiare John, una mano infilata sotto al cuscino. « Dovrai essere un po’ più specifico di
così, John »
dice, ma non c’è malizia nella sua voce. È felice, John riesce ad intuirlo. Lo
innervosisce.
« Questo, Sherlock. Tu. E io. Nel tuo
letto. Da oltre tre mesi ormai ».
« E? ».
John
tiene i suoi occhi incollati al soffitto perché se guardasse Sherlock potrebbe
finire per dargli un pugno in testa – potresti
afferrare cosa sto cercando di farti capire, somaro?
« Stiamo decisamente oltrepassando i
confini dell’amicizia qui, Sherlock. È di questo che dobbiamo parlare ».
Sherlock
rimane in silenzio, osservandolo con curiosità.
« Senti, è solo che... Non è normale,
no? Coinquilini che dormono nello stesso letto? ».
« “Normale” è noioso. Perché ha
importanza? ».
« Perché semplicemente ne ha, Sherlock,
va bene? Ha importanza. Solo... cosa succede se mi trovo una ragazza? ».
Sherlock
lo guarda, accigliato. «
John, credi davvero che insisterò a voler dormire con te se avrai una donna nel
tuo letto? ».
« Non è quello che– Dio, spero di no. Ma
non è quello che sto cercando di dirti. Come potrei spiegarle questo? ».
« Perché dovresti farlo? ».
« Perché è così che funzionano le relazioni,
e io non so spiegare il perché non riesco a dormire bene a meno che non abbia
il mio coinquilino che dorme accanto a me ».
Ecco.
L’ha detto. Respira, il mondo che danza attraverso la stanza mentre Sherlock ci
pensa sopra silenziosamente.
« Davvero non dormi quando non ci sono? ».
« Sì che dormo, è solo che dormo meglio
quando chiacchieri nel sonno vicino a me » dice John, vagamente depresso.
« Io non parlo nel sonno » dice Sherlock perplesso, e John
vorrebbe prenderlo a calci perché non è esattamente ciò che voleva trasmettergli
con quella conversazione.
« Sì, sì lo fai, e anche parecchio. Il
che va bene. Solo che– ».
« John, ho dormito in dormitorio per
buona parte della mia infanzia e nessuno mi ha mai detto prima che parlo nel
sonno. Penso che lo saprei se– ».
« Sherlock. Fidati di me. Tu parli nel
sonno. Rispondi anche alle domande, a volte. Scusa per avertelo rivelato in
questo modo, ma per l’amor di Dio, possiamo restare sull’argomento? ».
Sherlock
sembra lievemente inorridito, e di sicuro sta pensando a quali inconfessabili e
oscuri segreti i suoi vecchi compagni di collegio erano riusciti ad estorcergli
mentre dormiva. John si sente un po’ in colpa ma gli passa in fretta, come
capita per certe cose.
« Senti, è solo... questo. Qualunque
cosa sia. Dobbiamo parlarne ».
« Non capisco ».
« Sherlock, cazzo, no. Non sei ingenuo,
sai benissimo di cosa sto parlando ». La sua pazienza termina, trascinata
sulla superficie irregolare del palese rifiuto di Sherlock di dare una
spiegazione a tutto quello. John non vuole tirare fuori il discorso così quanto
non lo vuole Sherlock ma semplicemente deve,
e lo fa imbestialire che l’altro continui a tirarsi indietro.
Sherlock
lo guarda, secondi ticchettanti che scorrono dall’orologio sul comodino, il suo
cervello che lavora vertiginosamente per cercare la cosa giusta da dire.
John
sa che è una cosa difficile, per lui. Persone, relazioni, non è qualcosa in cui
è bravo, ma per l’amor di Dio, è solamente lui,
solamente John, l’uomo al fianco del quale dorme pacificamente da ottobre,
quindi deve provarci.
« Non vedo perché debba avere importanza
» se ne esce finalmente: « siamo io e te, ecco tutto. Di cosa
dobbiamo discutere? ».
Ovvio.
« Io non sono gay, Sherlock » sibila John fra i denti.
E
Sherlock esplode. È davvero l’unico modo in cui John può descriverlo. Si gira
supino, le braccia in aria, e sbatte il tallone contro il materasso.
« Cos’ha a che fare quello con tutto il
resto?! » esclama, la frustrazione appuntita
sulla sua lingua. «
Tutte le volte che qualcuno anche solo accenna a... a qualcosa fra noi, tu tiri fuori quel discorso e te lo metti davanti
come uno scudo, ma che importanza ha?
Tutti sanno che non sei gay, John, ti piacciono le donne, ti riduci ad una
pozzanghera di bava tutte le volte che una abbastanza attraente ti passa vicino, ma per quale motivo dovrebbe
escludere... dovrebbe impedirti di... è quasi offensivo, ecco ».
John
si irrigidisce. Le parole di Sherlock lo colpiscono in un modo che non gli
piace.
« Questo, qualunque cosa sia... » continua Sherlock agitando la mano fra
loro: « ...perché è necessario che tu lo
faccia? Ritrattare in quel modo? Solo perché è capitato che io abbia un pene? È
ridicolo. Lo è. Mi fa arrabbiare. Dividiamo il letto, non ti sto chiedendo la mano né ti sto obbligando a sfilare
al Gay Pride ».
John
si siede, appoggiando i gomiti alle sue ginocchia e strofinandosi la faccia con
le mani prima di farle scivolare fra i capelli e lasciarle lì, combattendo al
contempo contro l’urgenza di alzarsi e lasciare la stanza. Sherlock lo fissa
dal letto, occhi che aprono un buco incandescente sulla nuca di John.
« Senti, semplicemente importa. So che per te non è così,
perché no, a te non interessa cosa possano significare cose di questo tipo, ma
a me sì. E non è nemmeno per il giudizio della gente. Sono io. Ho 37 anni e ho sempre
creduto di sapere chi fossi ma poi... tu. E questo. Qualunque cosa sia. Avrà
delle conseguenze e io non so cosa farmene del fatto che tra noi due io sono
l’unico preoccupato di quali potrebbero essere. Sarebbe bello fregarsene come
fai tu, accoccolarsi di fianco a qualcuno e pensare a quanto sia piacevole, ma
io non posso, ok? ».
Sherlock
rimane in silenzio. Le parole di John hanno sgonfiato la sua piccola scenata,
quindi aspetta che lui finisca.
« Io credo... » comincia John, e la sua gola è all’improvviso
secca: « che sappiano entrambi, so che anche tu
lo sai. Che siamo... beh... che fra noi c’è un legame forte. Anche senza il...
dormire insieme »
sospira: «
È solo che questo, il dividere il letto, rende così dolorosamente chiaro il
fatto che non è... non è completamente platonico,
ecco, e non so se sono pronto per affrontare una cosa simile ».
Sherlock
ancora tace, un silenzio dai contorni scioccati che fa nascere in John la
voglia di buttarsi dalla finestra. I bidoni di mrs.
Hudson gli donerebbero un atterraggio meravigliosamente violento.
« Mettiamoci a dormire » grugnisce poi, affondando di nuovo nel
cuscino e allungandosi per spegnere la luce. Il buio rimane silenzioso mentre
John ci respira dentro, girato sulla schiena, mani sopra e di fianco alla
testa. Fanculo al dormire meglio con Sherlock di
fianco a lui, quella notte sarebbe stata una tortura. Forse avrebbe fatto
davvero meglio a trascinarsi in camera sua, coda fra le gambe, per dare ad
entrambi un po’ di spazio.
Sherlock
si sposta e si gira e inaspettatamente c’è calore quando copre la mano destra
di John con la sua, dita lunghe intorno alle sue, il pollice che sfrega contro
il suo palmo. Il respiro gli si blocca in gola e lui lo nasconde con una
risatina soffocata, ma risponde prudentemente alla presa, solo per cercare di
fargli capire che va ancora tutto bene.
Non posso fare a meno di lui pensa, ed è difficile, quindi chiude
gli occhi e si concentra su quanto piacevole sia, in realtà, quello strano
contatto mentre al suo fianco Sherlock scivola facilmente nel sonno.
« Centodue » dice Sherlock la mattina dopo, con la
bocca piena di toast, mentre passa accanto a John in cucina. John sente il
desidero di lanciare la sua intera colazione in testa a Sherlock.
« Non farlo. Non cercare di farmi innervosire,
è infantile »
dice invece, fissando male il proprio caffè.
Sherlock
non risponde, mangiando il suo toast in due morsi prima di prendere il violino
e cominciare a suonare una melodia a caso, che John riconosce per metà come
Vivaldi. Beve il suo caffè talmente in fretta che si brucia la lingua e lascia
l’appartamento per fare un po’ di spesa.
Nei
successivi quattro giorni ha a malapena il tempo di respirare, figuriamoci
sedersi e riflettere sulla situazione. Spunta fuori un serial killer – Sherlock
è fin troppo eccitato, ci sono già tre morti, uomini anziani trovati
strangolati nei loro letti senza segni visibili di effrazione. Finisce tutto
con Sherlock che rintraccia il killer, un giovane affetto da una grave psicosi,
e combattono finché non si buttano letteralmente da una finestra al primo piano
di un edificio. L’assassino si rompe due costole, Sherlock ne esce con qualche
taglio ed escoriazione, mentre le ginocchia di John stanno ancora tremando
dallo shock inaspettato di averlo visto volare giù dalla finestra.
Dormono
a malapena in quei giorni, il che rende più semplice evitare la situazione.
Poi, come sempre, l’agitazione svanisce; John rimprovera Sherlock per un buon
quarto d’ora riguardo al buttarsi giù dalle finestre e all’effetto che fa sulla
pressione sanguigna di un certo coinquilino, ed eventualmente si siedono, in
silenzio, in soggiorno, John che scrive un post nel suo blog e Sherlock che
tenta di manovrare una bottiglia mezza vuota di disinfettante per curare un
graffio sul suo avambraccio.
John
gli aveva offerto aiuto, Sherlock aveva detto no; John in realtà è intenzionato
a lasciare che faccia da solo per dieci minuti, prima di afferrare la
bottiglietta e farlo stare fermo.
« Dormi da me stanotte? » chiede Sherlock lentamente,
deliberatamente lento, senza staccare gli occhi dal proprio braccio. Il
disinfettante scivola piano creando una piccola pozza accanto al gomito.
« Se per te va bene » dice John, indice sinistro e dito
medio destro che scrivono il caso lentamente, in un modo che, ne era sicuro,
avrebbe irritato Sherlock.
« Certamente » risponde Sherlock. Sospira, appoggia
la bottiglia, afferra un fazzoletto e comincia a tamponarsi il braccio. Il
graffio gira attorno al suo avambraccio e anche Sherlock si inclina per
raggiungerlo nella sua interezza. La mano di John sobbalza, alla vista, ma non
dice nulla.
Finisce
una frase. Punto fermo. A capo. Nuovo paragrafo. Sospira, stiracchiandosi,
girando la testa e facendo scrocchiare il collo. « Allora » dice.
« Allora » ripete Sherlock, un momentaneo
spalancarsi degli occhi, un significativo incurvarsi del sopracciglio sinistro.
« Non fare il brusco » dice John: « solo perché è saltato fuori un caso e
tu ti sei buttato da una finestra non significa niente. Ancora non siamo
obbligati a... »
non sa come finire la frase, il che è più che frustrante perché sa che Sherlock lo farà al suo posto.
« Dobbiamo discutere ancora di quanto ti
fa sentire a disagio il fatto che ti piaccia stare accanto a me? Certo. Discutiamo ».
« Non fare così. Non è giusto ».
« Forse hai ragione. Sono solo stanco » sospira e si alza: « a pensarci meglio, vai a dormire nel
tuo letto. Vorrei stare da solo » e se ne va, a passi lunghi attraverso
la cucina verso la sua camera da letto. La porta si chiude silenziosamente.
John la fissa, perplesso. Sono a malapena le nove di sera e questo è più che
ridicolo, ma oltre ad inseguirlo e gettarsi a capofitto in quello che
diventerebbe inevitabilmente un inutile litigio, non sa cosa fare.
Se
la svigna su per le scale nella sua camera appena venti minuti più tardi e si
stende sul letto, ancora completamente vestito, cercando di mettere in ordine i
suoi pensieri per più di un’ora. Non funziona.
A
John farebbe piacere che Sherlock non tappezzasse la scena del crimine con i
loro problemi, ma sono tutti lì: nel modo in cui cammina impettito oltre il
nastro giallo, contando i pezzi di cadavere sparsi per tutto l’argine. Lestrade
li ha chiamati e Sherlock gli era parso eccitato nel sapere che qualcosa che
una volta era umano era stato in un qualche modo sparso lungo mezzo miglio(2)
di riva coperta di muschio. Sherlock aveva già annunciato che la vittima era un
maschio, caucasico e probabilmente un autista di autobus. Come aveva capito
l’ultima parte, John non ne aveva proprio idea.
Sherlock
lo ignora, girandosi ogni volta che incrocia il suo sguardo mente fa le sue
valutazioni vagamente maniacali, evitando palesemente di guardarlo.
Distratto,
John calpesta qualcosa di appiccicaticcio ed indietreggia. « Attento, intestino tenue » lo deride Sherlock mentre gli passa
vicino, sogghignando in sua direzione.
« Grazie per l’informazione, segaiolo(3) » brontola John, più a se stesso che ad
altri, pulendosi la scarpa su di un ciuffo di erba gialla.
« Beh, è di malumore » dice Lestrade affiancandolo, le mani
nelle tasche.
« Sì, è un po’ arrabbiato con me » dice John. Probabilmente avrebbe
dovuto buttar via quel paio di scarpe, ora. O forse bruciarle.
« Cos’hai fatto? ».
« Oh, tu non vuoi davvero saperlo ».
Lestrade
non chiede altro – sa benissimo che se John dice che non lo vuole sapere, lui seriamente non vuole saperlo. John pensa
di dirglielo comunque: dormiamo nello
stesso letto da tre mesi e credo di essere diventato tipo il suo ragazzo senza
accorgermene e non so come sentirmi a riguardo e quindi ora lui è offeso dalla
mia stupida insicurezza – ma sarebbe davvero troppo da sopportare, per il
caro Lestrade. Specialmente se detto sopra le viscere sparse di un ignaro
autista d’autobus. Batte le mani dietro la schiena e osserva Sherlock evitare
una costola, gesticolando freneticamente a Donovan di prendere nota di
qualcosa, e aspetta che abbia finito.
« Pensi di poter tenere privati i nostri
problemi? »
John chiede più tardi, seduto nel sedile posteriore di un taxi diretto a Baker
Street, guardando fuori del finestrino un gruppo di turisti che camminano sul
marciapiede.
« Non ho detto niente di fuori luogo » ribatte Sherlock pigramente, fissando
la nuca del tassista.
« Non ce n’è stato bisogno. Persino un
cane avrebbe capito che sei arrabbiato con me ».
« Se non vuoi che la gente sappia che
sono arrabbiato con te, forse non dovresti farmi arrabbiare ».
« Oh, per l’amor del– Sherlock. È
ridicolo. Siamo destinati a litigare ogni tanto, ma questo non vuol dire che
devi ciondolare per Londra comportandoti come se ti avessi rubato il gelato ».
« Abbiamo già litigato, prima. Questo è
diverso, e mi sento giustamente arrabbiato con te. Non chiedermi di
scrollarmelo dalle spalle come se fosse un vecchio cappotto quando lasciamo
l’appartamento, non voglio farlo e non lo farò ».
John
lo fissa guardare fuori dal finestrino, completamente illeggibile. « Sherlock, non farlo. È come se mi
stessi punendo per la mia confusione. Sto cercando di capirci qualcosa, va
bene? Ci sto provando ».
« Non riesco semplicemente a capire
perché hai un bisogno così disperato di catalogarlo » dice Sherlock verso il finestrino,
occhi scattanti mentre osserva Londra passargli accanto.
« Perché è importante, va bene? Per me è
importante, e qualunque cosa sia ci sono dentro anche io, dunque ho diritto di
voto. Ecco tutto ».
Si sente insolente, solo un po’. Sherlock può anche smettere di fare il
moccioso e dargli lo spazio che gli serve senza che debba lottare per averlo.
« Ti sarà più facile accettarlo una
volta che gli avrai dato un nome? ».
« Non lo so. Forse. Spero di sì » John fa una pausa appena può, dopo la
domanda, e arriva alla sua conclusione con qualcosa di molto simile alla
soddisfazione. Sì.
Sherlock
mugugna, sopracciglia aggrottate. John è quasi preoccupato per cosa significhi
quel gesto – a quanto pare Sherlock sta realizzando qualcosa che John, invece,
dovrà capire da solo.
Il
taxi svolta in Baker Street e Sherlock esce per primo, in un turbino di
fruscii. «
Ti lascio alle tue deduzioni » dice, implicando di avere già la risposta, e John paga il
tassista ponderando di trasferirsi a Cardiff e farla finita.
Dormono
di nuovo separati, quella notte. John si addormenta cercando di capire cosa
manca quando Sherlock non c’è e si sveglia al mattino capendo che la risposta a
quella domanda è fin troppo vaga. Le interazioni umane, la natura umana, non
sono categorizzabili tramite domande a cui rispondere semplicemente “si” o
“no”, a quanto pare. Non c’è un binario. Riesce a capire l’associazione, ad
unire i puntini, e si sente strano a riguardo.
Ciò
che gli manca quando Sherlock non dorme con lui è Sherlock. Il che ha senso, tranne per il fatto che non ne ha,
tranne per il fatto che John si rende conto di non essersi sentito così per
nessun altro prima, e quindi si innervosisce per l’intera faccenda e si taglia
con il rasoio mentre si rade.
« Vuoi venire a letto con me? ».(4)
John
quasi si strozza con il caffè. Sono seduti in un piccolo ristorante di fronte
ad un negozio di animali che Sherlock vuole tenere d’occhio per un po’ a causa
di un traffico illegale di animali esotici. Stava spiegando a John i vari
metodi per smerciare serpenti, fino a dieci minuti prima, dunque la domanda è
più che inaspettata.
« Non intendo per dormire, ovviamente,
quello lo facciamo già. Mi riferisco al sesso » aggiunge Sherlock, e rende il tutto
fantasticamente peggiore.
« Cosa?! ».
« È una domanda seria, John. Stiamo
affrontando una sorta di crisi di coppia, il che è strano, dato che non siamo
una coppia. Hai già ammesso che i tuoi sentimenti non sono del tutto platonici.
Posso forse presumere che tu voglia venire a letto con me? ».
Il
tono è piatto. Sta puntando ad un approccio scientifico, distaccandosi dal
problema per cercare di semplificarlo, tentando di aiutare John a capire cosa
diavolo stanno portando avanti, ma sta chiaramente fallendo. Evita gli occhi di
John giocherellando con una bustina di zucchero vuota sul tavolo. Persino il
grande Sherlock Holmes non riesce a mantenersi completamente distaccato da
questo problema.
John
lo fissa, tamponando una macchia tiepida di caffè che si sta espandendo sulla
sua maglietta.
« Allora? » dice Sherlock.
« Oh, per l’amor di Dio » borbotta John, distogliendo lo
sguardo. Non c’è nessuno intorno a loro. La cameriera annoiata pulisce poco
minuziosamente la macchina del caffè ed il ristorante è vuoto, tranne che per
loro. « Sherlock, senti, non è... non è questo
il punto. Non lo è. Se avessi voluto fare sesso... se fosse per il sesso, forse
sarebbe più facile da gestire ».
Sherlock
solleva un sopracciglio. «
Interessante ».
John
vorrebbe strozzarlo.
« Quindi riguarda l’amore ».
La
parola cade fra loro come un autoribaltabile pieno di mattoni. John lo fissa a
bocca semi-aperta e con la mano ferma a mezz’aria.
« È così? » insiste Sherlock.
« Dimmelo tu » gliela rigira John.
Sherlock
non si era aspettato quel depistaggio e sbatte gli occhi, la sua faccia piena
di malcontento. Accartoccia la bustina di zucchero e non dice più niente.
John
finisce ciò che rimane del caffè e siedono nel più imbarazzante silenzio che
sia mai esistito fra loro. Per un solo momento pensa di non essersi mai sentito
così infelice.
« Sì » dice John dal nulla quella sera,
mentre è curvo sulla sua poltrona e Sherlock è in cucina a fare chissà cosa al
microscopio.
« Sì cosa? » gli chiede.
« Solo sì ». John non se la sente di chiarire.
Capirà o non capirà e in ogni caso non farà un minimo di differenza, ad essere
sinceri. Questa intuizione è sua e sua soltanto.
« Oh » alla fine ci arriva. La cucina è
silenziosa per un momento prima che ritorni a fare quello che stava facendo
prima, accendendo il becco di Bunsen e facendo tintinnare
qualche fiala.
John
siede ricurvo sulla sua poltrona e guarda fuori dalla finestra, verso il cielo
nero. Non è più felice di quanto lo fosse quel pomeriggio, in quel piccolo e
squallido ristorante, ma sente come se i propri pensieri si stessero allineando
in un ordine comprensibile.
Dormono
ancora nello stesso letto, quella notte. Sherlock parla dell’Ungheria mentre
dorme e John rimane sveglio a guardarlo per un po’, steso sul letto a pancia in
giù, viso premuto sul cuscino.
È
innamorato di quest’uomo. È un dato di fatto talmente ovvio che non è nemmeno
sicuro del perché ha avuto così tanti problemi ad ammetterlo. Anche la parte di
sé che, effettivamente, è sempre sulla difensiva su quanto non sia gay è
stranamente d’accordo con la cosa. Può sentire Irene Adler nella sua testa, le
parole che ha detto e contro le quali si è così veementemente difeso, e che
improvvisamente hanno talmente tanto senso che gli piacerebbe poterla chiamare
nell’aldilà per dirglielo. Semplicemente, non ha importanza. L’intera
etichetta, quell’insignificante aspetto della sua identità, che è solo un altro
esempio di qualcosa che Sherlock Holmes è in grado di – in mancanza di un
termine migliore – trascendere. È come se corrispondessero, su
quell’incredibilmente strano livello che va oltre cose basilari come genere e
sessualità, e buttassero tutto dalla finestra facendoli ripartire da zero nel
definire quell’adorabile cosa che stanno portando avanti insieme. John pensa
che potrebbe scriverci dei componimenti, pezzi estasiati di scorrevole
narrativa, per quanto ne è ispirato.
Invece,
rimane semplicemente sdraiato a guardare Sherlock immaginando si stare con lui.
Non platonicamente. Forse dovrebbe cominciare ad usare la frase “in modo
romantico”, anche se essa suggerisce che le cose siano abbastanza ironiche,
perché si tratta di Sherlock, quanto
romantico potrebbe essere, onestamente? Eppure. È innamorato di quest’uomo. È
anche abbastanza orgoglioso di essere capace di pensare una cosa simile senza
mandare metà del suo cervello in cortocircuito. Lo considera un progresso.
Ora
deve solo decidere che cosa farne.
Sherlock
è seduto, immobile come una statua, sulla sua poltrona di pelle da ormai due
ore. Sta pensando. John non sa a cosa, ma non è insolito. Ha già provato a
stabilire un contatto due volte, la prima chiedendogli se voleva del tè e la
seconda sventolandogli davanti la lista della spesa, ma non c’è stato verso.
Potrebbe
mettersi a brontolare, tranne che solitamente assapora il silenzio che momenti
come questo portano. Ancora prima che se lo immagini, Sherlock scatterà in
piedi con una delle sue pazze idee fisse in testa, quindi il momento è...
gradevole. John sta seduto sulla sua poltrona e si gode il suo tè. Se l’è
guadagnato, dopo gli ultimi giorni di tumulto emotivo.
A
Sherlock servono altri 35 minuti per tornare alla realtà. John ha finito da
parecchio il tè e si è messo a leggere una vecchia rivista che ha trovato
infilata sotto la poltrona, sentendosi stranamente al sicuro nel calore del
loro appartamento. Fuori la luce solletica le finestre e lui sta benissimo
dov’è, grazie.
« Dovremmo smetterla di girarci attorno
e affrontarlo faccia a faccia ».
« Cosa? » dice John, sul punto di finire un
articolo sul pattinaggio su ghiaccio in Alaska. Roba interessante, quella.
Interessante quando la caccia al mastino, crede.
« Risolvere il nostro piccolo problema.
Facciamola finita ».
Le sue dita vanno da sotto al mento ai braccioli della poltrona. « Tu sei molto importante per me ».
John
alza un sopracciglio in sua direzione da dietro la rivista, poi la posa e si
risiede. «
Va bene. È una cosa carina. Anche tu sei molto importante, per me. Stiamo
davvero per avere un discorso serio? Perché se tiri di nuovo fuori il sesso, io
me ne vado ».
Sherlock
sfodera un’espressione a metà fra il seccato ed il disgustato e John si sente,
per un momento, quasi offeso. Poi Sherlock si alza, girando in circolo lungo la
stanza mentre parla. John non ha idea del perché lo faccia, a volte, ma è
abbastanza affascinante da fargli dimenticare la sua espressione di poco prima.
« Mi piace passare del tempo con te e mi
piace dormire nello stesso letto con te. So che per te è lo stesso. E non sono
nemmeno, effettivamente, abbastanza ingenuo da credere che sia un comportamento
normale per due uomini adulti che non sono impegnati in una relazione ».
John
si alza e lo segue, andando in cucina per chissà quale ragione. Sherlock non ci
va senza motivo, ma semplicemente rimane lì in piedi, forse per mettersi sotto
una luce migliore. John davvero non lo sa.
« Allora? » chiede Sherlock.
« Allora cosa? ».
« La scorsa settimana hai chiesto di
poterne parlare. Te ne sto dando... l’opportunità ».
« Io sono un uomo d’azione, non di
parole ».
« Ironico, per qualcuno che detiene un
blog ».
« Oh, sta zitto » dice John affettuosamente.
« Sono serio, però. Sei stato tu a
sollevare la questione. Volevi discutere di quanto stessimo oltrepassando i
limiti dell’amicizia. Vai avanti. Oltrepassali. Apprezzo il fatto che lo
facciamo, quindi mi piacerebbe continuare a farlo ».
« Mi sono innamorato di te ». Lo dice ancora prima di accorgersene,
e lo shock non arriva dal dirlo ad alta voce
ma da quanto è assolutamente soddisfatto di averlo detto. È
sorprendente. È facile. Le parole escono dalla sua bocca con la stesa facilità
dell’ordinare due caffè uno-nero-uno-zuccherato-per-favore
e si ritrova persino a sorridere a Sherlock. Il quale, per dovere di cronaca,
lo sta guardando come se avesse appena rivelato il suo grande piano per
assassinare il Papa.
« Beh? » continua John: « hai detto di smettere di girarci
intorno. Ho smesso ».
« Va bene » esala Sherlock: « è più di quello che mi aspettavo ».
« Cosa ti aspettavi? ».
« Una vaga ammissione di attrazione
sessuale? O qualche livello basilare d’affetto. Non tutto... questo » dice gesticolando, indicando John con
entrambe le mani.
John
è ancora scandalosamente calmo. Si era aspettato molto più panico. Si ricorda
storie di persone che avevano avuto esperienze di quasi-morte,
veri e propri tunnel con la luce in fondo, e che avrebbero descritto lo
scivolare in un dolce oblio come una benedizione. Può solo concludere che sta
per avere un’emorragia cerebrale a causa di un’epifania(5) di lunga
durata.
« Beh... » continua Sherlock: « È una buona cosa. Davvero. Anche io ».
« Anche tu? ».
« Sì ».
« Anche tu cosa? ».
« Oh, andiamo. Solo... tu. E io. È
un’idea alquanto affascinante, credo ».
« Affascinante? Davvero? È questa la tua
scelta di parole? ».
« Sì, beh... ».
John
ridacchia, appoggiandosi al tavolo. Questa è follia. Questa potrebbe essere la
follia più grande di tutte quelle che Sherlock gli ha fatto passare, ma è tutto
quello che ha sempre voluto, non è così? Quindi va tutto bene. È solo un altro
tipo d’avventura.
Sherlock
gli fa un ampio, meraviglioso sorriso. John gli appoggia una mano sulla nuca e
lo bacia e tutto il mondo intorno a loro svanisce.
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1.
il testo originale recita "(...)a single entry with
a single line stating ‘101’
which had earned only a comment
from Harry containing no
more than a lone quotation mark." ora, quel
"quotation mark"
dovrebbe essere la citazione automatica del testo presente in molti forum, ma
anche se fosse, la frase in sé non mi sembrava molto sensata - o meglio, mi
pareva incompleta. Mark Zuckerberg mi perdonerà se
prendo il prestito il "poke" di Facebook per dare un'idea migliore di quello che credo sia
il significato del commento di Harry.
2.
Il Miglio Terrestre o Miglio Inglese (statute mile) corrisponde a circa 1,6 km. Ciò significa che mezzo
miglio corrisponde a circa 800 metri.
3.
Sì, John usa proprio il termine "wanker" (segaiolo). Che linguaggio scurrile, dottor Watson.
4.
In inglese, il verbo "to sleep"
viene usato sia per indicare il classico "dormire", sia come modo
mediamente formale per chiedere ad una persona di fare sesso con lei/lui.
Essendo che il testo parla del dormire in generale, la domanda di Sherlock che
in originale è "Do you wish
to sleep with me?" può avere due interpretazioni - motivo per
cui è lui a specificare cosa intende, dopo.
5.
Non credo ci sia bisogno di specificarlo, ma l'epifania intesa qui non è il 6
gennaio. Dicasi "epifania" una rivelazione illuminata che risolve un
problema e/o stato e/o situazione particolare.