Videogiochi > Fire Emblem
Ricorda la storia  |      
Autore: Loveless    08/03/2007    3 recensioni
"Io non avevo cuore. Se l’avessi avuto, avrei sicuramente pianto, ma non versai una lacrima.
Lo capii a nove anni."
La storia di Hector, uno dei protagonisti di Fire Emblem 7.
Genere: Romantico, Malinconico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
CUORE DI UOMO



Quante volte può morire il cuore di un uomo?
Quanto può riempirsi di lacrime non versate prima di scoppiare?
Quanto orgoglio può contenere prima che questo lo soffochi e lo indurisca come pietra?
Quanti lutti può sopportare, quanta sofferenza, prima di diventare lui stesso uno spettro pallido ed un vago ricordo?
Quanto orrore può tenersi dentro, quanta paura che non si mostra allo sguardo, prima che ceda e si dia in pasto al mondo?
Quanto può sognare una realtà migliore prima che si renda conto che ciò che ha tenuto segreto non potrà mai realizzarsi?
Stringendo forte la mano di mio padre mentre moriva, tenendo quella di mio fratello, ancora calda e viva, nell’altro palmo, e vedendo il suo sguardo colmo di lacrime mentre mi sussurrava “Ce la faremo”, capii che a queste domande non c’è risposta.
Perché non c’è nulla nell’essere umano che possa chiamarsi cuore.
Mia madre ci lasciò due giorni dopo, vittima della stessa malattia che aveva ucciso mio padre.
Sono belli, i giardini di Ositia. Tenevano dei roseti a lato dell’entrata del castello. Mia madre amava tanto le rose, le curava personalmente.
Poco prima che lei spirasse, andai a coglierne una bianca, quella che mi sembrava la più bella, la più profumata, la regina fra quei fiori. La presi e tirai con forza. Le spine mi si conficcarono forte nel palmo, ma strinsi i denti e scacciai il dolore.
Corsi fino alla stanza di mia madre con quella rosa in pugno, con il sangue che mi gocciolava lungo la mano, ed entrai.
Mio fratello era lì, in ginocchio accanto al letto.
Aveva sette anni più di me, mio fratello Ather, ma in quel momento sembrava un adulto, mentre accarezzava la fronte umida di nostra madre e le diceva che io e lui saremmo stati con lei fino alla fine.
Mi avvicinai brandendo il mio dono con forza, mentre le spine mi incidevano ancora di più il palmo. Volevo che sorridesse ancora, un’ultima volta, solo per me, come quando si metteva a cantare, mentre stava in giardino, ed io mi avvicinavo quatto quatto per ascoltarla.
Non ero mai riuscito a farle capire quanto le volessi bene. Il mio carattere orgoglioso mi impediva una qualsiasi forma di affetto spontaneo e visibile.
Quella rosa era per me ciò che non le avevo mai detto e che volevo capisse, in quel momento del distacco.
Mia madre mi guardò, nei suoi occhi velati di scuro vedevo un mondo già troppo lontano dalla mia portata. Alzò una mano, forse per accarezzarmi una guancia, ma poi quella ricadde inerte sul palmo teso di mio fratello.
Capii che non aveva capito. Non aveva compreso ciò che con quella rosa volevo dirle.
Qualcosa dentro di me si spezzò, in quell’istante. Ancora mi sento nelle orecchie, quando passo vicino a quella stanza, lo stesso rumore secco ed orribile che fra un bicchiere di vetro quando cade.
Io non avevo cuore. Se l’avessi avuto, avrei sicuramente pianto, ma non versai una lacrima.
Lo capii a nove anni.
Scappai dalla stanza, incapace di rimanere lì. Uscii dal castello, dalla città, mi misi a correre con tutta la forza che avevo nelle mie gambe di bambino. Solo quando mi ritrovai nella foresta che costeggia Ositia, caddi in ginocchio e lanciai un urlo. Sentii i miei stessi timpani rompersi, il mio cervello ed i miei pensieri spazzati via come da un ciclone. Non rimase più nulla dell’innocenza di un bambino, solo il destino di un uomo che avrebbe rischiato più volte di perdersi nel suo stesso orgoglio e nell’odore di sangue della battaglia.
Guardai la mia rosa, che malgrado tutto non avevo lasciato andare. Lo gocce del mio sangue erano diventate ormai un tutt’uno con il gambo, la corsa aveva irrorato i petali candidi della rosa di gocce scarlatte. Me la staccai dal palmo senza un gemito e la posai in mezzo al sentiero, rossa di sangue vivo e di una speranza morta assieme alle mie lacrime.

Il giorno dopo i funerali dei miei genitori, andai nell’armeria dove mio padre teneva le sue armi. C’era la sua ascia, imponente e bellissima, che lui amava alla stregua mia e di mio fratello. Si chiamava Wolfbeil, e mio padre raccontava che i nemici, al solo vederla scintillare, lurida di sangue, cervella e polvere, scappassero a quella visione.
Ero solo un bambino, non avevo abbastanza forza nelle braccia per poter sollevare un’arma tanto pesante, ma mi ripromisi che sarei diventato abbastanza forte per impugnarla ed usarla al posto di mio padre.
A dodici anni, a prezzo di duri allenamenti, riuscii a tenerla in pugno. Da allora, non l’abbandonai più.
Mi gettai anima e corpo nel combattimento. Mi allenavo alla stregua di un semplice soldato, marciavo sotto la pioggia assieme alle reclute di Ositia e i miei stivali si macchiavano del fango del campo di addestramento.
Diventavo un guerriero mentre mio fratello saliva al trono come legittimo marchese della città di Ositia.
Io buttavo nella polvere il mio rango di aristocratico, lui lo usava per tenere saldamente le redini del potere che apparteneva a nostro padre.
Non mi mancarono i giorni felici, in quei durissimi anni in cui il mio unico obbiettivo era diventare come mio padre, forte e duro, che incuteva timore al solo mostrarsi, il soldato perfetto, che teneva in pugno le coscienze altrui con una stretta d’acciaio invidiabile.
Conobbi Eliwood, colui che poi sarebbe diventato mio migliore amico e mio fratello di sangue, attraverso quel giuramento degli antichi cavalieri che ogni uomo di Elibe conosceva. Lui, se si può dire, fu il mio attimo di respiro in quei giorni di apnea. Assieme a lui studiavo, leggevo e fantasticavo, con quel poco di fantasia infantile che il mio animo aveva conservato, sulle grandi imprese che avremmo compiuto da adulti, e di come saremmo entrati nella leggenda.
Chi l’avrebbe detto che saremmo diventati davvero degli eroi e che le nostre gesta sarebbero state tramandate di generazione in generazione, nella terra di Elibe?
Fu a ventuno anni che conobbi Lyndis.
Non si può dire che non avessi mai provato interesse per le donne prima di conoscere lei, tutt’altro.
Eliwood era il classico gentiluomo, l’aristocratico educato ai buoni principi morali, il cavaliere perfetto. Dalla sua parte aveva anche un bell’aspetto fisico ed un paio di occhi azzurri che facevano sciogliere chiunque guardasse. Però in fondo era un timido, un riservato, un ragazzo a cui interessava più l’ideale di amore che l’amore vero e proprio.
Io avevo dalla mia il fascino del guerriero duro ed sfrontato, l’orgoglioso, lo sbruffone, la testa calda, il ribelle. Mio fratello faceva fatica a tenermi a freno, e la mia reputazione non era famosa solo ad Ositia.
Inoltre, nemmeno io ero così male fisicamente. Potevo avere dei lineamenti duri, troppo marcati rispetto al normale, ma anche un fisico scolpito allenato da durissimi addestramenti militari, uno sguardo penetrante e un bel sorriso, se avevo abbastanza voglia di ridere.
A farla breve eravamo entrambi ben messi, anche se io ero il meno scrupoloso ad approfittare della situazione.
Eliwood aspettava sognante il grande amore, io mi accontentavo delle brevi fiammate che una donna poteva darmi.
Prima di Lyndis.
Lei era di una bellezza che colpiva chiunque, quella bellezza appassionata e selvaggia delle zingare di pianura, come in effetti era da parte di padre, un capoclan gitano. Dalla madre, un’aristocratica, aveva ereditato un’armonia ed una perfezione nei lineamenti che pareva possibile solo nelle statue e gli occhi grandi e limpidi. Erano proprio quelli ciò che colpiva di più in lei, poiché ne rivelavano tutto il carattere: ardenti, determinati, sinceri, di un’indipendenza che faceva quasi paura.
Quando la fissavi, Lyndis non abbassava mai gli occhi e sosteneva il tuo sguardo finché tu non eri costretto a distoglierlo; l’unica che è stata in grado di farmi abbassare gli occhi, in tutta la mia vita, è stata lei.
Anche quando sguainava la spada tu rimanevi a bocca aperta nel vedere così tanta energia, così tanta eleganza nel combattere e nel seminare morte. Io le stavo vicino durante la battaglia come spalla, come supporto, anche solo per vedere per un attimo quei muscoli d’ebano tendersi e riflettere le luce scura del sangue versato dai nemici.
Ovviamente, non lo ammettevo a me stesso.
Lyndis era così, una visione di un attimo: era come il vento di pianura, secondo Eliwood, che arriva, ti sfiora appena e se ne corre via, lasciando dietro di sé un’ondata di rimpianto e bei ricordi.
Troppo selvaggia da poterla domare, troppo gentile per provare rancore verso di lei, troppo libera per poter sperare di averla accanto.
L’unico difetto che posso trovarle, ancora oggi, è di non essere mai stata consapevole del vero effetto che aveva sulle persone.
Ne ha infranti molti, di sogni, ma non se ne è mai accorta, troppo occupata a rincorrere quello di salvezza per la nostra terra e di un domani con qualche speranza.
Lei ed Eliwood erano i sognatori, gli speranzosi. Io il disilluso.
Ho sempre combattuto per una causa giusta… Con pessimi motivi con cui tirare avanti.
Per colpa di quella rosa di sangue che non aveva mai messo le sue radici nel mio cuore, solo le sue spine.
Era un rapporto strano, quello fra me e Lyndis. Potevamo passare giorni e giorni a chiacchierare del più e del meno, come buoni amici, per poi, in altri, non sopportare nemmeno la vista l’uno dell’altro.
Eliwood ricorda ancora, con un certo sorriso di compatimento, le litigate fra me e lei, quando raggiungevamo un livello di intolleranza tale da venire alle mani, anzi alle armi. Più di una volta mi hanno dovuto curare, dopo le nostre sfuriate, diversi graffi sul collo ed in faccia, mentre lei andava a leccarsi le ferite in un angolo con un occhio nero. Non sono mai stato delicato con le donne normalmente, figurarsi da arrabbiato.
A parte queste scaramucce, si poteva dire una convivenza pacifica, la nostra, coi suoi alti ed i suoi bassi.
C’erano i momenti belli, quando Lyndis mi parlava della sua vita a Sacae da bambina e dei suoi genitori ed io le parlavo della mia, come c’erano i brutti, quando lei non accettava il fatto che lottassi in modo così spietato contro i miei nemici e mi insultava, per poi non rivolgermi la parola.
Io soffrivo in silenzio, quando succedeva, e la lasciavo sbollire da sola la rabbia, mentre la mia si abbatteva su qualcun altro. Non ne sono sicuro, ma credo che allora mi facesse male il fatto che quella che più tra i miei compagni mi poteva capire perché aveva sofferto come me si rifiutasse di farlo.
Mi prese a schiaffi una volta sola, davanti a tutti, ma posso dire di essermela andata a cercare. Non ricordo il motivo della discussione, ma lei se n’era venuta fuori con una sua solita frase, “i sacaeni non possono mentire”, ed io le avevo risposto con un “la regola vale anche per i bastardi come te?”
Quello schiaffo è rimasto a bruciarmi per moltissimo tempo sulla guancia, anche dopo esserle corso dietro ed averle chiesto scusa. Ho dovuto abbracciarla e stringerla a me per farla calmare e convincerla che mi ero davvero pentito di quello che le avevo detto. In effetti lo ero veramente, non era solo una questione di orgoglio. Però, a sentirla premuta contro il petto, mentre tremava e finiva le sue lacrime in silenzio, mi sentii inquieto come mai lo ero stato in vita mia.
Ma non mi posi troppi problemi. Io ero io e basta.
Le cose mi interessa prenderle, non capirle.

Venne un messaggero da Ositia, verso la fine della nostra missione. Raggiunse il nostro gruppo poco prima che partissimo alla volta dell’arcipelago delle isole occidentali, dove avrei sostenuto una prova per dimostrare che ero degno di tenere in mano un’arma leggendaria: Fragore, la leggendaria ascia di tuono, chiamata la Distruttrice. Fremevo dal desiderio di tenere in mano quell’arma di cui parlavano così tanto le leggende del nostro tempo, di combattere per conquistarmi il diritto di impugnarla, di usarla in battaglia.
Quel messaggero portava con sé la notizia della morte di mio fratello Ather.
La stessa malattia che aveva stroncato la vita dei nostri genitori nel giro di un anno aveva reclamato anche la sua. Ed io non ero lì a tenergli la mano, a chiedergli scusa per tutte le volte che l’avevo fatto dannare, a dirgli che in fondo senza di lui non sarei mai diventato quello che ero…
Non ero vicino a mio fratello. Ero a combattere, mentre lui esalava l’ultimo respiro, ero troppo lontano.
Questo rimorso mi accompagna ancora, e non posso farci nulla per mandarlo via. Mi sento morire in gola tutte le lacrime che non ho mai speso per nessuno, nemmeno per le persone che mi erano più vicine, ogni volta che ci ripenso.
Ma sono fatto così, io.
Non dissi a nessuno della morte di Ather. Su mio ordine e scelta, la notizia rimase fra me ed il mio fedelissimo generale di Ositia, Oswin. Non lo raccontai ai miei compagni.
Ancora adesso mi ripeto che l’ho fatto per non distoglierli dalla nostra missione, per non farmi compatire da nessuno. Ma credo che l’elaborazione di un lutto sia una cosa strettamente personale, ed io ho voluto che il mio fosse così. Non mi sento in colpa, per questo.
Però, come tutte le cose, anche questa venne a galla, nel peggiore dei modi.
Fu Nergal, il nostro peggior nemico, la spina del fianco della terra di Elibe, a raccontarlo a tutti.
Rise, mentre mi chiedeva se un burattino senza cuore ad immagine e somiglianza di mio fratello, così simile alle creature che lui stesso plasmava grazie alla magia nera di cui era il padrone, sarebbe servito a lenire il mio dolore, il tormento di una persona debole come me.
Io gli lasciai dire quello che voleva accarezzando il manico di Fragore, pensando che ben presto, per mano mia, la sua testa si sarebbe staccata dal collo. Che avesse la sua soddisfazione finale su di me, perché non ne avrebbe avute mai più.
Ah, Fragore. Con il suo potere, in fondo mi aveva maledetto. Durban mi aveva avvertito: se l’avessi impugnata, avrei segnato il mio destino.
La mia fine sarebbe arrivata non in pace, ma sul campo di battaglia. Accettai il mio fato senza battere ciglio. Ero nato guerriero, da guerriero sarei morto.
La battaglia contro di lui fu molto più difficile di tutte le campagne che avevamo affrontato fino a quel momento. Prima di giungere fino a Nergal dovevamo battere le sue creature, una per una.
Maledettamente forti come avversari, per giunta.
Lyndis mi raggiunse, poco prima di quella battaglia. Mi guardò dritto negli occhi e, come sempre, non riuscii a sostenere quello sguardo a lungo.
- E’ per la faccenda di mio fratello, vero? – chiesi, con una certa amarezza, - Posso immaginare ciò che pensi. Ma non provare a giudicarmi così, Lyn… Non provarci nemmeno.
- Io ti conosco, - replicò lei all’improvviso, dopo qualche secondo, - So quello che provi ora.
- Tutti credono di saperlo.
- IO sì, Hector. Io sì.
Mi abbracciò di slancio, mentre spendeva qualche lacrima in silenzio. Le accarezzai la schiena, rimanendo zitto.
- No… Non hai pianto, vero? – mi chiese dopo un pò.
Annuii.
- Già.
- Allora… Allora è questa la tua parte di lacrime.
Credevo sarebbe stato facile tirare avanti. In qualche maniera, come sempre.
Ma non dopo questo. Non dopo aver saputo di mio fratello, non dopo aver sentito le lacrime calde di Lyndis scorrermi sulla spalla, non potevo, no.
Non da solo. Non più.
Non potevo starmene zitto. Non dopo aver capito che quello che provavo per lei era per me il primo, vero sentimento che non fosse solo dolore e rabbia che provavo nella mia vita. La prima cosa che riusciva a trascinarmi via dalla battaglia e a farmi sognare un mondo più bello, un mondo in pace in cui vivere. Qualcosa di così lontano prima… Perché non avevo mai capito cosa significasse davvero.
Non era così lontano, quel piccolo sogno di una ragazza di Sacae che da sempre chiamavo “bambina”, e che poi è diventato anche il mio. Lo vedevo in quel momento. Era così vicino, così facile a perdersi…
Diglielo, stupido, avanti! mi dicevo.
- Non piangere, bimba. Io sto bene.
Si staccò da me. No, pensai, non guardarmi così.
Sorrise tristemente e mi accarezzò una guancia. Malgrado il primo impulso fu quello di tirare indietro la testa, la lasciai fare.
Il palmo le bruciava, sulla mia pelle. O forse ero io ad ardere.
- Hector, piango per me. Tu non sopporti la pietà di nessuno.
Diavolo, non sono mai stato bravo a parlare. L’ho sempre lasciato ad Eliwood, questo onere. E quando le parole servivano di più… Non le avevo, semplicemente.
Lyndis mi girò le spalle, sguainando la spada.
- Magari un giorno riuscirai a comprendere che la pietà non è un sentimento da disprezzare, perché è qualcosa che viene da un cuore capace di provare emozioni sincere. Ma quel giorno non è ora.
Non le risposi. Come potevo dirle che non era la sua pietà quello che volevo per me?

Fu strano uscire e vedere il sole che sorgeva, dopo la battaglia. Un nuovo giorno, il primo di un nuovo mondo che rinasceva.
- Mi pare di non aver mai visto un’alba così bella! – disse Lyndis, aprendo le braccia come se volesse spiccare il volo e ridendo.
Penso me la ricorderò sempre così, sorridente, con il viso pieno di sole, gli occhi che rifulgevano di una luce che bruciava solo dentro di lei. Lei era così bella, era lei che quell’alba che faceva risplendere ancora di più quel giorno…
Eliwood guardò me e poi lei. Aveva capito. Mi strinse il braccio in segno di incoraggiamento e mi sorrise.
- Ora bisogna solo dirsi la verità.
Le sue parole furono così semplici, eppure così illuminanti. Ricambiai la stretta sull’avambraccio.
- Grazie, Ellie.
Lui reclinò il capo da una parte e se ne andò, raggiungendo la sua bella Ninian, che lo aspettava. Adesso toccava a me.
- Lyndis.
La mia sacaena si girò verso di me, senza smettere di sorridere.
- Sono felice, Hector. Felice. Il sole non smette mai di sorgere, il vento dell’est continua a soffiare… Ma tu?
Già. Ed io?
- Sono felice anche io. Forse non si vede tanto, ma… Sì, direi che lo sono. Lo sono per te.
Lyn mi si avvicinò e mi prese la mano. Ricambiai la stretta, senza saperne bene il motivo.
- Che farai, ora, Hector? Tornerai ad Ositia?
Quello che mi chiedevo da giorni. Che avrei fatto?
- Mio fratello è morto, Lyn. Nessuno me lo riporterà indietro. Però posso diventare ciò che era lui. Uno come lui.
- Salirai al trono?
Sì.
- Sì.
Lei rimase in silenzio per un po’.
- Sei cambiato, da quando ci siamo visti per la prima volta. Sei cresciuto.
- Ci voleva un’altra morte per farmi crescere, a quanto pare.
Gli occhi verdi di Lyndis avevano preso la stessa sfumatura che potevano avere in una notte di luna piena, sembravano riflettersi nell’argento più puro. Com’era bella, in quel momento, anche se era triste…
- Non dire così. Sei troppo severo con te stesso. Ma sei forte, Hector… Ce la farai. Come sempre.
Come sempre? No, no, no.
- Non essere triste per me, Lyn, te l’ho detto anche prima. Non merito né le tue lacrime né la tua pietà. Nemmeno la tua amicizia.
- Come potrei non esserti amica, Hector? Tu sei l’uomo più straordinario che abbia mai conosciuto nella mia vita. Se non ti avessi conosciuto… Mi saresti mancato. Mi hai fatto capire più di tutti gli altri che cosa vuol dire dolore.
Mi sfiorò le palpebre con le dita. Il mio cuore accellerò i battiti di colpo.
- Questi occhi, Hector… Quel dolore, quell’orrore, non li ho mai visti in altri. Era questo ciò che ti spingeva a combattere, ed io, stupida, non l’ho mai capito… Credevo facessi tutto questo per il puro gusto di uccidere. Invece ho capito che era il tuo modo per combattere i tuoi fantasmi… Come io faccio con i miei. Perdonami, Hector.
Aveva detto tutto questo a bassa voce, come se parlasse a se stessa più che a me. Con l’ultima frase, il mio cuore sprofondò ancora di più, senza smettere di singhiozzare.
Lei, lei aveva capito… Aveva guardato oltre di me ed aveva visto. Non avevo più nulla da celarle.
- Non chiedermi perdono. Non devi.
Ero sereno. Prima che me ne potessi rendere conto, stavo sorridendo. Dopo mesi, forse dopo anni, sorridevo.
- Hai un bellissimo sorriso, lo sai? – mi disse lei.
L’argento nei suoi occhi era tornato oro.
Mi sfilai il guanto sinistro e le passai la mano fra i capelli, sorprendendomi del mio stesso gesto e di quanto fossero morbidi e così simili alla seta.
- I sacaeni non mentono mai. L’ho imparato, alla fine. Quindi, se me lo dici tu… E’ vero.
Ci guardammo per un lunghissimo attimo.
- Lyndis?
- Dimmi.
- Mi sposi?
Lei abbassò gli occhi e le guance le diventarono scarlatte. Però non smise di sorridere.
- Credo di starmi immaginando tutto… Questo dev’essere uno dei miei sogni. Domattina, quando mi sveglierò, avrò paura a guardarti…
Io le studiai il viso per capire se faceva sul serio o meno. Però non potei fare a meno di commentare a modo mio.
- Se è un sogno, per favore, non svegliatemi, - risi. Poi mi sentii stupido. Come potevo essere felice in un momento come quello?
Forse, come mi disse Lyndis in seguito, proprio nei momenti più insicuri, proprio nei momenti in cui ti senti più solo, viene fuori ciò che desideri di più. E’ lo stesso istinto che ci porta a pensare che il domani andrà sempre meglio, perché una qualche giustizia al mondo deve esistere.
- Nemmeno io voglio svegliarmi, - rispose lei, rialzando di nuovo gli occhi. Brillavano.
Le sue labbra erano umide sulle mie, sapevano di buono. Quel sapore e l’odore inebriante della sua pelle mi annebbiarono i pensieri per qualche tempo, anche dopo che lei si staccò da me.
Mi prese la mano.
- La mia risposta è sì.

Io dovevo diventare marchese al posto di mio fratello. Non c’era alternativa. Avrei tenuto nascosta la notizia della morte di Ather finchè mi sarebbe stato possibile, poi avrei preso il trono che mi spettava.
Lyndis non avrebbe permesso a suo nonno di prometterla in sposa a qualcun altro, di questo ne ero sicuro.
Era dura pensare a ciò che avremmo fatto assieme. Ma sarebbe stato molto più duro pensare al resto della mia vita senza di lei.
La mia sacaena, la mia bambina…
Tutto ciò che volevo ora era lì, solo per me. I suoi sorrisi, i suoi sguardi, lei… Era solo per me.
Quanto può essere egoistico l’amore, vero?
Ma è lo stesso attaccamento che può provare un artista di fronte alla sua opera più bella. Si farebbe strappare il cuore piuttosto che dividerla con altri.
Il sano egoismo dell’amante non ricambiato è come quello dell’innamorato felice.
Il primo è più struggente, perché senti, stilettata nel cuore dopo stilettata, che tutti la guardano, che tutti la vogliono come te, più di te… E lei cammina senza rendersi conto della bufera che solleva il suo solo passare. Ti squarcia i sogni ed allora te la senti vicina, reale, e quando ti svegli non rimane nulla.
Ti fa torcere nell’anima e vorresti essere qualsiasi cosa, vorresti avere tutto, solo perché lei possa dedicarti un sorriso, uno sguardo affettuoso.
Quando lo fa, o ti pare che lo faccia, cammini sollevato da terra. Però quell’odiosa voce, quella che deve sempre rovinarti tutto, ti dice di non illuderti, sei allo stesso livello degli altri, per lei non sarai che un amico.
Il secondo è più melanconico. Ti pare di addormentarti nella neve, ti senti intorpidire e muori dolcemente, senza rendertene conto. E’ qualcosa in cui affogare, è il bacino di un lago senza fondo, e tu ti lasci sprofondare senza tentare di salvarti.
Chiudi gli occhi e ripensi a quando l’hai vista così, quando ti è parsa improvvisamente e così veramente vicina, e hai capito.
La guardi e ti sciogli nella luce che la illumina, perché sai.
Che cosa non lo sai nemmeno tu, ti rendi solamente conto che non potrai mai essere più felice di quanto tu non lo sia in quel momento.
Quell’attimo… Preghi che duri per sempre, o che ce ne siano mille altri così.
La stringi a te, e ti sembra di galleggiare. Sei in un altro mondo, e chissà quando torni sulla terra. Le prendi la mano, e vedendola ridere impazzisci di gioia.
Perché ogni suo gesto, ogni suo respiro, quello te lo dona.
E’ per te.
E’ bello, sentirsi così. E’ bello, non lo sapevo prima…

Adesso sono qui, che cammino da una parte all’altra della stanza come un’anima in pena, cercando di non sembrare troppo nervoso agli occhi di Eliwood, ho un ultimo orgoglio da difendere. Niente da fare.
Lui mi sorride, ha capito.
- Nervoso, Hector?
- Tu non lo eri al tuo matrimonio? - replico, guardandolo di sottecchi. Lyndis l’ho intravista per l’ultima volta ieri, prima che Vaida, che sembrava voler raccogliere in privato le sue ultime confessioni (mica è condannata a morte, diavolo!), mi cacciasse via e mi sbattesse la porta in faccia.
- Lo sposo non deve vedere la sposa prima della cerimonia, - mi ha detto.
Accidenti…
- Ehi, rilassati. Neanche tu stessi andando al patibolo… - mi sta dicendo Eliwood. Io gli mollo uno scapaccione sulla nuca.
- Tu non dovresti tirarmi su di morale, invece di prendermi in giro?
- Hector, te la sto facendo pagare per tutte quelle che mi hai combinato da quando ti conosco... Lasciami un po’ divertire, dai!
Ha ragione, in fondo. Gli scompiglio un po’ i capelli, come ho sempre fatto da quando eravamo bambini, e mollo la presa attorno alle sue spalle.
Mi siedo e penso.
Sto pensando a quando sono stato nominato marchese, un mese fa. Quando i soldati dell’esercito, che mi hanno quasi sempre considerato uno di loro, nel momento del giuramento si sono messi a battere le proprie lance sugli scudi gridando il mio nome.
Ora sto aspettando.
Aspetto il momento in cui prenderò le mani di Lyndis e legherò per sempre il mio destino col suo.
Ciò che provo ora non so da dove venga. Questa strana dolcezza e tenerezza che provo, non sono mie.
Che ne è stato di me?
Ho dei momenti in cui penso che tutto mi possa crollare addosso da un secondo all’altro, ed altri in cui mi pare di rimanere saldo sulle mie gambe, alla faccia di tutto quello che può succedere.
Ho un amico per la vita. Una donna che mi ama e che io amo.
Se devo tirare avanti, ragazzi, lo farò per voi.
Dovessi cadere nel fango, tra il sangue e la polvere.
Dovessi guardare in alto e vedere solo il cielo gonfio di pioggia che si abbatte su di me con tutta la sua violenza.
Dovessi anche strisciare, puntarmi sui gomiti ed avanzare così, senza più dignità né forza.
Ci sarà sempre una spalla sulla mia mano, un palmo stretto contro il mio, che mi sosterranno e mi faranno alzare.
Nella mia vita ho lottato sempre senza saperne il motivo, forse nemmeno ce n’era uno.
Ora c’è.

  
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Fire Emblem / Vai alla pagina dell'autore: Loveless