Si passò il sigaro inumidito da un angolo all’altro della bocca.
Sdraiato sulla terra arida, in braccio il fucile, aspettava.

“Allora, Biondo” - così Tuco lo aveva apostrofato quella mattina, con la sua voce alcolica, prima di farsi consegnare allo sceriffo - “Settanta a me e trenta a te, come sempre. Ti ricordo che sono Io quello che rischia. Sono Io quello che vale tremila dollari!”. Ghignò, compiaciuto della taglia che ormai pendeva sulla sua testa.
Già. Ma sono io quello che spara.

La sua mano non tremava. Non tremava mai, quando reggeva l’arma. Aderiva così bene al suo arto che sarebbe potuto esserne il naturale prolungamento. 

Il giustiziere stava enumerando l’ormai smisurato elenco dei crimini compiuti dal suo compare.

D’altronde, non è certo la prima volta, disse a se stesso.
Avrebbe solo dovuto aspettare l’Attimo, quel momento di stasi così fugace, che solo i suoi occhi e pochi altri avrebbero colto, premere il grilletto, e attendere che la pallottola trafiggesse la corda. Poi non sarebbe stato un problema, nel clamore generale, issarlo sul suo cavallo e fuggire verso l’oceano di sabbia, diretti verso il prossimo pugno di dollari. Non li avrebbero inseguiti.

Il cappio si strinse attorno al collo di Tuco. 

Dopo aver controllato l’intensità del vento - l’unico elemento che poteva tradirlo, se trascurato - mise a fuoco l’obbiettivo con l’occhio sinistro. Morse il sigaro, assaporando il tabacco amaro sul palato.

Tolto il sostegno, il corpo inizio a cadere a peso morto, la corda a tendersi.

Si chiese se lui avrebbe mai posto la sua vita in mani che non fossero le sue.
Tremila dollari. Sarebbe bastato uno spasmo impercettibile. Avrebbe potuto convivere con un fardello simile?

Il condannato rantolò, ogni muscolo del corpo teso.

Uno sparo squarciò il silenzio.