‘È singolare quanto un’unica, insignificante esistenza sia capace di
sconvolgere un intera realtà’
- Anonimo
[ Ratchet&Clank: Endless Empire ]
La
camera di Orvus rimbombò con un suono assordante, continuo, come un tuono si
ripeteva all’infinito.
L’enorme
piattaforma centrale di vetro e metallo era circondata di fulmini e saette
azzurrine e la luce, accompagnata dal rombo, accecava al punto di confondere.
Ratchet
era lì, immobile, impietrito in mezzo al caos, come incapace di comprendere la
furia che gli si stava scatenando intorno.
Non
aveva il tempo di guardarsi intorno, per lui era sparito tutto, ogni ansia,
ogni dolore fisico, ogni pensiero.
In
mezzo a quell’inferno azzurro la sua testa si era svuotata, lasciando il posto
a una sola cosa: un’immagine nitida di fronte ai suoi occhi, ci circondata da
un alone quasi mistico ed insieme reale.
L’interruttore.
Acceso.
Doveva
fermare la catastrofe.
Si
buttò in avanti, verso la leva, e tirò a destra.
Non si
muoveva.
- NO!!
CHE COSA STAI FACENDO?! - gli urlò una voce dietro. Era Alister ferito, sanguinante
dopo la feroce battaglia ingaggiata col giovane lombax, l’intenzione di fermare
Ratchet chiaramente leggibile negli occhi. Il lombax giallo però non aveva il
tempo di curarsi di lui, ormai, impegnato com’era nello sforzo sovrumano di
tirare la leva: si puntellò con le ginocchia, e pose tutta la forza del suo
corpo nelle gambe, ma si accorse che non ce la poteva fare da solo.
Percepì
qualcosa di strano, e credette che l’interruttore si stesse alzando. Non ebbe
il tempo di riprovare che qualcosa effettivamente cedette, sbalzandolo lontano.
Udì un clangore metallico e si rialzò, credendo per una frazione di secondo di
avercela fatta.
Ma un
rombo ancora più forte, seguito immediatamente da in bagliore accecante al
centro esatto della camera dissolse le sue speranze all’istante.
Con
orrore si accorse di aver rotto la leva, pur non vedendola.
La
catastrofe non poteva più essere fermata.
- Non
sta funzionando… perché non funziona?!
- gridò Alister. Era riuscito a rialzarsi, e ora guardava l’interruttore,
disperato.
Ratchet
si rialzò, e la disperazione del momento improvvisamente venne sostituita da
una rabbia cieca.
-
PERCHÉ NON E’ UNA MACCHINA DEL TEMPO ALISTER! L’OROLOGIO E’ NATO PER CUSTODIRE
IL TEMPO, NON ALTERARLO! –
I due
udirono una metallica voce femminile giungere alle loro orecchie, sovrastando
il frastuono:
40 SECONDS UNTIL TOTAL SYSTEM FAIL.
Il
lugubre avviso che la fine era vicina.
In
quella una saetta colpì l’interruttore cogliendo Ratchet indifeso e buttandolo
lontano.
Alister
si sentì pietrificato di fronte a quella potenza distruttiva, ma a bloccarlo
non era la paura della morte.
Era il
rimorso, e la coscienza del fatto che egli aveva preso, per la seconda volta
nella sua vita, la decisione sbagliata.
E
l’aver commesso nuovamente un errore fatale.
- Mi…
dispiace. Mi dispiace così tanto… -
Il
giovane lombax si rialzò, con la ferma intenzione di riprovare.
Doveva
farcela.
Ne
andava della vita dell’universo.
In
quella Alister gli sbarrò la strada: - Vai. Lasciami qui. -
- COSA
CREDI DI FARE?! - gli urlò Ratchet dietro, non appena vide il vecchio lombax
voltarsi con una disperata luce negli occhi. - Abbi cura di te, Ratchet. - fu
la risposta, accompagnata da un sorriso.
Il
sorriso amaro di chi sapeva a cosa andava incontro.
Il
lombax avanzò con decisione in mezzo alla tempesta di fulmini, ed una volta
giunto al centro della camera piantò con veemenza, al posto dell’interruttore
spezzato, la sua onnichiave, e spinse con tutta la forza che aveva in corpo.
Ratchet non ebbe il tempo di starlo a guardare: la tempesta di fulmini divenne
sempre più potente, costringendo lui e Clank ad allontanarsi precipitosamente,
voltando le spalle ad Alister. Un fulmine più forte colpì troppo vicino,
investendo i due.
Ratchet,
colpito a tradimento dalla scarica, vide come ultima cosa quell’inferno di
saette diventato improvvisamente silenzioso.
Poi, il
buio.
+
Si
sentiva ancora l’odore di fumo.
-
Ratchet! Ratchet! - qualcosa lo scosse leggermente, accompagnato da una voce
familiare che pareva provenire da quel piccolo e freddo fagottino che si
accorse di stringere al petto.
-
Clank… - nel rialzarsi sui gomiti dal pavimento trasparente della camera,
Ratchet per un istante si chiese cosa ci facesse lì.
Gli si
snebbiò la vista, permettendogli di guardarsi intorno.
La
camera di Orvus aveva subito molti meno danni di quello che credeva: la
circolare piattaforma centrale, che costituiva il pavimento, era quella che
appariva più danneggiata, coperta com’era di fuliggine e tracce di esplosioni e
graffi sulla trasparente superficie color acquamarina. La cupola sovrastante,
anch’essa di vetro spesso e azzurro come il pavimento, era invece miracolosamente
intatta, quando Ratchet aveva invece creduto che, dopo essere stata percorsa da
quelle violente scariche, quei vetri si fossero come minimo disintegrati. Anche
i computer intorno non sembravano necessitare di grandi manutenzioni, l‘unica
cosa che sembrava aver effettivamente bisogno di essere riparata era…
Come in
bagliore improvviso, ricordò tutto, e si voltò verso il centro della camera.
Il
piedistallo dell’interruttore generale era ancora lì, fumante ed apparentemente
gravemente danneggiato, la leva originale era sparita, ed al suo posto
troneggiava, annerita ed elettrificata, l’onnichiave di Alister.
Il
giovane lombax deglutì a vuoto, sentendosi mancare diversi battiti. Lentamente,
qualcosa di caldo gli corse lungo le guance, ma non si curò di capire cosa
fosse.
-
Ratchet?… - la voce del robottino aveva una sfumatura di dolore, e i verdi
bulbi ottici non riuscivano a staccarsi dal viso dell’amico.
Ratchet
non lo guardava. Aveva la vista offuscata di quel liquido trasparente e caldo,
un liquido che i suoi occhi raramente avevano versato.
Lacrime.
Fissava
il centro della camera, inerte. Vedeva il pavimento devastato, il piedistallo
danneggiato, e non riusciva a staccare lo sguardo da quella onnichiave.
Il suo
proprietario era sparito.
- A…
Alister. - avrebbe voluto gridare, ma dalla sua bocca non uscì suono. Voleva
rimanere lì, immobile in quella camera, di fronte a quello scempio, e morire.
Avrebbe
voluto morire.
-
Ratchet… coraggio. - fu la voce del piccolo robot a riportarlo alla realtà, e
fargli realizzare il fatto che ciò che era avvenuto era ormai parte del
passato, non poteva essere cambiato, e fu il freddo tocco della sua manina a
scuoterlo dal suo stato di shock, - S… si, va tutto bene… sto bene. - si rialzò
in piedi senza guardare Clank negli occhi ma con il viso volto da un’altra
parte, in modo da non mostrargli le sue lacrime. Non voleva che vedesse la sua
debolezza.
Clank
comprendeva benissimo l’amico, e si limitò a mostrarsi accondiscendente,
sapendo quanto la minima manifestazione di pietà l’avrebbe ferito ulteriormente
- Molto bene. - disse, sentendosi un idiota per quella frase.
- Uh…
signore? - la voce di Sigmund l‘apprendista custode, rimasto fino a quel
momento in disparte, distrasse Clank dai suoi ragionamenti.
-
Dimm…? - un’altra voce, alquanto arrochita, costrinse sia il lombax che il
robot a voltarsi.
-
XJ-0461... Clank. - Il robottino s’irrigidì, sgranando completamente i bulbi
ottici. Ratchet, due passi dietro di lui, trattenne il respiro.
- P…
padre? - fu il turno di Clank di piangere ma, per quanto la sua natura robotica
gli impedisse di versare lacrime, la sua commozione si percepì chiaramente
dalla voce.
Davanti
ai due levitava una creatura metallica di dimensioni relativamente piccole,
alta appena meno di un metro e con un volto roseo e bonario illuminato da bulbi
ottici color acquamarina nei quali brillava una luce divertita ed intelligente.
Il corpo metallico era davvero piccolo in confronto alla testa allungata, ed
era circondato da scariche di energia azzurrine.
Era
Orvus, l‘ex Custode Senior dell‘Orologio.
-
Padre.. - Clank aveva la voce incrinata dalla commozione, ed esitava, non
osando muoversi, credendo che fosse un sorta di visione, ma quando l’anziano
Zoni aprì le corte braccia con espressione incoraggiante ogni dubbio svanì, e
il robottino si gettò entusiasta fra le braccia di suo padre.
Sigmund
fissava commosso la scena e anche Ratchet, dimentico per un istante dei suoi problemi,
non trattenne un sorriso alla vista della felicità del suo migliore amico.
Tuttavia, in quell’esatto istante, percepì qualcosa.
Fu una
frazione di secondo…
Eppure
gli parve una vita.
Quell’abbraccio
commosso tra padre e figlio lo riportò a qualcos’altro, qualcosa di lontano,
oscuro come la notte, indistinto come nebbia: il calore di un corpo senza
identità, una voce affettuosa, un fuoco assassino, urla familiari, movimenti
bruschi dettati dal panico e, sopra a tutte le altre, una voce rabbiosa che
gridava.
Traditore.
E
all’improvviso, tutto divenne freddo.
L’abbraccio
tra Clank e Orvus era solido come una tenaglia. Il robottino, dimentico del
resto dell’universo, avrebbe voluto restare così ancora per molto tempo, ma il
fatto che vi fossero degli spettatori ad assistere a quella sincera manifestazione
d’affetto lo spinse a sciogliere l’abbraccio e fare le presentazioni.
Naturalmente Sigmund non aveva bisogno di far la conoscenza di Orvus: era stato
proprio il vecchio Zoni a raccoglierlo quando era solo un robot delle pulizie
deriso da tutti e portarlo nel Grande Orologio per farne un apprendista Custode
del tempo, insegnandogli il suo compito ed istruendolo sulla manutenzione
dell’Orologio stesso e sull’importanza della carica che un giorno avrebbe
ricoperto. L’unico che effettivamente non conosceva Orvus era Ratchet, e Clank
non esitò nella sua intenzione di presentarglielo. Si voltò verso il giovane
lombax, con il braccino destro leggermente sollevato a mo d’indicazione: -
Ratchet, sono orgoglioso di presentarti mio… - si interruppe, notando con la
coda nell’occhio l’espressione di Orvus.
Nonostante
fosse coperto di metallo come un qualunque robot, lo Zoni aveva delle movenze
molto plastiche e fluide, più simili a quelle di una creatura organica che a
quelle di un essere meccanico, e le sue espressioni facciali non erano da meno:
in quei pochi istanti di distrazione quel roseo viso bonario si era incupito,
ed ora fissava Ratchet con un’espressione diffidente.
Che
cos… Clank alzò lo sguardo su Ratchet. Fu allora che comprese il
perché.
Il
lombax era irrigidito, guardingo, e fissava lo Zoni e i due robot come nemici
pronti a saltargli addosso.
-
Ratchet? - Nel suo sguardo Clank scorgeva stordimento, confusione ed un’ombra
di paura, e per un istante ebbe il terrore che la perdita di Alister, o forse
una botta presa durante la tentata fuga, gli avesse fatto perdere il lume della
ragione. Ma si rese conto che era impossibile impazzire così all’improvviso, e
che Ratchet aveva una testa troppo dura per potersi ridurre in quello stato,
inoltre l’espressione incupita di Orvus gli faceva temere qualcosa di assai
peggiore.
Qualunque
cosa fosse successa, non potevano rimanere lì a fissarsi.
Clank
avanzò di un passo, deciso: - Ratchet, cos’hai? - chiese, tentando di mantenere
i circuiti lucidi: l’espressione sempre più confusa ed aggressiva negli occhi
dell’amico gli facevano davvero temere il peggio. L’altro parve soffiare come
un gatto - Tu… chi… sei? - la sua voce era diventata un ringhio.
Se
avesse potuto, Clank avrebbe rabbrividito. E’ veramente andato? pensò
con terrore: ma l’espressione negli occhi dell’altro era una chiara risposta.
Il
robottino tentò un altro passo, ma si sentì improvvisamente strattonare
violentemente all’indietro ed in quella la voce del lombax gridare minacciosa:
- STATE INDIETRO! - si guardò sopra la spalla e capì che a trascinarlo era
stato proprio Orvus, e in quel Sigmund si era fatto coraggiosamente avanti,
senza nemmeno sapere cosa fare, innescando la reazione del lombax, il quale a
sua volta aveva sfoderato il Fucile Constructo. Lì, sul pavimento in vetro,
mise in moto i microchip: era certo che Ratchet fosse ancora Ratchet nonostante
avesse perso la ragione. Ma il problema era proprio quello, e Clank, conoscendo
le potenzialità combattive dell’amico, sapeva di avere a che fare con un nemico
decisamente fuori dalla sua portata.
Nemico…?
L’aveva
considerato un nemico. Sentì come se ai circuiti mancasse l’alimentazione.
+
Ratchet
non sapeva come comportarsi.
Si era sentito
come se l’avessero svegliato a suon di schiaffi, e ora era alquanto intontito.
Si era guardato intorno, nel tentativo di aiutarsi ad uscire da quella
confusione mentale, e la cosa non l’aveva aiutato. Anzi.
Aveva
osservato la gigantesca cupola di vetro e metallo dal pavimento devastato,
soprattutto al centro, e ci capì assai poco: vedendo quell’onnichiave annerita,
l’unica conclusione a cui era riuscito ad arrivare era che, era avvenuto
qualcosa di tragico, probabilmente a un suo simile. Si domandò cosa, e a chi,
ma la memoria non lo aiutò.
Poi
venne distratto da voci allegre, con vaghe sfumature metalliche, si voltò e
vide che non era solo: vi erano due robot, di cui uno abbracciava una strana
creaturina metallica dalla faccia rosea, i grandi occhi color acquamarina e il
corpicino volteggiante avvolto da quelle che sembravano essere scariche
elettriche.
Si
voltò verso l’onnichiave, annerita da qualcosa che poteva essere proprio una
forte scarica elettrica, e qualcosa, come un’interruttore, scattò nella sua
mente.
Era in
pericolo.
E ora
si ritrovava in una situazione assurda, con un grosso fucile d’assalto puntato
contro tre nemici la cui altezza generale non gli superava la vita e dalle
sconosciute potenzialità.
Forse
non proprio sconosciute si disse.
Ma se
c’era una cosa che aveva imparato bene, era proprio quella di non valutare mai
gli avversari dalla stazza: le tetratermiti di Lumos ne erano la prova vivente.
Si mosse lateralmente, a destra, sempre col fucile puntato contro i tre.
Doveva
andarsene - Levatevi dall’entrata. - ordinò rudemente, ondeggiando leggermente
il fucile. Sapeva che non era da lui agire così, ma l’essersi ritrovato in un
luogo sconosciuto, segnato dalle tracce di quella che sembrava essere stata una
feroce battaglia, con tre sconosciuti che non aveva mai visto in vita sua
l’aveva riempito di sgomento.
I due
robot e la creatura volteggiante non esitarono ad obbedire, e si fecero
precipitosamente di lato.
Ratchet
attraversò il ponte di vetro che portava all’uscita a ritroso, sempre tenendo i
tre sotto tiro e, appena la stanza della porta fu chiusa e si accertò che non
c’era nessun altro in quel posto sconosciuto ed assurdamente grande, prese a
correre.