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Autore: _LilianRiddle_    15/09/2012    4 recensioni
Dal testo: "Ridevo. Ridevo così tanto che avevo le lacrime agli occhi. Ridevo guardando la mia tomba e, all’improvviso, capii il motivo di tanta ilarità: ero morta."
Genere: Introspettivo, Suspence, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ridevo. Ridevo così tanto che avevo le lacrime agli occhi. Ridevo guardando la mia tomba e, all’improvviso, capii il motivo di tanta ilarità: ero morta.
Era il 31 ottobre 1796 quando nacqui. Fui l’ultima di sette fratelli, la sola femmina rimasta in casa, quando, tre anni dopo, mia madre morì di tubercolosi. Nessuno si accorse che era malata, neanche i medici. Io avevo tre anni quando, in una notte buia e senza stelle, lei lasciò questo mondo per sempre. Era il 1799.
Ricordo poco di lei: morì quando ero troppo piccola per ricordarmi i tratti del suo viso, il suono della sua voce o anche solo il suo profumo. Però ricordo la dolce ninnananna che mi cantava quando non riuscivo a dormire, una lenta litania che cercava di arginare la mia pazzia. Oltre a quella, solo il nome mi è rimasto di lei: Elisa. Mio padre e i miei fratelli passavano delle ore a descrivermela. Mi raccontavano che era considerata la donna più bella di Venezia: era eterea e concreta al tempo stesso, nobile e delicata come una rosa bianca. Era minuta e magra, con lunghi capelli ramati che le ricadevano come una cascata di seta fino alla vita. Gli occhi erano grandi e a mandorla, di un verde brillantissimo, colmi di intelligenza e determinazione.
Presi tutto da lei: la corporatura minuta, i lunghi capelli rossi, la delicatezza del viso e le mani piccole come quelle di una fata. Una cosa ci distingueva: il colore degli occhi. Mentre i suoi erano di un bel verde, i miei erano di un azzurro così chiaro che l’iride si confondeva con la parte bianca dell’occhio. Erano così trasparenti che sembrava quasi che non ci fossero, profondi come il mare, inespressivi come quelli delle bambole. Erano lo specchio della mia pazzia.
Quando ero piccola, nessuno faceva caso al colore dei miei occhi, ma appena superai i quindici anni, entrando nell’età da marito, i maschi li guardavano come se non avessero mai visto un paio di occhi in vita loro. Era come se iniziassi e finissi lì. Li odiavo quando mi guardavano in quel modo. E fu allora che iniziai a capire quanto fossi malata. Fu allora che capii che non avevo paura della gente, ma dei loro occhi. E fu per questo che smisi di uscire di casa. Quando volevano costringermi a prendere un po’ d’aria, iniziavo a urlare, a piangere, a battere i piedi per terra. E se questo non funzionava, iniziavo i miei monologhi senza senso, in modo da distrarmi da quei maledetti occhi che mi guadavano come se fossi pazza.
Mio padre si arrabbiava così tanto quando arrivavano i vicini a chiedergli come stavo e come mai non uscivo di casa, che lo sentivo urlare dalla soffitta, dove mi trovavo. Io vivevo lì. In soffitta. Una stanza grande  e spaziosa, ma scura, scurissima. Era piena di confusione, ma io non avevo spostato niente: avevo solo trascinato il mio letto a baldacchino, lo stesso in cui mia madre aveva esalato il suo ultimo respiro, in mezzo alla stanza. Mio padre poi, con mio fratello più grande, mi costruì uno scrittoio piccolo ed elegante, che posizionò proprio sotto la finestra che si apriva sul giardino. Una sola cosa odiavo di quella stanza: lo sguardo triste e vacuo delle bambole che collezionava mia madre. Ce ne erano di tutti i tipi: grandi, piccole, di porcellana, alcune di stoffa, con vestitini eleganti, o con grembiuli da cuoca. E che, ogni volta che entravo in camera, mi seguivano con quello sguardo fisso e senza emozioni, come a volermi accusare delle cose che facevo, dicevo o che soltanto pensavo.
In uno dei miei attacchi di pazzia, avevo diciassette anni, mentre mio padre cercava di trascinarmi fuori di casa, io afferrai una bambola dai lunghi capelli biondi e dal vestito azzurro e gliela lanciai contro. Quella si schiantò contro la testa di mio padre, frantumandosi in mille pezzi. Ricordo sangue, tanto sangue. Mio padre che si avventava contro di me. E poi ci fu solo bianco. Un bianco troppo luminoso, che faceva paura perché annullava tutto il resto. Quando mi svegliai, sentivo male dappertutto. Qualunque movimento facessi, il mio corpo protestava con acute stilettate di dolore. I miei ricordi mi afferrarono, malefici: mio padre che mi picchiava. Che urlava dicendomi che ero pazza, una palla al piede, che non ero degna di essere uguale a mia madre. Quella notte piansi tutte le mie lacrime e presi la mia decisione.
Il mattino dopo mi misi in moto. Ero quasi eccitata. Indossai il vestito più bello che avevo: un abito lungo, con un’ampia gonna. Il corpetto, legato con lunghe corde sulla schiena, era nero e sfumava in rosso sulla vita e diventava rosso sangue sull’ampia gonna.
Aprii l’uscio senza farmi vedere, lottando con me stessa per uscire di casa, cercando di non pensare agli sguardi fissi della gente, quegli sguardi di cui avevo un’immensa paura. Non incontrai nessuno fino a piazza San Marco: era la festa della città. C’era troppa gente. Troppi sguardi. Tutti mi guardavano, i loro sguardi mi perforavano e la mia pazzia avanzava. Iniziai a parlare, cercando di ignorare gli occhi. Iniziai a piangere, a gemere, a correre e a girare su me stessa. Ma la pazzia, la mia malattia mentale, avanzava sempre più. E così, nella confusione che avevo in testa, non mi accorsi della carrozza che avanzava velocissima verso di me. L’impatto fu violento, ma non sentii niente. Avevo già capito. Ero già morta.
E ora, guardando la mia tomba, rido. Rido così tanto che ho le lacrime agli occhi. Rido perché sono pazza. Rido perché, all’improvviso, capisco il motivo di tanto sollievo. Sono morta.
 
Angolo dell’Autrice:
Ok. Lo ammetto. Ho dei problemi. Lo so, lo so che non è normale scrivere cose del genere, ma lo dovevo fare, va bene? L’ispirazione chiama, io rispondo. È così che funziona, le mie mani hanno volontà propria, ok? Mi credete, vero?
Ok, dopo il mio delirio, volevo dedicare questa mia one-shot a PhoenixFelicis e a Fyre97 <3
 
Baci e a presto, Lily.
 
  
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