#05
Waiting for
the night- Black hands on
a white dress
There is a sound in the calm
Someone is coming to
harm
I press my hands to my
ears
It's easier her just to
forget fear
[Waiting for the
night, Depeche Mode]
Il primo sintomo di rottura
del loro equilibrio si presenta quando, mano graffiando le punte delle
dita
dell’altra, ella si sente pulsare le tempie a qualcosa
rimestarsi ribollendo
nelle ginocchia, che cedono, e deve dirgli qualcosa.
E’ come se fosse liquida
sul
fondo opaco dei muri dall’intonaco qua e là un
poco scrostato, liquida o
comunque pronta a liquefarsi all’istante con un tremolio
angosciante e violento
che la tira giù, priva di energie.
Lui è turbato quando lei
cade, e la fissa brevemente prima di allungarle una mano, scendendo
dalle
lenzuola più chiare per la luce dell’alba.
Lavorando sempre fino a tardi
non è affatto normale che si sia svegliata così
presto, ma lui ha pensato
subito a problemi di stomaco, stropicciandosi gli occhi al suo fianco.
Si reggeva lacrimante
scaraventandosi in bagno per poi sostarvi a lungo.
Ne è uscita solo ora, e
tutto
rende Edward inquietantemente nervoso.
E’ stato raramente
così
nervoso.
E’ stato raramente
così
nervoso da quando è andato a vivere con lei.
E’ stato raramente
così
nervoso da quando è andato a vivere con lei ritrovando un
minimo di pace e
frammenti di vita.
Ora i di lei occhi cerulei si
aprono del tutto, ed ella si svuota ancora di forze in un tic nervoso
che le
piega ripetutamente l’angolo di uno di essi; così
prosciugata ha attenuanti per
sostare ed essere salva ancora un po’, ancora un
po’, ma lui è troppo
preoccupato per usarle anche questa gentilezza.
Ed è troppo fiero e
fiero di
sé per mostrarle di essere preoccupato ed usarle gentilezza,
il che lo porta
quantomeno a godere del beneficio del dubbio sulle condizioni di lei, e
seri
dubbi su cosa esternare, ma senza trattenersi poi troppo la tira su con
gesto
deciso ed appena garbato, e la interroga con occhi silenti, fisso e
scostante,
vincolante e quasi minaccioso.
Abbattuto.
“Cos’hai? E
cos’è che non
vuoi dirmi?”
Lei fissa i propri piedi
timidamente, stringendosi una spalla come se fosse dolorante in cerca
di
comprensione, con un’aria colpevole che è sempre
stata più propria a lui che a
lei, ed è immancabile notarlo.
Non va bene. Non va
affatto bene. E’ terribile. Non dovevo...no, non va bene
niente. Non volevo
saperlo.
“Win.”
Il suo rimbeccarla è
accorto
ed affettuoso, con la rassegnatezza paziente di chi ha imparato che la
tolleranza salva dall’estraniamento dalla società,
ma lei non coglie alcun
segnale nelle sue parole.
Sente solo nel proprio corpo
un rigetto psicologico all’accettare la propria condizione
quasi di supplice
dinanzi a lui, che potrebbe essere rifiutata anziché
rifiutare.
Abbandonata.
E pur se senza reale,
appassionato, accanimento, ora è spaventata da lui, dal
pensiero di una sua
reazione.
Si stringe forte per
difendersi nelle spalle, quasi nascondendovicisi, e si accosta alla
porta,
fissandolo lontana e con sguardo scostante.
“Io...io...”
Si sfiora poi il ventre con
le dita, accentuando il gesto con uno sguardo da reietta, timoroso ed
incerto,
tutto per lui.
Per farlo sentire in colpa.
E lui non capisce, ergendosi
non alto ma senza dubbio fiero, fissandola penetrante e cercando di non
capire.
“Qui...qui
ora...”
I loro sguardi si incontrano
scortesemente per poco, e senza l’intenzione di farlo.
Così lei chiude, chiude
gli
occhi con forza, e quando li riapre non c’è
più uno stridere di violini stonati
nelle sue orecchie, ma solo un mondo che, ai suoi occhi socchiusi, pare
anche
migliore di prima, più bianco e più tranquillo.
“Non ti capisco, Win.
Parla
più chiaramente.”
Lei lo guarda un poco, di
sottecchi e colma di dolore, avvicinandoglisi piano, violenta
nell’accostargli
una mano al viso, ma gentile all’impatto; sosta un poco, e
poi scivola via.
-
Questo ci ucciderà.
E tu mi ucciderai, senza
orecchie per ascoltare, solo ferro per stridere sulle nostre membra
spezzando
ossa scomposte ed ossa innocenti.
Questo ci ucciderà,
perché
l’uomo che amo mi spaventa così tanto.
E’ disperato quando la
trova
più tranquilla di quanto non fosse negli ultimi giorni
mentre si allontana da
lui, bianca e svuotata e leggera.
“Non vedo il senso di
andartene da casa tua. Non vedo il senso di restare in casa tua se non
sei qui.
Io andrò via. Perché non me lo
dici ma lo so, sono io il problema.”
“Peccato che tu non
capisca
anche il resto della storia. Ma per favore, resta qui. Ora non puoi
fare
niente. Pensa, limitati a pensare. Penserò
anch’io.”
“…tornerai?”
Lei sosta un poco, ancora sull’uscio della porta, valigia
alla mano, senza dire
niente.
Den compare alla porta
annusando l’aria e fissando con intensità la
padrona, che si china ad
accarezzarla con sguardo vacuo, senza particolare attenzione
né rispetto verso
Ed che gli sta davanti, fermo e pronto a morsicarsi le dita non appena
sarà
abbastanza lontana da non poterlo vedere.
Egli non può tollerare
questa
visione, ma desiderare di distruggerla.
“Questa è la
mia casa.” lei
replica morbidamente “Non so solo se tornerò per
te. Ma certo, tornerò presto.”
La sua triste immagine giace
negli occhi dorati di lui per lungo tempo, e giacerà
lì sino al suo prossimo
risveglio dall’incubo.
Poi lei si volta verso lo
spazio che li separerà.
-
Quando ha tirato le somme della
sua vita, pochi anni prima, Winry ha realizzato, mestamente, di non
avere vere e
proprie amiche; è sempre stata orientata, anche per forza di
cose, verso i
ragazzi.
Ed e Al, per farla breve.
Tirava oggetti verso di Ed da
quando nemmeno camminava ancora, per quanto può ricordare.
Lo rincorreva gattonando,
gonfiando le guance già paffute irritata se non riusciva a
prenderlo, ed
affinando così la tecnica, mentre Ed scappava,
più veloce di lei.
Ora ha un disperato bisogno
di cambiare aria, e la stretta lista di amici cari, sufficientemente
cari,
le lascia come unica scelta Al; dopotutto è sempre molto
gentile, di sicuro non
le volterà le spalle.
Teme solo di metterlo in
difficoltà con la richiesta per motivi prettamente pudici,
ma dopotutto sono
cresciuti insieme.
Si sono reciprocamente visti
crescere e mutare di corpo, pur essendosi allontanati nel periodo di
maggiore
maturazione per una donna.
L’hanno lasciata appena
morbida, e ritrovata prosperosa e succinta di vesti, quando un tempo
tranquillamente dormicchiavano assieme dopo il gioco, lei adagiata al
petto di
Ed, Al al suo, a seconda della statura; ora lo trova un ricordo tenero
e
divertente, ma certo non cosa attuabile, Ed a parte.
Dormono ancora vicini,
dopotutto, anche se più vicini di prima.
E se prima erano nudi di
pregiudizi e pensieri complessi e pudore, ora sono nudi di fatto,
quando
dormono.
Non sono sposati; non hanno
mai pensato di farlo, in verità.
Ricostruire una vita
così
spezzata era stato già di un’enorme
complessità: pensare di fare altro era
davvero irragionevole, dunque si sente ancora più insicura
nella sua
condizione, mentre bussa alla porta della vicina casa di Al e lo vede
aprirle,
sorridente e curioso con il viso più sottile ed allungato di
prima, ma sempre
ugualmente lieto e bambino.
“Ciao, Winry. Come mai
qui?”
“…posso entrare?”
“Oh, certo, scusami,
scusami.
Entra.” la raggiunge gentile la voce di lui, mentre le
accompagna garbato il
braccio per trarla dentro e chiudere la porta, con gesto tenero e
casuale.
Un tipo di gesti che lei non
è affatto solita riconoscere in Ed.
“La
valigia…?”
Lui la osserva sorpreso,
realizzando or ora la presenza del bagaglio retto tra le di lei dita
ben
serrate e chiare; un poco assorto gliela prende dalle mani per posarla
vicino
al divano, e le allunga la sedia con un gesto da gentiluomo di fascino
antico,
impressionantemente delicato.
E lei sedendosi si chiede,
stranita, per quale assurda ragione non abbia ancora una fidanzata.
“Ecco…la mia
situazione
è…complicata.”
“Sono qui per
ascoltare.” le
sorride lui incoraggiante, sbiadendo il turbamento in un’aura
rassicurante e
familiare.
Aria di famiglia.
Piccoli quadretti che
incorniciano momenti lieti tra loro bambini, Ed e Al, i bambini con i
genitori,
ornano le pareti verde chiaro della casa, discrete e dense di
sentimenti ad
entrambi cari, strappati e poi conservati con nostalgia.
Lei li guarda e pian piano
realizza perché si senta così bene ed al sicuro.
E’ al cospetto di
qualcuno di
conosciuto, qualcosa di conosciuto che non ha il potere di ferirla
perché non
può toccarla nella carne.
Non come Ed.
Ed che le faceva del male in
ogni stretta e respiro poco accorto.
Ed che non aveva uno spirito
responsabile come quello di Al.
Non così tanto.
“Aspetto un
bambino.” lei si
fa forza, pacata e distruttrice nella quiete che aleggia nella piccola
casa
ospitale.
Al allarga un poco le
pupille, passandosi una mano tra i capelli, senza fiato ed emozionando,
stemperando la tensione in carezze profonde ad un gattino bianco che
gli è
appena saltato sulle ginocchia.
Giochicchia piano con le sue
zampine senza guardarla più negli occhi, timido e riservato
come un adolescente
un po’ ribelle.
“B-beh…wow,
ecco. Non me lo
aspettavo. Credevo che nii-san avesse combinato qualcosa,
ma…”
“Sì, ha
effettivamente
combinato qualcosa.”
“E…a parte
questo, ecco…lui…?”
Lei lo guarda e ride, riempiendo
l’aria una rete acuminata, che più si tende e
più ferisce, senza che vi sia
nemmeno il tempo di accorgersene; e poi le guance sanguinano, come le
sue
quando si stringe prima le unghie al viso e poi ai capelli, rossa e
sfumante
risate in lacrime.
“Non…vuole…capirlo.
Se glielo
dico…se glielo dico e basta lui…io…mi
lascerà, capisci? Sola
e…così…così.”
“…per
determinate cose
nii-san non capisce facilmente. Non pretendere che intuisca da solo.
E’
chiedere troppo. Non credo possa averti capita se non parli. Tu puoi
capire lui
se non parla, a volte, ma lui è ottuso. Non pretendere poi
che intuisca una
cosa che non vuole rischiare di intuire, ma preferirebbe sapere con
certezza.
E’ dura, ma è dura per tutti.”
Lei guarda in basso, come una
bambina colpevole, tormentandosi le mani in grembo.
“Senti…io…posso
restare
qui…un giorno o due…o qualcosa di
più…senza che tu dica ad Ed che sono
qui?”
Alphonse le si avvicina per
accarezzarle
una spalla amichevolmente, ed annuisce comprensivo.
“Sicuro, non
preoccuparti.
Prenditi tutto il tempo che vuoi…oh, non so bene come
gestire una donna in
casa. Ed una donna incinta, ma ti prego di dirmi ogni cosa ti serva e
farò del
mio meglio per renderti la permanenza confortevole. Non farti scrupoli,
ci
tengo. Hai dentro il mio nipotino, tra l’altro. Ah, un
nipotino…”
E ridacchia, timido e gioioso
nel farle forza, arrossendo un poco.
Ella sente tutto molto
distante, perché nonostante tutto il tocco freddo e villano
di Ed le manca
particolarmente.
Era uno sfiorarsi sapiente ed
equilibrato che le era necessario; senza di esso era sola.
E forse la sua è stata
tutta
una bieca, miserabile sceneggiata per vittimizzarsi un poco, ma
già ama profondamente
la sua creatura; l’idea di saperla infelice ed abbandonata
come è stata lei è
qualcosa di assolutamente inaccettabile per la sua testa.
“Vieni, io
dormirò sul divano.
Lasciamo la valigia nella mia stanza.”
Lei annuisce, un poco
svuotata, e lo segue con passi infiacchiti, senza nuovi pensieri,
sfregandosi
una mano al ventre ancora piatto per proteggerlo da un vento assente,
da mani
infelici che non sono lì e non è certa di
rivolere indietro.
-
Edward si chiede,
francamente, perché lei non sia ancora tornata.
Ha pensato, ha sperato che
scherzasse, perché tutto questo lo turba in una maniera
assolutamente inattesa.
E così quel di lei
indicare
il proprio ventre.
Perché una corsa in
bagno
collegata ad una donna e collegata ad un ventre ha un significato
preciso, che
preferisce ignorare, ma questo semplicemente perché la cosa
è totalmente
inattesa.
Convincersi fermamente che
lei sia incinta per magari sbagliarsi gli comporterebbe un crollo
troppo
pesante, poiché la cosa non è leggera da
aspettare.
Suo padre lo ha lasciato
quando era piccolo di propria volontà, dunque non sa nemmeno
cosa debba essere
un padre per un figlio.
Se abbia a che fare con soggezione
e rispetto, ammirazione e devote distanze; ma questa probabilmente
è una sua
troppo rosea visione.
Suo padre era un idiota,
dunque di padri veri ha letto solo in qualche libro da bambino.
Le favolette con protagonisti
cuccioli che giocavano, protetti e custoditi dal sorriso austero e
dolce del
papà.
Gli occhi grandi di Al che si
stringeva alla sua maglia implorando per una figura da seguire con
rispetto
quando erano molto piccoli, poi sviluppando una costante autonomia,
forse
perché alla fine aveva realizzato anche lui che uno come Ed
non era un buon
esempio.
Non volevo esserti un
peso, nii-san.
Parole, parole, miserabili
parole e basta.
Probabilmente non aveva
voluto ferirlo, semplicemente, dandogli dell’inetto.
Ed ha ormai solcato fossati
profondi con i suoi passi selvaggi di piedi nervosi sul pavimento,
girando in
tondo sotto lo sguardo perplesso del cane di casa, ringhiando,
passandosi una
mano alla tempia, crollando esasperato sulla poltrona di velluto densa
di
cuscini.
Sono due giorni che lei non
torna, ed ha momentaneamente mollato anche il lavoro, perché
l’officina è lì ed
in quella casa c’è lui, degno d’un odio
che non comprende appieno, ma un motivo
c’è sempre, lo si può sempre trovare.
E’ così
colpevole, sino alle
viscere, che una vita sola non basterà mai a fargli
soppesare ogni singola
colpa appieno, anche se ha già pagato, ha già
pagato così tante volte…
E non so nemmeno dove sia,
e non posso stare tranquillo. Se si fosse persa? L’avessero
rapita? Trucidata?
Sedotta?
Rabbrividisce leggermente,
nonostante sia appena primavera, e va a chiudere la finestra che aveva
appena
aperto perché aveva caldo.
Pochi minuti dopo, la
riaprirà.
-
Sono sempre stata così
brava a sorridere, constata ella
fingendo accuratamente un nuovo e sfavillante tender di labbra, senza
minima
traccia di turbamento o nervosismo.
“Mi dispiace
così tanto di
stare approfittando tanto della tua ospitalità.”
E’ nonostante tutto
imbarazzata e china lo sguardo al suolo, mentre lui esce ancora di
casa, ancora
sorridente, ancora gentile.
“Non pensarci neanche,
dai.
Sto così poco a casa, e mi aiuta tanto trovare un pasto
caldo al ritorno. Mi
dispiace solo di lasciarti sola, se non fosse un’urgenza,
specie vista l’ora
tarda, non andrei.”
“Ma no, hai il lavoro,
sono
io che sono di troppo, davvero, forse...”
“Win, calmati, per
favore, va
tutto bene. Dai, ora vado. A domani.”
La addolora sommamente,
involontariamente e dunque d’una pena più pesante
del necessario, perché il
problema è solo di lei.
L’ha chiamata Win.
Win.
Win come la chiama sempre Ed,
sempre.
Il tuo nome è troppo
sdolcinato e lungo, sai. Sembra di parlare di miele, e si parla
dell’ ape. No,
cazzo, no, sei violenta! Non sei proprio una donna, eh.
Ed dalle mani che erano un
tempo solite essere unte di sangue con la stessa saltuarietà
con la quale
quelle di lei lo erano d’olio.
Ed che non ha mai capito
subito. Niente.
Non che potesse saltarmi
al collo gioendo a gran voce, ma insomma,
un…segno…
Osserva Al scomparire tra le
ombre, borsa da lavoro alla mano, e si sente particolarmente afflitta,
trapassata da brividi.
Aspetta che sia totalmente
scomparso dalla sua visuale e sosta un poco.
E’ quasi notte.
E’ quasi notte e
può
nascondersi, celarsi in ogni ombra senza dover accampare scusa alcuna
perché
nessuno le chiederà spiegazioni, trovandola serena al
mattino, se ora seda il
dolore in violento stremarsi.
Chiude la porta di getto e
corre d’ampi passi, incespicando tra l’erba nociva
senza cadere, e se cade si
rialza, e se non cade corre sempre più in fretta,
scaldandosi i muscoli e
cessando dopo lunghi solcar di campi, cadendo incauta sul ventre,
esanime e
senza scopo.
Tutto è verde ed il
cielo si
scurisce ancora da già buio che è, pian piano,
leggiadro e trasparente ancora
mentre lacrima acqua già sporca sulle sue giunture inerti e
pulsanti, sul suo
viso ora scuro di fango, i suoi gomiti su cui ancora striscia,
crollando quando
è troppo ammaccata e striata per poter sentire altro, ed ora
è felice,
assurdamente felice, perché ora è sola ma va
tutto bene.
Si accarezza leggermente il
ventre, sentendo l’odore dei gigli che la abbracciano
piacevolmente.
E’ di nuovo la piccola
regina
che siede nella parte più importante della scena; siede e
guarda il mondo con
un bianco, perfetto sorriso che illumina la notte –come
si frantuma, tutte
le certezze diventano grigie e senza valore, esattamente come polvere.
Sono sempre stata così
brava a sorridere. Così brava. Anche se non sorrido da tanto
in maniera
così…così bianca.
E’ la piccola regina
coperta
di gigli –i gigli appaiono tanto più
belli degli altri fiori. Più grandi e
vistosi delle margherite, non pungono come le rose né hanno
un profumo peggiore.
Sono solo così tanto più belli…
Ed e Al solevano intrecciare
diademi floreali per lei, la piccola regina tra i gigli, decidendo che
chi
avesse fatto il più bello l’avrebbe potuta
prendere in sposa –e quelli di Ed
erano sempre così brutti e stropicciati, le sue mani quasi
logore per l’impegno
e il suo viso contratto in grande frustrazione; Al vinceva sempre, con
le sue
mani piccole e pazienti, laboriose ed amabili.
Solevano
anche sorridere molto, come lei.
Solo,
in maniera più realistica.
“Andrà
tutto bene, sai.”
Il bambino accarezzò la testolina bionda gentilmente,
guardando le lapidi
bianche, ma lei non stava piangendo.
“Fa
male, Ed. Non puoi dire quanto è doloroso, perché
lo è troppo. Non lo sai. Non
lo capisci.”
“…hai
ragione, non lo capisco. Ma posso tentare.”
Lei
lo fissò a lungo, prima di riabbassare ancora lo sguardo al
suolo torturato dai
propri piedi che senza riguardo lo pestavano, urtavano, rovinavano.
Il comportamento di lei era
sempre così perfetto e dolce e vano.
Una brava bambina merita
genitori.
So che non lo sono, quindi
lo diventerò.
Mai seccare, mai urlare, mai
agire.
Mai vivere.
Il suo vestito –lo
realizza ora, ironicamente- era bianco, e già
pienamente, irrimediabilmente
infangato.
Non
c’è alcuna differenza.
Questo
senza alcun motivo la rende più triste, ferita e sconvolta.
Senza speranza.
Non mi è corso dietro.
Né
lo farà ora, ora che sono così sporca. Mi
dispiace. Mi dispiace tantissimo.
Pensavo andasse bene se
salvavo mio figlio dal conoscere suo padre e venirne abbandonato. Come
me.
Non ho pensato che non mi
va bene essere abbandonata. Come accadrà a lui.
Che ora non tornerà
più
che mai. Perché non può più amarmi.
Sono così sporca ed
infangata nel torto. Perché preferirei ancora che amasse me
che questa
creatura.
Così macchiata.
Nonostante
ogni sforzo di pulire tutto.
Si sente dolere così
tanto lo
stomaco da smettere di respirare, smettere di pensare, meno razionale,
più
assente di prima.
Strappa con le dita petali di
gigli lanciandoli in terra, bagnata dalla pioggia che la inonda e lava,
inonda
e lava e poi macchia ancora e ancora.
Ora
vi sono petali laceri per tutto il verde vasto attorno a lei, strappati
e non
più belli come prima.
Si
sente, per qualche istante, dolorante ma particolarmente sollevata.
-
Quando esce di casa non ha un
istinto preciso.
Solo voglia di maledirsi e
sbattere la testa contro qualcosa, vigorosamente, perché
duole un sacco dai
pensieri incoerenti e sempre più crudi contro le pareti
della sua testa, una
stanza metallica che rimbomba in maniera opprimente.
Questo simboleggia il suo
vuoto, direbbe
Win.
E lui si arrabbierebbe
fortemente, ma se lo dicesse ora ne sarebbe al contempo
incredibilmente, insostenibilmente
contento.
Ha scorto nell’aere
minaccia
di pioggia, e stretto tra le dita il manico di un ombrello, fardello
ingombrante tra le sue mani, ostacolo che rende più
piacevole la sua fuga
dall’oppressione di una casa troppo vuota per sostarvi
ancora, cenare ancora da
solo, dormire ancora tra lenzuola fredde.
Logorarsi nell’attesa
d’un
cenno di vita di lei era stato duro.
Perché
lei non voleva essere trovata. Non voleva
essere forzata a rivederlo se non se la sentiva.
E siamo
entrambi adulti,
avrebbe inoltre detto ella, ammonendolo con somma
serietà, e non credo che questo ti ucciderà. Non
ucciderà nessuno dei due.
E si era dolcemente
sbagliata, quantomeno dal suo canto; perché pur non
esternandolo, lui moriva
dal nervosismo.
Si staccava quasi le unghie
tra i denti in impeti furiosi ed incontrollabili, trattenendosi
dall’andare a
cercarla.
Può
non sembrare. Non sembra affatto. Ma mi da
fastidio. Mi secca. Mi rende ansioso. Non voglio. Non mi piace affatto.
Non c’erano
così tanti posti
in cui lei sarebbe potuta rifugiarsi, certa di trovarvi asilo, e lui li
conosceva tutti, e quel tutti era uno.
Al.
Così ha resistito per
puro
rispetto e tenerezza nei confronti di lei, ma l’attesa,
seppur breve, l’ha
dilaniato.
Ora sa cosa ha lei dovuto
soffrire per anni.
E c’è questo
ostacolo tra le
sue mani, peso leggero, ombrello ceruleo.
Sono i
suoi occhi. I suoi occhi mi guarderebbero male,
ora. Questi sono i suoi occhi che mi fissano insofferenti.
Non lo apre, non l’ha
preso
per quello, ma solo per usarlo in caso si calmasse, e non è
certo di riuscirvi,
per niente certo.
Queste sono le mie mani
che feriscono. Queste le mie labbra pusillanimi che l’hanno
messa in fuga.
Voglio essere felice.
Dirò
anche a lei che sono felice, e sarò davvero felice.
Sa che le piace guardare la
pioggia al chiuso, ma se l’avesse sorpresa incauta potrebbe
aver sostato ad
osservarla, sgranando quegli occhi così incredibilmente
grandi, ingombranti sul
viso un poco paffuto.
Cammina e poi corre, poi
cammina ancora, acqua penetrante sin nelle ossa in scrosci assordanti,
giungendo in un luogo che rammenta appieno.
Qui riposano le loro speranze
da lungo dimenticate, qui giace lei lungo distesa, che volge le spalle,
accasciata sul grembo, alle lapidi bianche che proteggono i genitori di
lei, la
madre di lui, anche se i corpi dei primi non sono mai stati
materialmente lì.
E pensa che deve essere stato
terribilmente angosciante, per lei, sua presenza o meno, una vita senza
supporti e piccoli vezzi infantili.
Abbandonata dai genitori ed
anche da lui, ma lei piangeva senza lamentarsi, e mai irragionevolmente.
Lei diceva sempre che andava
tutto bene perché lui aveva bisogno di sentirsi dire questo,
perché l’avrebbe
messo in difficoltà, quando le sue priorità erano
altre.
Avrebbe ulteriormente
appesantito il suo fardello, simile all’ombrello che ora erge
sul corpo martoriato
da fango ed acqua simili ad un mare di lacrime e sangue.
E’ come se fosse
già morta, e
per degli istanti gli pare quasi inutile proteggerla dalla pioggia
chinandosi
piano.
“Io sono felice, Win.
Sono
davvero felice, nulla può guastare questo. Puoi parlarmi.
Voglio sentirti
parlare.”
La solleva gentile sulle
proprie ginocchia, coprendole la schiena con il solito, ormai corto e
logoro,
mantello rosso che è sempre stato avvezzo a portare senza
sosta, agganciandosi
l’ombrello al polso e facendole ancora scudo con il capo
chino perché la
pioggia non la tocchi oltre.
Perché? Sono
così pulita,
ora. Quando mi lava sono pulita ed innocente. Poi mi sporca ancora, ma
sono al
contempo pulita. E perché è felice?
Perché vuole ascoltare quello che non è in
grado di sopportare?
“Accidenti, dove sei
stata
fino ad ora? E…ehi, parla. Win, su,
per…favore.”
La scuote gentilmente rialzandosi in piedi, iridi semivuote e
semichiuse
stagliate d’azzurro inconsistente, cuore lento, poi veloce da
essere lacerante.
“Forse
ho…ferito il bambino.”
Non voleva.
Non voleva davvero, ma è
caduta urtandolo, senza violenza ma battendo il ventre.
Piange piano, stringendosi
alle sue spalle non particolarmente ampie, al suo collo ruvido di barba
ignorata per giorni, e trema forte.
“N-no, senti, va tutto
bene,
eh. Sono sicuro che sta bene. Ti farò vedere da un dottore,
e starete bene
tutti e due. E saremo ancora felici, tutti e tre.”
Lei può finalmente
addormentarsi felice, alla notte tanto attesa per sedare il dolore
nell’oblio,
tra le sue rassicuranti parole spacciate per certe, ma simili ad i suoi
sorrisi
da piccolo.
Realistiche
pur se bugiarde.
-
Note
finali:
Altra fic per il theme set Violator postato da Maki sul forum. Non sono
particolarmente
soddisfatta di questa one-shot, ma spero che a qualcuno possa piacere.
Non appena possibile, posterò le prossime fic del set, ne ho
pronte altre tre,
anche se questa credo sia la meno “forte” di queste.
E’ sottinteso che adoro
ricevere
commenti.