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Autore: Yellow Daffodil    17/09/2012    1 recensioni
Seconda classificata al contest "Un giorno lo incontrerai"
Hotel Ritz, Los Angeles
Una cameriera che vuole fare la scrittrice, tempo per realizzare il suo sogno: ventiquattr'ore.
Un cantante che vuole smettere di dover fingere, tempo per cambiare il suo futuro: ventiquattr'ore.
-Tu! Io…noi…cosa ci facciamo qua?-
-Siamo legati come salami, in una specie di garage nel bel mezzo del nulla e con un vuoto di memoria di non so quante ore…vedi tu.-

Un incontro che non è dei migliori, due vite che si incrociano proprio nel punto più critico della loro esistenza, poche ore di tempo per mettere da parte l'ostilità e uscire dai guai.
Ma rusciranno a vincere l'orgoglio? A superare i loro pregiudizi?
E cosa ne sarà dei loro sogni?
Genere: Comico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Un giorno lo incontrerai
I sogni sono per gli egoisti
-Capitolo 1-


Mi chiamo Rebecca Carlton e voglio raccontarvi una storia. La mia storia, la mia storia più bella, la storia di un sogno.
Ok, può sembrare l'inizio di un Harmony o qualcosa del genere, ma ci sono troppe parolacce perché lo sia, quindi mettetevi tranquilli e spostate quel pacchetto di Kleenex da davanti agli occhi, non vi servirà.
Almeno spero.
E' iniziato tutto un giorno di maggio dell'anno 2011, nella calda Los Angeles, California. Beh, in realtà non è passato molto, ma abbastanza da poter iniziare così...

Bussai alla porta controllando l’orologio che avevo al polso. Tre minuti dall’ordine, ero stata troppo lenta.

In due nanosecondi mi sistemai i ciuffi sfuggiti dallo chignon e il rossetto sbavato per piantarmi in faccia un’espressione abbastanza credibile. Sì, sembravo una superstite scazzata del Titanic e non andava per niente bene.
Dovevo sembrare felice di sudare per gli altri, era parte del mio lavoro.
A dire il vero odiavo fare quello che facevo, ma dovevo resistere: non sarebbe durato che ventiquattr'ore ancora e poi me ne sarei andata. Doveva essere il giorno meno problematico di tutta la mia carriera, onde evitare qualsiasi problema o impedimento alla realizzazione del mio sogno. Facile a dirsi per una come me, che solo per salire due piani aveva travolto il gatto del governatore di Washington alla stanza 620, rovesciato una brocca di latte davanti alla porta della tennista brasiliana e perso una scarpa mentre veniva osservata dalla zia di Orlando Bloom.
Da due anni lavoravo nell’hotel di mio padre a Los Angeles come cameriera, cosa che odiavo radicalmente, ma che ero costretta a fare. Lui, amorevole e comprensivo padre con una mentalità per niente chiusa, sognava per me un futuro non oltre quelle lussuose mura, ma io, da brava figlia ribelle, volevo girare il mondo, vedere mille posti diversi e scrivere il mio libro. Tipica storiella americana. Così lo avevo convinto a scendere a patti: avrei lavorato al Ritz fintanto che non avrei ottenuto un diploma. Se ce l’avessi fatta, mi avrebbe lasciata partire e io ero più che determinata a passare l’ultimo esame, programmato per l’appunto entro sole ventiquattr'ore all’università di Downtown. Sopravvivenza sudata, la mia.
Bussai nuovamente non ricevendo risposta e approfittai dell’attimo disponibile per lisciarmi la gonna e sistemare il sorriso ancora troppo finto.
Purtroppo, in qualità di figlia del ricco Roger Carlton, ero stata assegnata alle suite dei piani alti, sempre in contatto con i VIP e le celebrity di Beverly Hills, di modo che le mie figuracce potessero essere oggetto di letizia anche per chi passava la propria vita a sguazzare nei soldi.
Deprimente, lo so. Io, spirito libero, intrappolata dentro una megastruttura a osservare i viaggiatori.
Sbuffai bussando per la terza volta, abbastanza irritata, ottenendo finalmente uno scocciato “Chi è?” dall’interno. Succedeva sempre così, poiché tu, sguattera plebea, andavi da loro non perché eri stata chiamata, ma perché ti andava di farlo. Ovvio.
-Servizio in camera.- cantilenai come mi era stato insegnato. Dolce, ma non troppo, felice di essere lì a fare favori alla gente.
Anni luce dopo la porta si aprì a spiraglio per mostrare una strisciolina d’uomo:-Non credo proprio.- disse una giovane voce melodica.
-Prego?- chiesi garbatamente fingendo di non aver capito.
Dall’altra parte arrivava solo una grande sensazione di “mi stai disturbando per niente”. Certi ospiti erano da prendere a sprangate.
-Io non ho chiamato nessun servizio in camera.- rispose il tizio, la cui voce era effettivamente gradevole. Peccato che la usasse per farmi imbestialire. E avevamo scambiato solo quindici parole.
Controllai l’ordine, corrispondente alla stanza 729, poi guardai la targhetta per confermare. O il tipo soffriva di personalità multipla o i telefoni dell’hotel criptavano i messaggi.
-A me risulta di sì, signore.- ribattei fintamente gentile:-Succo d’arancia e un’aspirina.-
-Oh, intendi quell’ordine. Con tutto il tempo che è passato me ne ero dimenticato.- sbottò aprendo la porta per farmi entrare. Soave stronzaggine.
Indignata, spinsi il carrello all’interno:-Centottanta secondi sono un’infinità, in effetti.- commentai sarcastica.
-Per quelli il cui tempo è denaro sì.- ribatté, amabile.
Mi girai per guardarlo male, ma rimasi pietrificata con la mia faccia da allocco. Solo dopo aver lottato contro la bavetta che intendeva uscire dalla mia bocca, realizzai che quello era Logan Tatcher. Il talentuoso, idolatrato, venerato, attraente Logan Tatcher. Alto tanto da farmi sentire una nana di corte, muscolatura pronunciata ma non troppo, capelli scuri spettinati a regola d’arte e due occhi così azzurri da far invidia al cielo. Non dirò che ispirava sesso, perché passerei per la maniaca di turno.
Tatcher aveva ventiquattro anni ed era il cantautore più ascoltato d’America. Per tre mesi era rimasto fermo in cima alle classifiche dei brani più scaricati e i dischi più venduti e non solo lo vedevo mezzo nudo nelle pubblicità di intimo, ma potevo anche andare in qualsiasi store e trovare oggetti con la sua faccia stampata. Persino il copriwater, che avevo intenzione di prendere, ma che non presi solo perché conservavo un minimo d'orgoglio. Peggio di Justin Bieber, in soli dodici mesi aveva conquistato tutta l’America del Nord partecipando al famoso programma musicale X-Factor USA e poi si era divulgato per il mondo. Il fatto che avesse una voce incantevole non era l’unica causa della sua popolarità, l’elemento che affascinava, infatti, erano i testi delle sue canzoni. Personalmente, non avevo mai creduto che fosse lui lo scrittore, perché ero troppo dentro a quel mondo e mi sembrava impossibile che un macho del genere potesse avere la mia stessa passione. Sensibile? Poetico? Stavo confermando i miei sospetti, ovvero ero pienamente convinta che fossero altri a scrivere per lui. Quegli aggettivi non gli si addicevano per niente.
-Sì, sono un giovane di bell’aspetto, ma ora avrei di meglio da fare che farmi spogliare con gli occhi da una cameriera.-
Appunto.
Appoggiai (sbattei con grinta) la caraffa di succo sulla scrivania e riempii un bicchiere d’acqua per farci sciogliere l’aspirina. Avrei potuto ispirarmi a Lady Gaga e aggiungerci del veleno, ma non volevo sfuriate da mio padre.
-Non si preoccupi, non ruberei mai il piacere alle ragazzine urlanti che l’aspettano fuori dall’hotel.- dissi, sorridendo falsa come Giuda.
-Oh, loro sì che non perdono tempo.- osservò pieno d’arie, appoggiandosi allo stipite della porta per fissarmi mentre gli mescolavo l’aspirina. Mi augurai che fosse scaduta.
-Già.- mi asciugai le mani sul canovaccio del carrello:-Temo di dover andarmene ora, signor Tatcher.-
-Signor Tatcher.- ripeté vagamente divertito. Evidentemente adorava sentirsi importante:-Aspetta…già che ci sei, ci sarebbe il letto da sistemare.- disse indicando il matrimoniale disfatto.
Ma che mi credeva? Il suo paggio? La serva?
Feci saltellare lo sguardo da lui al letto, veramente indecisa. Il mio lato camionista stava per sormontare quello principesco, ma fortunatamente il suo cellulare prese a squillare.
Mi lanciò una breve occhiata di sfida (grr…) e rispose alla chiamata. Che persona infantile.
-Buongiorno, amore.- lo sentii recitare in modo melenso:-Sì, magnifico…oh, anche tu mi sei mancata…-
Sbuffai roteando gli occhi e mi trascinai verso il letto, cominciando a rimboccare le coperte. Sembrava un ragazzino mestruato: finemente bastardo, irritabile e soggetto a sbalzi d’umore, come potevo ascoltare dalla conversazione.
-Che cosa? Digli che è un pezzo di merda!- gridò improvvisamente, arrabbiato, facendomi sobbalzare. Si stava rivolgendo alla sua ragazza? Forse non aveva ben chiara l’idea di delicatezza. Aguzzai l’orecchio, curiosa.
-Anzi, passamelo…sei un pezzo di merda!...Sono stanco di questa vita, Thomas. Stanco morto! Smettetela di farmi pressioni quando sapete da mesi che la risposta è no. Questa volta cambio davvero.-
Ok, a meno che non fosse assieme a un trans, aveva cambiato interlocutore.
-No, mi rifiuto di discutere di nuovo…andatevene tutti al diavolo, Thomas…e adesso attacco ché ho quella piaga di Regina in linea.- schiacciò un tasto e ritornò in modalità cucciolotto teneroso:-Regina! Scusa, una chiamata di lavoro…sì, quell’ingrato di Thomas…ti amo anch’io, amore…quando tornerò? Io…oh, aspetta, c’è la Sony in linea…- premette di nuovo sullo schermo dell’iPhone e prese un tono più serio:-Signor White, che piacere sentirla…sì, tutto tranquillo…già, con Thomas una meraviglia, davvero, è un ottimo partner, mi dispacerà lasciarlo…certo, la richiamerò io appena avrò un buco in agenda, grazie mille.-
Attaccò sbuffando sconsolato e si passò una mano sul viso stanco, poi sembrò ricordarsi della mia presenza e tornò più composto, schiarendosi la voce.
Lo guardai incuriosita:-E Regina? Ha attaccato senza risponderle.-
I suoi occhi si ridussero a fessure:-Stavi origliando…- constatò indignato.
-Le è capitato di gridare al ricevitore, ero anch’io in questa stanza.- gli ricordai.
Sorprendentemente mi si avvicinò a passo deciso, fino a trovarsi a un palmo di naso dalla mia figura:-Voi cameriere dovreste imparare a stare al vostro posto, non giocare alle eroine…Rebecca.- aggiunse leggendo il mio cartellino.
-Voi superstar dovreste imparare che siamo umani, non bestie ammaestrate…Logan.-
Avevo osato un po’ troppo, forse. Lo capii dal lampo che gli attraversò gli occhi; non se lo aspettava.
-Vedo che sei in cerca di guai.- sussurrò.
-Tutt'altro, signor Tatcher.- mi affrettai a dissentire, voltando le spalle e facendo per andarmene:-Le auguro una buona permanenza al Ritz.-
Continuò a fissarmi con quelle pozze congelate finché non ebbi chiuso la porta in fretta e furia. Una volta in corridoio, appoggiai la schiena alla parete e presi un profondo respiro. C’ero andata troppo vicino; se avessi detto una sola parola di più avrei rovinato i due anni di lavoro in questo dannatissimo hotel e avrei bruciato l’opportunità di andarmene. Mancava veramente poco…qualsiasi intoppo sarebbe stato determinante per me.
Certo che quel Tatcher era pessimo. Mi augurai che potesse essere rapito e fustigato fino a perdere tutto quell’ammasso di stronzaggine che aveva in corpo.
O forse il corpo sarebbe stato meglio lasciarlo così com'era.

Erano le sei del pomeriggio quando mio padre mi mandò a chiamare.
Stavo finendo di pulire il vomito del pargolo dell’ambasciatore indiano, per cui fui molto felice di lasciare il compito alla nuova cameriera del piano. Starete pensando che forse mio padre avrebbe potuto trovarmi un impiego un pelino più simpatico, essendo il proprietario, ma, ricordando il suo essere un uomo di larghe vedute, aveva deciso di far partire la mia carriera dal basso, proprio come avevano fatto lui e ancora prima mio nonno. Evviva i parenti con impostazioni educative arcaizzanti!
Scesi in direzione salutando qua e là clienti e dipendenti, felice che fosse probabilmente l’ultima volta che li avrei visti.
-Padre!- salutai il mio vecchio irrompendo nel suo ufficio con vista sul tramonto di Venice Beach. Avevo sempre pensato che quell'uomo fosse megalomane, ma al contempo avevo sempre adorato quelle vetrate.
-Siediti.- fece lui, lugubre, ammazzando tutta la mia allegria pre-emancipazione.
Mi sedetti cautamente di fronte a lui, studiando il suo viso rugoso. Dovevo preoccuparmi?
-Ti ho fatto chiamare perché tra meno di un’ora il tuo lavoro qui sarà concluso.-
Un applauso all’ovvietà dell’affermazione.
-Per sempre.- aggiunse.
-Eeeeh già.-
-Rebecca.- disse, serioso:-Sei sicura della decisione che stai per prendere?-
Lo guardai cercando di capire dove volesse arrivare e risposi con tutta la determinazione possibile:-Sì, sicurissima.-
-Perché lo sai che fare lo scrittore non è un lavoro né sicuro né lucroso e qui, al contrario, avresti un futuro certo, già scritto, assicurato per te e la tua famiglia…in più lo sai che la gestione di questo hotel appartiene ai Carlton dai tempi della seconda guerra mondiale, sarebbe come spezzare la catena che tuo nonno ha consolidato con fatica e sudore della fronte, nei giorni in cui i soldi erano…-
-Papà!- lo interruppi, seccata:-Questo discorso l’ho già sentito migliaia di volte! Siamo nel 2011, le vecchie tradizioni familiari non interessano più a nessuno e io voglio fare quello che sogno da quando ero bambina!-
-Sì, ma a volte i sogni ti rovinano, Rebecca! Non mettere a rischio il tuo futuro per inseguire un mucchio di fantasie infantili!-
-Non sono fantasie, papà!- mi alzai in piedi sbattendo un palmo sulla scrivania:-E’ quello per cui sono nata. Io voglio quel diploma e voglio partire alla volta della mia vita fuori da qui! Erano questi i patti.-
Mio padre sospirò massaggiandosi le tempie:-D’accordo, io…ci ho provato a farti cambiare idea, ma a quanto pare sei più testarda di quanto immaginassi. Da domani non sarai più una retribuita al Ritz, ma ricordati che se per caso dovessi fallire quell’esame, allora tornerai qui.-
-Non fallirò.- risposi, decisa e girai le spalle a mio padre per dirigermi verso la porta dell’ufficio.
-Ah, Rebecca, un’altra cosa…-
Voltai la testa per incrociare il suo sguardo, in attesa.
-Credevo che almeno per quest’ultimo giorno ti saresti sottratta dal combinare casini, invece sembra proprio che tu voglia infastidirmi.-
-Che cosa?-
-Logan Tacher mi ha riferito il tuo rozzo comportamento di questa mattina.- rispose:-Pensavo di averti insegnato come si trattano i clienti in questo hotel. Ti ricordo che le cinque stelle ce le siamo guadagnate anche attraverso la competenza del personale, anche se mi pare che tu abbia intenzione di glissare su questo punto. Se è un tentativo di vendicarti della mia decisione riguardo al tuo futuro qui, non è…-
-Quel Tatcher è un pomposo imbecille pieno di sé.- sbottai:-Il suo problema è che ha un ego così vasto che non riesce a guardarsi intorno e rendersi conto che non esiste solo lui.-
Mio padre mi rivolse uno sguardo di rimprovero:-E’ pur sempre un cliente e tu non hai il diritto di origliare le sue conversazioni private, né tantomeno di rivolgergli osservazioni!-
-Non ci credo…è venuto a raccontartelo?-
-Se fossi stata meno infantile, non ce ne sarebbe stato bisogno.-
-Sai cosa, pa’? Qui l’infantile è solo lui e aggiungerei pure bastardo.- ribattei, arrabbiata:-Ci vediamo domani, all’università. La mia discussione di tesi è alle dieci, non dimenticartene.- conclusi uscendo e provvedendo a sbattere violentemente la porta.
Mi diressi a grandi falcate verso l’ascensore, intenzionata a finire al più presto questa tortura. Non avrei mai più indossato questa stupida divisa, non avrei mai più discusso con mio padre del mio comportamento e non avrei mai più rivisto quell’insopportabile ragazzo. Sicuramente avrei gettato tutte le pubblicità che mi arrivavano con qualche sua foto in bella vista, avrei evitato come la peste di ascoltare sue canzoni e avrei per sempre sostenuto la mia tesi riguardo alla non autenticità dei suoi testi. Mi sarei comprata il copriwater, ma solo per avere la soddisfazione di usare il suo viso come appoggio per il mio fondoschiena.            
Non avevo tempo da perdere, dovevo correre a casa e finire di ripassare la mia tesi per l’esame di domani, perciò feci il giro di controllo in tutta fretta. Mi fermai solo davanti alla porta numero 729, non perché avessi qualche rimorso, ma in quanto avevo sentito uno strano rumore provenire dall’interno.
Accostai l’orecchio al legno e udii chiaramente un tonfo, seguito dal suono di ceramiche rotte.
Ma perché mi costringevano a farlo?
Bussai rapidamente:-Signor Tatcher?-
Stranamente, il rumore cessò e la stanza divenne impressionantemente silenziosa. Che diavolo stava combinando lì dentro?
-Signor Tatcher?- ripetei, alzando il tono di voce e stavolta percepii un movimento, seguito da una voce che non assomigliava per niente a quella piacevol...a quella di Tatcher.
Sospirai estremamente scazzata; speravo per lui che non mi stesse pigliando in giro oppure lo avrei evirato a costo di giocarmi l’approvazione paterna.
-Signor Tatcher, apra la porta o sarò costretta ad avvisare la direzione che si accerti personalmente del suo stato di salute all’interno della stanza.- cercai di risultare autoritaria e altamente irritata.
Parve funzionare, dal momento in cui la porta si socchiuse. Entrai augurandomi di non trovarmelo in accappatoio (solo perché così avrei potuto procedere alla castrazione più facilmente) ed emisi qualche colpetto di tosse di circostanza.
-Andiamo, signor Tatcher, non mi sembra il caso di…- ma le parole mi si smorzarono in bocca non appena vidi la condizione della stanza: era tutto sottosopra, il tappeto ammucchiato in un lato, il vaso di fiori a pezzi sul pavimento, la chitarra a terra.
-Ma che…-
Non feci in tempo a continuare la frase perché sentii qualcuno giungere da dietro e colpirmi alla testa con qualcosa di pesante. Poi, tutto nero.

Sentivo la testa scoppiarmi, i muscoli del collo indolenziti e un bruciore insopportabile ai polsi.
Provai a muovermi, ma il mio corpo era in qualche modo bloccato. Così, a gran fatica, socchiusi le palpebre, percependo una luce azzurrina molto debole, ma comunque fastidiosa sopra di me. Appena riuscii a riprendere il controllo della mia vista, realizzai di essere in un posto abbastanza squallido, a giudicare dalle pareti scrostate, dal neon a intermittenza e l’improponibile odore di muffa e umidità.
Guardando meglio, la stanza era abbastanza singolare: sembrava un vecchio garage nel quale erano state ammassate cianfrusaglie rovinate dal tempo. Il pavimento polveroso era spoglio, come le pareti, salvo quella di destra alla quale era stato appoggiata una specchiera distrutta. Oltre alla desolazione, c’era pure un freddo pungente e un lucernario che, sopra le nostre teste, proiettava strane ombre. Oddio, la cosa sapeva di serio. Mossi lievemente la testa, accorgendomi di essere appoggiata a una superficie morbida. Almeno quello, pensai. Mi voltai per capire di cosa si trattasse (non che mi aspettassi letti o soffici cuscini) e incrociai due occhi celesti che mi scrutavano a pochi centimetri di distanza. Ok, diciamo che non mi aspettavo qualcosa di vivo.
Dallo spavento, infatti, rizzai la testa, sbattendo contro il naso del poveretto.
-Ahia!- gridammo all’unisono. Feci per massaggiarmi la fronte con la mano, ma notai che i miei polsi erano legati a quelli della persona con cui, schiena contro schiena, condividevo quel postaccio. Che cosa carina.
Cercai di fare il punto della situazione: quegli occhi mi erano familiari, anche se non riuscivo a ricordare nitidamente senza sentire la testa esplodere.
-Porca miseria, che male…- si lamentò lui, tirando su con il naso.
Non appena sentii la sua voce, però, mi ritornò tutto in mente. Il litigio con mio padre, gli improperi mentalmente lanciati a quel musichiere da due soldi e la stanza a soqquadro.
Oh cazzo.
-Tu!- esclamai:-Io…noi…cosa ci facciamo qua?-
-Mi piacerebbe saper rispondere a questa domanda, ma non ne ho idea.- rispose sinceramente irritato:-E poi, ora sono più preoccupato per il mio naso…guarda, mi hai fatto sanguinare!-
-Mi dispiace…cioè no, non mi dispiace per niente!- mi corressi sovrappensiero.
-Wow, grazie.-
-Che diavolo hai combinato?-
Tatcher fece una smorfia:-Mi piaceva di più quando mi davi del lei.-
-Oh beh, quello era prima dell’accaduto.-
-Quale accaduto?-
-Siamo legati come salami, in una specie di garage nel bel mezzo del nulla e con un vuoto di memoria di non so quante ore…vedi tu.-
Tatcher sbuffò, guardandosi intorno e soffermandosi sulle pareti rovinate e sulla porta sprangata:-Mi sa tanto di rapimento…- concluse pensoso.
Gemetti abbassando la testa:-No…non può essere…-
-In effetti non trovo il motivo che giustifichi la tua presenza, se si trattasse veramente di rapimento.-
Lo guardai indignata:-Per tua informazione, potrei elencarti una marea di motivi, usignolo.-
-Usignolo?- per un momento mi parve di vederlo sorridere:-Non credo che tu sia tanto desiderata come me…tigre.-
-Tigre?-
-Beh, mi sembri abbastanza feroce per essere solo una cameriera.-
-Non sono solo una cameriera!- sbottai, alzando il tono. Si sentiva solo la mia voce in quel silenzio, sembrava assurdo:-Ma è per questo che sono qui.- aggiunsi:-Se non avessi sentito quei rumori nella tua camera, se non avessi fatto il mio dovere e ti avessi ignorato, se tu non fossi mai venuto al Ritz…-
-Quindi c’era qualcuno nella mia stanza?- mi interruppe, curioso.
-Non l’ho visto con i miei occhi, ma di sicuro non mi sono data una botta in testa da sola. A te cos’hanno fatto?-
-Non lo so…ricordo solo che stavo discutendo con Thomas e poi…- si fermò guardando il vuoto, sfrorzandosi per ricordare, ma la conversazione fu interrotta dalla porta che veniva malamente aperta per far entrare un uomo corpulento, la barba scura e un completo elegante di satin blu.
-Ti pareva.- commentò Tatcher vedendolo.
-Aspetta, fammi indovinare…Thomas?- sussurrai perché solo lui mi sentisse.
Annuì per poi rivolgersi all’uomo, più vecchio di noi di circa trent’anni:-Chissà perché non sono sorpreso, Bendson.-
-Scusa, Tatcher, è stato necessario legarti le mani perché le togliessi da quel contratto.- rispose quello ridacchiando:-Tu sai perché sei qui.-
-Per farmi cambiare idea su domani? Onestamente, mi sembra il modo migliore per convincermi.- disse, sarcastico:-Non vi hanno mai insegnato, a te e alla tua cricca di truffatori, che si prendono più mosche col miele che con l’aceto?-
-Non se vuoi fare le cose in grande, Tatcher.- ridacchiò, antipatico:-Visto che hai intenzione di abbandonarmi per firmare il contratto con la nuova casa discografica, ho pensato di presentarmi io a quel colloquio, in tua rappresentanza, annunciare a Smith che vuoi rimanere con noi e che firmeremo insieme il nuovo album, prendermi la giusta percentuale di denaro e poi scappare via dagli Stati Uniti e vivere la mia vita nel lusso in un altro Paese. Prima o poi ti troveranno, ma sarà troppo tardi e la soddisfazione per quel cd sponzorizzato dal più famoso discografico della Majestic se ne sarà andata per sempre. Sorpreso? Fare il manager non è mai stata la mia vocazione, puntavo a un’occasione come questa e la Sony mi ha presentato te, ma poi hai deciso di fare il furbo e io ho solo questa maniera per ottenere quello che voglio. Carpe diem, mio giovane artista in erba, un consiglio che vale tutta la vita!-
-Lo sapevo che eri un pezzo di merda.- fu la sua risposta.
Quel Thomas Bendson fece un cenno col capo al suo collega e questi balzò prontamente accanto a noi per immobilizzare Logan e assestargli un considerabile calcio all’altezza dell’anca sinistra.
Sentii i polsi del ragazzo fremere contro i miei e poi lo vidi raggomitolarsi su se stesso, per quanto possibile, per gemere dal dolore.
Per quanto potessi avere a cuore la sofferenza di questo superbo individuo, devo ammettere che non fu per niente carino da parte di quei due barbari picchiarlo così, dal momento in cui non poteva né ripararsi né difendersi, per cui decisi d’intervenire:-E’ davvero necessario?- domandai, rivolgendomi a loro.
Bendson mi guardò come se si fosse accorto solo in quel momento della mia presenza e subito dopo stirò la bocca in un sorrisetto:-Ma guarda chi abbiamo qui…la cameriera eroica del Ritz…avevo letto il tuo nome sul cartellino che portavi al petto, ma me lo sono dimenticato.- bofonchiò saccente.
-Rebecca Grace Carlton, molto lieta.- feci sbrigativa:-Ora, dato che è evidente che la mia presenza qui è parecchio inutile, potete lasciarmi andare?-
L’uomo e il suo scagnozzo risero sprezzanti. Avrei volentieri usato le loro arcate dentali come xilofono.
-Tu uscirai da qui solamente quando lo farà la popstar legata assieme a te.- m’informò il gentile barbaro capo:-A meno che il tuo ricco paparino non paghi il riscatto al posto della Sony, ma temo non saranno sufficienti i suoi fondi per un bottino del genere.-
-Ti perseguiranno penalmente finché non riusciranno a metterti dentro!- intervenne Tatcher ripresosi dal colpo e piuttosto agguerrito.
-Non se me ne andrò in uno Stato in cui non è concessa l'estradizione.- rispose lui fieramente:-Non preoccuparti per me, Tatch, ho tutto sotto controllo. Preoccupati invece di te stesso e la tua amica…finché non avrò la grana fra le mie mani, rimarrete in gradevole soggiorno in questo alternativo hotel di Downtown: pensione completa e servizio in camera…non ci sarà nemmeno bisogno di muoversi!- concluse con una rozza risata.
Umorismo sottile come un baobab, veramente.
Lasciò la stanza portandosi appresso lo scagnozzo e facendo calare un’atmosfera che non poteva essere più deprimente. Due sfigati legati assieme a causa delle manie di grandezza di un avido di denaro. Bello. Un ex-vincitore di X-Factor, famoso in tutto il mondo, con una considerazione del prossimo nulla. Magnifico. Come se non bastasse, sopra di noi c’era un piccolo lucernario dal quale potevo scorgere la Downtown immersa nella notte e io tra poche ore avrei dovuto affrontare il mio esame di laurea. Haha, esilarante.
Mi chiedevo sinceramente come.
Disperata? Oh, era solo un eufemismo per descrivere il mio stato d’animo.
-Ti detesto.- espressi in questo modo le mie emozioni, indecisa tra questa attutita espressione e un più esplicito “stupido idiota, vorrei mescolarti le ossa e vedere la tua testa appesa alla mia porta come messaggio di benvenuto ai visitatori”.
Tatcher sospirò:-Ottimo, la cosa non mi cambia la vita.-
-La tua vita non durerà molto, a causa mia.-
Ridacchiò in modo altamente irritante:-Ora sì che ho paura.-
-Senti, stronzo…-
-Sh!- mi zittì, impertinente:-La tua voce mi disturba.-
-La tua esistenza mi disturba.-
-Mi dai ancora del tu? Teoricamente siamo ancora cantante e cameriera.-
-Ma è la pratica che conta.- ribattei:-E in pratica tu sei un bastardo e io una ragazza il cui futuro è irrimediabilmente rovinato. Forse non ti detesto, Tatcher, ti odio direttamente.-
Stranamente rimase in silenzio, sentii solamente il suono del suo respiro finché non si decise:-In realtà, tigre, la colpa è solo tua.-
-Ah sì?- chiesi, oltraggiata.
-Se ti fossi attenuta al tuo ruolo senza strafare, forse non saresti qui.- spiegò.
-Per tua informazione, usignolo, tentavo di assicurarmi che fossi vivo!- ribattei, la rabbia che cresceva dentro di me:-Cosa che non ero nemmeno legittimata a fare, dopo il tuo trattamento nei miei confronti. Anzi, ora che mi ci fai pensare, è stato un grandissimo errore. Perché non lasciarti in balia dei tuoi problemi ed essere egoista come te?-
-Non darmi dell’egoista, Carlton!- si animò.
-Ah no? Scusa, ma mi è vagamente parso che lo fossi!-
-Tu non mi conosci!-
-Eppure sei riuscito a rovinarmi la vita comunque!-
Mi strattonò i polsi, arrabbiato:-Già, immagino che la tua vita sia davvero emozionante…molto più della mia!- la quantità di sarcasmo che usò mi fece ribollire.
-Vuoi sapere come la penso a riguardo, Tatcher? La tua è una vita di merda: finta, costruita sul talento altrui e regolata dall’intensità degli urli delle tue fan. La mia, al contrario, ha uno scopo ben preciso, un sogno da seguire, che tu stai distruggendo!-
-Non ho mai conosciuto qualcuno che dicesse tante stronzate in così poche parole: innanzitutto, non sto distruggendo nessun sogno, anzi, ti ricordo che non sono qui perché l’ho chiesto e avrei una o due cosucce importanti da sbrigare pure io. E poi, tu non sei nessuno per giudicare la mia vita, d’accordo?-
-Beh, e tu chi sei per giudicare la mia?-
-Io sono Logan Tatcher.- rispose saccente.
-Ti senti arrivato per essere te stesso? Beh, onnipotente Tatcher, complimenti. Essere te stesso è bello come essere rapiti e presi a calci dai tuoi colleghi di lavoro.-
Improvvisamente il ragazzo si zittì. Non so se fui io a zittirlo o meno, fatto sta che per tre minuti buoni non si sentì altro all’infuori del rumore degli aerei sopra la California. Persino il neon si spense disperdendo uno sgradevole odore di bruciato. C’era freddo, c’era buio e c’era silenzio. C’era un’atmosfera inquietante e allo stesso tempo c’era dentro di me un senso di panico sempre più pressante. Che ora era? Fra quanto sarebbe stato mattino? Quanto saremmo rimasti lì dentro al freddo? Su chi avrei dovuto sperare? Sarei mai riuscita a fare il mio esame? Sarei rimasta per sempre una cameriera?
-Voglio andare a casa.- dissi a bassa voce, senza nemmeno sapere perché lo facessi dato che non potevo sicuramente contare sull'appoggio di Tatcher.
-Anch’io.- ribatté lui, inespressivo.
No, lui non poteva nemmeno immaginare quanto io desiderassi liberarmi da quella situazione. Non poteva capire che io avevo un sogno in bilico, un futuro da decidere. Lui era superiore, lui se ne sbatteva altamente perché lui era famoso, era ricco e faceva quello che aveva sempre sperato. Fama uno, sfiga zero.
-Senti, Tatcher.- sbottai a un certo punto:-Tutto quello che voglio è andarmene da qui e specialmente da te e credo che la stessa cosa valga per te, per cui vediamo di liberarci da soli.-
-Idea grandiosa, davvero.- commentò:-Solo un’osservazione: non possiamo.-
Mi guardai attorno soppesando l’affermazione. Davvero non c’era nulla che potessimo fare?
Il mio sguardo percorse il perimetro della stanza, aguzzandosi di tanto in tanto per definire le ombre. Ok, ogni centimetro cubo di quel posto sembrava prettamente inutile, ma quando mi soffermai sulla specchiera ebbi un’intuizione geniale.
Vabbè, lasciatemi sognare.
Non ero la tipica persona avventurosa, ma si sa: la necessità aguzza l’ingegno. Indicai al superbo individuo il mobile e spiegai il mio piano:-Volere è potere, Tatcher. Lo vedi quello specchio? Se riusciamo a raggiungerlo e prendere uno dei cocci, possiamo usarlo come lama per tagliare le corde.-
Non vi dirò che ignorai la sua sardonica risatina, gli diedi invece un pizzicotto sulla schiena e lo sentii imprecare. Che goduria.
-Tu non sei una donna, sei un camionista violento.- mi apostrofò:-Come diavolo pensi che ci arriveremo fino là?-
-Con le gambe.-
-Quelle che servono per camminare, che al momento è un’azione impraticabile?-
-Esatto.-
-Continuo a perdermi un passaggio fondamentale, temo.-
Sbuffai. Credevo che questo figlio della perfezione avesse un’abilità pratica sviluppata, invece pareva che di sviluppato avesse solo del gran sarcasmo.
-Tutto quello che devi fare è puntare bene i piedi a terra e spingere contro la mia schiena.- spiegai.
-Tu guardi troppi polizieschi.- mi smontò.
-Io guardo “Le Follie dell’Imperatore”.- lo corressi:-Coraggio, spingi.-
-Di solito è una frase che sento in altri contesti…- mormorò mentre eseguiva i miei ordini. Stavolta ignorai veramente e mi concentrai sul lavoro di gambe. Devo ammettere che vederlo per TV era completamente diverso: i personaggi non sudavano come cammelli e non avevano una differenza di venti centimetri in altezza.
Bilanciare i nostri corpi non era affatto facile, in più la polvere per terra mi faceva costantemente scivolare. Sentivo le gambe andare a fuoco; avrei ceduto da un momento all’altro ed eravamo solo a metà.
-Tieni duro.- mi incoraggiò Tatcher, sorprendendomi:-Ci siamo quasi.-
Non so per quale grazia ricevuta, riuscii veramente a non cedere e poco dopo mi ritrovai in piedi, senza fiato e con l’ormai familiare voce melodica ridondante nelle mie orecchie. "Tieni duro", era la prima cosa sensata e utile che usciva delle sue rosee labbra.
Anche Tatcher ansimava leggermente, ma a differenza mia riusciva perlomeno a parlare:-Ok, bella pensata.- ammise:-Comunque, per la cronaca, la parte del lama la facevi tu.-
Riuscì a farmi scappare un sorriso che non vide, ma tornai subito seria, iniziando a dirigermi verso la specchiera. Ci arrivammo molto lentamente pestandoci i piedi a vicenda e afferrare uno dei cocci caduti sul ripiano fu davvero un’impresa, ma alla fine mi ritrovai con la mia lama in mano. Rebecca uno, rapitori zero.
Iniziai con immensa cautela a strisciare la parte appuntita contro la corda, sperando che fosse un valido coltello.
-Non provare a tagliarmi.- mi avvisò Tatcher, allungando gli occhi verso il mio parsimonioso lavoro di recisione.
-Fidati.-
Presi un profondo respiro e iniziai a muovere il polso più velocemente.
Era difficile senza nemmeno una luce, infatti fu inevitabile che la lama finisse contro la sua pelle.
Lo sentii trattenere il fiato e irrigidire il polso, mentre qualcosa di caldo scivolò tra le mie dita.
-Scusa!- esclamai fermandomi all’istante e mordendomi il labbro.
-Va’ avanti.- mi ordinò, gelido.
-Ho paura di farti...-
-Vai avanti.-
Continuai l’operazione, ignorando l’orribile sensazione del suo sangue che colava sulla mia mano fredda. Non avrei voluto fargli male, ma fortunatamente non aveva detto nulla. Mentalmente mi appuntai di complimentarmi per il coraggio una volta usciti integri da quel posto.
Dopo quelli che parvero anni riuscii finalmente a spezzare l’ultimo stopposo filo che univa i nostri polsi e le corde caddero a terra, facendoci staccare.

Udii il suo sospiro di sollievo in concomitanza con il mio e mi massaggiai la zona ora libera, poi mi avvicinai a lui, afferrando il suo braccio:-Fammi vedere.-
Tatcher si ritrasse rapidamente, fissandomi con quelle pupille gelide che ora vedevo dritte a me:-Non c’è tempo da perdere.-
Lo seguii sospirando. Era davvero intrattabile.
Ci avvicinammo alla porta e lui cominciò a colpirla con la spalla. Fuori dovevano aver calato qualche trave che impediva la sua apertura, ma sembrava abbastanza determinato a sfondarla. Provai ad aiutarlo con tutte le mie forze, ma sembrava non accadere nulla. Che diavolo avevano utilizzato quei due imbeccilli?
-Merda!- esclamò, con il fiatone. Sbatté più volte i palmi delle mani contro il legno, tentò anche con svariati calci, ma tutto ciò che ottenne fu il rimbombo dei suoi colpi. Forse erano più furbi di quanto credessi.
Ma doveva esserci un modo per buttarla giù. Doveva.
Mentre Tatcher continuava a percuotere quella maledetta porta, il mio sguardo girò ancora per la stanza, prima di ritornare a soffermarsi sulla specchiera.
-Fermo!- gridai per farmi sentire in tutto quel rumore. Smise guardandomi con il respiro spezzato. In quel momento mi sembrò di vedere una richiesta d’aiuto nei suoi occhi che mi fece desiderare di essere più utile. Doveva esserci un modo per uscire da lì; dovevo trovarlo o non avrei mai potuto realizzare il mio sogno.
-Usiamola come ariete.- dissi indicandogli il mobile. 
Mi osservò per qualche secondo, titubante, e pensai di aver fatto la pensata più idiota del secolo. In più, per Tatcher, qualsiasi mia idea doveva sembrare stupida. Poi, invece, si decise. Raggiunse a grandi passi la specchiera e mi guardò:-Ce la fai ad alzarla?-
Annuii sorpresa per la fiducia, afferrandola dalla parte opposta e dividendo il suo peso con lui. Il numero di schegge che entrò nella mia mano mi fece gemere di dolore.
-Che c’è?- chiese preoccupato.
Scossi la testa mandando giù il nodo del dolore:-Niente.-
Esitò un istante, ma io non volevo essere debole, sapevo tenere duro come aveva fatto lui, allora feci un cenno per invitarlo a continuare.
-Pronta? Tre…due…uno…- partimmo di corsa e facemmo scontrare il mobile contro la porta.
Quello che ottenemmo fu una forza opposta che ci fece quasi perdere l’equilibrio, mentre la porta rimaneva esattamente come poco prima. Ok, era solo un primo tentativo, non doveva andare bene per forza.
-Riproviamo.- disse, determinato:-Tre…due…uno…-
Stavolta cercai di metterci ancora più potenza e presi la rincorsa da più lontano. Ci fu un grande botto e poi mi ritrovai a terra, la specchiera poco distante da me. Eravamo caduti e, sorpresa delle sorprese, la porta era ancora più chiusa di prima.
Sospirai esausta e scambiai uno sguardo con Tatcher, seduto dall’altra parte del mobile.
Scosse la testa, inspirando mestamente:-Le abbiamo provate tutte.-
Mi guardai intorno, smarrita. Ero finita.
"Le abbiamo provate tutte" significava che davvero non potevo uscire da lì.
Basta, potevo dire addio al mio sogno, potevo ritenermi una cameriera a vita, potevo abbandonare l’idea di futuro che mi ero costruita.
Non sarei riuscita a uscire da lì in tempo per fare il mio esame, non sapevo nemmeno se sarei mai uscita da lì.
Il panico mi avvolse completamente nelle sua morsa e tutto quello che riuscii a fare fu rannicchiarmi sulle ginocchia e piangere.


Salve a tutti!

Siete arrivati fin qui, oh impavidi lettori! :D
Lo so, sono poco normale. Ma tanto la normalità non esiste (mi rifaccio a un ragionamento filosofico che ho elaborato un giorno mentre facevano "Il Mondo di Patty" o qualcosa di simile alla TV).
Questa storia come ben avrete capito è stata scritta per il contest
"Un giorno lo incontrerai" di MedusaNoir sul Forum di EFP. L'obiettivo era quello far incontrare una ragazza con un ragazzo dagli occhi azzurri, cantante, bastardo e che cambia carattere a seconda di chi ha davanti. In più mi si chiedeva di far passare ai due una notte insieme per un motivo inaspettato.
Tutto ciò per piazzarmi a un orgoglioso secondo posto :) Il che mi sembra un miracolo dato che ho sudato su questa storia senza ottenere risultati per me soddisfacenti :|
Vorrei avere una citazione latina a riguardo, ma sono troppo ignorante u.u
Comunque, si diceva, non l'ho mollata qui (sennò il secondo posto lo vedevo col binocolo), ma c'è un altro capitolo che pubblicherò fra una settimana (o prima, se mi balza il grillo).
Volevo precisare un paio di cose, ovvero che Logan Tatcher è un personaggio completamente inventato e frutto della mia fantasia, ossia nessun Logan Tatcher ha mai vinto X Factor Usa, nel caso ve lo steste chiedendo XD
Ho pubblicato la storia lasciando tutti gli errori che mi sono stati segnalati e non perché me ne frego o sono la classica mosca che sbatte contro il vetro, ma proprio perché vi voglio lasciare la storia genuina, così com'è, così come l'ho scritta :) (ok, non avevo voglia di correggere, ma sono dettagli).
Io sono Yellow Daffodil (ma no?) e se vi piace lo stile, se volete catapultarvi in Italia, precisamente a Venezia e avete una passione per la vita tra i banchi di scuola, allora vi raccomando di dare una sbirciatina a 
Io e te è grammaticalmente scorretto
, che è la long che in 20 (programmati 23-24) capitoli è riuscita a condensare tanti avvenimenti, coppie, figuracce e quant'altro quanti quelli di Beautiful!
Lui, lei, loro.
Pronomi personali.
Lui: terza persona singolare, idiota al cento per cento, voglia di studiare zero e un disperato bisogno d'aiuto.
Lei: per meglio dire "io", prima persona singolare, perfezionista, incapace di dire no e innamorata dell'idiota sopracitato.
Loro: terza persona plurale, i restanti diciassette detenuti in una classe che fa piangere generazioni di professori.
 
Come ve la cavate in grammatica? E in matematica? Inglese? Storia?
E' difficile salvare la media di otto materie in due mesi di tempo, ma forse se si lavora insieme, come dice il proverbio, nulla è impossibile.
C'è solo una materia che non vi saprò spiegare, si chiama Amore e credo che quest'anno verrò rimandata.




Nel prossimo capitolo de "I sogni sono per gli egoisti" di Yellow Daffodil:


-Scusa.-
-Scusa?-
-Sì, io...sto parlando di me. Questa è la mia storia, non la tua. Sono io quello egoista, tu vuoi solo che il tuo sogno si avveri, io volevo anche la fama. E' questa la differenza tra me e te. Tu non sei così egoista.-

-Quanto pensi che ci vorrà prima che si accorgano che siamo scappati?- 
-Quanto pensi che ci vorrà prima che la pianti di mettermi pressione?-
-Oh, giusto, Tatcher, tu stai scappando a due rapitori, me ne ero dimenticata.-

-Aiutami!-

-Logan?- 
-Sì?-
-Niente...in bocca al lupo.- 
-Certo. Crepi.-


Alla prossima,
Yellow Daffodil



   
 
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