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Autore: Dils    18/09/2012    4 recensioni
Una ragazza comune. Un anonimo letto d'ospedale. Una settimana di tempo.
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Quando era entrato si era illuminata. Il suo volto si era acceso, un sorriso sincero le era spuntato sul viso e, ai suoi occhi, si fece immediatamente più carina – meno indifesa, meno spaventata, felice, almeno per qualche secondo.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Joe Jonas, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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One week for falling in love, one week for losing it

I’m scared of losing you, you are worth to much to lose.

 

La prima volta che l’aveva vista non le era sembrata che una tra le tante.

Era solo un’altra fan che credeva di amarlo e conoscerlo e, per quando ogni volta che si trovava davanti a un tale genuino sentimento nei suoi confronti ne rimaneva commosso, non era una gran novità.

L’aveva trovata in un letto d’ospedale, il braccio destro steso passivamente su un fianco sopra le coperte da cui erano attaccati dei fili che finivano in qualche strano macchinario, i capelli legati in una coda spettinata, leggermente sudati, che le scendevano sul viso senza un vero perché.

Aveva il viso bianco, stanco, le imperfezioni ben evidenti e i grandi occhi neri assonnati, spenti in una luce di confusione mista a paura.

Quando era entrato si era illuminata. Il suo volto si era acceso, un sorriso sincero le era spuntato sul viso e, ai suoi occhi, si fece immediatamente più carina – meno indifesa, meno spaventata, felice, almeno per qualche secondo. Aveva aperto la bocca per dire qualcosa senza troppo successo e aveva cercato di allungare la mano, poi aveva fatto una smorfia di dolore, lanciandogli un’occhiata di comprensione, come si stesse scusando di qualcosa.

«Ciao», aveva detto infine, nella sua lingua, con una voce rauca, come se non parlasse da tempo.

Gli aveva fatto cenno di sedersi e lui lo aveva fatto – aveva preso una delle due sedie che erano infondo al suo letto e l’aveva avvicinata a lei, osservando nel frattempo i numerosi fiori sul suo comodino che portavano un po’ di umanità in quell’anonima stanza di quell’anonimo ospedale.

Avevano iniziato a parlare.

Le aveva raccontato di come la sua migliore amica gli aveva mandato una lettera chiedendogli di fare qualcosa – qualsiasi cosa – per lei e di come lui era capitato in Italia per impegni di lavoro e aveva deciso di andarla a trovare. Si era quasi emozionato quando gli occhi di lei si erano bagnati di lacrime sincere al nome della sua migliore amica e di come si era illuminata ancora di più quando le aveva detto di aver deciso di andarla a trovare, quasi si rendesse solo conto solo ora che sì, lui era davvero Joe Jonas e lei stava davvero parlando con lui.

Lei le raccontò di come la sua musica l’aveva aiutata, nella vita, dei concerti a cui era andata («Do you remember? The sixth of November 2009? I fall in love with your smile…») e di come loro, lui e i suoi fratelli le avevano reso la vita migliore.

Lui era rimasto ad ascoltare annuendo, un sorriso di circostanza in volto perché, davvero, aveva sentito altre mille volte quelle parole, aveva visto mille altre volte quello sguardo e quell’emozione e lei non era altro che un’altra fan.

Un’altra fan in un letto d’ospedale che lottava per la vita per cui avrebbe dato qualunque cosa perché, davvero, Joe Jonas amava talmente tanto i suoi fan, gli sentiva talmente suoi, che avrebbe fatto di tutto per loro. Ma era questo, lei, una fan.

Eppure, quando giunse l’ora di salutarsi e lui si era avvicinato per un abbraccio o magari un bacio sulla guancia e lei con voce tremante gli aveva chiesto se sarebbe tornato, il giorno dopo, lui non aveva saputo dire di no.

 

Quando era arrivato il secondo giorno, quella che si era ritrovato davanti non era la stessa ragazza.

Si era lavata i capelli, la frangetta era stata pettinata e i lunghi capelli lisci erano sciolti, posati sul cuscino fin troppo elegantemente per essere un gesto casuale.

Si era truccata. Non troppo, ma lo aveva fatto, valorizzando quei suoi lineamenti dolci di una vaga sensualità.

«Ciao», gli aveva detto ancora una volta nella sua lingua con quel sorriso sincero e gli occhi spaventati ora accesi di una luce diversa. Felicità, almeno per un po’. «Sorry for the makeup and everything… It’s justI've waited for this forever. I had to.», aveva aggiunto poi, forse perché lui stava indugiando un po’ troppo sul suo volto. Lui si sedette, annuendo.

Gli chiese cosa aveva fatto il giorno prima e – benché avesse il sospetto che lei lo sapesse già – iniziò a vaneggiare a proposito di incontri con i fan, un’intervista alla radio e una conferenza stampa per il nuovo cd. Lei aveva annuito, alla fine, come se gli importasse davvero quel che diceva.

Gli piaceva parlare con lei proprio per quello. Si sentiva come se pendesse dalle sua labbra, come se da quelle parole cercasse di leggergli dentro, riuscendoci senza troppe difficoltà.

Quando arrivò il momento di salutarsi e lui si era avvicinato per darle un bacio sulla fronte, le aveva semplicemente sussurrato «See you tomorrow».

Lei gli aveva sorriso e aveva annuito, come se se lo aspettasse.

 

Il terzo giorno passò più o meno allo stesso modo. Era arrivato, gli occhi di lei si erano illuminati, lui le aveva sorriso, si era seduto e poi avevano iniziato a parlare.

Ad un certo punto lei gli aveva afferrato con dolcezza una mano, incrociando le proprie dita con le sue, lui aveva iniziato a massaggiarle con il pollice il dorso della mano ed erano rimasti così, finché lui non era alzato. Le aveva lasciato la mano lentamente, dopo averla strinta più forte per qualche secondo, poi se ne era andato, con la promessa che si sarebbero rivisti il giorno dopo.

 

Il quarto giorno non fu molto diverso dai precedenti, fatta eccezione per il fatto che parlò solo lei e che questa volta fu lui ad afferrarle la mano per primo e ad non lasciarla fino a quando non se ne dovette andare.

La guardava, mentre parlava della sua vita, dei suoi amici, della sua famiglia, della sua normale vita in una normale città, dei suoi del tutto normali aneddoti e vedeva in lei qualcosa che aveva colto poche volta prima d’allora – solo quando si era emozionata per il gesto della sua migliore amica o aveva accennato alla sua famiglia.

Era buona. Buona davvero, di quella bontà naturale, non simulabile. Non c’era, in lei, niente di speciale se non quello. Non era il tipo di ragazza con uno spiccato talento in qualcosa in particolare, non era il tipo di ragazza che ti faceva girare mentre passava per strada e non era di certo il tipo di ragazza che avrebbe notato in altre circostanze. Era normale. Era perfetta nella sua normalità, ed era questa la sua forza.

Era il tipo di persona che scoprivi piano, di cui ti accorgevi lentamente, che ti travolgeva giornalmente, senza nemmeno fartelo sapere.

Il tipo di persona che un giorno guardi e ti accorgi di non poterne fare più a meno.

Quel quarto giorno fu quel giorno per lui.

 

 

Il quinto giorno si era svegliato con la consapevolezza che le cose erano cambiate.

Joe non seppe dire con certezza cosa, al tempo, ma la prima cosa che aveva visto, appena aveva aperto gli occhi, era stato il suo sguardo. Quello sguardo di sincerità e di gratuito affetto che lei gli regalava ogni volta che erano nella stessa stanza.

Si era svegliato con la voglia di parlare con lei, per sentire ancora una volta, ancora per un po’, quelle parole incerte, quel suo accento straniero. Adorava ascoltare quei suoi discorsi sorprendentemente profondi e nello stesso momento infantili, adorava come mentre parlava si fermava per pensare al termine giusto da usare o come coniugare un verbo e adorava come finiva poi col correggere lui, nella coniugazione dei verbi, che d’ inglese teoricamente avrebbe dovuto sapere di più ma che nel concreto… be’, non era così.

Lo spaventava un po’, questa cosa. Era risaputo che lui si innamorava troppo velocemente e finiva per ferire le persone perché scopriva troppo tardi – quando si era spinto troppo avanti con le dichiarazioni d’amore e i gesti plateali – che, forse, non era innamorato veramente. Sapeva che, questa volta, non avrebbe potuto farlo; questa volta non si trattava di una star di Hollywood, non si trattava di scandali, di giornali o di fan impazzite.

Si trattava di una ragazza di diciassette anni («almost eighteen!», le parve sentirla, nella sua testa, precisarlo), di una ragazza che aveva problemi ben più gravi di quelli, di una ragazza che aveva ben altro a cui pensare.

Semplicemente non era giusto. Non era giusto intromettersi in quel modo. Sapeva che probabilmente l’avrebbe resa la ragazza più felice sulla terra – lo vedeva nei suoi occhi, l’amore genuino e senza pretese che gli donava – ma semplicemente… non era giusto. C’era una qualche spiritualità, in quella ragazza, un qualcosa di superiore che lo faceva sentire come se non la meritasse. Come se lei fosse troppo.

Non sarebbe stato giusto rendere vano quell’amore genuino e senza pretese che lei le donava, semplicemente dicendole che “si era innamorato di lei”.

Perché sapeva che, nonostante in quel momento si sentisse come se fosse così, come se fosse davvero innamorato di lei, nel profondo non era così. E lei si meritava la verità, la verità e molto di più.

Non era abbastanza, il suo amore, per una ragazza così. Joe lo sapeva e sapeva che l’unico vero dono che le avrebbe potuto dare era se stesso, per i giorni che li rimanevano, lui stesso per davvero, lui stesso senza barriere, lui stesso e basta.

Quando era arrivato, quel giorno, in ospedale, passando per quei corridoi che ormai conosceva bene e salutando distrattamente le infermiere, si era ripromesso di fare in modo di rendere gli ultimi giorni che rimanevano prima che dovesse andarsene i migliori della sua vita.

Quando era arrivato nella stanza – la 113 – però, l’aveva trovata fastidiosamente vuota, fatta eccezione per un bambino di circa otto anni che se ne stava seduto sul letto, le gambe penzoloni e la testa abbassata ad osservare il vuoto.

Il bambino aveva alzato la testa di scatto, nel momento in cui mise un piede dentro la stanza, e lui si era ritrovato davanti quegli stessi grandi occhi neri che conosceva fin troppo bene. Doveva essere suo fratello minore. Il bambino lo aveva guardato attentamente per qualche secondo, poi aveva inclinato la testa e aveva detto «Tu sei Joe Jonas. E’ secoli che mi dice che state insieme… Credevo fosse una bugia. Invece sei qua».

Non aveva capito un bel niente, ovviamente – tranne il suo nome, in un buffo e infantile accento italiano.

«Uhm… What? Sorry, kid, I can’t understand a thing».

Poi aveva capito. C’era solo una spiegazione all’assenza di lei e alla presenza di un bambino incustodito e stranamente calmo. Doveva essere successo qualcosa a lei.

Sapeva che era malata – era il motivo per cui lui era lì, dopo tutto – ma non aveva mai pensato a lei come tale. Era sempre stata talmente piena di vita, talmente sorridente, talmente spensierata, in quei momenti che avevano passato insieme, che semplicemente gli era passato di mente. Era diventato un qualcosa di astratto, un problema lontano, come l’inquinamento - sai che esiste, che è reale, ma non pensi possa causare qualche tangibile problema finché la natura non si ribella improvvisamente e ti chiedi se, forse, avresti potuto fare qualcosa in più.

«Where i-is… Where is she?», l’aveva chiesto con voce tremante, quasi si aspettasse che quel bambino riuscisse a capire e a rispondere. Sorprendentemente però, lo aveva fatto, aveva capito. Forse era abituato a collegare quel tono e quello sguardo a sua sorella… Fatto sta che gli indicò una porta alla fine del corridoio dove un cartello che diceva “Sala operatoria” non prometteva niente di buono.

Proprio in quel momento una donna, stretta in un maglione troppo grande per lei, negli occhi un dolore troppo grande e nei movimenti un passo incerto, si avvicinò. Capì subito che era sua madre, avevano la stessa magnifica qualità di essere straordinariamente normali.

Quando si accorse chi era spalancò leggermente gli occhi, sorpresa, e gli disse con uno stentato inglese che, davvero, gli erano grati per tutto quello che aveva fatto ma che ora poteva andarsene, quel giorno non si sarebbero potuti incontrare. Non gli disse altro ma lesse in quegli occhi molte più parole di quante entrambi potevano esprimere. Forse non sarebbe riuscito a vederla mai più.

«No, I’ll stay».

Non aveva detto altro. Aveva annullato tutti i suoi appuntamenti per quel giorno e per i giorni successivi, si era seduto da una parte, lontano dalla famiglia, per non disturbare, per non invadere il loro spazio.

Furono molte ore, cinque caffè schifosamente amari, una miriade di parenti e amici arrivati a chiedere sue notizie dopo che Joe riuscì a rivederla.

Non sapeva nemmeno perché era ancora lì, non sapeva cosa stava aspettando o cosa si aspettava da lei, semplicemente sapeva che in quel momento non sarebbe voluto essere in altro posto se non lì, il più vicino possibile a lei.

Ed eccola lì, più piccola che mai, persa in quel letto, i capelli spettinati, lo sguardo spaventato e nonostante questo leggermente acceso di quella luce, quella luce che aveva ogni volta che lui era nella stessa stanza con lei.

«Ciao», le aveva detto, e a lui parve di essere tornato al primo giorno. Quel primo giorno che sembrava lontano, distante, ma da cui non erano passati che cinque – strani, stranissimi – giorni.

«Ciao», aveva risposto lui, un accenno di sorriso sul volto, la mano che cercava quella di lei «How are you?»

Lei aveva fatto una smorfia, come per dire Sul serio Joseph? Come pensi che io stia?, ma poi aveva semplicemente annuito. Quel giorno non parlarono. Non ne avevano la forza, la voglia e nemmeno la necessità. Lei era viva, era reale, la sua mano era stretta nella sua, il respiro pesante mentre stava per addormentarsi e, davvero, andava bene così.

L’unica cosa che gli disse fu «Dormi con me?», lo aveva chiesto nella sua lingua, ma il tono implorante e lo sguardo bisognoso gli avevano fatto fare a meno di una traduzione. Si era tolto le scarpe, si era avvicinato a lei e un minuto dopo se ne stava sdraiato sul letto, un braccio intorno alla vita di lei, l’altro perso ad accarezzarle passivamente la testa.

Andava tutto bene, si ripeteva, lei era viva, reale, tra le sue braccia. Sarebbe andato tutto bene.

 

Si svegliò nel bel mezzo della notte.

Non che si fosse mai addormentato davvero: una parte di sé era rimasta sempre cosciente, vigile, per assicurarsi che lei non sparisse, che rimanesse tra le sua braccia. Aveva questa strana paura che da un momento all’altro lei si sarebbe volatilizzata via, insieme al vento. Il che era piuttosto surreale, visto che erano in una stanza al chiuso, e lei non era creatura magica o qualcosa del genere.

Poi, ad un certo punto, lei si era mossa leggermente e lui aveva aperto subito gli occhi, allarmato.

Ciò che si ritrovò davanti, però, non fu una qualche scena drammatica ma, semplicemente, il suo viso.

Vicino. Come mai lo era stato prima.

Lei sorrideva – con quel suo sorriso sincero e genuino che regalava solo a lui – e teneva gli occhi chiusi, in un’espressione serena.

«Sto sognando?»

Lo aveva detto quasi sotto voce, piano, lentamente, con una strana voce trasognata.

Joe non aveva capito, così se ne stette zitto, a guardarla, quasi temesse, chiedendole di tradurre, di rovinare quel momento così… così.

Lei aprì gli occhi, poi, chiendogli con lo sguardo perché non gli rispondesse poi, lanciandogli uno sguardo divertito, disse «Am I dreaming?».

«Yes», rispose subito lui, ancora sussurrando senza un vero perché, «Maybe we’re both dreaming»

Lei ridacchiò, all’assurda verità di quella stupida risposta, poi annuì, rannicchiandosi contro di lui, per quanto i macchinari a cui era attaccata lo permettessero, e rimasero così per un po’.

Joe si sorprese di quanto tutto quello fosse naturale, quasi normale.

Solo sei giorni prima non la conosceva ed ora, eccolo lì, in una stanza d’ospedale, senza riuscire a staccarsi da una semi-sconosciuta per la paura di perderla.

Si sentiva come se la conoscesse da sempre, come se quei gesti li avessero fatti da sempre e come se volesse farli, per sempre.

«Can I ask you something

Il tono di voce era più timoroso, ora, incerto e a Joe parve di rivedere la stesse scena di quel primo giorno, quando gli aveva chiesto di tornarla a trovare l’indomani.

Il flusso dei pensieri di Joe si era fermò quando lei aveva alzato lo sguardo verso di lui, aspettando con occhi imploranti il permesso di continuare.

Lui, semplicemente, gli fece segno di andare avanti, ancora timoroso di spezzare un qualcosa di cui ancora non aveva capito la consistenza. «You… You’d make love with me?» Aveva uno sguardo sicuro, solenne e nello stesso momento terribilmente bisognoso che fece, letteralmente, spezzare il cuore a Joe.

Lo sentiva che in quelle parole, in quello sguardo, c’era molto più che la richiesta di una fan al proprio cantante preferito, c’era la richiesta di una ragazza che chiedeva di realizzare il suo desiderio più profondo – il suo ultimo desiderio. E mentre si chinava a baciarla, dolcemente, lentamente, come se avessero tutto il tempo del mondo, Joe pregò con tutta la forza che aveva in corpo che avrebbe potuto fare quello ancora e ancora – per tutto il tempo che avrebbe voluto, anche se quel tempo sarebbe stato per sempre.

 

Joe aveva sempre vissuto il sesso come un’esperienza liberatoria, veloce, sfogante, estrema. Quello, quello non fu niente di ciò che aveva mai sperimentato. Fu semplice, dolce, un tantino infantile ma… intimo, confortante, caldo. Fu come se fosse semplicemente un altro passo per conoscerla un po’ di più, un altro passo per apprezzarla ancora un po’ di più, un altro passo per innamorarsi ancora un po’ di lei.

Lei era insicura e nello stesso momento aveva negli occhi quella luce maliziosa, lucente e fintamente innocente che gli regalava ogni volta – che regalava sempre e solo a lui.

I gesti si susseguirono con una naturalezza disarmante, ed era come se già sapesse dove dovesse toccarla, cosa dovesse fare e lei… dio, lei era la cosa più meravigliosamente imperfetta che avesse mai visto. Lei gemeva, sussurrava, implorava e lo amava in un modo che Joe – neanche tra mille anni – avrebbe mai potuto dimenticare.

Fu lento e troppo veloce, fu perfetto e imperfetto, fu gesti e parole, fu piacere e fu dolore, fu sorrisi accennati e sguardi d’intesta. Fu lei, lei tutta, lei per davvero.

E mentre si stavano addormentando, stretti l’uno all’altra, vestiti solo del loro sudore e del loro calore, a Joe venne un po’ da ridere – a pensare che aveva appena avuto il miglior sesso della sua vita in una stanza d’ospedale con una ragazzina che conosceva a malapena da sei giorni e che probabilmente avrebbe finito per spezzargli il cuore e l’anima – ma alla fine andava bene così, finché lei era lì calda e reale contro il suo petto nudo.

 

 

Aveva sempre immaginato che il giorno dopo – il giorno dopo aver fatto l’amore per la prima volta davvero – sarebbe stato svegliato dai raggi del sole proveniente da una finestra rimasta aperta la sera e prima e che lei, la sua compagna, si fosse svegliata insieme a lui, regalandogli uno sguardo pieno d’amore e un bacio assonnato; aveva immaginato di aprire gli occhi lentamente, crogiolandosi nel calore del corpo di lei, in quel momento giusto prima di svegliarsi così meravigliosamente perfetto; aveva immaginato una letto troppo grande, in cui avrebbero dormito aggrovigliati e una casa confortevole e familiare. Quando si svegliò, però, quel sesto giorno, Joe Jonas dovette affrontare la realtà.

Fu il suono troppo acuto di una qualche macchina a cui lei era legata a svegliarlo di soprassalto, tanto che quasi cadde da quel letto troppo piccolo per due, e lei, sdraiata accanto a lui, le mani appoggiate sul suo petto, come se si fosse addormentata aggrappandosi al suo corpo, se ne stava lì, immobile, ferma, quasi surreale. La stanza era buia e fredda e lei, oh, lei sembrava gelida come il ghiaccio.

Non passò molto tempo prima che venisse preso dal panico. Scese dal letto, si vestì velocemente, e chiamò un’infermiera. Successe tutto così velocemente che, quasi, gli sembrò di non averlo vissuto davvero: era come vedere delle immagini susseguirsi velocemente dentro uno schermo, senza poter fare niente per cambiarle. Delle infermiere li avevano raggiunti frettolosamente, cacciandolo dalla camera: c’erano state grida, lacrime, sguardi preoccupati; c’erano state ore di speranza e paura, con quel fastidioso mal di pancia che ti sembrava dire, beffardo, “tanto lo sai come andrà a finire”.

Quando la notizia arrivò, nessuno si sorprese troppo.

 

Fu il settimo giorno, il giorno in cui la vide l’ultima volta, stesa immobile dentro una bara dentro cui sembrava così sbagliata. Indossava un vestito colorato, i capelli erano perfettamente acconciati, le guance tinte di rosa e la pelle di un’innaturale bianco.

Sul volto aveva ancora l’ombra di un sorriso spento troppo presto.

 

 

Si era domandato più volte come una sola settimana si potesse cambiare così tanto; come era possibile che una persona ti toccasse così affondo semplicemente essendo se stessa; su come la vita ti possa far conoscere la persona giusta e poi strappartela via tra un battito di ciglia.

Era stato faticoso, stancante, difficile e forse un po’ ingiusto ma, alla fine, Joe Jonas era andato avanti.

Erano passati anni dal giorno in cui le aveva detto addio e sette giorno in più dal giorno in cui l’aveva conosciuta, eppure, ancora adesso, ogni volta che sentiva un accento italiano ripensava al suo modo di pronunciare le parole e alla sua risata buffa; ogni volta che tra i passanti scorgeva due grandi occhi neri, ancora ricordava il modo in cui i suoi occhi si illuminavano ogni volta che incontravano i suoi; ogni volta che incontrava qualche giovane fan ricordava il modo in cui lei parlava della loro musica, come se le avessero salvato davvero la vita.

 

E ogni volta che veniva svegliato dalla luce accecante proveniente da fuori, mentre sua moglie lo salutava con un bacio assonnato, mentre apriva gli occhi lentamente, crogiolandosi del calore dei loro corpi vicini, e poi si alzava svogliatamente dal suo grande letto, pronto per una nuova giornata, Joe Jonas ricordava ancora la prima volta in cui aveva fatto l’amore davvero – e sorrideva, sentendo da qualche parte il suono sincero di un sorriso di rimando.

 

 

 

  
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